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«Vedo troppo draghismo, non solo sulla guerra»

Troppa continuità con l’agenda Draghi e troppa cedevolezza verso l’establishment europeo. Ma soprattutto: troppo allineamento all’America sulla guerra in Ucraina. Così, Gianni Alemanno, già ministro nei governi Berlusconi e sindaco di Roma, ha animato pochi giorni fa a Orvieto la convention del Forum dell’indipendenza italiana alla quale hanno partecipato il filosofo Diego Fusaro, il giurista Ugo Mattei e il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi.

Gianni Alemanno, come si sta giù dal carro del vincitore?

«Non è una situazione comoda, ma si sta bene con la propria coscienza e la propria storia».

Qual è stata la goccia che l’ha fatta scendere?

«La posizione del governo sulla guerra in Ucraina. Ho provato all’inizio del conflitto a collaborare con la Fondazione An per portare in Italia profughi ucraini… Ma poi, con la propaganda di guerra montante non ce l’ho più fatta».

Ritiene che il governo sia troppo allineato alle posizioni dell’Unione europea e degli Stati Uniti?

«Sì, perché questa guerra è contraria al nostro interesse nazionale. In realtà, è contraria anche all’interesse di tutta l’Europa. L’Italia dovrebbe avere un’influenza di pace. Se riuscisse a esprimere un punto di vista diverso potrebbe mobilitare certe sensibilità della Francia e della Germania ponendo le premesse per una posizione critica dell’Europa che conta».

La storia insegna che i discostamenti dall’Alleanza atlantica vanno dosati e spesso si pagano.

«Nessuno chiede che l’Italia esca dalla Nato, ma che richiami il suo scopo di alleanza difensiva e non ne assecondi la tentazione di essere il poliziotto del mondo. Anche a Berlusconi si fece questo ricatto per costringerlo a intervenire in Libia, eppure un anno dopo fu deposto con un colpo di Stato finanziario partito da Bruxelles».

Come valuta l’accoglienza della Casa Bianca a Giorgia Meloni?

«Non dobbiamo confondere l’orientamento dell’amministrazione Biden con gli interessi permanenti del popolo americano, il quale contesta certe scelte dell’agenda globale come possiamo fare noi. In altre parole, se fosse stato presidente Donald Trump la guerra in Ucraina non sarebbe mai scoppiata. Detto ciò, è ovvio che il premier italiano debba tenere buoni rapporti con il presidente americano. Poi bisogna capire quanto ci costa perché, ribadisco, la guerra in Ucraina ha effetti devastanti per l’Italia».

Come giudica l’iter per le rate del Pnrr?

«Positivamente. Il ministro Raffaele Fitto e il governo sono riusciti a raddrizzare la barca che sia Giuseppe Conte che Mario Draghi avevano messo su una rotta sbagliata».

Cosa pensa della sospensione e revisione del reddito di cittadinanza?

«Il reddito di cittadinanza era una misura sbagliata, questo non si discute. Ma non andava abrogato dall’oggi al domani, senza costruire un’alternativa credibile».

Era una riforma annunciata da tempo.

«I contratti hanno una durata di 18 mesi. Mi sarei aspettato che non se ne stipulassero di nuovi ma che fossero portati a termine quelli in itinere. È stato un errore sospenderli ad agosto, un mese di tregua nel rapporto tra cittadino e Stato. In ogni caso, bisogna sostituire il reddito con lavori socialmente utili».

Per esempio?

«C’è enorme bisogno di lavori sul territorio, per contrastare il dissesto idrogeologico e per manutenere le città. Ci sono aree del Paese e fasce anagrafiche in cui, anche con i migliori centri dell’impiego e i migliori percorsi formativi, che per altro non ci sono, il lavoro non si trova».

I percettori di Rdc accetteranno questi lavori?

«Se rifiutassero sarebbe giusto sospendere il sussidio. Ma bisogna verificare che questo accada e non sopprimerlo in base a un processo alle intenzioni».

I manifestanti di Napoli scandivano «Meloni a testa in giù, senza reddito mai più», ma La Verità ha rivelato la presenza in Campania di molti lavoratori in nero anche percettori di Rdc.

«Per questo bisogna collegarlo ai lavori socialmente utili che impediscono di fare lavoro nero».

La riduzione del cuneo fiscale e la detassazione per chi assume sono la strada giusta?

«Certamente, il governo Meloni sta facendo anche cose giuste. Il vero problema non è tanto la disoccupazione quanto il lavoro povero, una battaglia da non lasciare alla sinistra».

La quale continua a soffiare sul fuoco della «bomba sociale»: è il nuovo allarme dopo quello sul clima?

«Le opposizioni devono essere responsabili e non strumentalizzare i problemi. Però c’è una differenza fondamentale fra la costruzione dell’emergenza climatica voluta dalle multinazionali che puntano sulla transizione green e certi fatti di disperazione molto reali. Il Centro dell’impiego dove siamo andati era chiuso e sul cancello c’era una fotocopia con su scritto: “Noi del reddito di cittadinanza non sappiamo nulla”. Un comportamento da Terzo mondo».

La pandemia, la guerra e il cambiamento climatico favoriscono l’affermarsi di enti come l’Organizzazione mondiale della sanità o l’Organizzazione mondiale della meteorologia: come contrastare la globalizzazione?

«È la globalizzazione a determinare le politiche emergenziali. Fortissimi interessi economici hanno condizionato le scelte politiche di questi anni, cominciando dalla pandemia. È fondamentale recuperare una sovranità nazionale che è anche sovranità popolare, perché è l’unico scudo per difenderci da questi interessi e dagli organismi internazionali a essi soggiogati. Pensiamo all’Oms sempre più in mano a Bill Gates».

Si crede che siccome sono sovranazionali questi organismi siano indipendenti?

«Dall’esperienza come ministro ho tratto la convinzione che più i poteri sono distanti dai popoli e dai territori, più sono infiltrabili dagli interessi privati».

Si procede da un’emergenza all’altra?

«Il governo delle emergenze crea continue fobie nelle persone e cerca di condizionarle nei comportamenti e nei consumi».

Adesso c’è la nuova malattia dell’ecoansia.

«Invece di contrastare il cambiamento climatico facendo la manutenzione del territorio, ci obbligano a comprare le auto elettriche per accontentare le multinazionali. Vale il vecchio detto inglese «follow the money”: segui il denaro e capirai gli interessi in gioco».

Giorgia Meloni punta a durare, perciò cerca legittimazione dall’establishment italiano ed europeo?

«Ogni governo cerca di durare. Meloni pensa che si possa avere più aiuto facendo i primi della classe in Occidente e nell’Ue. L’esperienza dell’ultimo governo Berlusconi ci dimostra che non è così. Henry Kissinger dice che “essere nemici degli Stati Uniti è pericoloso, essere amici è fatale”».

Governare avendo contro lo Stato profondo, la magistratura, il Quirinale, le agenzie di rating, le burocrazie europee è difficile o impossibile?

«È difficilissimo. Mi rendo conto delle enormi difficoltà che Giorgia Meloni deve affrontare, ma il problema, citando Carl Schmitt, è capire qual è “il nemico principale” per evitare di fare contemporaneamente guerra a tutto e a tutti. Penso che il primo nodo da sciogliere sia il vincolo esterno imposto dall’Unione europea e dagli Stati Uniti. Sono convinto che percorrendo coerentemente questa strada, con tutta la prudenza del caso, si troverebbero alleanze insospettabili e si spiazzerebbero molti dei nostri cosiddetti nemici interni».

La Rai e le grandi aziende partecipate restano sostanzialmente in mano al Pd?

«Non generalizziamo. In Rai mi sembra si stia tentando un cambiamento serio».

Nel governo c’è un problema di statura di alcuni ministri inclini ad allinearsi alle politiche precedenti o c’è proprio un errore di prospettiva?

«Secondo me si sta continuando troppo sull’agenda Draghi. Le discontinuità per adesso sono settoriali, non strategiche. È normale che in ogni governo ci siano ministri rivelazione e altri deludenti. Pensiamo a quanto è stato deludente il cosiddetto governo dei migliori».

Come vede l’avvicinamento di Renzi alla maggioranza?

«È la dimostrazione che la linea politica di fondo è sbagliata».

Non preferirà un governo a guida Pd e 5 stelle o del Presidente?

«Mai. Ho sempre detto che questo governo è in ogni caso preferibile a quelli imposti dall’alto. Le nostre critiche sono dure, ma sempre fatte con spirito costruttivo».

Qual è l’agenda del Forum dell’indipendenza italiana?

«Dalla nostra convention abbiamo lanciato il Manifesto di Orvieto sul quale raccoglieremo le adesioni per vedere se ci sono i numeri per costituire un movimento politico. Se il riscontro sarà positivo, a ottobre fonderemo questo movimento e vedremo come e quando affrontare le prove elettorali. Intanto continueremo a fare da pungolo al governo, nella speranza di vedere cambiamenti sostanziali che accoglieremmo con grande entusiasmo».

Di che cosa vi accontentereste?

«Il problema di fondo è la coerenza per costruire una vera indipendenza che è l’unico modo di servire l’interesse nazionale. Nei documenti allegati al manifesto ci sono 14 proposte, a partire dalla guerra in Ucraina. Vedremo come si comporterà il governo su questi punti».

Vera indipendenza significa Italexit?

«Non ho fatto mistero di averla votata alle ultime elezioni. Poi però sono rimasto deluso dal settarismo con cui viene gestita. Inoltre, il nome è sbagliato perché Italexit sembra chiedere un’uscita immediata dall’Ue che, messa così, sarebbe una scelta velleitaria».

Destra sociale ed estrema sinistra si alleano, complice il pacifismo e l’antiamericanismo?

«No. La prospettiva è diversa: ci sono problemi reali, trasversali ai vecchi schieramenti politici. Bisogna affrontare questi problemi con un approccio non ideologico, evitando di asserragliarsi nella destra della destra e cercando di parlare a tutti gli italiani».

Pensate davvero di potervi ritagliare una fetta del 10% dei consensi?

«Da questo bacino potenziale alla realtà c’è una bella differenza. Tuttavia, c’è un’onda di persone che chiede il cambiamento. Prima hanno votato Berlusconi e la sua rivoluzione liberale, poi Renzi quando faceva il Rottamatore, poi il M5s, la Lega e adesso Fratelli d’Italia. Se non vedranno il cambiamento, queste persone cercheranno altri sbocchi politici. E lì troveranno noi».

Ma anche voi troverete l’establishment?

«Ho fatto il ministro di due governi Berlusconi e conosco gli ostacoli, ma ne ho tratto due insegnamenti. Primo: bisogna prepararsi molto bene con una classe dirigente adeguata. Secondo: la via del compromesso è solo un modo per autodistruggersi».

 

La Verità, 5 agosto 2023

«L’emergenza perenne cancella ogni dissenso»

Una volta quelli come lui li chiamavano teste d’uovo. Basta leggere il suo La tirannia dell’emergenza (Liberilibri), condensato di filosofia, diritto, antropologia e scienze umane che illumina a giorno le cupezze contemporanee. Andrea Venanzoni è costituzionalista, consulente giuridico di importanti istituzioni pubbliche, ricercatore presso l’università Roma Tre, saggista, collaboratore di numerose testate giornalistiche tra le quali Il Foglio e Il Riformista.

Professore, perché ha scritto questo libro?

«Già qualche anno fa volevo occuparmi dei prefetti e dei sindaci che ricorrono spesso a ordinanze e atti speciali. Ma l’avvento della pandemia e dell’emergenza climatica sono diventati un movente ancora maggiore e ora la vera promozione di questo libro».

Le emergenze c’erano anche prima: con il Covid c’è stato un salto di qualità?

«Dal campo giuridico si è passati alla mobilitazione dell’intera società. Emblematico è che nel libro di Roberto Speranza frettolosamente ritirato, l’allora ministro della Sanità ringraziasse Mara Venier, Barbara D’Urso e le piattaforme social perché avevano contribuito a formare il “mantra di una nazione intera”. Una strategia che mi ha ricordato la Nazionalizzazione delle masse, dal titolo di un saggio di George L. Mosse, che analizzava i movimenti che portarono all’avvento del nazismo».

Poco rassicurante, siamo a questo?

«Prima con la pandemia e ora con l’isteria diffusa legata al cambiamento climatico siamo davanti a una pornografia della catastrofe che, oltre a non favorire un dibattito pubblico che avvicini una soluzione, finisce per terrorizzare la popolazione rendendola manovrabile. Per contro, abbatte anche la responsabilità dei diffidenti: se il mondo collasserà climaticamente nel 2025 come si legge, che possibilità c’è di porre rimedio all’apocalisse imminente?».

Facciamo un passo indietro e proviamo a definire l’emergenza?

«È la situazione di crisi che si afferma in un momento storico e cattura l’attenzione dell’opinione pubblica per la sua eccezionalità. Pur essendo difficilmente prevedibile o imprevedibile, richiede una risposta rapida».

Che può giustificare imposizione di regole e limitazione delle libertà individuali?

«Si tenta di prevenire il verificarsi dell’emergenza. Per questo si possono limitare in anticipo quei comportamenti che si ritengono rischiosi. Nel diritto ambientale si afferma per la prima volta il principio di precauzione, limitando azioni senza avere la certezza scientifica che provochino danni».

Per esempio?

«Quando si è verificato il disastro di Seveso tutte le attività industriali subirono restrizioni molto impattanti sull’attività d’impresa. Questa politica di limitazione ex ante è un grande freno all’innovazione. Poi ci sono le limitazioni quando l’evento si presenta, come avvenuto con la pandemia e le restrizioni di quasi tutte le libertà costituzionali, dalla libera circolazione fino al diritto all’istruzione gravemente limitato con la Dad».

Chi sarebbe il tiranno?

«Mentre la dittatura è legata al carisma di una persona, un magistrato nel diritto romano, nella tirannia prevale un sistema. Il burocrate è il vero trionfatore della tirannia dell’emergenza. Quando, nella fase acuta della pandemia sono cresciute certe forme di complottismo, il governo dell’emergenza è diventato sovranazionale: l’Oms diramava le direttive e gli Stati si adeguavano».

Il tiranno sono le élite o è più precisamente lo Stato?

«Lo Stato è un’organizzazione burocratica rappresentata da alti funzionari, governatori, ministri pro tempore… Un’emergenza può diventare laboratorio di ingegneria sociale. Sia durante la pandemia sia ora per il cambiamento climatico sentiamo ripetere che bisogna cambiare visione del mondo».

Il Grande reset?

«Evito questi termini che innescano l’accusa di complottismo. La risposta è più facile».

Cioè?

«L’emergenza è il paradiso del burocrate che finalmente può operare senza quelli che vede come intralci e che, in realtà, sono garanzie per il cittadino. I burocrati hanno codici espressivi analoghi in tutto il mondo. Sul loro treno, per scopi economici, possono salire parti di quelle che lei chiama élite».

L’emergenza senza intralci l’abbiamo vista all’epoca dei Dpcm e dei bollettini sanitari a reti unificate?

«Quei bollettini contribuivano a pacificare la coscienza collettiva della popolazione in quel momento tumulata dentro casa. Erano una sorta di liturgia, di mantra luttuoso quotidiano».

Che ha collettivizzato la morte?

«Lo Stato l’ha collettivizzato in un’accezione terrorizzante. Questa istituzionalizzazione della morte è diventata parte del dispositivo burocratico».

In che modo?

«Per esempio, con la burocratizzazione del lutto. Si è reso impossibile porgere l’ultimo saluto al morto per Covid, con conseguenze psicologiche serie in chi è ancora vivo».

Lei parla di «danza macabra»: siccome primum vivere, come dicono filosofi e giuristi, per scongiurare la morte si è pronti a sacrificare la libertà?

«Nel Medioevo la danza macabra era una raffigurazione artistica che moralizzava i costumi ricordando la fine. Oggi, nel cuore delle emergenze, la morte è ovunque. E ti viene detto che se non ti affidi alle cure dello Stato sei destinato a morire».

Si riferisce alla frase del premier Mario Draghi?

«In quella frase, “Non ti vaccini, ti ammali e muori”, è espunta ogni sfumatura intermedia».

La burocrazia promette guarigione e salvezza?

«Lo Stato e il burocrate si pongono in ultima istanza come la cura. Vien fatto credere che la salvezza, anzi, la salvazione in senso teologico, risieda tra le maglie del potere pubblico. Funziona come “hic sunt leones”, l’avvertimento delle vecchie mappe latine: oltre il confine ci sono pericolo e morte».

Questa tirannia è arrivata di colpo o è stata preparata?

«Il processo è risalente nel tempo. Le emergenze sono concatenate una con l’altra».

Quand’è iniziata la sequenza?

«Con il terrorismo politico degli anni Settanta. È proseguita con quello di matrice religiosa e jihadista degli anni Novanta e Duemila, poi con le prime emergenze sanitarie come l’Aviaria e con il cambiamento climatico che da anni procede con toni sempre più allarmistici. Sul piano amministrativo e burocratico queste emergenze si collegano le une con le altre».

Dalla pandemia all’emergenza climatica cambia il ruolo dell’uomo?

«Diventa lui stesso il virus in carne e ossa, la cellula infetta del mondo. L’ambientalismo estremo ha un sostrato concettuale malthusiano favorevole alla de-popolazione e vede nell’uomo un agente patogeno che danneggia l’ambiente. La mia impressione è che queste derive radicali stiano diventando maggioritarie. Un esempio concreto è la recente approvazione del regolamento europeo Nature restoration law, un oggettivo disastro per il mondo agricolo».

L’emergenza occupa l’intero orizzonte e omologa il linguaggio diventando intollerante al dissenso?

«L’emergenza è l’alibi per eliminare ogni possibilità di critica: dissenso equivale a tradimento. Da qui il ricorso a un linguaggio quasi bellico perché l’emergenza è come una guerra e in guerra si sta da una parte o dall’altra, non ci sono possibilità intermedie».

Però se non comandasse un’autorità superiore vincerebbero i terroristi, il virus e l’inquinamento globale.

«Concordo. Il problema non è l’emergenza in sé, che per sua natura è temporanea, ma la sua stabilizzazione. Per questo sottolineo che tendono a collegarsi tra loro. Il vero problema è l’assuefazione a vivere in perenne emergenza».

C’è anche un uso commerciale dell’emergenza sostenuta dai media e dai big dell’economica digitale?

«In alcuni casi i media hanno un interesse diretto. Alcuni editori e grandi marchi digitali operano nei settori delle energie rinnovabili o delle auto elettriche. Tendo a non ritenere casuale che certe testate utilizzino tutti i giorni termini come inferno e apocalisse. Inoltre, si fa anche da sponda al potere istituzionale».

L’emergenza aiuta la pedagogia dell’establishment verso le masse?

«Credo ci sia un insieme di fattori, non a caso si è molto parlato della creazione di una nuova normalità, un mondo pilotato dai migliori, demiurghi dell’epoca moderna».

Appartiene a questo contesto la difficoltà della sinistra a metabolizzare il nuovo scenario politico e le sue conseguenze?

«La sinistra ha un oggettivo problema quando non detiene direttamente il potere. Lo vediamo quando, pur sconfitta alle urne, cerca altri metodi per tornare al governo. Proprio per questo la destra deve guarire dal suo complesso di inferiorità e di ricerca di legittimazione».

Sul treno per Foggia l’élite che s’imbatte su un pezzo di mondo reale accusa il colpo?

«All’inizio mi ha fatto sorridere l’élite che intercetta il popolo come a un safari, di fronte a uno zoo umano. Poi, quando ho letto le repliche di alcuni intellettuali e del comitato di redazione di Repubblica con toni da collettivo maoista anni Settanta, mi è quasi venuto da empatizzare con Alain Elkann. Avrà anche vissuto fuori dal mondo, ma trovo più pericolosi quelli che rispolverano la lotta di classe. Il clima non è buono: oggi c’è chi per criticare Giorgia Meloni riesuma Toni Negri».

È giusto chiedersi come ha fatto Gian Paolo Serino su Dagospia come sia stato possibile che noi adulti abbiamo formato dei giovani «turisti della vita»?

«È giusto chiederselo pensando ai genitori che ricorrono al Tar quando i figli vengono bocciati o puniti perché autori di atti violenti. Una volta genitori e insegnanti erano presidi della formazione dei ragazzi. Di fronte alla disgregazione dell’autorità famigliare e scolastica e degli altri corpi intermedi rimane intatta solo quella dello Stato. Forse non è un caso».

Il termine negazionismo viene usato per equiparare il dissenso a proposito del clima e del Covid alla negazione dell’Olocausto o per gettare un anatema su chi dissente?

«È un’operazione oscena perché banalizza la tragedia dell’Olocausto. Accusando qualcuno di negazionismo lo uccido socialmente, rendendolo impresentabile, degradandolo alla stregua di nemico che non merita di essere riconosciuto come controparte».

Anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella non gradisce la discussione su questi temi?

«L’intervento del Presidente della Repubblica, pur comprensibile in un’ottica di richiamo generale alla responsabilità, mi sembra abbia prestato il fianco al consolidamento di una narrazione a senso decisamente unico. Non a caso le sue parole sono state subito rilanciate da una precisa parte politica in ottica anti-governativa».

 

La Verità, 29 luglio 2023

«Sono impaziente, però dico sempre la verità»

È il Signornò della politica italiana. Mai che qualcosa gli vada bene, che gli si senta promuovere qualcuno o qualcosa. Nei talk sbuffa, manifesta insofferenza, tutti lo temono. In questa intervista con Panorama, Massimo Cacciari parla dei 100 giorni del governo Meloni, dello sprofondo del Pd, della Chiesa post-Ratzinger e dei giovani di Ultima generazione, bocciati anche loro come le sardine.

Professor Cacciari, è una mia impressione o è più critico con il Pd che con Giorgia Meloni?

È una sua impressione. Sul Pd ho critiche radicali, con la Meloni una distanza culturale complessiva, il che non significa che non sappia apprezzare il valore storico di una donna per la prima volta presidente del consiglio in Italia, e il valore della persona per avercela fatta.

Siamo arrivati a 100 giorni di governo, sta per finire la luna di miele con gli italiani?

Le lune di miele finiscono per legge di natura. La durata del governo dipenderà da come saprà affrontare i nodi della crisi, ben oltre la stessa finanziaria.

Le sembra che si pratichino troppe correzioni di rotta?

Rispetto alle promesse elettorali. Nella sostanza si procede sul «binario Draghi» – e si sapeva bene che non poteva essere diversamente. Su quei binari mi sembra si proceda con l’accelerato.

Sapersi correggere è anche una dimostrazione di forza?

Certamente sì. Ma, le ripeto, si è corretto ben poco. Sulle accise? Ma, appunto, ogni persona ragionevole sapeva già distinguere promesse da possibilità reali. Le vere questioni riguardano come «garantire« un debito che si aggrava di giorno in giorno, e come realizzare il Pnrr.

Perché c’è poca attenzione anche da parte delle opposizioni al Pnrr?

Perché neppure loro avrebbero saputo come portarlo avanti. Soprattutto per il Sud, dove andrebbero investite il 40% delle risorse messe a disposizione.

Pandemia, guerra in Ucraina, inquinamento e riscaldamento globale: si passa da un’emergenza all’altra?

È lo «stato dell’emergenza». Questa è la questione davvero epocale. Che mette in crisi i funzionamenti elementari dello Stato democratico. Tutto sembra avvenire, come per la pandemia, per cause «naturali» – e allora è necessario siano gli «scienziati» o i «competenti» a decidere, e che le decisioni siano rapidissime -così ogni confronto e discussione si trasformano in «perdita di tempo». La verità è che occorre reinventare la nostra democrazia. Meglio però far finta di nulla e sopravvivere, come fa la nostra politica.

Gli Stati nazionali decidono sempre meno?

Sopravvivono. Contano ancora, eccome, perché nessun organismo sovra-nazionale funziona davvero, a partire dall’Onu. Ma sulle questioni globali e di fronte allo strapotere delle multinazionali e degli scambi finanziari sono, singolarmente presi, del tutto impotenti. La nostra chance è sempre quella: l’unità politica europea. Unità che si allontana sempre più.

Perché ha stupito quando ha detto che questo governo ha meno bisogno di ingraziarsi la Chiesa perché su questioni come la famiglia e l’aborto c’è già una sintonia di fondo?

Perché è ovvio sia così; sulla carta, almeno. Poi, questo governo, se vuole mantenere buoni rapporti col Vaticano, dovrà radicalmente cambiare tono su altre questioni, a partire dalla tragedia degli immigrati.

Anche sull’inverno demografico c’è intesa?

Certo. La Chiesa non può che essere per una famiglia «che generi». E così penso dovremmo essere tutti consapevoli che una civiltà che non genera più è destinata a scomparire, a prescindere dalla nostra fede o dalle nostre filosofie.

Perché le sue affermazioni spiazzano i suoi interlocutori e anche lei si irrita di fronte a certe domande?

Perché ho questo grave difetto: l’impazienza. Me ne scuso con i miei interlocutori. Per quanto riguarda le mie idee, penso che spiazzino soltanto gli ipocriti: spesso non faccio che affermare come stanno le cose puramente e semplicemente.

In un’altra occasione ha detto che Giorgia Meloni è un’esponente di destra ma non è la Le Pen, sempre spiazzando i suoi interlocutori.

La destra francese ha caratteri propri che vengono da molto lontano. Non ha da «farsi perdonare» regimi fascisti perché non ce l’ha fatta a formarli – in compenso ha pienamente collaborato coi nazisti, come i repubblichini nostrani. Ma per certi versi – integralismo, nazionalismo, anti-semitismo – è stata anche peggio di quella italiana. Io credo che Giorgia Meloni mostri di aver pienamente superato tutta questa ideologia, a differenza della Le Pen.

C’è discrepanza tra i sondaggi su Giorgia Meloni, per ciò che valgono, e l’atteggiamento prevalente dei media?

Forse. Ma i sondaggi valgono ancora meno dei media che ormai, forse con l’eccezione della tv, non formano in alcun modo l’opinione pubblica. Gli italiani da vent’anni vanno cercando qua e là un’offerta politica decente. Assaggiano Renzi, poi i 5 Stelle, poi Salvini, ora la Meloni. I voti, fuorché residui zoccoli duri, come per il Pd il quadrilatero emiliano, sono mobili qual piuma al vento.

Ha avuto qualche contraccolpo a livello di visibilità e nei rapporti personali per le posizioni critiche assunte nel pieno della pandemia?

Di visibilità e popolarità, glielo assicuro, non me ne importa nulla. Ho criticato la gestione politica della pandemia, e non certo i vaccini. E credo che i fatti mi abbiano dato ampia ragione. Ora per fortuna abbiamo svoltato, e non ha più senso parlarne.

Studiosi e intellettuali come Giorgio Agamben e Carlo Rovelli ora sono visti con diffidenza, mal tollerati?

Agamben è il filosofo italiano più conosciuto al mondo. Non ha certo bisogno della tolleranza dei media italici.

La crisi della sinistra italiana è tutta figlia di quella europea o ci mette anche del suo?

Ci mette del suo, perché la sua è una storia del tutto particolare. Non si tratta della storia di una socialdemocrazia, come più o meno in tutti gli altri Paesi europei, ma di quella di forze diverse e per un lungo periodo anche divise; non solo Pci e Psi, ma anche sinistra Dc. Comporle non era difficile, era semplicemente impossibile. Il Pd poteva nascere soltanto da un nuovo progetto, e cioè dal riconoscimento da parte di tutti i soci della conclusione delle loro rispettive esperienze. È mancata ogni analisi storica e critica, e di conseguenza ci si è arrangiati a sopravvivere sull’eredità. Ciò ha condotto a una crescente subalternità, prima culturale e poi anche pratica, alle potenze economiche e politiche che guidano i processi di globalizzazione.

Dopo la sconfitta elettorale Enrico Letta ha detto: non siamo riusciti a connetterci con chi non ce la fa. Secondo lei come può avvenire questa riconnessione?

Come si può credere a un segretario che esce con simili battute dopo una generazione che se le sente dire da tutti coloro che hanno ragionato sull’involuzione del suo partito?

Guardando al cammino intrapreso per il congresso le sembra che il Pd sia sulla buona strada?

Faccia un congresso aperto, serio, con tutto il gruppo dirigente dimissionario, con un programma che preveda un partito a struttura federale, che punta a un nuovo rapporto col territorio. Faccia tutto quello che non si sta facendo.

Per chi voterà tra i quattro candidati?

Non andrò a votare. Avrei votato Gianni Cuperlo se si fosse impegnato in questi anni in una battaglia interna dura e esplicita, formando una sua corrente.

A che cosa si deve il fatto che quasi tutti gli ultimi segretari del Pd o hanno lasciato la politica o hanno lasciato il Pd: Veltroni, Renzi, Martina, Epifani, Bersani.

In alcuni casi ai raggiunti limiti di età. Renzi non ha lasciato nulla, anzi, credo che ne sentiremo parlare ancora a lungo. Veltroni ha sbagliato tutto lo sbagliabile, lasciamo perdere. Martina mi sembrava in gamba. Ha forse i limiti caratteriali di un Cuperlo, non ama battersi.

Aprire al ritorno di D’Alema e Bersani è una buona mossa?

Non torna nessuno, mi creda.

Che cosa perde la Chiesa con la morte di Joseph Ratzinger?

La grande speranza della nuova evangelizzazione d’Europa e quella ancora più grande di una pace tra cristianesimo d’Oriente, russo, e d’Occidente.

Che cosa pensa delle proteste dei ragazzi di Ultima generazione?

Ci sono sempre stati movimenti giovanili. Emergono e affondano come le sardine… primavere senza estate. Le forme stesse della comunicazione inducono tale precarietà. Non sta a me dare consigli – odiosissimo mestiere – ma direi loro: organizzate gruppi di discussione, di studio, date vita all’interno di scuole e università a iniziative autonome. Senza pensiero critico non ci si oppone al politichese regnante.

Conserva qualche elemento di speranza o è totalmente scettico sul futuro dell’Italia?

Disperare è impossibile. Anche il suicida, diceva Giacomo Leopardi, spera qualcosa; magari di distruggere la vita di chi gli sopravvive.

Approva il presidenzialismo?

Non sono mai stato contrario al presidenzialismo in sé. Sono contrario a riforme spot, ora le Regioni, domani il Parlamento, dopodomani il presidenzialismo. Una riforma istituzionale è di sistema o non è. Mi dicano che cosa col presidenzialismo deve mutare per Parlamento, Regioni e autonomie, e poi discutiamo.

Può essere un modo per irrobustire il processo decisionale e resistere alla globalizzazione degli stati di emergenza?

Potrebbe esserlo, sì. Ma alle condizioni che ho detto.

Ha mai pensato di tornare in politica?

Forse nell’aldilà, ormai.

 

Panorama, 25 gennaio 2023

«Media con l’elmetto per affari e conformismo»

No Tav, no green pass, no war: insomma, no global. Ugo Mattei sta finendo di scrivere, per l’appunto, Il diritto di essere contro, in libreria a fine aprile da Piemme. Docente emerito di Diritto internazionale all’Università della California, insegna Diritto civile a Torino. Dove, nel febbraio del 2021, si è candidato sindaco nella lista «Futura per i beni comuni» ottenendo il 2,32% dei voti. Risponde al telefono da Berkeley, dove si trova per motivi di studio.

Professore, è disposto ad ammettere che i vaccini hanno frenato la circolazione e i danni del virus?

«Che valore può avere una mia ammissione, non sono un virologo. Siccome all’inizio non temevo il Covid non mi sono vaccinato, per non approfittare della corsia preferenziale dei professori. Quando ho cominciato a informarmi i troppi riprovevoli interessi in gioco mi hanno confermato nella scelta. Così pure i comportamenti repressivi delle istituzioni. Mi sono trovato a difendere i valori liberali di uguaglianza e inviolabilità della persona contro l’autoritarismo paternalista del governo Draghi. Visto che la sinistra non offriva spazi di resistenza, nelle piazze ho avuto per compagne molte persone e realtà inaspettate».

È contento che Draghi ha deciso di ridurre alcune restrizioni?

«Diciamo di sì, altrimenti Sergio Chiamparino mi dà del barboton. La sospensione che m’interessa di più è quella dell’obbligo del green pass rafforzato agli over 50 per andare a lavorare. Un vulnus terribile».

Perché sulla guerra russo-ucraina si è riprodotto lo stesso schema visto sulla pandemia?

«Perché c’è chi pensa in modo vigile e chi, come si diceva un tempo, mette la testa a partito. Esercitare la critica è una ginnastica democratica che richiede allenamento. Se per un anno smetti di criticare Draghi, difficilmente ti ravvedi e t’improvvisi critico adesso».

Che cosa contesta a questo governo?

«La deriva autoritaria. È un’attualizzazione del fascismo degli anni Venti».

Addirittura? È passato un secolo…

«Il blocco che portò al potere Benito Mussolini è lo stesso che sostiene il governo Draghi: la finanza angloamericana. L’asse che da Wall street passa per le banche, la Confindustria e arriva all’industria della guerra».

E la deriva autoritaria?

«Il fascismo esautorò il Parlamento concentrando il potere nel Gran consiglio del partito. Sparì anche l’opposizione. Draghi affida i processi decisionali alle cabine di regia, abusa dei decreti legge. Le istituzioni di garanzia sono inerti, a cominciare dalla Corte costituzionale. Basta vedere cos’è successo agli articoli 9 e 41 della Costituzione».

La svolta ecologica?

«Esatto. La biodiversità, l’ecosostenibilità e il rispetto della salute e dell’ambiente anteposti alla tutela della libertà e dignità umana. L’esempio più clamoroso di autoritarismo l’abbiamo davanti».

Sarebbe?

«La politica emergenziale. Si sospende lo stato di emergenza per il Covid, ma rimane quello per motivi bellici. Poi toccherà all’emergenza ambientale».

Scenario apocalittico.

«Berkeley è il posto più liberal e politically correct del pianeta e sono tutti preoccupatissimi del virus. Bene, da quando sono qui nessuno si è mai sognato di chiedermi una certificazione vaccinale. In biblioteca c’è l’indicazione d’indossare la mascherina, ma nessuno si trasforma in sbirro. In Italia chiunque si sente in diritto di additare il trasgressore e perseguire i diritti di una minoranza non allineata».

Com’è la guerra russo-ucraina vista da lì?

«Un vero movimento contrario non c’è. Gli americani diventano sensibili quando i cadaveri sono in casa. Gli Stati Uniti sono gli ultimi beneficiari di questa guerra. Far saltare l’asse tra Germania e Russia è uno degli scopi non dichiarati».

Il pensiero prevalente qual è?

«La vulgata attribuisce le cause all’ego smisurato di Putin. Alcuni colleghi, soprattutto storici, hanno uno sguardo più complesso».

È casuale che la complessità si trovi tra gli storici? La visione della cronaca spinge a semplificare?

«Il qui e adesso è la logica della società dello spettacolo. Questa è una guerra spettacolare. Una guerra diversa, interpretata con categorie antiche».

Qual è la diversità?

«Se la compariamo con altre guerre, diciamo che Putin si è impantanato. Ma non ci accorgiamo che l’aviazione non è ancora stata utilizzata. Mentre, per esempio, la Guerra del golfo è stata combattuta principalmente nei cieli. Prima si bombarda e poi si entra con i soldati. Non credo si possa dire che Putin non ha l’aviazione… Poi c’è un’altra diversità».

Quale?

«Finora si combatteva per impadronirsi dei cieli o dei mari. Invece questa è una guerra psicologica, che mira a conquistare la mente per la costruzione dell’uomo globale, attraverso i meccanismi tipici della società del controllo. La propaganda ha raggiunto livelli sofisticatissimi. La cronaca ci fa vivere in un eterno presente, i social e il Web hanno modificato le nostre menti, capaci di livelli di attenzione sempre più brevi. Perciò abbiamo una capacità critica sempre più limitata. Farsi un’idea precisa nel profluvio d’informazioni è complicato. Basta vedere il caso della fotografia della presunta carneficina attuata dai russi pubblicata dalla Stampa».

Che invece era un bombardamento di Donetsk di questi giorni.

«Un’altra diversità è l’uso massiccio di politiche di marketing, compatibile con il fatto che tanti poteri traggono interesse da questa guerra. Le multinazionali come il gruppo Exxor che con Rolls Royce produce motori per le navi ed è consorziato con Leonardo per i sistemi di precisione. Biden vicino alle elezioni di metà mandato che accontenta l’industria bellica e spera di vendere il gas all’Europa. La Germania che per la prima volta dalla fine della Guerra mondiale ha destinato 100 miliardi ad armamenti».

Però si registrano i primi negoziati e circolano bozze di trattativa.

«Appena se n’è cominciato a parlare Biden ha dato dell’assassino e del criminale di guerra a Putin».

In quale considerazione dobbiamo tenere il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina e la sua volontà di entrare nell’Ue?

«Con la latitanza dell’Onu, che è deputato all’applicazione del diritto internazionale, la trattativa si serve di diplomazie erratiche, le telefonate di Macron, le mediazioni di Erdogan… Vedremo se si riunirà il Consiglio di sicurezza. Non mi sembra si stia facendo di tutto per riportare questa crisi nei confini della legalità».

E la volontà dell’Ucraina di entrare nell’Unione europea?

«Non è una richiesta che si può far valere in modo unilaterale. Da quanto tempo la Turchia chiede di entrare nell’Ue? L’autodeterminazione è un principio giuridico che si attua in relazione agli equilibri geopolitici. Ci sono aree del mondo che hanno una vocazione storica di cuscinetto, la cosiddetta sfera d’influenza. Nel 2014 in Ucraina c’è stato un colpo di Stato, la rivoluzione arancione del 2004 aveva ispiratori ben precisi. Togliamoci l’illusione che la Nato sia un’organizzazione che ha come scopo la pace e l’amicizia tra i popoli».

Come giudica l’azione del governo italiano?

«Siamo una colonia. L’Italia non ha alcuna autonomia in politica estera. Gli ultimi che hanno provato a guadagnarsela come Enrico Mattei, Aldo Moro e Bettino Craxi hanno fatto una brutta fine. Per conquistare autonomia serve una classe politica di altissimo livello, non un banchiere di Goldman Sachs».

Come giudica l’invio di armamenti all’esercito ucraino?

«Lo trovo illegale e contrarissimo all’articolo 11 della Costituzione che rifiuta la guerra come strumento di soluzione di controversie internazionali. Poi lo trovo immorale perché serve a continuare questo conflitto negli interessi del capitale finanziario. Infine, politicamente suicida perché toglie all’Italia qualsiasi possibilità di mediazione».

In questi giorni è stato approvato l’aumento delle spese militari da 25 a 28 miliardi l’anno.

«Era quello che la Nato voleva da tempo. Invece di fare l’interesse degli italiani, Draghi prima ha fatto quelli di Pfizer ora quelli di Lockheed. Se si studiano i pacchetti che controllano i mercati ci si accorge che sono ben integrati. Non stupiamoci se i gruppi editoriali sono così schierati».

Ha sentito l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati proclamarsi a favore dell’invio di armamenti in Ucraina?

«Possiamo non parlarne? Mi piange il cuore».

Cosa sta succedendo alla sinistra?

«È diventata un avamposto del globalismo finanziario americano. I democratici con le loro politiche identitarie influenzano il Pd che a sua volta rende la sinistra italiana organica alle multinazionali. Una volta c’era la sinistra radicale, ma è stata decimata dal Covid, forse per ragioni anagrafiche».

Secondo Walter Veltroni la guerra di Putin è contro i valori occidentali.

«È una lotta contro il globalismo di matrice anglosassone. Finita la guerra fredda si è imposto il pensiero unico, mentre Putin cerca di affermare un mondo multipolare».

Tra i valori dell’Occidente da difendere c’è la libertà sessuale come dice Veltroni?

«Kirill è un capo religioso. Neanche papa Francesco che sta a Roma è favorevole ai gay pride».

Parlando di ciò che succede a sinistra, lei ha collaborato a lungo con il Manifesto

«Ero nel consiglio d’amministrazione quando lo presiedeva Valentino Parlato».

Cosa pensa del fatto che di recente abbia censurato un articolo di Manlio Dinucci, storico collaboratore, per un articolo in cui scriveva che l’invasione era largamente prevista?

«È un fatto triste. Il Manifesto paga la scelta mainstream di fare la Repubblica di sinistra. Sono le conseguenze di due anni di covidiozia. Se ti schieri con il governo sulla pandemia poi stenti a ritrovare un pensiero critico anche su altri temi. Ritengo sbagliato continuare a dividerci fra destra e sinistra».

Cosa intende dire?

«Credo che serva un grande lavoro per ricostruire le condizioni di legalità costituzionali. Una volta fatto, si potrà tornare a dividersi. Per questo il Cln, il Comitato di liberazione nazionale che raggruppa molte sigle della società civile, promuove una grande manifestazione il 27 marzo alla Porziuncola di Assisi. C’è bisogno di rilanciare un’iniziativa di opposizione a un governo che ci sta portando a una situazione drammatica».

 

La Verità, 19 marzo 2022

L’info emergenziale, nuovo format del Tg1

Belle le vacanze nei posti remoti. Ma se la tv riceve solo i tg Rai, insomma. Certo, si può resistere. Siamo passati per un inusitato confinamento fisico, che sarà mai un pizzico di libertà vigilata informativa? Di esclusiva del Tg1 – nel senso che si vede solo quello? Perché, anche se in qualche arcipelago sperduto o a un metro dal confine alpino il primo pensiero non è l’informazione, tuttavia il tambureggiamento giallorosso, con annessa campagna della paura, un tantino infastidisce. L’infodemia non si porta bene sulle infradito o sulle scarpe da trekking. Almeno in spiaggia o in rifugio si vorrebbe rilassarsi un filo e staccare dal tam tam emergenziale, nuovo format dei tg Rai.

Da giorni il coro dei media cavalcava la nuova intesa tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti per le elezioni comunali del 2021 (Virginia Raggi a parte). Alleanza strategica, accordo foriero di un futuro radioso per l’Italia tutta, era la ola delle redazioni. E pazienza se per il M5s trattasi di tradimento della ragione sociale anticasta battezzata col Vaffa. L’establishment e Virginio Bettini tifano per la saldatura e dunque: testa nella sabbia e avanti con la fanfara. L’altra inversione a u è la rottura del tabù dei due mandati. Ci pensa il Tg1 diretto da Giuseppe Carboni a condire l’apostasia come «evoluzione», il rinnegamento come «svolta di maturità». Così Di Maio e Zingaretti veleggiano verso un avvenire d’armonia e tutti contenti, o quasi. Alla coppia Conte Casalino a un certo punto devono essere girati i cabasisi per l’eccesso di miele sul capo della Farnesina e il segretario Pd proposti spesso in garrula abbinata, il primo dichiarante su Facebook il secondo mascherinato tra i collaboratori. Così quella sera, prendendo la rincorsa, Emma D’Aquino annunciava che il premier si era pronunciato su alleanze, economia, Covid, scuola, Libia, Libano e per dessert macedonia con panna. Mentre il giornalista distillava il Contepensiero, eccolo in persona personalmente avanzare spedito con lo staff, seduto alla scrivania, incedere con pochette nei saloni di Palazzo Chigi, intravisto nello studio dalla porta socchiusa, parlare a una convention con microfonino ad archetto, digitare sulla tastiera, dialogare con le folle e camminare sulle acque… Confrontati, i cinegiornali dell’Istituto Luce sono satira corrosiva. Oppure la fonte ispirativa potrebbe essere la tv del Fatto quotidiano. Il quale proprio quella mattina, aveva pubblicato, in versione cartacea, l’intervistona a Giuseppi bisfirmata da Marco Travaglio e Salvatore Cannavò. Non è una bella sintonia tra il tg ammiraglio e il foglio cacciatorpediniere?

Del resto, il Tg1 (meno di 4 milioni di spettatori, share attorno al 24%) è pronto scattante malleabile. Se i giornaloni sono i portali del pensiero unico, il telegiornalone va dritto sull’indottrinamento. La giusta stigmatizzazione dei furbetti dei 600 euro che siedono in Parlamento serve per lanciare la campagna per il referendum sul taglio di deputati e senatori. E, fatto che non guasta, ad assestare un colpetto alla Lega (non pervenute le inchieste sugli onorevoli d’Italia viva e Pd che hanno richiesto il bonus). Anche dell’avviso di garanzia al premier e ad altri sei ministri spiccato dalla Procura della Repubblica di Roma non si hanno notizie. Quel giorno cascano i due anni dal crollo del ponte Morandi e quindi spazio alla commemorazione della tragedia, impreziosita dalla passerella genovese del premier. In totale, sei servizi sei. Poi ci sono i già citati resoconti sulla «maturazione» e il «cambio di passo» del M5s. E quindi non c’è spazio per altre notizie. Né quella di mezzo governo indagato. Né quelle relative al caos scuole (disaccordi tra il ministro Lucia Azzolina e il Cts, presidi in rivolta, distanziamenti sì no ni, mascherine obbligatorie facoltative inutili) che già agitano famiglie e insegnanti. Siamo alla vigilia di Ferragosto, perdiana. È tempo di escursioni, alpinisti, vacanze ecologiche, maghi, diete… Il 16 agosto invece è il giorno della chiusura delle discoteche. Dal Manzanarre al Reno, dagli Appennini alle Ande, il virus impazza ovunque. La seconda ondata è imminente, colpa dei giovani indisciplinati, scoperti una volta doppiato il Ferragosto. Evidentemente, prima tutti immaginavano che nelle discoteche i ragazzi stessero distanziati. Nulla da dire invece sui sistemi di controllo al rientro dai Paesi a rischio e sui focolai creati dai centri di accoglienza immigrati. Non pervenuti servizi sulla caserma Serena fuori Treviso, 230 positivi al coronavirus.

L’innovazione del Tg1 giallorosso è l’informazione ibrida come le Toyota. Il notiziario va con la benzina dell’indottrinamento governativo e con l’alimentazione elettrica dell’evasione e dell’ambientalismo all’acqua di rose. Il comun denominatore è il verbo emergenziale che richiede uno o più salvatori: il premier in primis, e a ruota i nuovi sacerdoti della pandemia, gli ecoallarmisti, le Grete varie. Dal 15 al 25 agosto l’ossessione da Covid non conquista l’apertura del tg solo il giorno del ritrovamento dei resti del povero Gioele Parisi, il figlioletto della dj Viviana trovata morta in Sicilia, nell’anniversario del crollo del ponte di Genova e in quello del terremoto di Amatrice. Ma in questi ultimi due casi c’è di mezzo la sfilata del premier che va a rincuorare, confortare, massaggiare. Altrimenti domina la campagna della paura di cui la politica dell’emergenza è diretta emanazione. Come lo è la gestione delle scuole: quante volte abbiamo visto i due dirigenti che tendono il metro tra i banchi? La bionda Laura Chimenti tambureggia cifre e allarmi Covid con aria accigliata. La curva dei contagi non fa che impennarsi, le terapie intensive in calo o stabili vengono taciute. Potrebbero anche saltare le prossime elezioni regionali, ma per ora meglio non scoprire le carte. Se qualcuno osserva che l’indice del contagio diminuisce in rapporto ai tamponi «potrebbe essere un numero sottostimato perché calcolato solo sui sintomatici». Viviamo nell’incubo dell’imminente «bomba virale». Giusto il tempo per rifiatare con gli esteri, utili a mostrare che fuori dall’Italia felix imperversano loschi figuri da Donald Trump a Jair Bolsonaro da Vladimir Putin ad Aleksandr Lukashenko, e si torna a parlare di Covid nel mondo e, con la cronaca, nelle discoteche, negli aeroporti, nel porto di Civitavecchia, non in quello di Lampedusa però. Per «alleggerire» il terrore da contagio in molti servizi si sposa l’evasione con la nuova sensibilità green. Ma il risultato è tra il comico involontario e il pittoresco: il lago di Massaciuccoli è minacciato da una pericolosa pianta acquatica, ci sono due oranghi da curare nel Borneo, l’azienda avellinese che produce componenti per sonde spaziali non ha la connessione internet, rinasce la fattoria dei cavalli degli zar, ritorna Winnie the pooh, nelle acque dell’Alaska è ricomparsa l’orca bianca, l’orso M49 è scappato di nuovo, il parto del panda di una mamma anziana ha avuto un «boom di visualizzazioni», Laura e Marco sono «uragani paralleli». Nell’annunciarli, D’Aquino, Chimenti e Francesco Giorgino sono seri. Per il 2021 si consiglia agriturismo con tv satellitare.

 

La Verità, 26 agosto 2020