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Roger Waters manda a quel paese Zuckerberg

Allora si può. Si può mandare a quel paese i paperoni della new technology. Gli imperatori dei social network. Si può ribellarsi al loro strapotere. Rovesciare il tavolo e non cedere alle lusinghe del denaro. «Fanculo, Mark. Non prenderò parte a questa robaccia». Testuale e senza eufemismi: è la risposta di Roger Waters a Mark Zuckerberg. Scazzo fra titani. Crash tra giganti. Da una parte l’ingegno e la ricchezza. Dall’altra il carisma di un artista pacifista, ma ruvido il giusto quando c’è da esserlo. Il cofondatore (con Syd Barrett), bassista, polistrumentista e cantante dei Pink Floyd non è tipo da giri di parole o risposte diplomatiche. Lo sanno bene i suoi ex compagni Nick Mason, Rich Wright e David Gilmour, mollati inopinatamente dopo anni di successi planetari (The Dark Side of the Moon rimase 15 anni nella Billboard 200 americana). C’è da fregarsi le mani per la curiosità su come andrà a finire. Intanto il rifiuto di Waters mostra che ci si può rivoltare contro chi persegue il «controllo del pensiero», come canta in Another Brick in The Wall. Contro chi censura i dissidenti, i non conformi alla policy perbenista della community. Waters rifugge mediazioni e compromessi. E pazienza se di mezzo c’è «un’offerta di tanto, tanto, tanto denaro». E se a farla è uno degli uomini più ricchi e potenti del globo. L’inventore di Facebook e Instagram. Il filantropo vezzeggiato dall’establishment. Il nerd trattato con i guanti bianchi dai potenti.

L’idea di Zuckerberg era utilizzare Another Brick in The Wall part two, uno dei classici dei Pink Floyd, per uno spot su Instagram. È stato lo stesso Waters a rivelarlo durante un evento in favore di Juliane Assange, l’attivista di Wikileaks in attesa di essere estradato dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. «La proposta è arrivata stamattina, accompagnata da una vagonata di denaro», ha raccontato il 78enne autore di Money e The Wall. «Ma la mia risposta è stata: fuck you, non se ne parla proprio». Prendere o lasciare, questo è Roger Waters: «Voglio essere nella trincea della vita. Io non voglio essere al quartier generale, io non voglio essere seduto in un albergo a guardare il mondo che cambia… Voglio essere impegnato. Probabilmente, in un modo che mio padre (morto ad Anzio nel 1944 e che lui non ha conosciuto ndr) forse approverebbe», ha scritto, spiegando la sua propensione a schierarsi senza remore.

Certamente l’inventore di Facebook era a conoscenza di tutto questo. Eppure, raramente richiesta è parsa più ingenua e sprovveduta quanto la sua. Suona strano anche a dirlo: Zuckerberg, il più global dei Big five, che fa la figura del provinciale? Proprio così, di fronte all’alterità del musicista che suonò quel brano sulle macerie del Muro di Berlino da poco abbattuto. Sarebbe bastato soffermarsi sul significato di quel testo per evitare di beccarsi un no duro come una mattonata. Ma si sa, chi è titolare della community più estesa del pianeta, un terzo della popolazione mondiale quanti sono gli utenti di Facebook, non è solito porsi troppe domande.

«Non abbiamo bisogno di alcuna educazione/ Non abbiamo bisogno di alcun controllo del pensiero», canta Pink, il ragazzino protagonista della ribellione contro l’omologazione degli adulti, nel brano di Waters. «Ho scritto una canzone sulla mia esperienza personale e su come mi isolavo perché avevo paura», ebbe a dire una volta per spiegare il senso di questo testo sull’incomunicabilità cui costringono i detentori del potere e i controllori del pensiero. Era perciò forse prevedibile il rifiuto dell’artista: «Vogliono usare la mia canzone per fare di Facebook e Instagram due social ancora più potenti di quanto non siano già», ha proseguito Waters durante l’evento pubblico. «Così da continuare a censurarci tutti e a oscurare la storia di Julian Assange». La lezione è nitida e chiara. Rifiuto del pensiero unico e di ogni tipo di censura. E rifiuto di inutili mediazioni.

Ce n’è, nemmeno tanto indirettamente, anche per i capi del G7 che appena pochi giorni fa, dopo decenni di evasione incontrollata, hanno concesso a Zuckerberg e agli altri soci della Big tech la dolce aliquota fiscale del 15%. Avete letto bene: quindici per cento. Andassero da Waters a farsi spiegare come non cedere a ricatti e lusinghe.

Concludendo il suo racconto, il fondatore dei Pink Floyd ha ricordato gli esordi di Zuckerberg con FaceMash, il sito antenato di Facebook creato ad Harvard, in cui insieme ai suoi compagni dava i voti alle ragazze del campus. Una storia raccontata anche da The Social Network, il film di David Fincher del 2010. «Perché mai abbiamo dato tanto potere a questo cazzone che ha iniziato con: “È carina, le diamo quattro su cinque?”», si è chiesto Waters. Prima di concludere: «Eppure eccolo qui, uno degli idioti più potenti al mondo».

Vedremo se e come risponderà Zuckerberg. Qualcosa fa supporre che lo scazzo fra titani sia solo all’inizio.

 

La Verità, 17 giugno 2021

«Ora il pensiero unico vuole spianare la storia»

Il politicamente corretto ha ucciso il buonsenso. E adesso si prepara a spianare anche la storia e l’arte. È il succo dell’allarme contenuto in Una pernacchia vi seppellirà. Contro il politicamente corretto (Castelvecchi editore), un agile libriccino scritto da Massimo Arcangeli, linguista, collaboratore dell’Istituto della Enciclopedia italiana e della Società Dante Alighieri. Arcangeli è anche curatore di saggi sul linguaggio dei politici (Il Renziario e Il Salvinario, prossimamente Il Berlusconario) e ideatore e organizzatore del Festival della lingua italiana che si tiene a Siena. Nel prossimo, dall’1 al 5 aprile 2020, verrà premiato con lo Zucchino d’oro chi, nell’ultimo anno, si è «distinto nell’applicare, contro il più elementare buonsenso, le regole imposte da una correttezza politica cieca e retroattiva». Il nome del vincitore sarà annunciato dopodomani, 26 novembre.

Professore, può anticiparcelo?

«Purtroppo no perché i nostri cinque giurati stanno ancora valutando. Se vuole, le posso dire il mio candidato preferito».

Prego.

«È il regista Leo Muscato che, per dare un segnale contro i femminicidi, ha capovolto il finale della Carmen di Bizet. Nel libretto originale l’eroina muore pugnalata da Don José, nell’edizione di Muscato, andata in scena al Maggio musicale fiorentino, è lei che uccide lui. Solo che per due volte la pistola vendicatrice si è inceppata. E la vittima, trasformata in carnefice, non è riuscita a sparare, scatenando il riso del pubblico».

Per la beffa dell’intoppo, oltre che per il danno della licenza artistica?

«Esatto. Ma l’episodio è significativo oltre il suo lato comico».

Perché?

«Per la retroattività. La retroattività di queste censure introduce un salto qualitativo. Per proteggere una qualche minoranza, si annulla la distanza tra il presente e un’epoca passata. Si depurano opere di sette o otto secoli fa in base a standard attuali».

Altri esempi?

«C’è solo da scegliere. Ero a Bruxelles quando un’associazione culturale, consulente dell’Onu, propose di non leggere più nelle scuole il XXVIII canto della Divina commedia perché considerato anti islamico in quanto Maometto, divisore della cristianità, è rappresentato squartato in due per la pena del contrappasso, con le viscere penzolanti. In Francia, un organismo che si prefigge d’instaurare l’uguaglianza tra uomini e donne, ha proposto di sostituire l’ultima parola del motto francese fraternité con solidarité o adelphité. Poi c’è il mondo della pubblicità: sulla scia di un autore ha riscritto in chiave parodica le fiabe classiche, sull’altare del buonismo lo spot della Brondi ha fatto andare d’amore e d’accordo Cappuccetto rosso e il lupo. Ad Ascoli Piceno alcune scuole medie hanno declinato l’invito per l’anteprima di Così fan tutte di Mozart perché considerato inadatto a un pubblico di adolescenti. In materia di sesso, la lista è ricca di casi comici».

Tipo?

«La censura operata da Facebook della Sirenetta di Copenaghen per i suoi seni troppo sexy. O, per lo stesso motivo, la celebre Fontana delle tette di Treviso».

La città di Treviso è piuttosto bersagliata da Facebook.

«Nel 2018 il social ha rifiutato le inserzioni della storica concessionaria d’auto Negro, intimandole di rimuovere l’offesa. Ma era il nome di famiglia».

Colpa dell’algoritmo?

«Gli ingegneri di Facebook avevano promesso che avrebbero trovato una soluzione, ma siamo ancora in attesa. Con la tecnica si possono fare miracoli. Almeno creare un algoritmo in grado di distinguere tra un’offesa e un marchio commerciale».

I codici di certi sacerdoti del perbenismo sono più gravi della rigidità di un algoritmo?

«Li metto sullo stesso piano. Non possiamo attribuire a un algoritmo la responsabilità di una regia che non ha previsto la differenza tra il David di Michelangelo e qualcuno che fa dell’esibizionismo. Distinguere è faticoso, l’omologazione di massa preferisce uniformare».

Il conformismo non ha un’origine culturale?

«Certo. Se a un certo punto si decide che padre e madre non vanno più bene e si decide di usare genitore 1 e genitore 2, oppure matria al posto di patria, sono scelte che personalmente non condivido. A quel punto, però, scatta il confronto, si dissente e si controbatte. Ma se si applica il politicamente corretto al Mercante di Venezia di William Shakespeare perché contiene espressioni anti ebraiche e si decide di non rappresentarlo a teatro o non studiarlo nelle università, qui siamo nel campo della pura imbecillità».

La quale è a sua volta la propaggine estrema della dittatura del politicamente corretto?

«O del pensiero unico. Si sa che qualcuno vuole imporlo, ma ciò che più mi preoccupa è l’omologazione generalizzata, l’assenza di resistenza al conformismo. Ancor più quando è retroattivo. Nelle scuole vedo molti insegnanti disarmati di fronte a questa deriva. La accettano supinamente. Invece, è proprio nell’istruzione che deve iniziare un’educazione critica, partendo dal linguaggio. Pensiamo ai dizionari: poniamo di accettare di espungere la parola negro perché ritenuta offensiva. Ma se la togliamo anche dai testi del Settecento o dell’Ottocento operiamo una mistificazione, falsifichiamo la nostra cultura, nascondiamo la verità a chi verrà dopo di noi».

C’è una corrente di pensiero che identifica il politicamente corretto con il bon ton e un maggior uso di mondo.

«Siamo ben oltre, l’espressione giusta è massificazione culturale. Se leggere a scuola il canto di Maometto di Dante o brani del Mercante di Venezia o postare sui social il quadro di Paolo e Francesca nudi di Ary Scheffer crea problemi si finisce per rinunciare. Ma così si perde, accettando una grande privazione perché, poco alla volta, quei canti e quelle immagini smetteranno di circolare. Lascio a lei valutare la gravità di questo impoverimento».

La portavoce delle levatrici inglesi ha dovuto dimettersi per aver detto che i figli li partoriscono le donne. La sua associazione l’ha sconfessata perché con quell’affermazione ha discriminato la comunità Lgbt e perché in Gran Bretagna, in questi casi, al posto di lady si usa il termine menstruator. Siamo alla creazione della seconda lingua di orwelliana memoria?

«È così. La lingua diventa uniforme perché trasmette il pensiero unico. Pensiamo di difendere le minoranze, in realtà le omologhiamo con un linguaggio neutro, asettico. Qualcuno, per fortuna, comincia a reagire».

Chi?

«In America da qualche anno molti gay hanno preso a definirsi orgogliosamente froci. Rifiutano l’edulcorazione del termine gay e rivendicano la loro identità trasformando l’offesa nell’orgoglio della differenza».

La seconda lingua preconizzata da Orwell finge di proteggere le differenze mentre le conforma?

«Uno degli esempi più lampanti è l’handicap. Chi ha vissuto con un disabile sa che vuole essere chiamato sordo o cieco. Dagli anni Settanta in poi, di eufemismo in eufemismo e staccandosi progressivamente dal reale, si è passati da portatori di handicap a diversamente abili, a differentemente abili, a ipovedenti, ipoudenti… Oggi una guida all’inclusione scolastica s’intitola La speciale normalità».

Per non dire anziani si dice diversamente giovani: siamo tutti diversamente qualcosa?

«Diversamente alto, diversamente magro… Nano è spregiativo, grasso anche, così ci sono le modelle curvy, ingentilito dall’inglese. Dobbiamo essere tutti belli, giovani e prestanti. Eliminando la parola che contraddice lo stato di grazia, ci illudiamo di viverlo».

Di che cosa è figlio il «cieco moralismo mortale» che tratteggia nel suo pamphlet?

«Della cultura di sinistra. Da quando alla fine degli anni Ottanta nelle università americane sono stati inventati gli speech codes, i regolamenti che disciplinavano i comportamenti verbali nei campus, la sinistra puritana e bigotta ha esteso questi codici al linguaggio universale. Facendoli diventare un nuovo catechismo acritico e intransigente. Siamo arrivati all’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo… In Europa abbiamo ereditato in modo aproblematico gli aspetti peggiori di questa ideologia».

Che cosa pensa dell’ultima lezione di superiorità di Corrado Augias?

«Mi spiace che si sia espresso in quel modo perché è un amico. Ma non posso condividere quel linguaggio in perfetto sinistrese che esprime un manicheismo nel quale destra è sinonimo di istintualità e volgarità culturale e sinistra di intelligenza, profondità e impegno. Proprio in un momento in cui queste categorie stanno cadendo».

Lei ha scritto Il Renziario: qual è la principale innovazione nel linguaggio di Matteo Renzi?

«Renzi è il più obamiano dei nostri politici. Barack Obama ha portato i social network nella vita politica, Renzi li ha resi una finestra sul quotidiano».

E, parlando del Salvinario, qual è la novità della comunicazione di Matteo Salvini?

«Se nella Seconda repubblica i cittadini hanno cominciato a immedesimarsi nei politici, ora sono i politici che giocano a fare i cittadini comuni. Quando Salvini si mostra in boxer in spiaggia o si fa ritrarre sulla copertina di un settimanale a torso nudo con la cravatta dice agli italiani “sono uno di voi”. Se paragoniamo questi messaggi a ciò che fanno i leader della sinistra vediamo la differenza abissale».

Qual è l’argine critico alla melassa del pensiero unico?

«È la ricerca delle sfumature tra parole, concetti, pensieri diversi. Il linguaggio del politicamente corretto e del pensiero unico è uniformante. Al contrario, il pensiero critico favorisce le differenze e le specificazioni».

Come bisognerebbe fare nel caso della commissione Segre?

«Se servisse a circoscrivere l’antisemitismo nuovamente montante, soprattutto nel Nordeuropa, la commissione sarebbe utile. E può esserlo anche come sensibilizzazione contro l’intolleranza. Ma se si trasforma in un contenitore che fa di tutta l’erba un fascio per mettere la museruola al dissenso, allora non mi trova concorde. Tanto più considerando che, in materia di antisemitismo e razzismo, esiste già un ricco corredo legislativo al quale ricorrere».

 

La Verità, 24 novembre 2019

 

«I talk social sono più sani di certi talk show»

Un settantenne alla conquista di Facebook. Non male come sorpresa, tanto più se il protagonista è un giornalista della carta stampata e della tv. Marino Bartoletti è una grande firma di calcio, ciclismo e motori, per due volte direttore del Guerin sportivo, fondatore della redazione sportiva Mediaset e direttore della testata sportiva Rai, inventore di Quelli che il calcio. Il suo successo sul principe dei social è tutt’altro che virtuale, come si è visto alla presentazione di Bar Toletti 3. Così ho sedotto Facebook (edizioni Minerva, prefazione di Vittorio Macioce) all’interno della rassegna Parole d’autore curata dall’associazione Cuore di carta di Albignasego (Padova).

«Una serata guardando negli occhi le persone a cui mi rivolgo vale più di tante ospitate televisive», confida.

Un settantenne che spopola su Facebook.

«Un ossimoro, direbbero quelli che parlano bene. Avrei potuto adagiarmi sugli allori. Invece, un paio d’anni fa ho trovato l’incoscienza giusta per avventurarmi su questo medium scivoloso».

Incoscienza o coraggio?

«Entrambi, forse. Ho superato le titubanze puntando sulle cose che so fare: raccontare storie e dialogare con i lettori, come ai tempi della posta del Guerin sportivo. Grazie a questo dialogo ho capito che le bestie di Facebook non sono così cattive, soprattutto se le sai educare. Anche i giovani hanno voglia di storie positive».

Per esempio?

«Racconto gli incontri di tanti anni di giornalismo. A pranzo con Enzo Ferrari. A gustare una torta con Enzo Bearzot. Nella camera di ospedale di Niki Lauda dopo l’incidente, quando si pensava che “la nera signora”, come direbbe Roberto Vecchioni, se lo sarebbe preso. Invece il prete che gli diede l’estrema unzione disse: “Non vuole morire”».

Il tuo segreto?

«Parlo di cose che ho vissuto. Chiunque può confutare delle opinioni, ma non le esperienze personali. Bene o male ho fatto dieci Olimpiadi e dieci Mondiali di calcio. Qualcuno di maleducato arriva anche sulla mia pagina. Rispondo prima con ironia, poi con fermezza. Pian piano gli haters si allontanano. Spesso sono altri followers a esortare i più insolenti a un comportamento rispettoso».

Che seguito hai?

«Il profilo può avere al massimo 5.000 like che si esauriscono in poche ore. Sulla pagina pubblica il post con il consenso più ampio ha raggiunto 2 milioni di visualizzazioni».

Qual è stato?

«Quello su Fabrizio Frizzi. S’intitolava: “E ora chi gli chiederà scusa?”. Il giorno del suo funerale scrivevo che era morto un gentiluomo e che qualcuno si era comportato male con lui, facendolo soffrire».

Chi o cosa ti ha convinto a sbarcare su Facebook?

«Qualcuno che mi ha suggerito affettuosamente di allinearmi alla contemporaneità. Ho lavorato nella carta stampata, alla radio, in tv, ho scritto per il teatro, non era giusto temere questo media. Anzi, potevo diventarne amico. Raccogliendo i primi post mi sono inventato Bar Toletti, niente di folgorante, Così ho sfidato Facebook. Vista la risposta, ho fatto Così ho digerito…, ora Così ho sedotto…».

I social servono a compensare il poco spazio nel giornalismo tradizionale?

«Il giornalismo tradizionale lavora per il giorno dopo. Se segui l’attualità, nei social sei in tempo reale e finisci per dare un buco al giornale. Ospite delle rassegne stampa ho commentato spesso quotidiani già superati dalle notizie della notte. Siamo andati a letto che Donald Trump era stato eletto, ma nei giornali del giorno dopo non c’era scritto».

Il tempo reale vuol dire dialogo permanente con i lettori.

«Un dialogo strettissimo, una reattività inquietante. Una volta avevo scritto un punto e per errore è finito online. Subito mi hanno risposto dieci lettori con like e domande: “Cos’è, un messaggio criptato?”».

Rapporto gratificante?

«È una reattività che stimola e può provocare una forma di dipendenza. Magari stai per addormentarti e ti viene una risposta, poi i followers replicano… È un meccanismo compulsivo, ma mi dà più soddisfazione questo dialogo che partecipare a certi programmi tv».

In questo terzo libro racconti il tuo Sessantotto in giacca e cravatta.

«Noi che eravamo dentro non ci siamo accorti della portata di ciò che stava accadendo. All’epoca l’esame di Stato si sosteneva in giacca e cravatta. Mi preparavo al futuro, al lavoro che volevo fare, senza tirare molotov. Mi sono rimboccato le maniche nella quotidianità e forse questo è più rivoluzionario di tanti proclami».

Da laureato in giurisprudenza come sei finito a fare il giornalista?

«A vent’anni presi il treno per andare alla redazione del Guerin sportivo a Milano. Dove vidi Gianni Brera che picchiettava sui tasti della Lettera 22 davanti a un fattorino che aspettava di sfilare la cartella dalla macchina per portarla in tipografia. Non c’era una correzione. Lo vedevo come il Papa che celebra messa nella cappella privata solo per me. Rimasi folgorato e lo sarei rimasto ancor di più lavorando vicino a lui».

Definisci Gianni Brera.

«Uno scrittore che ha portato la cultura nel giornalismo sportivo a livelli impensabili. Sono orgoglioso di aver diretto il Guerin sportivo dopo di lui».

Prima di Aldo Biscardi, invece, hai condotto Il Processo del lunedì.

«La sua prosa era diversa dalla mia, ma la riconoscenza vola più alta dei congiuntivi. Consapevolmente o no, ha portato il bar sport in tv. O, detto in modo nobile, lo spettacolo della commedia dell’arte, con i suoi Arlecchino, Pulcinella e Balanzone, cioè Gian Maria Gazzaniga, Antonio Corbo, Ezio De Cesari. Quando vedo la volgarità di certi talk show dico: ridateci Biscardi».

Qualche anno dopo arrivò la conduzione della Domenica sportiva.

«Nel 1985, anno dello scudetto del Verona. I veronesi mi amano ancora perché lo festeggiammo in studio con Osvaldo Bagnoli».

Un altro che citi spesso è Sergio Zavoli.

«Forse il più grande giornalista italiano».

Più di Montanelli?

«Sì, perché più abile nella multimedialità. Montanelli non è andato molto oltre la carta stampa, mentre Zavoli ci ha lasciato dei documentari di storia italiana che andrebbero studiati all’università».

L’erede di Biscardi è stato Maurizio Mosca?

«Non direi, anche se entrambi erano esperti nella commedia dell’arte. Indimenticabile l’Appello del martedì con Helenio Herrera e l’avvocato Peppino Prisco. Mosca era un bambino di 60 anni, di un’onestà disarmante».

Hai frequentato Beppe Viola?

«L’ho frequentato e amato e lo piango ancora adesso. Se Quelli che il calcio si chiama così è proprio per l’omaggio che gli abbiamo voluto fare inventando quella trasmissione che l’avrebbe divertito moltissimo».

Come nacque Quelli che il calcio?

«Nacque dalla suggestione di un bambino che guardava la radio. Guardarla era quasi più bello che ascoltarla, perché scatenava l’immaginazione: cosa c’era lì dentro? Una volta cresciuto pensai a una versione televisiva di Tutto il calcio minuto per minuto. Portai il progetto ad Angelo Guglielmi, grande direttore di Rai3».

E?

«Io e Carlo Sassi garantivamo la parte tecnica, ma non si trovava il conduttore. Proponevamo Fabio Fazio, che Guglielmi non voleva, Paolo Bonolis o Giorgio Comaschi che aveva condotto Galagoal dopo Alba Parietti».

Perché Guglielmi non voleva Fazio?

«Era convinto che non bucasse… Andammo da Gianni Morandi, da Gaspare e Zuzzurro… Poi a qualcuno venne in mente Dario Fo. Ci recammo in delegazione a Spoleto dove recitava il suo Mistero Buffo. Illustrai il progetto, ma alla fine Franca Rame sentenziò: “Il mio Dario una stronzata così non la farà mai”. Aveva ragione, perché due anni dopo egli avrebbe vinto il Nobel per la letteratura. Ma quando venne ospite si divertì moltissimo».

Con Quelli che il calcio decollò la carriera di Fazio.

«Lui ha fatto la fortuna della trasmissione e la trasmissione la sua. Davamo un’immagine del calcio migliore di ciò che era realmente: sullo stesso divano sedevano gli esponenti del rigorismo tecnico e i tifosi più pittoreschi».

Chi ti piace dei nuovi cronisti sportivi?

«Noi intervistavamo i giocatori nudi in spogliatoio, tanti colleghi oggi vivono di Wikipedia e si limitano a mettere il microfono sotto la bocca dell’allenatore durante le conferenze stampa. Il miglior cronista di oggi è Francesco Repice che riesce ad abbinare ritmo, competenza e capacità di appassionare chi ascolta. Non è un caso che lavori alla radio».

Che idea ti sei fatto delle scelte di Fazio dopo Quelli che il calcio?

«Sono molto affezionato a Fabio, essendo suo testimone di nozze. Credo sia un grande talento. Anche quando vorrei chiamarlo per dirgli se è sicuro di quello che fa, alla fine prevale l’amicizia».

Nel calcio è l’estate delle rivoluzioni. Cosa pensi di Maurizio Sarri allenatore della Juventus?

«È il più grande cambiamento della storia bianconera. La Juventus aveva già deviato qualche volta dal suo pragmatismo, ma non era mai ricorsa al suo peggior nemico, portatore di un verbo distonico rispetto alla cultura della real casa».

E della Roma che ammaina le bandiere Francesco Totti e Daniele De Rossi?

«Core de Roma è intraducibile in inglese. Pallotta pensa più allo stadio che agli scudetti. Detto questo, anche la società ha le sue ragioni. Francesco ha promesso che non avrebbe mai fatto nulla contro la Roma, ma l’addio con conferenza stampa di certo non ha rasserenato gli animi».

Dell’Inter che chiama Antonio Conte, suo nemico storico?

«Nell’Inter si fondono spirito aziendale dei nuovi proprietari e identità italiana. È una società che non si abbandona alla lagna, ma si rimbocca le maniche e prende un allenatore per vincere, come fece nell’87 ingaggiando Giovanni Trapattoni dalla Juventus».

Il più grande calciatore italiano.

«Direi Roberto Baggio».

Il più grande in assoluto?

«Maradona. Se il metro di misura è chi ha fatto vincere squadre che altrimenti non avrebbero mai vinto, Napoli e Argentina sono due prove sufficienti».

Il più grande allenatore.

«Helenio Herrera. Un risultatista che ha cambiato la storia del calcio non solo italiano. Si dice ancora oggi “l’Inter di Herrera”».

 

La Verità, 7 luglio 2019

 

 

«Io ex mago dei sondaggi: oggi sono inutili»

Cambiare vita restando nello stesso posto. Resettare il server e ricominciare da capo, rimanendo nel cuore di Milano, a due passi dal Duomo. Non dev’essere stato facile. Un cambio professionale ed esistenziale. Una rivoluzione, anzi, una palingenesi; ma composta e ordinata. Gianni Pilo, «il sondaggista di fiducia». «L’uomo dei numeri». «Il consigliere fidato». «Lo stratega della discesa in campo». «Il mago della statistica» che con la sua Diakron azzeccò sia la vittoria di Silvio Berlusconi nel 1994, che quella successiva di Romano Prodi, nel 1996. Una creatura del primo berlusconismo. Deputato di Forza Italia per due legislature, fino al 2001. Poi più nulla, o quasi. Riflettori spenti. Telefono silente, giornalisti spariti. «Ho preso la mia agendina con 3000 numeri e l’ho buttata. Dovevo cercarmi un nuovo lavoro, in un nuovo ambiente». Oggi Pilo è un signore di 63 anni con bretelle americane e retroaccento sardo, che ha messo tra il presente e la prima vita alcuni gradi di separazione.

È stato difficile ricominciare senza cambiare città o Paese?

«Milano rispetta e aiuta chi lavora: è stato facile far capire che volevo essere dimenticato».

Smettere di occuparsi di politica rimanendo nella capitale del berlusconismo. 

«La passione era forte. Ci sono voluti alcuni anni per smettere di pensare a quel mondo. Tuttavia, rivisto con gli occhi di oggi non è stato così faticoso. Non c’è nulla di più fastidioso di un ex che si sente indispensabile, e io non mi sentivo indispensabile».

A distanza di tempo le sembra meno doloroso?

«Avrei fatto meglio a restare un tecnico che si occupava di politica. Oggi è una figura accettata, ci sono stati Steve Bannon e Gianroberto Casaleggio, tanto per fare dei nomi. Ma ero molto inesperto e quando si “candidiamoci tutti” accettai. Dal 1996 al 2001 siamo stati all’opposizione, un’esperienza dura per chi aveva sognato la rivoluzione liberale. Non ero fatto per la politica politicante».

C’è stato un momento che ha causato il distacco?

«Più che un episodio preciso è stato un lento allontanarsi. Forse la più grande delusione fu il mancato riconoscimento del mio contributo nel successo di Giorgio Guazzaloca a Bologna nel 1999. L’avevo incoraggiato io a candidarsi. Era una grande figura, un gigantesco politico locale che sconfisse per la prima volta la sinistra nella sua roccaforte. Fu un’esperienza esaltante. Mi amareggiò il fatto che non venne riconosciuto il mio ruolo».

Che bilancio ne trasse?

«Pensai che era giusto fermarsi. Cercare posti di sottogoverno come parziale risarcimento o magari cambiare casacca per continuare non fa parte della mia indole. Nel 2001 non ho chiesto di ricandidarmi e nessuno lo ha chiesto a me».

Il successo di Guazzaloca fu la caduta del muro di Bologna. Oggi che sono cadute molte altre città e regioni rosse che cosa pensa?

«Sono stato uno dei primi a vedere le crepe in quel sistema… Ma, senza autocompiacimenti, il punto oggi è capire dove questa crisi porterà. Non è scontato: i vincitori di oggi non devono farsi illusioni».

Lei fu il primo statistico prestato alla politica?

«Non credo che i politici della Prima repubblica non disponessero di dati statistici. Probabilmente i sondaggi restavano nei cassetti dei capi di partito. La mia attività ha avuto una notorietà inaspettata».

Con l’arrivo di Berlusconi e la nascita della Seconda repubblica però ci fu un cambiamento radicale.

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«Vent’anni di Iene, ma il meglio deve arrivare»

Il segreto di Davide Parenti è che è innamorato del suo lavoro. Lo fa con passione e senza risparmiarsi. Anche per questo, forse, sebbene domenica inizi la ventesima stagione, la pelliccia delle Iene è ancora nera e lucida. Parenti è un tipo complesso, sta dietro le quinte, è di sinistra e lavora da sempre a Mediaset. Ha pure l’erre francese che di solito è partner fisiologico di una certa supponenza. Invece, sarà perché siamo coetanei o perché incombe l’esordio stagionale, lo trovo disponibile e persino umile.

Vent’anni di Iene. La prima parola che le viene?

«Un bel miracolo».

La seconda?

«Abbiamo fatto un buon lavoro».

Che cosa glielo dice?

«Il fatto che ci siamo ancora, non tanti durano così a lungo. La share media dello scorso anno è stata del 10.4% su una rete che fa circa la metà. È come se su Rai 1 ci fosse un programma che fa il 40%».

C’è.

«Sì, il Festival di Sanremo, un evento. Noi andiamo in onda due volte la settimana. Su Canale 5 Barcellona Juventus fa il 25%, su Italia 1 il 18. Fazio faceva l’11 su Rai 3 e fa il 20 su Rai 1. La rete è performante».

Vorrebbe andare su Canale 5?

«Storia antica, ogni azienda ha i centravanti e i terzini. Noi lavoriamo affinché Italia 1 superi Canale 5».

Il servizio più divertente della puntata di domenica?

«Uno scherzo a Elenoire Casalegno, che debuttò come valletta di Pressing, nel quale le sembrerà di parlare con il fantasma di Raimondo Vianello. Abbiamo campionato la sua voce, è venuto bene».

Nel calcio si dice che per continuare a vincere ci vuole fame. E in tv?

«Passione per il proprio lavoro. Come quella di certi artigiani. Siamo dei ristoratori che offrono ai clienti quello che mangiano loro. Non facciamo un menu per gli altri. C’è una bella differenza».

Un'immagine non troppo simbolica del gioco della balena blu e dei suoi effetti

Un’immagine non troppo simbolica del gioco della balena blu e dei suoi effetti

Con i servizi sulla blue whale si è appannata l’immagine delle Iene?

«Un po’ sì. Sono piovute critiche, molte ingiuste, alle quali, non essendo in onda non abbiamo potuto replicare. Se si legge Wikipedia sulla blue whale vien fuori che abbiamo intervistato madri di persone suicidate che erano attrici. Ovviamente, non è così».

Le Iene vittime delle fake news?

«In un servizio avevamo inserito immagini prese dalla tv russa di persone che si buttavano dai tetti. Si è scoperto dopo che quei casi non c’entravano con la balena blu. Non è una fake news. Le morti causate da quel gioco esistono, in Russia, in Francia, altrove. Abbiamo sbagliato a non verificare meglio. Ma da questo a essere accusati di aver portato in Italia la blue whale… In Italia non è ancora provato il rapporto di causa effetto di alcune morti. Ma c’è l’autolesionismo, c’è la gente che si taglia e che sprofonda nella depressione. La blu whale è un gorgo che risucchia. Parlarne è doveroso».

Altri infortuni in passato?

«Se si riferisce a Stamina lo ritengo un buco nero della sanità italiana. Quando abbiamo parlato per la prima volta di Davide Vannoni operava gratis nell’ospedale civile di Brescia. Era autorizzato dal servizio sanitario nazionale. Fin dal primo pezzo, è lì da vedere, abbiamo detto che c’era qualcosa di poco chiaro e che Vannoni non era affidabile. Poi siamo andati a trovare i bambini, Giulio Golia è diventato quasi un loro zio. I genitori dicevano che i loro figli ne traevano giovamento. A un certo punto si è deciso che una cura compassionevole era diventata una truffa. Ma nessun incaricato della sanità pubblica è andato a conoscere queste famiglie».

La ricerca esasperata dello scoop può far deragliare?

«Non mi sembra sia successo. Sono pronto a sostenere qualsiasi tavola rotonda su questi argomenti».

Le riporto alcune critiche ricorrenti: moralismo da ditino alzato.

«Può essere che a volte esageriamo. Ma siamo in buona fede e se commettiamo errori lo ammettiamo. Non mi pare capiti spesso».

Morbosità e voyeurismo.

«Ci occupiamo delle cose che interessano a noi. Mi faccia degli esempi».

Decine di servizi su preti pedofili o locali per scambisti.

«Ne facevamo di più qualche anno fa. Comunque, in Italia ci sono 9 milioni di persone che vanno a prostitute: è un fatto. L’unico modo per capirlo è andarci, vedere chi è quella persona, qual è il linguaggio. 9 milioni di uomini che hanno 9 milioni di donne al loro fianco vanno a prostitute. Proviamo a raccontarlo in modo non banale».

E che magari aiuti gli ascolti…

«Da quando c’è la Rete con tutti i siti porno il nudo paga sempre meno».

Perché a un certo punto vi siete fermati nell’inchiesta sullo sfruttamento della prostituzione nei locali dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali?

«Si è esaurita. Avevamo documentato tutto, provando che nei locali di un’associazione che riceve soldi pubblici c’erano azioni di sfruttamento della prostituzione. Andare oltre ere sconfinare nella persecuzione».

È difficile in questo momento criticare i gay?

«Siamo un programma aperto alle diversità. Abbiamo fatto molti servizi contro le discriminazioni sessuali. Ma le discriminazioni non devono esserci nel bene e nel male. E se c’è sentore di reati…».

Avete argomenti prioritari?

«Assolutamente no. In vent’anni è stato fatto tutto. Cambia il trattamento. Ora le storie si allungano perché vogliamo svelare i meccanismi. Se raccontiamo di una donna stalkerizzata da un uomo, poi andiamo da lui e gli diciamo di smetterla. Entriamo nella storia, provando a cambiarla».

Come si chiama questo giornalismo?

«Non siamo una testata giornalistica, ma intrattenitori. Abbiamo un’etica, un punto di vista. Anzi, più d’uno, discutiamo molto. Se ci accorgiamo che un pezzo era sbilanciato da una parte, ci torniamo con una versione diversa».

Quanti siete?

«In questo momento ci sono 38 inviati, 25 autori, più cameramen, grafici, montatori e la redazione… più di 100 persone e un indotto di altre 50».

Come controllate?

«Un gruppo di autori senior mette in crisi la bontà delle notizie e dei trattamenti».

Presenti al mondo Le Iene attraverso due inchieste.

«La prima è Drug wipe, il narcotest ai parlamentari. Con un escamotage abbiamo toccato la fronte con un panno per togliere la sudorazione. Analizzando il sudore si può sapere se nelle 36 ore precedenti si è fatto uso di sostanze stupefacenti. Il 33% del campione di politici ne aveva fatto uso. È un’inchiesta finita sui giornali di tutto il mondo. Però ho preso 15.000 euro di multa e sei mesi di galera con l’accusa di violazione della privacy, poi cambiata in vilipendio delle istituzioni».

La seconda?

«Un pezzo di Nina Palmieri sulla storia di un malato terminale omosessuale che voleva lasciare la casa al compagno che, alla sua morte, l’avrebbe persa. Abbiamo incontrato il padre che non accettava l’omosessualità del figlio dicendogli che conta l’amore non il sesso. Alla fine si è ricreduto. La legge sulle unioni civili era lontana».

Enrico Lucci conduce Nemo - nessuno escluso

Enrico Lucci conduce Nemo – nessuno escluso

Cosa pensa di Nemo, nessuno escluso?

«Che è un buon programma e Rai 2 ha fatto bene a confermarlo sebbene non abbia avuto ascolti eccellenti. Anche Le Iene all’inizio non ebbero successo, ma a forza di essere difese…».

Quanto vi manca Enrico Lucci?

«Tantissimo. Gli artisti sono sempre insostituibili».

Avete preso Antonino Monteleone.

«Non solo lui. È un ottimo giornalista, molto strutturato. Gli chiederemo di avvicinarsi al nostro stile da saltafossi».

Quanto conta la squadra?

«Se i singoli giocano bene tutta la squadra gioca meglio. Il ritorno della Gialappa è fondamentale».

Attaccate preti pedofili e maghi fasulli: pochino i poteri forti?

«Non mi sembra. Tutti i giornalisti sanno che con l’editore si deve fare i conti. Grazie a Mediaset Le Iene sono un programma molto libero. Credo che da nessun’altra parte si potrebbe fare un programma così. In una tv commerciale gli investitori pubblicitari sono determinanti. A volte questa azienda fa una tv volgare, ma sul nostro sito si possono trovare i pezzi nei quali abbiamo criticato gli inserzionisti più importanti».

Ha ragione Antonio Ricci quando dice che uscire dalla piattaforma Sky è stata una scelta alla Tafazzi?

«Sicuramente è stata una decisione che ad alcuni programmi è costata più che ad altri. Le strategie di Mediaset si fanno su tavoli diversi dal mio, ma credo che Le Iene abbiano pagato questa scelta».

E quando sottolinea la scarsa presenza social dei contenuti Mediaset?

«Su questo dissento. Con 5 milioni di amici su Facebook Le Iene sono il programma italiano più social. E detengono il record mondiale di condivisioni: 660.000. È il video su un papà che accompagnava a scuola la figlia affetta da una strana malattia e restava tutta la mattina davanti alla scuola per poter intervenire in caso di emergenza».

Lei è il papà delle Iene e Ricci di Striscia la notizia. Siete padri di figli unici?

«Dall’esperienza di Striscia sono nate Le Iene, dalle quali sono derivati altri programmi».

Nessuno forte come i fratelli maggiori.

«Diamogli tempo».

A che punto è il documentario sull’immigrazione che aveva proposto a Vice?

«Lo stiamo ancora girando. In compenso, è quasi pronto quello realizzato con Claudio Canepari sulla campagna elettorale di Ismaele Lavardera, candidato sindaco a Palermo. Si dice che la politica ha bisogno di trasparenza: Lavardera ha filmato in chiaro e con candid camera i comizi e gli incontri con gli altri politici. Lo vedremo presto su Italia 1».

E la collaborazione con Vice?

«Rientra in un progetto che prevede la rielaborazione con lo stile delle Iene di materiali di grandi reporter internazionali su temi come inquinamento, effetto serra, droghe, grande criminalità e terrorismo. Anche questo presto su Italia 1».

Un segreto per ripartire quando è depresso o scarico?

«Non sono mai depresso».

Chi è Davide Parenti?

«Urca! Vediamo… Sono un formidabile rompicoglioni che sta alle regole ma non obbedisce. Sono imbattibile nel mio lavoro, salvo arrivare spesso secondo».

La Verità, 29 settembre 2017

 

 

E se Povia fosse una specie di Grillo pro life?

L’ultima volta che si è sentito parlare di Giuseppe Povia è stato al Festival di Sanremo. Come a tutti gli ospiti, Carlo Conti aveva chiesto a Francesco Totti qual era la sua canzone preferita e lui ha pronunciato il nome proibito: «Povia». Non il titolo di un brano, ma il nome di un cantante. Anzi, di un cantautore. Nome all’indice all’Ariston. Di Povia il grande pubblico ricorda le controverse partecipazioni proprio al Festival della canzone italiana. Uno anche vinto nel 2006, conduttore Giorgio Panariello. Nel 2008, Pippo Baudo lo escluse dalla competizione, in coppia con Francesco Baccini avevano proposto Uniti. Nel 2009, invece, conduttore Paolo Bonolis, Luca era gay si classificò al secondo posto. Nel 2010 arrivò alla serata finale con la canzone La verità, ispirata al caso di Eluana Englaro. Fin qui il suo rapporto con Sanremo. In realtà, di Povia ce n’è un altro, con una vita artistica lontana dal Festival, fatta di concerti in circuiti alternativi e di album autoprodotti. Una vita artistica che sconfina nell’attivismo pro life e non solo. L’ultimo suo video su Facebook (oltre 320.000 visualizzazioni) è una contestazione punto per punto di un lungo servizio di Nadia Toffa delle Iene favorevole alla maternità surrogata. Si potrebbe chiamarla controinformazione, usando una parola di moda a sinistra. Ma se Le Iene stesse si presentano come un programma di controinformazione, allora il corto circuito c’è tutto. Perché, in realtà, oggi sono mainstream l’utero in affitto a pagamento e il «genitore 1» e «genitore 2». Mentre è considerato retrogrado chi sostiene che il padre è un uomo e la madre una donna. Con qualche eccesso complottista, bisogna riconoscere che nei video, nel blog e nel cd Povia ha il coraggio di mettere a nudo questo meccanismo. Il problema è che, di Povia, ce n’è un altro ancora. Forse già prigioniero del personaggio o del ruolo di piccolo guru, conclude i suoi interventi con l’invito a ordinare il disco o ad allestire concerti e raduni in cui farlo esibire. Per farsi intervistare di persona pone una serie di condizioni, è reticente di fronte alle domande sul suo passato e la sua formazione personale. E, infine, non disdegna d’insegnare come si fanno le interviste.

Peccato.

Francesco Totti all'ultimo Festival di Sanremo

Francesco Totti all’ultimo Festival di Sanremo

Ripartiamo dall’ultimo Festival di Sanremo. Perché Totti che pronuncia il suo nome all’Ariston dà la sensazione di violare un tabù?

«Ci sono due tipi di pubblico: quello della tv e quello del web. Il primo prende quello che gli dai, ma si accorge se c’è un fuori copione. Il gelo che hanno mostrato Karl e Mary per sempre quando Totti ha fatto il mio nome indica come io sia un cantautore al momento non con…forme. Nel web il pubblico è più attento e selettivo perché si può esprimere, fino a quando sarà permesso. Infatti ho centinaia di migliaia e a volte milioni di visualizzazioni per la musica e per i temi che tratto».

Ha un rapporto travagliato con il Festival, nel 2006 l’ha vinto con Vorrei avere il becco, l’anno prima la sua I bambini fanno ooh era stata esclusa perché l’aveva cantata a una manifestazione.

«Vorrei avere il becco è dedicata a tutti i nonnini che come i piccioncini si sono accontentati delle briciole e hanno ricostruito l’Italia distrutta dalla guerra, poi costituita nel ’48. I bambini fanno oh è stata una vittoria comunque».

Nel 2007 ha partecipato al primo Family Day: molto controcorrente nel mondo della musica e dello spettacolo in genere…

«Già lì avevo capito che l’ovvietà sarebbe stata controcorrente. Infatti oggi se dici che un bambino deve crescere con una figura maschile e una femminile sei un rivoluzionario».

Come nasce Giuseppe Povia, cantante? Com’è stata la sua formazione?

«Sono sempre stato un autodidatta che adatta le canzoni in base al tema che tratta».

Torniamo a Sanremo. Nel 2009 presentò il brano Luca era gay: polverone prevedibile?

«Se canti temi sociali si accende un dibattito. Ma la cosa imprevedibile è stato il coraggio di un grande conduttore: Paolo Bonolis».

Possiamo chiarire otto anni dopo chi era il Luca della canzone? Lei ha più volte detto che non era Luca Di Tolve, ex ballerino e organizzatore di crociere per omosessuali poi convertitosi all’eterosessualità e organizzatore di corsi per la presunta guarigione.

«Luca nella vita reale si chiama Massimiliano. Conosciuto nel 2004, ateo convinto».

In quella canzone cantava «nessuna malattia, nessuna guarigione». Come va considerata l’omosessualità?

«Noi siamo quello che pensiamo e conduciamo uno stile di vita, gay o etero, in base alla relazione sociale che abbiamo avuto nella vita stessa. È un punto di vista personale, ma anche la scienza è divisa su questo argomento e quando è così tutti hanno torto e tutti hanno ragione.

Le malattie sono il cancro, la leucemia…».

Quali sono le cause dell’espansione delle teorie gender?

«In breve, molto in breve, le cause sono il business e soprattutto Usa e Gb che ci inondano di tendenze. Per approfondire venite a vedere un mio concerto o, meglio ancora, un concerto/convegno con l’avvocato Gianfranco Amato. Le date sono sulla mia pagina Facebook».

La nuova frontiera sono le cosiddette nuove genitorialità attraverso la gestazione per altri… L’utero è di chi lo affitta?

«Sì, ma come dico nel brano Dobbiamo salvare l’innocenza “la vita non si vende e non inganna” e a rimetterci sono sempre i bambini».

Perché le minoranze sessuali sono sempre più potenti? Adesso c’è anche l’oscar della comunicazione per chi si mostra più bravo a comunicare lo stato delle persone Lgbt…

«Le minoranze hanno sempre comandato il mondo in ogni campo».

Che cos’è l’omofobia?

«Omofobia è un termine inventato nel 1971 da George Weinberg, psicologo magari bravo ma ideologizzato. Non vuol dire niente se non paura dell’identico, che vuol dire ancora meno. Non c’entra niente con l’omosessualità. Ma con la scusa dell’odio e dell’ignoranza si vuole creare una nuova legge. Se dovesse passare, dire che un bambino deve crescere con una mamma e un papà potrebbe mandarti in prigione. Dipenderà dal giudice. Ricorda il nazismo o i regimi totalitari sovietici, come sostiene Gianfranco Amato».

Che margini ci sono per difendere la famiglia tradizionale senza esserne accusati?

«Per ora tutti, la si può difendere a spada tratta. Ma se siamo arrivati al punto di domandarcelo, c’è da preoccuparsi. Negli anni 50/60, se non sbaglio, il partito comunista fece un manifesto con raffigurati donna, uomo e figli in difesa della famiglia. Oggi l’evoluzione di quel partito la sta distruggendo con la scusa del progresso».

L’ultimo suo cd, il decimo, s’intitola il Nuovo Contrordine Mondiale. C’è relazione tra gli argomenti e il fatto che sia un album autoprodotto?

«Sostanzialmente mi sono sempre autoprodotto, ma sbagliavo a regalare i diritti e le edizioni in cambio di una promozione adeguata che poi non avveniva».

Ora lei tiene concerti/convegni e ha un blog piuttosto militante. Sta diventando il Beppe Grillo di centrodestra? Ha mai pensato di fondare un movimento o ne supporta qualcuno già esistente?

«Sono un artista libero e canto ovunque mi facciano esprimere. Non ho lo la tessera di nessun partito, dico ciò che penso e di conseguenza mi danno una collocazione. Io mi metto a ridere perché nessuno sa mai cosa potrei dire di lui, da sinistra a destra».

Parla meno di famiglia e bambini e più di potere e pensiero unico…

«Ho fatto un disco a 360° che parla di finanza, economia, diritti e sociale. Non si trova nei negozi e si  può ordinare solo a ufficiostampa@povia.net».

In Chi comanda il mondo parla di «una dittatura di illusionisti finti economisti equilibristi terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti» e nel video lei ha il simbolo dell’euro dipinto sulla faccia: un po’ forte no?

«E non si è accorto che nel video ci sono anche Mario Draghi, Angela Merkel, la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale e il panfilo Britannia dove nel ’92 si è decisa la svendita dell’Italia? Questi sono quelli che ci comandano, bene o male decidetelo voi. L’euro non è una moneta, è una dittatura. Ormai l’hanno percepito tutti».

Mi sono accorto, sì. Il suo è complottismo un po’ inquietante.

«Il complottismo è quando non ci sono documentazioni. Io documento tutto ciò che dico e per questo ringrazio anche Paolo Barnard, l’unico giornalista di inchiesta serio in Italia».

Un po’ se le va a cercare… non le va bene nemmeno Garibaldi.

«Pensi che c’è gente che crede ancora che uno con mille soldatelli abbia conquistato un regno di 9 milioni di persone. Povero Sud: aveva tre volte la ricchezza di tutti gli Stati del nord messi insieme. E non lo dico io, ma importanti storici revisionisti. Prima dell’unità di Italia al sud non esisteva emigrazione né disoccupazione».

C’è qualcuno o qualcosa in giro che le suscita un sorriso se proprio non vogliamo azzardare un moto di speranza?

«L’innocenza dei bambini».

La Verità, 2 aprile 2017

 

 

 

 

Mughini: «Aiuto! Il ‘900 è morto e io non mi sento bene»

Ride spesso Giampiero Mughini, ascoltando le domande che gli porgo. Ride sonoramente come gli abbiamo visto fare tante volte in televisione. Di più in passato, in verità: ché, nel presente, di motivi per ridere ce ne sono pochi. Eppure l’intervista gli piace, tra amarezza e disincanto, tra complicità e quel godere dello spirito libero di cui è incarnazione. Il suo La stanza dei libri edito da Bompiani è, però, una sorta di grido nostalgico del Novecento in lotta con il presunto Eldorado digitale e l’euforia dei Millennials. «Lo so di essere fuori dal mio tempo. Ne sono felice», recita. «Non sono iscritto a Facebook e non so neppure bene che cosa sia». E ancora: «Casa mia è stata pensata in buona parte come un museo della memoria dei sessanta-settanta».

La copertina dell'ultimo libro di Giampiero Mughini

La copertina del libro di Mughini

Il tuo libro rappresenta la resistenza della cultura cartacea contro quella digitale. Una resistenza fiera, malinconica o rassegnata?

«Ah ah ah ah… Fiera, senza alcun dubbio. Malinconica, anche. Rassegnata non è termine giusto, perché penso che la buona cultura moderna deve nutrirsi di tanta carta, che non morirà mai. Ma deve anche approfittare di quelle che io chiamo le autostrade sconfinate di internet».

Leggendoti, sembra di vedere un generale blindato nella «stanza dei libri», con l’esercito in ritirata.

(Ride ancora). «I miei anni crescono, i miei capelli sono bianchi, il mio tempo migliore è passato e il Novecento, prima stremato, ora è definitivamente morto. Tutto ciò che accade oggi appartiene a un pianeta inedito. L’avvento di Donald Trump, l’esito del referendum dell’altro giorno: tutto questo ha niente a che vedere con sinistra e destra o con la Costituzione più bella del mondo, ma con il ceto medio che impoverisce. Il mio esercito ideale e i duelli ai quali ero abituato – su tutti, quello con i delinquenti della mia generazione avvezzi a sparare alle spalle di avvocati, giornalisti e politici – sono scomparsi. Oggi gli unici duelli derivano dagli energumeni che, sotto mentite spoglie, replicano insultando a un qualsiasi tweet che non li soddisfa. Che tristezza!».

C’è un punto in cui ammetti che se uno parla di sé attraverso i libri è perché «di cose e di persone reali nella sua vita ne ha avute poche». Bilancio malinconico?

«Non lo so, è il mio. Del resto, non ho una famiglia in senso tecnico. Ho una compagna da 25 anni, che non è poco. E una cagna adorata, che non è poco. Non ho rapporti professionali né salottieri e non sono iscritto a un partito. Né ho avuto mai un giornale che sentissi come una casa, sono stato ospite e mi sono congedato o mi hanno congedato rapidamente. Perciò, di cose reali ne ho poche. La vita reale erano gli umori e le febbri del mio tempo».

Nella Meglio gioventù di Marco Tullio Giordana Maya Sansa dice al personaggio di Alessio Boni, poliziotto e gran lettore solitario, che i libri possono essere una forma di egoismo perché si possono chiudere quando si vuole, mentre con le persone è più difficile…

«Ma i libri sono più fedeli delle persone, più affidabili di quanto lo siano stati certi amici. Sono più fedeli anche di certe donne, pur importanti nella nostra vita. Le quali, nella nostra gioventù, passavano da un sì a un no in un arco di tempo tra i sei mesi e le poche ore».

Ovviamente non ti chiederò della direzione di Lotta continua che assumesti, in quanto iscritto all’albo, per cortesia verso Adriano Sofri…

«No, per cortesia verso la mia generazione di cui quel giornale era una voce autentica, anche quando scrissero: “Caro Luigi Calabresi i tuoi giorni sono contati”. E poi al processo, invece di assumersi le loro responsabilità, dissero: “No, per carità…”; dimostrandosi gente senza onore. Il mio libro sull’assassinio Calabresi, Gli anni della peggio gioventù, che ritengo bellissimo, ebbe un altrettanto bellissimo articolo di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera e niente più, come fosse un libro proibito. Non ebbe alcun’altra recensione, né un invito a un circolo culturale o una lettera di un militante di Lotta continua pentito, perché continuano a pensare come Dario Fo, che Leonardo Marino parlò solo per imbeccata dei carabinieri».

Il giornale «Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l'assassinio di Luigi Calabresi

«Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l’assassinio di Luigi Calabresi

Dicevo, non ti chiederò della direzione di Lotta continua ma di quale esperienza culturale sei più orgoglioso: la fondazione di Giovane critica, il lavoro all’Europeo, la tua libreria?

«La direzione di Giovane critica, senza dubbio. Avevo 21 anni e stavo a Catania, che non era esattamente Parigi né Londra. Dunque, la nascita di quella rivista, diretta da un ragazzo che negli anni sessanta era di sinistra. E poi la sua chiusura, dopo la stagione del revisionismo e l’avere raschiato via quella pelle dogmatica».

La fatuità delle amicizie online e dei followers, la vanità e l’esibizionismo fratelli dell’ignoranza e dell’arroganza: c’è una terapia?

«Ognuno la deve trovare da se stesso, anche se non è facile. I ragazzi sostituiscono la solitudine con i click e i like, attraverso i quali, in realtà, si possono incontrare delle persone. Anche a me è capitato con una ragazza, Viviana, che mi aveva inviato delle sue foto su Instagram che esprimevano questo spaesamento. Mi è spiaciuto che, dopo averlo proposto, abbia rinunciato a realizzare un libro fotografico per il quale avrei scritto volentieri. Com’è sempre delle foto, gli autoritratti di Viviana avevano una profondità narrativa che a volte manca alle parole».

Come quella di Tano D’Amico che ritrae Antonio Lo Muscio e tieni in sala da pranzo?

«Esattamente. Lo Muscio disteso a terra con le braccia aperte come crocifisso sembra una vittima. E invece è un lercio assassino».

Sei un provocatore?

«Certo, ci sguazzo. Se una cosa non è provocatoria non ha alcun senso. Non dirò mai che i poveri stanno male. E come vuoi che stiano? O che le donne non si toccano se non con un petalo di rosa. Banalità».

I giornali sono in crisi per troppi costi o poche idee?

«È evidente che il Corriere della Sera ha una struttura pensata per quando vendeva 650.000 copie. Ora ha venduto la sede, ma continua ad avere redazioni e amministrazione non in armonia con le 190.000 copie attuali. Il Fatto quotidiano, che funziona bene e vende 35.000 copie, ha una redazione di 20 persone. I giornaloni fatti per quando erano il vangelo dell’uomo laico sono fuori dal tempo. È una considerazione triste per chi vuol fare il giornalista, ma se avessi un figlio con queste intenzioni lo farei arrestare. Nella mia ultima dichiarazione dei redditi i proventi derivanti da collaborazione con un giornale ammontavano a 500 euro. Scrivo gratis per Dagospia. Se volessi essere pagato, cosa improponibile, dovrei chiedere 70 – 80 euro ad articolo, metà dei quali li prenderebbe lo Stato. Quello che c’è da noi è il comunismo reale, altro che la Cuba di Fidel Castro dove c’è solo miseria invece della sbandierata uguaglianza sociale».

Anche qui però le cose non vanno benissimo.

«La notizia che in Italia ci sono 17 milioni di persone dentro il confine o sul confine della povertà è scioccante. Significa che una parte notevole del ceto medio è precipitata di due o tre gradini».

È qui l’origine di certe sorprese nelle urne?

«Certamente sì. La gente va a votare non per i motivi che crede Sandra Bonsanti, per salvare la Costituzione più bella del mondo. Ma perché non ha i soldi per mantenere i figli che studiano e arrivare a fine mese».

Mancano idee ai giornali?

«Io ne compro cinque e vorrei comprarne otto. Se leggessi tutto quello che vorrei ci passerei quattro ore al dì e non l’ora e un quarto abituale. D’Agostino è un genio perché ripubblica il meglio e i giornalisti sono felici di essere ripresi. Certo, uccide il diritto d’autore, un diritto scomparso nella civiltà del furto».

Ogni due o tre giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni 2 o 3 giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni due o tre giorni su Dagospia leggiamo «La versione di Mughini».

«Sì, una specie di diario. Quando mi accende qualcosa la scrivo rapidamente e breve per non abusare del tempo dei lettori, e dopo un’ora è online».

Perché c’è quella foto in posa militaresca?

(Risata). «La trovo bellissima. Me la fece il fotografo Pino Settanni che stava allestendo un calendario per l’esercito».

Giampiero Mughini in posa militaresca per il fotografo Pino Settanni

Giampiero Mughini «militaresco» per il fotografo Pino Settanni

La rottura della collaborazione con Panorama avvenne per incomprensione o per differenza generazionale?

«Non bisogna farla lunga: è come in una coppia, quando finisce la tensione da una parte e dall’altra. Io sono antipatico, è andata così».

Però è strano che Giampiero Mughini non firmi su qualche testata importante.

«Anch’io lo trovo strano. Ho lavorato con Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Guglielmo Zucconi, Vittorio Feltri, Claudio Rinaldi, Vittorio Nisticò. Oggi con nessuno».

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ho letto che ammiri il titolo dell’ultimo libro di Galli Della Loggia: Credere, tradire, vivere.

«Bellissimo. Io ed Ernesto abbiamo gli stessi anni. Abbiamo creduto nelle stesse cose, abbiamo vissuto conoscendo la complessità e il dolore. E abbiamo tradito, restando fedelissimi all’ispirazione di partenza che era avvicinarsi alla verità della complessità».

E per la felicità che posto c’è?

«Non esiste. Esistono quantità sopportabili di dolore».

Che cos’ha da rimproverarsi la tua generazione?

«Eravamo contemporanei, però ognuno risponda di se stesso. Dissento dal grandissimo Giorgio Gaber che cantava “La mia generazione ha perso”: lui di sicuro no. Il suo unico torto è quello di essere morto, ma su questo nessuno può nulla».

Stai correggendo le bozze di un altro libro: indizi?

«Segreto industriale».

Il referendum ti ha appassionato?

«Zero. Certe liti in taverna sono più pittoresche».

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

C’è qualcuno, un autore, uno scrittore, che segui con più interesse e curiosità?

«Clint Eastwood. È difficile che veda un suo film senza che abbia l’impulso di piangere. È successo anche con l’ultimo, Sully, in cui c’è tutta la sua filosofia: ognuno risponda di se stesso e del proprio coraggio».

 

La Verità, 11 dicembre 2016 

 

 

I social network, padri putativi del futuro

Il  dominio delle nuove tecnologie, di Internet e dei social network, è contro la famiglia. C’è un disegno preciso. Una logica economica scientificamente costruita e perseguita. Lo afferma Massimo Gandolfini, medico chirurgo specialista in neurochirurgia e psichiatria, consultore vaticano per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II nonché leader del Family Day. Nel libro-intervista realizzato con Stefano Lorenzetto (L’Italia del Family Day, 234 pagine, 15,5 euro, appena uscito da Marsilio editore) afferma che non è assolutamente un caso se “le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay e gender”. Non è una questione di omofobia o di tabù per certi orientamenti sessuali. No. Per Gandolfini è vero il contrario: la famiglia è un ostacolo al potere sugli individui dei grandi marchi della new economy. Perché i potenti dell’economia digitale preferiscono parlare di individui piuttosto che di persone. “Si dà il caso – dice Gandolfini a Lorenzetto – che nel febbraio 2013 le 200 più importanti aziende americane, tutte insieme, abbiano chiesto e ottenuto da Obama e dalla Corte suprema l’abrogazione del marriage act, la legge federale che definisce il matrimonio esclusivamente come unione tra uomo e donna. Tra questi colossi c’erano Google, Apple, Microsoft, Facebook, Amazon, Ebay… Multinazionali in grado di orientare l’opinione pubblica e determinare le sorti dei governi”. Una visione maliziosa o apocalittica? Un’interpretazione antimoderna e oscurantista del progresso? Certamente, una bella sassata contro il vetro levigato e luccicante della Rete nuovo paradiso terrestre. Chissà se Carlo Freccero, che tra qualche giorno al Festival della Comunicazione di Camogli dedicato al tema Pro e contro il web terrà una lezione su “Media apocalittici e integrati”, prenderà in considerazione questa analisi di Gandolfini.

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Massimo Gandolfini, leader del Family day

Da qualche tempo la critica contro la Rete ha iniziato ad allargarsi a macchia d’olio. Ho scritto critica, ma in qualche caso si potrebbe cominciare a parlare di rifiuto, di ribellione. Se ne evidenziano sempre più i lati oscuri, le ambiguità.  Internet, e tutto ciò che ne consegue, social network e connessione h24, non è più l’eden della comunicazione. L’eldorado della democrazia. Ci si accorge che il web inevitabilmente riproduce e amplifica i limiti e le ossessioni di chi la usa. E si cominciano a mettere dei paletti per frenare l’ondata invasiva della new technology. È di oggi la notizia proveniente dalla Francia che annuncia i primi accordi tra aziende e sindacati per tutelare “il diritto alla disconnessione“. Niente mail, niente messaggini di emergenza, niente più reperibilità costante fuori dall’orario di lavoro per i dipendenti di aziende con più di 50 persone, come consente la Loi Travail. Si è scoperto che la connessione abbassa la qualità del lavoro, aumenta lo stress, toglie quella lucidità che proviene dal distacco, dal recupero di una distanza psicologica di sicurezza. Troppe sollecitazioni fanno sì che, come ha sintetizzato il sindacalista Jérome Chemin, “non agiamo più, siamo costretti a reagire di continuo”.

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Carlo Freccero. A Camogli parlerà di Media apocalittici e integrati

Nel nostro circo mediatico, dopo l’invenzione del neologismo webete, Enrico Mentana è diventato il guru dell’anti-Rete. Un ruolo consolidato dai successivi post su Facebook, sempre conditi di fulminanti giochi linguistici come l’ultimo riguardante “i Bufala Bill del Far Web“, i quali, senza darsi troppa pena a documentarsi, discettano contro il giornalismo fazioso che non darebbe certe notizie per amplificarne altre. Storia vecchia come la stilografica. Che, tuttavia, “i Bufala Bill” suffragano con il 77esimo posto assegnato da Reporters sans frontières all’Italia nella classifica della libertà di stampa. In realtà, scrive Mentana, quella posizione così bassa non ci è affibbiata “per la scarsa qualità o indipendenza dei nostri giornalisti, ma per l’esatto contrario”, ovvero a causa delle loro coraggiose inchieste che li espongono alle minacce della criminalità o a imputazioni giudiziarie. Come si vede la critica al web di Mentana non nasce da un neoluddismo del Terzo millennio, tant’è vero che la confeziona su Facebook. Ma riguarda l’uso che alcuni – molti, troppi – fanno dei social (Twitter in particolare). In sostanza, non c’è una sorta di stupidità da like, quanto una stupidità di persone che fanno uso di strumenti digitali. C’è una presunzione diffusa nella società contemporanea, una megalomania mediatica per la quale chiunque, avendo a disposizione una tastiera o uno smartphone, si sente in diritto di mettersi sul pulpito a pontificare e impartire lezioni all’universo mondo. Nessuno darebbe mai un mitra a uno psicolabile che si aggira in una piazza affollata. Salvo il fatto che il web non uccide (ma bisognerebbe riflettere anche su certi fenomeni di cyber-bullismo) la questione è la stessa. Ecco perché si comincia a riflettere sul fatto che la Rete è uno strumento incontrollato, nel quale ognuno senza autorevolezza alcuna può dar libero sfogo alla parte peggiore di sé.

 

 

Qualche giorno fa anche Alessandro Sallusti in un editoriale intitolato “Tenete i cretini fuori da Internet” ha proposto una sorta di moratoria digitale. “Non so se da qualche parte esista un interruttore di Internet. Se esistesse il mio sogno sarebbe di spegnerlo e vedere l’effetto che fa – ha scritto il direttore del Giornale -. Che diavolo ce ne facciamo di tutta questa presunta democrazia, di questa libertà senza regole e confini? A mio modesto avviso nulla, se non illudersi di esistere postando nel mondo stupide fotografie”.

Inventando "webete", Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Inventando “webete”, Enrico Mentana è diventato il guru anti-Rete

Chissà che cosa ne pensano le multinazionali citate da Gandolfini nell’intervista con Lorenzetto. A differenza di quella di Mentana e di Sallusti, o anche della scelta introdotta dalla legge francese, quella del leader del Family Day non è una critica all’uso soggettivo dell’economia digitale, quanto alla cultura che la alimenta e la sta trasformando in un nuovo potere dominante. Al quale, per dispiegarsi senza freni, serve una società debole. “Perché le grandi lobby economiche sostengono tutte, indistintamente, l’ideologia gay o gender? – si chiede Gandolfini -. Perché una società debole, formata da figli con orientamenti sessuali incerti e mutevoli, è altissimamente condizionabile da qualsiasi input proveniente dall’esterno. Non esiste più il contraltare rappresentato dai valori della famiglia tradizionale. Anzi, a dirla tutta, – scherza ma non tanto Gandolfini – non esiste più nemmeno l’altare”. In questo modo le persone vivono “in uno stato di anomia. La relazione diventa esclusivamente individuale. Avremo un mondo di figli che non hanno più genitori, nel senso che ne avranno cinque o sei, e che cercheranno le ragioni della loro esistenza nella cultura corrente, nel consumismo, nei prodotti, basti vedere che cosa già rappresentano per loro oggetti come l’Iphone o l’Ipad… E con chi puoi instaurare una relazione forte, significativa, realmente accudente, se non esiste più la famiglia? Con Facebook, con Twitter, con Google+, con Instagram…”. Sono questi, i social network, i nostri nuovi genitori putativi.

Jeeg Robot, se Pasolini incontra un supereroe

Un supereroe nella periferia pasoliniana. È, in sintesi, la storia che sta prendendo in contropiede il cinema italiano. Non un film d’autore, né una trama pop. O forse entrambi, senza l’intellettualismo del primo e la prevedibilità della seconda. I suepereroi e Pasolini: due mondi più distanti tra loro non ci sono. Eppure Lo chiamavano Jeeg Robot è il film di culto del momento, opera prima del trentenne Gabriele Mainetti, romano con studi e frequenti soggiorni americani che hanno certamente ispirato il mix, esperienze da attore di fiction e autore di corti (Basette con Valerio Mastandrea, e Tiger Boy, selezionato dall’Academy nei dieci ma non nei cinque migliori per l’Oscar 2013), qui anche nelle vesti di produttore e autore della colonna sonora.

Jeeg Robot è il film che inaugura il cinecomics italiano, una scommessa ardita. “Ma noi non abbiamo paura di niente”, scherza da supereroe Mainetti. “Sì, c’ho messo un sacco di tempo…”. L’idea del 2009, è arrivata in porto all’ultima Festa del cinema di Roma. Fortissimamente voluta… “Io e Guaglianone avevamo in mente questa cosa di raccontare un supereroe in Italia. Ma anche se non quagliavamo, ci credevamo. Poi nel 2010 Nicola ha vuto la pensata e l’idea è diventata una sceneggiatura”.

Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) è un ladruncolo coatto e solitario che vive in uno scalcinato appartamento di Tor Bella Monaca, divorando budini alla vaniglia e dvd porno. Quando, in fuga dalla polizia, nel Tevere scivola dentro un bidone radioattivo, tutto cambia. Eroe suo malgrado, si trova a difendere la ragazza della porta accanto con la fissa di Jeeg Robot (Ilenia Pastorelli) dalle violenze dello Zingaro (Luca Marinelli), isterico capo-gang con gli occhi bistrati, l’ossessione di Anna Oxa e della fama di criminale più temuto di Roma.

Una storia che non ha trovato un produttore che ci credesse. “L’abbiamo cercato a lungo, fin quando RaiCinema ci ha dato cinquantamila euro per la start up”. E il resto? “Li hanno messi delle società private, il Banco Popolare di Bari, 300mila euro il Ministero per i Beni culturali, la Regione Lazio. Poi sì, io ho messo insieme tutti i pezzi e ho chiesto delle fideiussioni con la mia società (la Goon Films). Perciò son qui che prego tutti i giorni perché la gente vada al cinema. Certo, l’altra sera ha giocato la Roma…”. Però il film va bene anche nel resto d’Italia. “Sì, c’ha messo un po’ di più a attecchire…”. Le stamberghe del canile, i vicoli del centro, i sotterranei dell’Olimpico: Roma è il quarto personaggio… Sembra la faccia opposta de La Grande Bellezza. “No, Jeeg Robot non è anti qualcosa. Lo sguardo di Sorrentino è unico, basta un’inquadratura per cogliere l’anima della decadenza. Quando è uscito La Grande Bellezza noi avevamo già scritto la sceneggiatura. Roma ha talmente tante facce, noi ne raccontiamo una. La periferia pasoliniana che resiste a fatica, con la purezza d’animo dei suoi personaggi. Non con lo sguardo pietistico e superiore della borghesia, tipo guarda questi come sono conciati. Jeeg Robot è una sorta di Pasolini Sci Fi…”. Contaminazione tra due mondi lontani. “Per questo era un gran rischio. Ma ci ha aiutato la nostra storia. Abbiamo conosciuto ragazzi così, certi spacciatori senza famiglia sono diventati la nostra back story. E poi Tor Bella Monaca, la piazza di spaccio di coca più tosta di Roma. Qui c’è questo delinquente che sopravvive più che vivere e ha paura di buttarsi nella vita perché teme che, dopo le delusioni e le perdite, gli tolga tutto di nuovo. Jeeg Robot è l’educazione sentimentale di un misantropo. Anzi,  la ri-educazione. Che avviene tramite la purezza di Alessia. Lui è uno che anestetizza quotidianamente il dolore con i budini e i film porno, budini e film porno… Ma è un buono che cerca l’amore, l’amicizia. E lei, che pure soffre, gli apre il cuore…”.

La forza del film è anche il profilo dei protagonisti ben definito. “Sì, tante cose li rendono credibili. C’è l’idea di portare il supereroe in Italia, contaminandola con il neorealismo e il cinema anni ’60. Poi c’è la nostra cultura con le sue icone pop. Lo Zingaro potevo farlo come un toro incazzato con le narici sparate. Invece ha la nevrosi di mettersi in vetrina. È la vetrinizzazione del sociale, la dittatura dei like, di cui siamo tutti prigionieri. Ed è l’antitesi di Enzo che si rifugia nell’ombra e nell’oscurità, non vuole essere visto, non vuole compromettersi per paura di soffrire ancora, diventa una star contro il proprio volere, costretto dai murales sulle sue imprese in stile Bansky. Invece quell’altro ha ancora il narcisismo di quando voleva sfondare in tv e trasferisce questa voglia di fama e visibilità nella vita criminale. Una contraddizione irriducibile… Ricordo che mentre stavamo scrivendo la sceneggiatura il mio direttore della fotografia mi mostrò alcuni criminali messicani che postavano su Facebook le foto con i corpi delle loro vittime”.

Lo chiamavano Jeeg Robot è anche un piccolo fenomeno multitasking. Nei giorni scorsi è andato esaurito nelle edicole anche l’omonimo fumetto uscito in contemporanea al film e firmato da Roberto Recchioni, Giorgio Pontrelli, Stefano Simeone e ZeroCalcare, un ipertesto che non spoilerizzava nulla. E, a proposito di ipertesti, si comincia a paventare l’idea di un Continuavano a chiamarlo… Ma questo, Mainetti, giustamente non vuole dirlo.