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Anche nella Chiesa c’è chi si oppone alla serrata

Anche nella Chiesa c’è chi dice no. Anche nelle gerarchie qualcuno non si conforma, alza il ditino e fa sentire la sua voce dissonante. Era ora. Sono tre vescovi poco celebrati dai media smaltati del pensiero unico. In rapida successione, Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, Massimo Camisasca, presule di Reggio Emilia-Guastalla, e Corrado Sanguineti, capo della diocesi di Pavia, hanno incrinato la lastra di cristallo calata sulle nostre teste dalla comunicazione globale. Ognuno con il proprio stile, tutti con un certo coraggio. «Non conformatevi»: bastano le due parole-manifesto della Lettera di San Paolo ai Romani (12, 2) a spiegare perché era ora che qualcuno lo facesse.

Da mesi stiamo vivendo una situazione inedita, pervasiva e apocalittica. Nonostante gli annunci della Pfizer, non riusciamo ancora a intravederne la conclusione e a immaginare come saremo, se ci saremo, quando tutto finirà. Siamo ostaggi di un microrganismo invisibile. I virologi, di cui pochi mesi fa nemmeno conoscevamo l’esistenza, sono diventati gli oracoli delle nostre serate, sebbene si contraddicano di frequente. Su qualsiasi canale radiotelevisivo ci si sintonizzi si sente parlare solo di Covid e di contagi, spesso in dibattiti infuocati da dissensi e scomuniche politiche, culturali, scientifiche. E la Chiesa? Come si è comportata la Chiesa in questa congiuntura tanto drammatica? Quali parole ha pronunciato per confortare i fedeli e suggerire una traiettoria al mondo? Si è uniformata o ha rappresentato una differenza? Si può dire che dopo la Preghiera di papa Francesco nella piazza San Pietro deserta del 27 marzo scorso ha subito il lockdown religioso senza eccepire (chi l’ha fatto, da monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, a don Lino Viola, parroco di Soncino, è stato sconfessato)? Si può dire che, salvo qualche esibizione di buonismo religioso (forse neanche un redivivo Norberto Bobbio saprebbe condurre alla «mitezza» i ristoratori poco ristorati), è stata passiva anche in termini di giudizio?

Ora però, sembra che finalmente qualcosa inizi a muoversi. Qualche giorno fa, in una lettera al Corriere della sera, monsignor Sanguineti, ha parlato di «morte sociale». Tornare a un nuovo lockdown totale «sarebbe un colpo terribile e insostenibile per la nostra economia e per la tenuta psicologica e sociale del Paese», ha messo in guardia il vescovo di Pavia. «Non si muore solo di Covid o di altre malattie, esiste anche una morte sociale e culturale che fa le sue vittime nelle famiglie e nelle persone più fragili». Bisogna tenere aperte le scuole, come stanno facendo Francia e Germania che pur avendo chiuso tutto non hanno interrotto le lezioni in presenza. «Un Paese vive non solo di salute e lavoro, ma anche di cultura e spiritualità: per questo motivo occorre, appena possibile, dare spazio alle attività di teatri e di cinema, così come alla coltivazione delle arti e della musica», ha caldeggiato Sanguineti.

«La salvezza è stata spesso ridotta alla salute e il bene comune è stato fatto coincidere con l’applicazione delle restrizioni del governo», ha denunciato monsignor Crepaldi nella Lectio magistralis tenuta il 17 ottobre in occasione della Terza giornata della dottrina sociale della Chiesa, organizzata con l’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuân. Ancora più forte la preoccupazione espressa in una lettera di monsignor Camisasca ai preti della diocesi: «Il nostro popolo, già provato dalla pandemia nei mesi del lockdown, può correre il rischio di entrare in una visione paranoica della realtà, distaccata cioè dalle vere dimensioni del pericolo». Intervistato da Nicola Porro a Quarta Repubblica, il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla ha spiegato che ha voluto invitare la popolazione a «non chiudersi in casa», a non ripiegarsi su sé stessa nel tentativo di superare questo momento difficile. Causato da un’informazione ansiogena e deformata che ha «accentuato gli aspetti polarizzanti della situazione»; «dal dissidio fra gli scienziati», i quali non possiedono dogmi, ma fanno delle ricerche e come tali devono presentarle; infine, dalla difficoltà della politica nel «dare chiarezza sul futuro alle persone».

Insomma, qualcuno nelle gerarchie comincia a chiedersi, con circospezione per non provocare reazioni in Vaticano, se le misure adottate dalle istituzioni siano proporzionate alla reale gravità del momento. E se invece, approfittando della pandemia si stiano insinuando nuove ideologie e nuove convenienze. «Ci sono molti centri di potere politico e finanziario», ha detto monsignor Crepaldi, «che intendono usufruire della pandemia per riorganizzare, in un senso che non può lasciarci tranquilli, l’economia mondiale». Nei primi sei mesi dell’anno, per esempio, mentre si è registrato un crollo della produzione mondiale del 10%, le 90 aziende top dell’informatica hanno aumentato il fatturato di 800 miliardi. «L’economia viene così colonizzata da un lato da un nuovo statalismo e dall’altro da un nuovo mondialismo, due coltri ideologiche che la trasformano in diseconomia», osserva l’arcivescovo. E sulla spinta della pandemia si richiede alla popolazione di cambiare stili di vita. Ma se questo può avere un senso, non dobbiamo farlo «assumendo quelli imposti da un supposto nuovo ordine mondiale, bensì quelli collegati con la natura dell’uomo, la famiglia, la vita. Come mai tra i cambiamenti di vita proposti non c’è mai la riscoperta della famiglia, del matrimonio, della procreazione secondo modalità umane, dell’importanza anche economica ed ecologica della natalità?». Se si basa il concetto di fratellanza tra i popoli «su ragioni riconducibili all’economia, allora si deforma anche l’economia. Mi sembra essere questa la situazione dell’Unione europea… Infatti in Europa sembrerebbe nata la nuova religione ecologista», alla quale acriticamente si accodano settori importanti della Chiesa e del mondo cattolico. «Si spendono somme enormi per difendere la natura più che per difendere l’uomo», ammonisce l’arcivescovo di Trieste. Ma «se impostiamo l’economia sui consumi individuali e prevalentemente voluttuari, una società senza figli, senza famiglia, fatta di individui asessuati o dalla sessualità polivalente che lavorano per consumare e consumano per lavorare è senz’altro attraente per gli operatori economici senza scrupoli», conclude Crepaldi la sua Lectio che andrebbe letta integralmente.

«Non conformatevi alla mentalità di questo secolo (mondo ndr)», conclude Paolo rivolto ai cristiani di Roma, «ma trasformatevi, rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto». È un’esortazione utile anche oggi.

 

La Verità, 11 novembre 2020

 

 

«Noi siamo romantici, ma Instagram ci inganna»

Confortevole e conformista, ma con un grande avvenire davanti. Però non è chiaro se dobbiamo rallegrarcene o no: perché il più attraente dei social, il più cool, nel verbo dei suoi adepti, oltre un miliardo, un po’ ci ruba l’anima. Ci seduce e banalizza, ma anche ci educa. E quindi difficile emettere una sentenza univoca. Lasciando perdere Tik Tok, prateria per adolescenti, Instagram è l’avanguardia, la frontiera del meglio, il club delle élite. A svelarne tutti i segreti è da poco in libreria Instagram al tramonto (La nave di Teseo), ultimo saggio di Paolo Landi, autorevole advisor di comunicazione che ha lavorato a lungo per Benetton e oggi cura l’immagine di Bologna fiere, Ovs e numerosi altri marchi. Nel 2006 il suo Volevo dirti che è lei che guarda te – La televisione spiegata a un bambino, pubblicato da Bompiani con prefazione di Beppe Grillo, preconizzava il declino della vecchia tv. Ora questo Instagram al tramonto è talmente anticipatore da risultare controintuitivo.

Quando l’ho visto in libreria mi ci sono tuffato.

«Pensi che il titolo originario era Instagram spiegato alla Ferragni».

Non male neanche questo.

«Già, ma avrebbe potuto risultare presuntuoso».

Perché Instagram al tramonto?

«È un titolo volutamente ambiguo. All’imbrunire, mentre si torna dal lavoro o si è da poco arrivati a casa, Instagram registra il picco di like perché tutti fotografano tramonti».

Il picco deriva dall’orario o dal soggetto?

«Le due cose coincidono. Al tramonto si postano suggestive foto di tramonti. A quell’ora Instagram è molto frequentato».

Instagrammer romantici?

«Molto, si direbbe».

Come Volevo dirti che è lei che guarda te anche questo saggio smonta la nostra illusione di essere protagonisti mentre siamo manovrati, orientati, addomesticati?

«Crediamo di usare un mezzo liberamente e invece ne siamo usati. Nel libro del 2006 intuivo che la televisione sarebbe stata superata da altri media. Instagram ha futuro, anche se potrebbero esserci evoluzioni e mutamenti».

Niente tramonto, quindi?

«Mi sembra presto, siamo ancora nella fase ascendente. Pochi anni fa Avatar, un film su Second life, fece il record d’incassi e sembrava che tutti dovessimo avere un alter ego virtuale. Oggi chi parla più di avatar? Credo che con Instagram dovremo fare i conti ancora per un po’».

Che vantaggio ne trarremo?

«Lo capiremo meglio più avanti. A un certo punto al cervello umano non son più bastate la scrittura e la televisione, la letteratura e il cinema, e ha ideato un modo di comunicare più veloce e istantaneo. Mi chiedo che cosa cerchiamo con queste innovazioni? Come le altre invenzioni hanno migliorato la nostra vita, spero che anche i social la migliorino».

Instagram sta per?

«Fonde i concetti di instant camera e telegram: un’immagine veloce pubblicata sul momento».

Il social dell’attimo fuggente?

«Il primato dell’istante».

Senza memoria?

«La sua forza è l’immagine usa e getta. Quando arriva un post nuovo quello precedente non si guarda più. Dopo 24 ore le storie si cancellano».

Niente archivio?

«Non si ritrova nulla. L’altro giorno avevo letto una frase che diceva… Un attimo che la cerco… L’avevo vista proprio su Instagram e adesso – a proposito di archivio inesistente – non riesco a ritrovarla. Eccola su Google: “Non dialogare mai con un idiota perché ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza”. È Instagram».

Si dice «siamo» e non stiamo su Instagram o su Twitter: i social ci fanno essere e se non ci sei non sei?

«Ci costringono a essere qualcuno e ad avere un’identità».

Non esistono la contraddizione e il contrasto: in tempi in cui si parla molto di odio e di haters è un fatto positivo?

«Direi di sì, è un social borghese. Non mi pare che gli haters aiutino a illuminare il dibattito politico o sociale».

Invece Instagram è educato?

«Più di Twitter certamente. Anche se alcuni profili cattolici attirano odiatori e i commenti sono pieni di bestemmie».

Con il cristianesimo perde il suo aplomb?

«È un fenomeno strano. Sui profili dei testimoni di Geova o del Dalai Lama non è così. Solo la religione cattolica attira aggressività e blasfemia. È difficile capire le cause, il cattolicesimo innesca la bestemmia, che invece non esiste nelle religiosità orientali».

Perché sono più di moda?

«Le star di Hollywood non le vedo a recitare il rosario, mentre partecipano ai riti buddhisti tibetani. Forse è anche una forma di provincialismo, non so cosa c’entriamo noi italiani con il Dalai Lama».

Cosa vuol dire che Instagram «rende metafisica l’economia, la spiritualizza»?

«Per esempio omologa tutte le professioni. Un parrucchiere, un dogsitter, un avvocato, un blogger e un promotore finanziario sono tutti sullo stesso piano. Se il lavoro perde potere di distinzione siamo in un sistema economico diverso da quello vissuto finora. Il lavoro è dematerializzato».

Un social del superfluo?

«Tutto scorre in superficie, rapporti umani compresi. Ma la visione che dai di te stesso non è veritiera».

Non è troppo definire l’economia digitale la rivoluzione industriale del XXI secolo?

«Siamo ancora in una stagione pionieristica, non sappiamo bene cosa ci aspetta. Convivono le generazioni che hanno assistito al cambiamento e i nativi digitali. Possiamo intuire che il lavoro cambierà e cambierà anche il rapporto con i beni di consumo, dei quali ci si può appropriare molto facilmente. Se ti piace un abito, vai sul profilo di un influencer e lo compri pagandolo con lo smartphone, senza bisogno di strisciare la carta di credito».

Gli influencer cambiano il concetto di tempo, di prestazione d’opera e di competenza?

«Mentre tutti giocavano con i like, loro hanno capito che potevano fare i soldi, Chiara Ferragni per prima. Le modelle andavano nello studio fotografico, si vestivano, si truccavano, destinavano il loro tempo a quell’occupazione. L’influencer è insieme pienamente ozioso e pienamente occupato. È sé stesso quando si veste, viaggia, sorseggia un vino, indossa un orologio. La competenza non è richiesta, forse è utile un po’ di gusto. Anzi, molti non hanno nemmeno quello, cosa c’è di più opinabile del gusto?».

Dietro l’apparenza patinata si nasconde l’ipermercato di un capitalismo più sfumato e invasivo?

«È un ipermercato che vende merci ed emozioni insieme. Se clicchi su un bel tramonto spunta il resort dal quale goderselo, se clicchi sul sorriso di un bambino ecco il più soffice dei pannolini. Instagram fonde emozioni e merci e le vende insieme».

Anche gli spot lo fanno.

«Con gli spot guardi, ma non partecipi. Persuasione e acquisto sono due atti distinti. Su Instagram clicchi sul tramonto e compri subito la vacanza».

Perché non è ancora stato conquistato dalla politica?

«Perché non è adatto. La politica viaggia su Twitter perché richiede sarcasmo, intuitività, vis polemica. Instagram è soprattutto immagine e l’immagine dei politici non è così accattivante».

Riflettendo sui social, finora si è parlato di narcisismo ed esibizionismo. Perché lei insiste sullo snobismo?

«Si mettono i like per entrare in un club che non ci appartiene. È un meccanismo di ascesa sociale, se sono un tifoso di calcio vorrei che Ronaldo mi mettesse il cuoricino. Invece, anche se accadesse, non sarebbe di certo lui a farlo, ma chi cura il suo profilo. Instagram mantiene distinte le classi sociali».

A forza di consumare continuamente, l’unica cosa che consumiamo è Instagram stesso?

«La sua grande raffinatezza è di essere un prodotto, un brand. Come la Playstation. Crediamo di goderci le foto dei nostri amici, invece in quel momento qualcuno ci profila e ci inserisce in un database».

È il social più conformista e omologante?

«Mentre ti illude di essere libero di postare le foto che ti piacciono ti uniforma. E finisci per postare le foto che postano tutti. Di sera i tramonti, in spiaggia i piedi, quando ci si fa i selfie le linguacce. Instagram è un propulsore di conformismo».

L’ultimo dei 15 screenshot fotografati da Oliviero Toscani è il suo.

«Ci sono dentro in modo critico».

Pentito?

«No, ma medito di uscire».

Quindi è pentito?

«Se vivi nella contemporaneità devi usare ciò che la contemporaneità ti offre. Non demonizzo Instagram e non biasimo chi ama esserci, ma mi piace farne un uso consapevole. Mi chiedo chi sarà la nuova classe dirigente: la massa che sta lì a postare tramonti o qualcun altro? L’élite del futuro emergerà dagli Instagrammer o da qualche altra cosa che ancora non sappiamo? È un fenomeno massificante, ma finora tutti i media hanno favorito il progresso dalla specie umana».

Io continuo a diffidare, se ci si pensa un attimo prima di postare un’opinione o un sentimento alla fine non si posta. Le cose preziose restano fuori.

«Le cose che ritenevamo preziose, la pancia di tua moglie incinta, il neonato, sono corrotte dalle immagini che mettiamo su Instagram. Le custodivamo nel privato e ora sono schiaffate davanti a milioni di persone. Instagram appartiene al nostro tempo, ma non è obbligatorio».

Ce la faremo? O vincerà l’omologazione?

«È difficile capire come finirà. È come se Instagram ci educasse ad avere una dimestichezza digitale. Penso che alla fine ci sarà qualcuno che dirà che il gioco è finito e adesso fate quello che dovete fare, cioè comprare. Secondo me si arriverà a un sistema più raffinato di domanda e offerta dei bisogni. Indotti o meno».

 

La Verità, 15 dicembre 2019