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Amadeus trascinerà il Nove o il Nove livellerà lui?

C’è parecchia euforia negli studi di Via Belli a Milano, da dove va in onda Chissà chi è per l’esordio sul Nove di Amadeus transfuga dalla Rai, una mamma non abbastanza affettuosa (parole sue) per trattenerlo a parità di super offerta. Qui, invece, nel clima galvanizzante della nuova rete, il pubblico scatta in piedi per applaudire il conduttore e le concorrenti del gioco. E appena spunta la prima «identità», un dj men che adolescente, per metterlo alla prova «facciamo entrare la consolle, perché qui al Nove abbiamo tutto». Euforia e ottimismo. Purtroppo, le cose non sono andate come il conduttore e la dirigenza di Warner Bros. Discovery speravano. Il 5,2% di share e 926.000 telespettatori (8,8% e 1,6 milioni in simulcast, la visione contemporanea su tutte le reti Discovery) sono un risultato poco confortante. Certo, si dirà, bisogna dare tempo al format e allo stesso Amadeus di creare la cosiddetta fidelizzazione in una rete non abituata a un conduttore molto generalista. Tuttavia, nonostante la preferenza della piattaforma per i target commerciali, i dubbi rimangono. Suffragati anche dal risultato modesto di Suzuki music party, presentato come evento d’inizio stagione con un cast «larghissimo» (da Emis Killa a Ornella Vanoni, da Lazza  a Fiorella Mannoia) promosso anche dall’incursione di Ilenia Pastorelli («sbrigamose che dopo ariva er bello»), co-conduttrice della seratona registrata il 17 settembre all’Allianz cloud di Milano che, forse penalizzato dalla contemporaneità del derby milanese, ha raccolto appena il 4,6% di share e 628.000 spettatori (7,1% e 968.000 in simulcast).

Chissà chi è è il programma gemello dei Soliti ignoti, sempre prodotto da Endemol Shine Italy (gruppo Banijay) e riproposto con piccole variazioni rispetto all’originale, come il maggiore coinvolgimento del «parente misterioso», nell’intento di aumentare la suspense del gioco. Proprio su questo terreno, il format paga una minor immediatezza rispetto ad Affari tuoi – che per altro Stefano De Martino sta rinnovando (vedi l’ingresso del sosia di Fazio) – più diretto nel crescendo che porta al climax finale.

In conclusione, vista l’esiguità del test, si può solo abbozzare una timida domanda. Considerato il palinsesto del Nove, in cui le presenze significative sono Maurizio Crozza e Fabio Fazio (entrambi sostenuti dalle loro community), sarà il conduttore reduce dal trionfante quinquennio di Festival di Sanremo a trascinare verso l’alto il resto della rete (magari allestendo una sorta di Controfestival), o al contrario, saranno programmi come Cash or trash a standardizzarlo su un livello di più contenuta rilevanza?

 

La Verità, 25 settembre 2024

«La 194 va abolita, l’aborto non è un diritto naturale»

Pochi se e pochi ma, Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia e San Remo, è abituato a lanciare il sasso in piccionaia per non lasciar scorrere gli eventi senza far sentire una voce della Chiesa. Lo ha lanciato anche in occasione delle ultime edizioni del Festival della canzone italiana che ha sede nella sua diocesi. Nei giorni scorsi, invece – sempre fedele al consiglio evangelico «il vostro parlare sia “sì, sì, no, no”» – si è pronunciato in favore della sentenza della Corte suprema americana che rimette ai parlamenti dei singoli Stati la decisione circa l’applicazione della legge sull’interruzione della gravidanza.

Eccellenza, perché ha così apprezzato la sentenza dei supremi giudici americani?

«Per tre fondamentali motivi. Il primo risale a quand’ero un giovanissimo seminarista liceale e in Italia si scatenò il dibattito che precedette il referendum che portò all’approvazione della legge sull’aborto. Ricordo i vescovi di allora, il giornale Avvenire, i parroci e la chiarezza di papa San Giovanni Paolo II su questo tema. Perciò è un argomento che giudico di tragica attualità e di una certa decisività, in ordine alla morale cattolica e al contributo che la Chiesa deve dare alla civiltà».

E gli altri motivi?

«Ho una grande stima del movimento Pro-life americano che con questa sentenza ha ottenuto una importante vittoria. Infine, credo che l’indifferenza in cui è caduto il dramma dell’aborto richieda invece che lo si riproponga e lo si affronti da tutti i punti di vista, compreso quello giuridico».

Con questa sentenza saranno i cittadini dei singoli Stati americani a decidere: non teme che questo creerà nuove disuguaglianze?

«Sì, ma non è l’aspetto principale della sentenza. Il suo valore sta nell’aver cancellato un’acquisizione giuridica indebita e cioè che l’aborto sia un diritto costituzionale».

Si potrà creare un turismo dell’interruzione della gravidanza sostenibile solo dalle famiglie più agiate?

«È un effetto collaterale che a mio parere non influisce sulla portata della sentenza».

Come le pare che la Chiesa italiana l’abbia accolta?

«Penso e spero con grande soddisfazione. Dal mio punto di vista ho ritenuto di manifestare questa soddisfazione per incoraggiare tutte le persone di buona volontà o che militano nei movimenti che promuovono e sostengono la vita, persone che, sia come credenti che anche da non credenti, hanno un giudizio autentico sulla vicenda».

È stato uno dei pochi esponenti della gerarchia a esprimersi pubblicamente o sbaglio?

«A quanto mi risulta non si sbaglia».

Come se lo spiega?

«Molti temono che l’argomento possa essere divisivo. Personalmente penso che di fronte a un valore non negoziabile, come si diceva un tempo, si possa e si debba preferire la chiarezza delle posizioni al pericolo della sua divisività».

Ha auspicato che quella sentenza «faccia scuola anche in Italia»: in che modo?

«Innanzitutto promuovendo una riflessione sempre più approfondita sull’argomento. Una riflessione impegnata e concentrata non tanto sui diritti individuali quanto sulla sacralità e sulla dignità della vita umana. Perché qui sta l’equivoco: l’aborto non è un diritto, ma si configura come un omicidio perché è la soppressione illecita della vita umana. È su questo che bisogna ragionare».

Auspica un approfondimento della riflessione o la realizzazione di atti concreti?

«A partire dalla riflessione stimo e auspico conveniente arrivare a una cancellazione della legge 194.

Addirittura.

«Certamente. È una legge che annuncia finalità tanto buone quanto velleitarie».

Perché velleitarie?

«Perché al dettato legislativo non corrispondono autentiche politiche di tutela della maternità e di promozione della vita».

È un giudizio molto pesante, davvero ci sono solo buone intenzioni?

«È una legge intrinsecamente negativa perché legittima l’uccisione di un essere umano nel grembo della madre».

Lei vuole scatenare un putiferio con i movimenti femministi.

«Con buona pace delle femministe l’aborto è ciò che abbiamo detto. La prima forma di carità, solidarietà e rispetto verso tutti è dire la verità. È di tutta evidenza che l’aborto è la soppressione di un essere umano».

Torniamo al dibattito di quarant’anni fa?

«Lei si riferisce all’aborto che, se non regolato dalla legge, è confinato alla clandestinità?».

Mi riferisco al fatto che lo si ritiene un progresso acquisito, un traguardo raggiunto per sempre.

«I termini che lei usa non li ritengo adeguati. Per me non è né un traguardo né un esempio di progresso. Anzi, lo considero una vergogna rispetto all’umanità».

Fior di biologi, antropologi e giuristi considerano l’aborto un diritto naturale inalienabile.

«È una posizione che non condivido. Per me diritto naturale inalienabile è quello alla vita del concepito e mi domando come si possa ritenere diritto inalienabile la scelta di un individuo che comporti la soppressione di un altro essere umano».

Tornano a contrapporsi un’ideologia in difesa del diritto all’aborto e un’altra in difesa del diritto alla vita del nascituro?

«Diciamo che non si possono considerare due ideologie simmetriche. La difesa del diritto del nascituro a vivere è un’affermazione del diritto naturale antropologicamente corretta. Se si afferma che in una tale situazione l’uomo può essere soppresso, oltre a legittimare un omicidio, si apre una voragine sterminata di abusi contro la dignità dell’uomo. Viceversa considero vera e propria ideologia, talvolta anche espressa in forme violente, quella degli abortisti che non avendo ragioni scientifiche valide ricorrono a pressioni di tipo ideologico».

C’è chi osserva anche da posizioni cattoliche che la depenalizzazione dell’aborto è stato un diritto fondativo del movimento femminista.

«Purtroppo, storicamente è vero. Ma rimane un dato sbagliato e incompatibile con la fede cattolica».

Lucetta Scaraffia sottolinea che non può essere considerato un diritto naturale perché coinvolge anche un’altra persona, cioè il padre.

«È un’osservazione vera, ma debole e insufficiente in quanto, più che ledere il diritto del padre, lede il diritto fondamentale alla vita del nascituro».

Se lo chiamiamo nascituro vuol dire che non è ancora protagonista di una vita piena?

«No, la vita piena è dal concepimento. Non sono le fasi della vita a determinarne la dignità, ma è la sua dimensione ontologica a farlo. Altrimenti si aprirebbe una gamma infinita di eccezioni».

È proprio la prospettiva verso la quale stiamo andando?

«Purtroppo».

Come per esempio nei casi di suicidio assistito?

«Esattamente».

Come giudica il fatto che quando si torna a parlare di questi argomenti si alza un coro che proclama l’intoccabilità della legge 194?

«Di fatto siamo esposti a una forma di dittatura ideologica».

Le posizioni ideologiche complicano la gestione di un tema delicato. Se lo Stato e i vari corpi intermedi fossero più impegnati nei servizi di accoglienza alla vita molte problematiche si potrebbero risolvere?

«Affermare i principi è necessario e doveroso. Altrettanto importante è che le affermazioni siano accompagnate e sostenute da atti di accoglienza e solidarietà a tutti i livelli dello Stato e dei corpi intermedi. Le iniziative del Movimento per la vita impegnato non solo nelle enunciazioni, ma anche nell’aiuto concreto nelle situazioni di difficoltà di madri e famiglie, sono già un esempio di questa condivisione».

Molti lamentano che in tanti ospedali pubblici troppi medici obiettori di coscienza rendono inapplicabile la 194.

«È uno dei tanti segni che l’aborto non può essere affermato come lecito».

La liceità è affermata da una legge seguita a un referendum.

«Io parlo della liceità morale, che è superiore a quella della legge».

Auspica un maggior protagonismo della gerarchia e dei cattolici su questi temi?

«So che nella Chiesa sono in buona compagnia. Anche di recente papa Francesco ha ribadito il giudizio della Chiesa sull’aborto. Queste riflessioni sono scritte nel catechismo, nella sana teologia e nei pronunciamenti di molti pastori. Poi le modalità dipendono dalla sensibilità e dal discernimento di ciascuno».

Non è una battaglia di retroguardia ridiscutere l’interruzione di gravidanza?

«È una battaglia di fede e di civiltà che dobbiamo combattere pacificamente. Con la buona ragione, con la preghiera, con la testimonianza del vangelo e favorendo una cultura della vita a 360 gradi».

Lei si espone spesso su temi etici e civili come per esempio sul disegno di legge contro l’omotransfobia. Pensa che i cattolici debbano avere una funzione critica della cultura dominante?

«È una questione di responsabilità che personalmente avverto. In proposito cito spesso il profeta Isaia che rimprovera in nome di Dio i pastori del popolo d’Israele chiamandoli “cani muti” quando, di fronte al pericolo e alla menzogna, non lanciano l’allarme».

Dove vede questo pericolo e questa menzogna oggi?

«Nella mentalità dominante che tende a livellare e appiattire tutto in un orizzonte di esasperata libertà individuale».

Perché in occasione del Festival di Sanremo ha a criticato le esibizioni più trasgressive?

«Perché erano irrispettose dei simboli del cristianesimo. L’ho fatto per dare voce a tutte le persone che si sentivano offese da quelle esibizioni, fintamente trasgressive. E per esprimere una parola chiara rivolta soprattutto a persone giovani che possono essere indotte al male da messaggi sbagliati».

I media e il mondo dello spettacolo parlano un’altra lingua: è ottimista riguardo all’efficacia dei suoi pronunciamenti?

«Sono assolutamente ottimista perché i pensieri che cerco di dire a voce alta sono radicati nel cuore di tante persone, molte più di quelle che le statistiche della cultura dominante registrano. Ma soprattutto sono ottimista perché credo nella bellezza e nella forza della verità e nella potenza salvifica di Dio».

 

La Verità, 2 luglio 2022

Perché il successo dei Maneskin sa di déjà vu

Ancora due parole per l’archiviazione del settantunesimo Festival di Sanremo. Un’archiviazione controcorrente perché, purtroppo, il verdetto finale l’ha consegnato a una sensazione di vecchio e già visto. La vittoria dei Maneskin, infatti, non è niente di nuovo. È la vittoria di X Factor, del talent show più di tendenza dell’ultimo decennio. Lo conferma il duetto con il loro coach, Manuel Agnelli, nella serata delle cover. E lo conferma il secondo posto finale conquistato da Francesca Michielin e Fedez. È la vittoria della community del talent di Sky. È la conferma della vampirizzazione della tv generalista da parte delle piattaforme (notata l’invasione dei marchi dello streaming nei break pubblicitari?). Tutto già visto, magari in modo più semplice e meno sofisticato. Ricordate quando nel 2009 vinse Marco Carta? Un quotidiano titolò: Amici vince il Festival di Sanremo. L’anno dopo ci fu il bis con Valerio Scanu. Anche allora pesò l’influenza dei televotanti, determinanti nelle giurie come stavolta: quella demoscopica, quella della sala stampa e, appunto, quella del pubblico che vota via sms. Non a caso, come si è ripetutamente vantato il direttore di Rai 1 Stefano Coletta, nell’audience di questo Festival è cresciuto il pubblico giovane. Mentre è calato quello più stagionato. Niente di nuovo, dunque. La prova del nove è data da Zitti e buoni, un brano esplicitamente rock, un genere musicale straniero all’Ariston nazionalpopolare. E il successo dei Maneskin è proprio questo: la consacrazione nazionalpopolare, la legittimazione mainstream, della generazione dell’asterisco. Né maschi né femmine. La fluidità al potere. A ben guardare roba vecchia, roba omologata anche questa. Sono passati quasi cinquant’anni da quando David Bowie, Alice Cooper e poi Renato Zero scuotevano il perbenismo dominante. Era un’altra èra: internet e i cellulari appartenevano alla fantascienza. Già Marilyn Manson un paio di decenni dopo è stato un fenomeno di riporto, un rimbalzo plastificato. Figuriamoci Achille Lauro, santificato a furor di social network, il posto dove si coagulato il verdetto di questo festival. La differenza è che quella di cinquant’anni fa era vera trasgressione e rivolta dei costumi. Oggi la generazione asterisco è fashion, mainstream, politicamente corretto, conformismo puro. Tutto déjà vu.

Incerto Amadeus se accettare l’invito del direttore generale Rai Fabrizio Salini a triplicare, sul 2022 si staglia la sagoma di Alessandro Cattelan, per anni conduttore di X Factor e neo acquisto di Viale Mazzini. Il cerchio si chiude.

Blindato e autoreferenziale il Festival non ce l’ha fatta

È un Festival di Sanremo che non ce l’ha fatta quello che si è appena concluso. Non ce l’ha fatta, nonostante le buone intenzioni, a buttare il cuore oltre i protocolli. Non ce l’ha fatta a parlare al Paese. A regalargli qualche ora di spensieratezza, come si era prefissato (anche nella quarta serata gli ascolti si sono fermati a 8 milioni di telespettatori, 44,7% di share, 1,5 milioni in meno del 2020, 54,3%). Aveva davanti una parete verticale, il Festivalone, ma ha finito per retrocedere nel fortino della musica & gag, mentre là fuori tutto continuava come e peggio di prima, con i colori delle regioni che si scurivano e i segretari di partito che si dimettevano. Forse era troppo chiedere che una kermesse canora, «l’ultima festa patronale di questo gran paesone» (Marcello Veneziani), riuscisse ad alleviare il clima dell’Italia degli anni Venti. Le restrizioni hanno debilitato conduttori e artisti, consegnandoci un Festival convalescente. E tuttavia ci vuole un pizzico di pietà, uno spicchio di cuore, per giudicare sforzi e impegno di Amadeus, di Fiorello e dei tanti, forse troppi autori. Lo stesso pizzico di pietà che ci vorrebbe per accompagnare questa Italia piegata dalla crisi pandemica e, di conseguenza, ripiegata su sé stessa, di cui Sanremo è stato lo specchio fedele. Allora, forse, bisogna superare certi livori moralistici e dare il giusto merito ai conduttori del Festival dell’amicizia, Ama e Fiore.

Fosse stato per Amadeus, capace di pilotare la nave in porto metabolizzando anche gli inconvenienti tecnici (voto: 7), avrebbe fatto accomodare in platea 500 tra medici e infermieri per mantenere il contatto con la realtà prima ancora che con il pubblico. Non potendo avere le grandi star, tutte in ritirata, ha provato a portare sul palco le storie dell’attualità. Come quella di Alex Schwazer, il marciatore altoatesino vincitore di un’Olimpiade, squalificato per doping e ora sulla strada della riabilitazione. Poche parole, zero fronzoli, molta determinazione (7): caratteristiche comuni alle altre storie di rivincita sulle malattie (resilienza è vocabolo in odore di manierismo), raccontate dal giocatore di powerchair football, Donato Grande, e dall’attrice affetta da sclerosi multipla, Antonella Ferrari (8). E poi la storia dell’«incontro fortunatissimo» di Elodie con il pianista Mauro Tre che l’ha aiutata a ripartire, superando l’obbligo di «essere sempre all’altezza», consegnandoci una soubrette con un grande avvenire davanti (9 per tutto l’insieme). O Zlatan Ibrahimovic e l’amico Sinisa Mihajlovic sopravvissuto alla leucemia, pronti a cantare (meglio di qualche concorrente) Io vagabondo dei Nomadi. Proprio Ibrahimovic è stato protagonista del momento verità che per un attimo ha rotto la gabbia autoreferenziale in cui il Festival si è progressivamente infilato: l’ingorgo autostradale superato con il rocambolesco motostop trovato sotto la stella del tifo milanista. Il mio nome è Ibra, Zlatan Ibrahimovic (9 anche per l’autoironia). È sembrata una scena da film, era la realtà che irrompeva nella bolla dell’Ariston.

Se non ci si misura con lei, la realtà ruspante e fatta di imprevisto, restano il ripiegamento ombelicale e il birignao colto duro a morire. E qui di pietà ce n’è meno. Come classificare il cast musicale e i testi delle canzoni (4), intrisi di sentimentalismo e psicologismo, emblema di quell’Italia ripiegata? Nemmeno la serata delle cover è riuscita a rimediare, inaugurata dal narcisismo ridondante dei Negramaro di Giuliano Sangiorgi (5) che hanno farcito di archi, echi e fiati una storia scarna e scabra come quella di 4/3/1943.

Il Festival non ce l’ha fatta per le palate di autocompiacimento diffuso, patologia di troppi modesti showman prestati alla musica, sopravvalutati e mostrificati dal fashion, unghie smaltate, pizzi, tuniche, rossetti e mascara a tonnellate per tutti (viene quasi da rimpiangere Studio uno e Canzonissima: asta, orchestra e fascio di luce). A proposito, tolti Francesco Renga ed Ermal Meta, tutti cantavano in falsetto. Emblema e capofila è Achille Lauro (5 per l’impegno): intruglio granguignolesco di piume, lacrime e baci gay già beatificato a furor di social. Non ho l’età di Gigliola Cinquetti e Io che amo solo te di Sergio Endrigo sono poesia a confronto di tanto ciarpame.

Ma tant’è. Trionfano manierismo, monologhismo e autofiction da «io sono io». Ci è caduta, ahinoi, anche Barbara Palombelli con un’esortazione da quote rosa con invito alle donne «che tengono il Paese» e alle ragazze «a studiare fino alle lacrime»: perché «non andremo mai bene, non saremo mai perfette» e ci diranno che siamo così e siamo cosà (6 di stima). Almeno lei «l’empowerment femminile» l’ha davvero portato sul palco. A differenza della supermodella Vittoria Ceretti che, non pervenuta, lo ha solo annunciato via intervista (5). Se la costruzione ideologica non buca il video, l’apparato erudito separa dalla realtà, come ha confermato lo stridio dell’arrampicata del direttore di Rai 1 Stefano Coletta per giustificare «il declivio degli ascolti» (3). Infine, un pensiero per Fiorello che, avendo dato l’anima come Amadeus, stramerita quel pizzico di pietà. È il miglior showman del bigoncio, il mattatore alla Walter Chiari che dobbiamo preservare. Ma è anche colui che rappresenta meglio il momento perché ha patito più di tutti le poltroncine vuote e l’assenza di applausi a scena aperta (7,5, frutto della media tra genialità, musical e ripiegamento). Ha citato, imitato e duettato, grazie a Dio sdrammatizzando, con Achille Lauro (e con tutti). Ha cazzeggiato e improvvisato, riproponendo però la formula dell’anno scorso. Solo che nel frattempo là fuori era tutto drammaticamente cambiato. E il copione collaudato – i due amici, le storie, la leggerezza – non poteva bastare per interpretare la nuova Italia che ci è implosa tra le mani.

 

La Verità, 7 marzo 2021

«Così ho inventato la pubblicità interattiva»

È il cervello della comunicazione di Tim. Formalmente: direttore Brand strategy media e multimedia entertainment della prima compagnia telefonica italiana. 54 anni, un passato da fiero craxiano e produttore tv di successo (5 Telegatti), Luca Josi è l’ideatore di tutte le campagne che accompagnano il marchio al Festival di Sanremo. Anche la piattaforma Timvision risponde a lui.

Questo è il quinto anno di Tim sponsor unico: qual è il vostro bilancio?

«È un lustro che ci ha dato lustro. Tutto è cominciato nel 2017 quando Mina ha iniziato a interpretare i brani delle nostre campagne».

Siete partiti benino.

«Da allora, ogni anno ha dedicato un nuovo brano a Tim, riuscendo a inserire il brand nella canzone fin dalla dalla prima, quando s’inventò quel Tim Tim Tim che divenne subito virale. Poi ci fu Timtarella di luna sul palco di Sanremo… Fino all’edizione in corso con Questa è Tim, l’inno del gruppo che è l’adattamento di This is me, brano vincitore del Golden Globe 2017, il cui acronimo è proprio Tim».

Anche la collaborazione con Mina è motivo di lustro.

«Il fatto che la più prestigiosa e desiderata interprete italiana canti per la nostra azienda con enormi riscontri è qualcosa di molto gratificante. E ci gratifica anche la coerenza del messaggio. La nostra mission è far comunicare tra loro le persone: avere come testimonial la voce italiana più apprezzata nel mondo, oltre che motivo di orgoglio è il modo più paradigmatico per rappresentare il nostro gruppo».

Perché per voi è interessante collaborare con la Rai per il Festival?

«Sanremo è l’evento italiano che mette insieme il pubblico più variegato ed eterogeneo. Nel Festival il più importante gruppo italiano di comunicazione riconosce il veicolo più efficace per incontrare il proprio pubblico».

Com’è nata l’idea del concorso a premi con in palio una crociera lunga un anno?

«Da una serie di coincidenze. La prima è che per anni, da produttore televisivo, mi sono dedicato a giochi e concorsi. Ho fatto Passaparola, che ha allargato il vocabolario di una parte dei telespettatori. Con Amadeus abbiamo lavorato insieme a Quiz show, un altro format di successo. Ma non è una mia fissazione: prendo solo atto che siamo un Paese di giocatori, di persone che amano mettere alla prova le proprie conoscenze. Non a caso i programmi preserali sono imperniati su giochi e quiz. Ora una serie di innovazioni tecnologiche consente alla pubblicità di trasformarsi in opportunità».

Come?

«Il nostro concorso cambia la comunicazione pubblicitaria. Inserendo negli spot ogni volta un indizio diverso stimoliamo lo spettatore a seguire la campagna perché offre la possibilità di acquisire nuovi beni e servizi. È una forma di pubblicità interattiva, bidirezionale. Una piccola grande rivoluzione».

Perché avete messo in palio una crociera di un anno?

«Sono tutti premi orientati al mondo che ripartirà. Prodotti alimentari Valsoia, un’auto Suzuki ibrida, una crociera intorno al mondo per quattro persone nella suite di una nave Costa crociere. È una sorta di nemesi che risponde all’anno appena trascorso in cui la popolazione è stata obbligata dalla pandemia a rimanere chiusa in casa».

Che risposta ha avuto?

«Molto positiva, ogni giorno crescono tutti gli indici di partecipazione, gli iscritti, gli utenti unici. Si può partecipare anche fotografando il Qr-code delle nostre filiali o del portellone delle Panda aziendali che girano l’Italia».

Che Festival è stato dal punto di vista di Tim?

«Credo sia stato fatto qualcosa di eroico. Confrontarsi con uno spazio vuoto è un’operazione difficilissima. Un conto è guardare lo show dal divano di casa, un altro dalla parte di chi costruisce cinque ore e per cinque giorni uno spettacolo in quelle condizioni. Faccio un piccolo esempio: gli anni scorsi, ogni notte la lettura della classifica veniva accolta dal brusio della platea che esprimeva dissenso o approvazione. Ora tutto questo non c’è. I conduttori lavorano nel silenzio e nel vuoto».

Qual è il momento che le è piaciuto di più e quello che le è piaciuto meno?

«Meno di tutto mi è piaciuto girare in una cittadella dove i chioschi delle radio degli anni scorsi sono stati sostituiti dai chioschi dei tamponi».

E sul palco?

«Non faccio distinzioni a favore di qualcuno. Editorialmente, l’ho trovato uno spettacolo molto garbato. Produrre questi risultati in questa situazione mi sembra una magia».

L’ha sorpresa il fatto che con il coprifuoco l’audience sia diminuita rispetto al 2020?

«Non recito la parte di quello che l’aveva detto. Anch’io pensavo a una platea potenziale più larga. La surrealtà nella quale è andato in scena il Festival provoca una curiosità eccezionale che dura qualche minuto, come la leggenda del monoscopio che fa più audience del programma. Non a caso da 70 anni il pubblico continua a comprare il biglietto per vedere il Festival dal vivo. Poi c’è anche un altro fattore, poco considerato…».

Sentiamo.

«Il lockdown ha un po’ nordicizzato il Paese, anticipando tutti i nostri orari. L’obbligo di essere a casa alle 22 ha accorciato le serate, si cena prima e si va a dormire prima. Infatti i bacini televisivi dei programmi di seconda e terza serata si sono ridotti. Forse Sanremo ha pagato anche il fatto che ci siamo avvicinati ad orari e abitudini nord europee».

Il calo di ascolti comporta una correzione del contratto fra Rai e Tim?

«Io mi occupo della parte editoriale, ma non mi risulta che in questo momento si stia valutando una revisione del contratto».

La vostra campagna istituzionale per i 100 anni d’innovazione conteneva l’auspicio di tornare presto ai balli di massa: era una visione troppo ottimistica della situazione in cui ci troviamo?

«Senza fare paragoni, che cosa faceva essere ottimistica la comunicazione del cinema di Frank Capra nei momenti tragici in cui veniva prodotto? Una regola aurea del vivere ancor prima che del comunicare è che in tempi in bianco e nero si cerca di dare il colore, mentre in tempi variopinti si produce una comunicazione più minimalista e introspettiva. Se è in discussione il nostro modo di esistere cerchiamo di trasmettere la possibilità dell’uomo di credere in sé stesso e nella sua energia».

Con il primo spot con il ballerino Sven Otten avete inaugurato una nuova stagione della comunicazione pubblicitaria. Quanto è difficile continuare a innovare?

«È un problema che ci poniamo ogni giorno. Ci sembra di aver fatto molto e in effetti abbiamo fatto ballare col cappello di Sven Otten Topolino e il Gabibbo, Amadeus e Gerry Scotti, Spiderman e i personaggi di Star Wars. Paventare l’esaurimento delle idee per il futuro sarebbe presunzione. Il mondo offre un’infinità di spunti rispetto ai quali ciò che noi abbiamo prodotto è nulla. Anche grandi compagnie come Coca Cola e Pepsi hanno realizzato spot orientati al ballo. Il quale è un modo di coinvolgere le persone attraverso un elemento unificante che invita a vedere positivamente il presente e il futuro».

Era molto presente anche nel cinema del dopoguerra.

«La stagione dei grandi musical si è alimentata di questa cultura. Non c’è frivolezza nel dire <ballaci sopra>. Per chi fa comunicazione non c’è niente di più importante che regalare alle persone la possibilità di gioire e di liberarsi dalle costrizioni».

In che modo il Covid ha cambiato la comunicazione pubblicitaria?

«Non sono un sociologo della comunicazione. Credo che ci vorranno anni per capire le trasformazioni nelle quali siamo immersi. Mi diverte lavorare al videogioco della nostra comunicazione, consapevole che non stiamo scoprendo la penicillina. Ma provando a trasmettere un pizzico di serenità e offrendo al pubblico, anziché martellarlo con un messaggio sempre uguale, un’opportunità di dialogo e partecipazione come attraverso il concorso al Festival».

Difficilmente ci sarà l’Amadeus-Fiorello ter. Da sponsor unico, Tim ha dei suggerimenti per i vertici Rai?

«Sul fatto che non ci sarà il terzo festival di Amadeus e Fiorello mi concedo qualche dubbio. Non do consigli agli altri, ascolto quelli che danno a noi. Abbiamo visto i fiori sul carrello, poi con i guanti, mancava che li facessero cantare con la mascherina. Quando tra dieci anni rileggeremo questi dati di ascolto ci stupiremo della capacità di mettere insieme platee così ampie in un’èra di frammentazione delle piattaforme e di rigidi protocolli anti-pandemia».

Tim avrebbe gradito Mina direttore artistico del Festival?

«Non è una valutazione che ci compete».

La collaborazione con lei continuerà?

«Da anni coltiviamo una grande idea. Mina è sempre sorprendente per curiosità e visione. Per l’ultimo brano abbiamo avuto ritorni inaspettati dal pubblico giovane. Si è soliti dire che ai giovani devono parlare i loro coetanei. Invece, a chiunque si parla attraverso il talento. Il quale si spiega da sé e arriva prima anche a chi appartiene a un’età anagrafica diversa».

Questa idea riguarda la comunicazione del marchio o qualcosa di più?

«Qualcosa di più, con il marchio capofila. Sarà un regalo a tutti gli italiani, ma qui mi fermo per riservatezza verso Mina e suo figlio Massimiliano».

Avrà a che fare con Timvison?

«Forse».

 

La Verità, 6 marzo 2021 (versione integrale)

«La mia preghiera aveva vinto, poi la giuria…»

Indovinello: che cos’hanno in comune Luigi Di Maio, Al Bano e il presidente della Rai Marcello Foa?

«Aver apprezzato la mia canzone a Sanremo?».

Ha visto che anche il cardinal Gianfranco Ravasi, sempre attento al mondo della musica, ha postato un verso di Abbi cura di me su Twitter?

«Mi ha fatto molto piacere che abbia scelto quel verso – “Basta mettersi al fianco invece di stare al centro” – perché è la mia visione dell’amore. Mi lusinga l’attenzione di una personalità così importante del mondo cattolico e della cultura italiana in generale».

Ha detto che la sua canzone è una preghiera.

«Grazie a un amico monaco ho scoperto che il titolo è un verso del salmo 17: “Abbi cura di me come la pupilla dell’occhio”. È una preghiera laica, un Cantico delle creature 2.0».

Canta: «Siamo in equilibrio sulla parola insieme». Che tipo di equilibrio e che tipo di insieme?

«Da quando veniamo al mondo cerchiamo la completezza, la voglia di essere insieme a qualcos’altro. Quando troviamo una persona che ci sta a fianco ritroviamo questa completezza. Nei rapporti di coppia l’equilibrio è instabile, ma grazie alla cura uno dell’altro possono durare».

Che idea si è fatto delle polemiche sul risultato del Festival?

«C’è stata la volontà di ribaltare il giudizio popolare del televoto. L’ha detto anche il presidente della Rai Foa».

Il dibattito che ne è seguito su élite e popolo è giustificato?

«Credo che vada rivisto il meccanismo di voto. Le faccio un esempio: dopo l’esibizione di venerdì sera ero primo, avevo vinto il Festival. Poi sabato la Giuria d’onore mi ha sbattuto al dodicesimo posto. Al di là di questo, accetto il giudizio. Un festival canoro rimane un gioco. Come a tutti, mi sarebbe piaciuto vincere. Un po’ di amaro rimane perché fino a prima dell’intervento dei giurati d’onore ci ero riuscito».

 

Simone Cristicchi ha 42 anni, due figli, una testa piena di idee e di capelli, un Sanremo già vinto nel 2007 con Ti regalerò una rosa. Ha il profilo dell’outsider intelligente però fuori dal mainstream e dai circuiti delle riviste chic: un percorso teatrale che gli ha procurato un certo ostracismo della sinistra.

 

La sua biografia sul sito inizia da quando aveva 21 anni. Prima chi era e chi erano i suoi genitori?

«Sono figlio di impiegati che lavoravano nel mondo della scuola, cresciuto in una famiglia molto semplice nella periferia di Roma».

Com’è nata la passione per la musica?

«Una casualità: ho scoperto in soffitta una chitarra arrugginita. Avendo tutta l’estate davanti ho iniziato a strimpellarla, imparando presto a suonarla».

Ora si spiega l’attrazione per cantine e soffitte che nascondono pezzi di storia…

«Ho una passione innata per le cose vecchie e vissute. Sono attratto dai mercatini, dai robivecchi. Mi alzavo all’alba per andare a Porta portese».

C’è stato un incontro, un episodio, una persona importante per la sua formazione?

«Il fumettista Benito Jacovitti mi ha dato le prime indicazioni per diventare un artista, spronandomi a esprimere il mio stile nel disegno. Successivamente ho applicato i suoi insegnamenti alla musica».

Era un bravissimo disegnatore, poi?

«Ho disegnato troppo, andando in overdose. A 16 anni, quando ho scoperto la musica, ho continuato a raccontare storie non più su un foglio, ma con le mie canzoni».

Ci parla di Happy Next, il documentario sulla bellezza che sta girando?

«Ho iniziato prima di Sanremo e sto continuando a fare interviste. Uno degli intervistati sarà papa Francesco, che ho incontrato in Vaticano e ha accettato la mia proposta indecente».

Persone comuni e altre note?

«Bambini delle scuole elementari, filosofi, personalità dello spettacolo come Renzo Arbore, Nino Frassica, Mogol, una religiosa, un monaco zen…».

Dove lo vedremo?

«C’è l’interesse di alcune televisioni, ma per ora non voglio dire niente».

Non è un po’ abusato il tema della bellezza?

«Non credo. Abbiano bisogno di parlarne in un momento in cui prevale l’aggressività. Proviamo a ribaltare una visione negativa del mondo».

È vero che per farlo è stato fondamentale l’incontro con una suora di clausura?

«Sì, in un monastero in Umbria ho incontrato una suora, una di quelle rare persone felici, appartate dal mondo, contente con poche cose. Ho vissuto una settimana nel silenzio. È stata un’esperienza che ha influito nella mia visione delle cose».

In che modo?

«Ho realizzato quante cose riteniamo indispensabili mentre sono superflue. Viviamo sempre connessi, immersi in una realtà virtuale, reale ma fittizia; senza mai trovare un momento di silenzio nel quale connetterci con il lato più fragile e più vero di noi stessi».

In Lo chiederemo agli alberi, l’altro inedito del nuovo album, aleggia un cristianesimo francescano.

«È una canzone nata nell’eremo di Campello sul Clitunno. Dove le quattro suore, francescane minori, si definiscono allodole. Ho iniziato a scriverla lì: “Lo chiederò alle allodole/ come restare umili…”».

Altre sue canzoni storiche come La vita all’incontrario e La prima volta (che sono morto) sembrano invece contenere lo stupore per la vita.

«In particolare La prima volta (che sono morto), sebbene si parli di una morte per infarto. Queste morti improvvise ci risvegliano, facendoci capire che la vita è un’occasione da non sprecare. Immagino l’aldilà come una specie di scuola serale nella quale imparare a sfruttare meglio questo dono».

Cantautore, attore teatrale, documentarista, conduttore radiofonico: come tiene insieme tutte queste forme espressive?

«Ho scritto anche quattro libri, l’ultimo è un romanzo per Mondadori, e girato due documentari. Al centro c’è sempre la parola. A volte, la canzone può essere una gabbia. Quando è azzeccata ha qualcosa di miracoloso, come accadeva con quelle di Mogol-Battisti. Ho avuto la possibilità di raccontare storie in altri modi. In particolare con il teatro, che è il mio habitat preferito».

Su YouTube si trova Magazzino 18 trasmesso da Rai 1, quando?

«Il 10 febbraio 2014, lo spettacolo aveva debuttato a Trieste nell’ottobre 2013».

Le foibe sono «una pagina strappata dal libro della storia»: perché c’è silenzio attorno a quei fatti?

«Il silenzio si è cominciato a rompere negli anni Cinquanta in ambiti molto ristretti. C’è stato un silenzio diplomatico tra l’Italia e la Jugoslavia, perché Tito era un interlocutore potente. C’è stato un silenzio politico voluto dalla sinistra, per nascondere la macchia nera dei crimini commessi dai partigiani slavi e italiani. Infine, c’è stato il silenzio degli istriani che hanno vissuto come una vergogna il loro esodo».

Per divulgarlo è servito un romano con la passione di curiosare nelle soffitte della storia?

«L’arte a volte arriva dove altre forme non arrivano. Magazzino 18 ha avuto 200.000 spettatori e 200 repliche sold out. Il pubblico è venuto a vederlo in massa perché non conosceva la storia e perché era uno spettacolo ben fatto».

Come mai un romano?

«Stavo facendo una ricerca sulla Seconda guerra mondiale quando mi sono imbattuto in questo magazzino del porto di Trieste. Era una tragedia che non conoscevo e che mi ha colpito al punto che ho sentito l’urgenza di documentarmi e di trasformarla in uno spettacolo».

Anche l’esistenza di Goli Otok, l’Isola Calva, era sconosciuta?

«Nessuno sa che sono successe queste cose. In quell’isola ci fu l’unico campo di concentramento comunista in Europa. Un gulag dove veniva internato chi non assecondava Tito».

Tra gli esuli noti di origine istriana come Alida Valli, Uto Ughi, Laura Antonelli, Nino Benvenuti, Abdon Pamich, Fulvio Tomizza, Enzo Bettiza c’era anche Sergio Endrigo con il quale ha inciso una canzone. Come lo ricorda?

«Ho avuto l’onore di incidere con lui Questo è amore, una sua canzone. E ho fortemente voluto che fosse in Fabbricante di canzoni, il mio primo album. Ricordo che in studio di registrazione ci aveva divertiti con tanti aneddoti della sua vita avventurosa. Quando uscì il disco lui non c’era già più. L’ho ricordato in tanti concerti, l’ultima volta in Piazza Unità d’Italia a Trieste».

In Magazzino 18 c’è un passaggio in cui, a proposito delle ideologie e dei comunisti che erano dalla parte degli ultimi, dice: «Sa come succede, dotto’, a ragiona’ troppo in grande ci si perde per strada la gente». È quello che è successo alla sinistra attuale?

«Oggi la politica è sempre più distante dai bisogni concreti della gente. C’è una spaccatura tra tanti proclami e la quotidianità reale. Quella espressione è attualissima. Soprattutto la politica è lontana dai bisogni dei giovani, che non la vedono più come un mezzo per trasformare la realtà».

Com’è finita la storia della tessera onoraria che, dopo quello spettacolo, l’Anpi voleva ritirarle?

«È rimasta lì, nessuno alla fine me l’ha ritirata. L’Anpi è una realtà variegata in correnti diverse. Alcune arroccate su ideologie che non permettono di vedere la storia con obiettività, altre più vicine a riconoscerla».

Ci anticipa qualcosa del prossimo programma per Tv2000?

«Con don Luigi Verdi della Fraternità di Romena si è instaurato un bel feeling. Una sera abbiamo improvvisato uno spettacolo, io cantavo canzoni a tema, lui parlava. A maggio registreremo quattro serate di un programma che s’intitolerà Le poche cose che contano».

Parla volentieri di spiritualità e meno della Chiesa, sbaglio?

«Non sbaglia. In fondo, in tante diverse religioni ho ritrovato lo stesso insegnamento. Così spazio dal cristianesimo allo zen allo gnosticismo. Come dice la teosofia, tutte le religioni contengono una parte di verità».

Qui comincerebbe un’altra intervista, ma lei deve prendere un aereo. Può dire di non essere più un «panchinaro condannato allo stand by» come si definiva in Vorrei cantare come Biagio?

«Mi sento un outsider che ha fatto un percorso unico con grande fatica, ma anche con grandi soddisfazioni. Soprattutto quella di aver trasformato la mia passione nel mio lavoro».

La Verità, 17 febbraio 2019

I Soldi marocco-pop battono i soldi del televoto

Soldi contro Soldi? Tirandola all’estremo, si potrebbe metterla giù anche così. Perché, stringi stringi, politica a parte, la querelle post-festivaliera che agita talk show e opinionisti socio-musicali si può ridurre a una banale questione di soldi. Scritto in tondo, però. Perché sono solo quelli tirati fuori dai televotanti, due milioni circa, non quelli premiati della canzone di Mahmood.

Presentando un esposto all’Autorità per la concorrenza, ieri il Codacons ha prospettato la possibilità di un «danno economico per i cittadini». «Fino a un massimo di 51 centesimi per voto», martellavano Claudio Bisio e Virginia Raffaele una canzone sì e una no. La faccenda non è irrilevante, perché dopo aver aperto il portafoglio, fino a cinque voti per sera, non fa piacere essere platealmente sconfessati da otto signori che si godono lo spettacolo in prima fila, con tutti gli onori dei giurati d’onore. Oppure da 200 giornalisti asserragliati nella Sala Roof dell’Ariston a tifare Mahmood e insultare Il Volo stile curva da stadio. No, non fa piacere.

La Sala stampa e la Giuria d’onore hanno sovvertito i «numeri schiaccianti» del televoto in favore di Ultimo (46.5% contro il 14.1 dell’autore di Soldi), tuona il Codacons. Scagliandosi contro il meccanismo che ha «annullato e umiliato» il pubblico «con conseguenze enormi sul fronte economico, considerato che i telespettatori hanno speso soldi attraverso un televoto reso inutile dalle decisioni delle altre giurie». La riflessione su come rifare il regolamento del Festival è partita alla grande. Non senza che si continuasse a buttarla in politica come ha fatto in un tweet l’ex ministro e attuale golden boy della nuova sinistra Carlo Calenda: «Un giorno qualcuno dovrà definitivamente stabilire la completa inutilità di Codacons e affini. Al Mise avevo tagliato la maggior parte dei finanziamenti a queste fabbriche di polemiche inutili. Chissà se Di Maio li ha ripristinati». Immediata la replica dei dell’associazione in difesa dei consumatori che in un altro esposto chiedono alla Procura della Repubblica di Roma di accertare se esistono gli estremi dell’«abuso d’ufficio» dell’ex ministro ai loro danni e la sua espulsione dal Pd. Auguri.

Anche al netto delle polemiche politiche, però, l’eredità del Claudio Baglioni bis non è quella che si direbbe una spartizione armonica. Mauro Pagani, presidente della Giuria d’onore disonorata, difende l’operato suo e dei colleghi, nessuno dei quali spicca per competenza musicale. Il presidente della Rai Marcello Foa chiede una profonda revisione del regolamento. Ne ammette la necessità anche il direttore artistico in uscita: «Se il Festival vuole davvero essere una manifestazione popolare, potrebbe essere giudicato solo dal televoto», ha scandito, e chissà se il ravvedimento schiuderà la porta del Baglioni ter. Dal canto suo Foa ha osservato: «C’è stata una sproporzione, un chiaro squilibrio tra il voto popolare e una giuria composta da poche decine di persone che ha provocato le polemiche. Questo è il vero punto che deve farci riflettere. Questo sistema funziona o no? Va corretto chiaramente anche perché il pubblico si senta rappresentato». Regolamento e ruolo delle giurie da rivedere di sana pianta, dunque.

Tutti i conduttori che si sono succeduti negli anni l’hanno cambiato a propria immagine. Fino al 2012 c’era solo il televoto attraverso il quale le community dei talent show facevano vincere i reduci di Amici (Marco Carta, Valerio Scanu). Fu Fabio Fazio a reintrodurre la giurie di qualità facendole pesare sul giudizio finale quanto il televoto. Il risultato di un Festival si fa anche con la scelta dei componenti e dei presidenti delle giurie. Fazio chiamò Nicola Piovani e Paolo Virzí. Nelle sue tre edizioni, invece, Carlo Conti reintrodusse la giuria demoscopica riducendo al 30% il peso di quella di qualità e chiamando a presiedere Claudio Cecchetto, Giorgio Moroder e Franz Di Cioccio. Quest’anno il regolamento è stato ribattezzato Sanremellum, tanto è complicato. Nelle prime tre serate la classifica si componeva con il televoto (40%), Giuria demoscopica (un campione di 300 persone selezionate tra abituali fruitori di musica) e Sala stampa, entrambe al 30%. Nella quarta e quinta serata la Giuria demoscopica spariva, il televoto saliva al 50%, la Sala stampa rimaneva al 30 e la Giuria d’onore, capeggiata da Pagani, aveva il restante 20. Stilata la classifica dal 4° al 24° posto, si è rivotato da capo con le stesse percentuali.

E il Festival di Sanremo l’hanno vinto i Soldi in versione Marocco pop. E l’hanno perso i soldi del pubblico italiano.

La Verità, 12 febbraio 2019

 

 

Fenomenologia dell’Ariston correct (non è un drink)

Ah, gli esperti. I giurati di qualità. I critici specializzati. Studiati e competenti. Appollaiati nelle poltroncine dell’Ariston. Asserragliati nella sala stampa a insultare i concorrenti sgraditi. Se un brano di Marocco pop ha vinto il 69° Festival della Canzone italiana lo dobbiamo a loro. Ai sacerdoti delle sette note. Agli esperti del salottino colto. I telespettatori, il pubblico da casa, la gente che canticchia i ritornelli avevano scelto diversamente. Ora apriti cielo. Putiferio sui social. Mitragliate di giudizi. Articolesse schierate per giorni, c’è da giurarci. Sotto accusa il regolamento, i vertici Rai e il direttore artistico. E probabilmente pietra tombale sul Claudio Baglioni ter. Il quale, non a caso, a risultato ancora caldo, si è pronunciato in favore del ritorno al televoto puro e semplice: «Penso che se il festival vuole essere veramente una manifestazione popolare deve essere giudicata solo dal televoto», ha scandito. Si vedrà.

Il Festival di Sanremo è lo specchio del «Bipaese». Del Paese diviso in due. Élite da una parte, popolo dall’altra. Giurie di esperti e televoto. Una rappresentazione plastica di due mondi che non comunicano, non si integrano. Anzi, confliggono. Certo, non tutta la kermesse riproduce la divisione, ma l’esito finale sì. La 69ª edizione del Festival della Canzone italiana l’ha vinta Alessandro Mahmoud, nato a Milano da madre sarda e padre egiziano, in arte Mahmood. «Marocco pop» è la definizione che lui stesso ha dato di Soldi, il brano trionfatore. Non è questo il problema, può vincere uno o l’altro, si possono avere gusti differenti. La cosa che fa sorridere è la genesi del verdetto finale. Come ci si è arrivati. Niente crociate, sono solo canzonette. Ma a un giorno di distanza dal risultato c’è di che divertirsi. Ormai è noto, tra i tre finalisti le preferenze del televoto, che pesa per il 50%, avevano premiato la canzone di Ultimo (I tuoi particolari) con il 46,5%. Il Volo (Musica che resta) era secondo con il 39,4% e Mahmood terzo con il 14,1%. Sono state la giuria dei giornalisti (che pesa per il 30%) e quella di qualità (20%) a capovolgere il risultato scaricando su Mahmood il 63,7% dei loro voti. Risultato finale: 38,9% per Mahmood, 35,6 per Ultimo e 25,5 per Il Volo. Già prima, al momento dell’esclusione di Loredana Bertè dai posti di vertice, la classifica era stata contestata dalla platea. Subito dopo ha suscitato la reazione scomposta di Ultimo, sconfitto sul filo di lana. La notte non ha smorzato i toni: sia la Bertè sia Ultimo hanno disertato Domenica in, probabilmente in segno di protesta.

Adesso tra analisti e opinionisti social è una corsa affannosa a ridimensionare il ribaltone dell’Ariston. A dire che no, non è giurie chic contro televoto, élite contro popolo: non bisogna offrire nuovi argomenti all’allergia all’Italia meticcia di Matteo Salvini. Se non è così, offrissero una chiave di lettura alternativa e dignitosamente attendibile. Basta un giro su Twitter per capire il tenore dell’imbarazzo. Già ieri mattina Stefania Carini aveva anticipato l’andazzo: «Oggi per spiegare Sanremo 2019 sarà “voto popolare/gialloverde vs élite giuriagiornalisti/piddini”? Nel dubbio torno a dormire». Flavia Amabile della Stampa invece era sicura: «Quest’Italia in cui l’opposizione è il Festival di Sanremo», twittava sopra il link di un pezzo senza la notizia del vincitore. La sintesi sembrava buona, anche se non si capiva se approvava o ce l’aveva con il Pd e Forza Italia. Chissà; forse sarebbe stato più corretto: «Quest’Italia in cui l’opposizione sono le giurie dell’Ariston». Comunque, ecco Tommaso Labate del Corriere fare un passo avanti e dare la linea: «Chiunque butti in politica la vittoria di Mahmood regala a Salvini l’occasione di posizionarsi ancora una volta dalla parte del popolo (il televoto che aveva premiato Ultimo) contro l’élite (che han fatto vincere Mahmood). Facciamo che sono solo canzonette?». Tagliava corto Boris Sollazzo: «Mahmood vince. Salvini chiuderà il porto di Sanremo…».

Fino a prima del colpo di mano delle giurie era un festival filato liscio, nella sua modestia. Qualche monologo non riuscito, qualche altro sì e senza autocensure (Pio e Amedeo). Serata dopo serata, soprattutto Virginia Raffaele era riuscita a trovare il dosaggio giusto tra i compiti di conduttrice e il talento di comica poliedrica, erede di Anna Marchesini (superlativo il medley d’imitazioni dell’ultima sera). Certo, qualche canzone era borderline, qualche altra superflua. Ma ci sta, «nessuno è perfetto», aveva chiosato il direttore artistico. I superospiti italiani avevano compensato uno show zavorrato dall’overdose di rap e trap. E svecchiare pubblico e partecipazioni era un altro dei meriti del Festivalone che, ha enfatizzato qualcuno, aveva annullato anche l’idea che potesse sbucare da un momento all’altro gente come Al Bano o Toto Cutugno. Una grande svolta, sembrava; volendo dimenticarsi Pippo Baudo, Ornella Vanoni e Patty Pravo atterrata direttamente dal bar di Guerre stellari (copyright Renato Franco). Poi l’impennata del politicamente corretto…

Qualche anno fa il televoto determinava da solo il verdetto e le community dei talent show facevano vincere i concorrenti usciti da Amici come Marco Carta, Valerio Scanu e la stessa Emma Marrone. Fu Fabio Fazio a reintrodurre le giurie di esperti e giornalisti come correttivo della troppa democrazia attribuendo loro il 50% del giudizio. Con Carlo Conti, nella serata finale i giornalisti venivano sostituiti dalla giuria demoscopica che affiancava quella di qualità. Con Baglioni sono tornati i giornalisti.

Scorrere i nomi dei componenti la giuria di qualità, alcuni dei quali hanno anche sorprendentemnte presentato i cantanti, è istruttivo. Insieme al presidente Mauro Pagani, curriculum indiscutibile, ci sono Serena Dandini, Claudia Pandolfi, Beppe Severgnini, Elena Sofia Ricci, Ferzan Ozpetek, Camila Raznovich e Joe Bastianich la cui competenza musicale, a differenza della inclinazione politica, risulta piuttosto vaga. Quanto al ruolo dei giornalisti specializzati, bastava leggere la solita Stefania Carini in tempo reale: «Tutto il cucuzzaro sui Soldi!!!! riassunto del clima in sala stampa». Oppure guardarsi i video postati da Cosmopolitan («Sala stampa pazza di @Mahmood_Music») per vedere il tifo sfrenato e il battito a tempo con il ritornello di Soldi, oppure gli insulti al Volo al momento della comunicazione del terzo posto.

Sia chiaro: nessuno ha niente contro Mahmood, il suo timbro inconfondibile e il sound urban della canzone. È solo che il «Marocco pop» con il narghilè e il Ramadan stona un filino come vincitore del Festival della Canzone italiana.

Quello che maggiormente disturba è il fatto che pochissime persone, competenti ma politicamente orientate, pesino quanto masse di telespettatori e ascoltatori. E, agendo da squadra, riescano a capovolgerne il pronunciamento. L’ha capito anche Baglioni: «Questa mescolanza, il fatto di avere tre o quattro giurie spezzettate rischia di essere discutibile». Viene il sospetto che più che votare la canzone, i membri del salottino colto abbiano votato il cantante.

La Verità, 11 febbraio 2019

«Vorrei tornare all’Ariston da direttore artistico»

Lui il primo Festival di Sanremo l’ha presentato a 28 anni. Era il 1980, preistoria. L’alba di un decennio di svolta. Irripetibile. Visto da qui, dall’Ufficio rotondo, Milano zona San Siro, tutt’altro che archeologia. È presente, attualità, nella storia di Claudio Cecchetto: dj, talent scout, fondatore di radio, produttore musicale, manager dello spettacolo, autore e conduttore televisivo. 65 anni, nativo di Ceggia, paesino della provincia di Venezia, figlio di un camionista. Una discreta parabola. Condurre la più importante manifestazione italiana a quell’età è da vertigini. Un sogno che si avvera ancor prima di essere sognato. Come si fa a non montarsi la testa? A iniziare a guardare tutti dall’alto? E soprattutto: dopo, che si fa? Si presenta il secondo e il terzo, in rapida successione. Senza fermarsi a pensare che sei andato più veloce del tempo. Che hai preso il destino in contropiede. E che a trent’anni hai già vinto tutto, come Beppe Bergomi campione del mondo a 19 anni, nel 1982. Cose che succedevano a quei tempi.

Nella sua biografia, parlando della proposta di condurre Sanremo, scrive: «Nella mia carriera ho sempre avuto l’impressione che quando c’era qualcosa da cambiare chiamassero me».  

«È così. Poi bisogna trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Gianni Ravera mi aveva visto a Discoring e voleva rinnovare il Festival reduce da un’edizione un po’ così. Era il momento delle radio libere. Sono stato fortunato a essere il rappresentante del cambiamento. Non ero io il cambiamento, ci ero dentro. Peraltro, c’era anche un problema. Che mi guardai bene dal sollevare».

Cioè?

«Era il Festival della canzone italiana, ma io conoscevo quasi solo musica straniera. Nelle radio si mettevano dischi d’importazione, dance, new wave, rock. Ma non volevo certo porre dubbi. E siccome la fortuna aiuta gli audaci, un mese dopo seppi che, oltre all’attrice Olimpia Carlisi, nella serata finale ci sarebbe stato anche Roberto Benigni».

Claudio Cecchetto con Roberto Benigni e Olimpia Carlisi al Festival di Sanremo del 1980

Claudio Cecchetto con Roberto Benigni e Olimpia Carlisi al Festival di Sanremo del 1980

Come ricorda quei momenti? Oggi sarebbero possibili?

«Negli anni Ottanta si osava molto più di adesso. Sì, stava nascendo la tv commerciale, ma si poteva ancora sperimentare. Per me era tutto un regalo, non volevo diventare un personaggio televisivo. Il mio sogno era la radio. Avevo l’incoscienza dell’età: più che per l’opportunità professionale, ero contento che mi vedessero mio padre e mia madre».

Le è piaciuto il Festival di Claudio Baglioni?

«Mi è piaciuto, sì. Sono abituato ad aspettare prima di dare giudizi: se una proposta è diversa dalle tue aspettative non significa che sia brutta, diamole una chance. Dopo la seconda serata ho mandato questo sms a Baglioni: “Volevo farti i complimenti per Sanremo. La tua presenza in video rende piacevole tutti i contenuti del festival e grazie a te emerge anche il talento delle persone che hai scelto. Grande, un abbraccio. Ps. Mai visto il pubblico in sala a Sanremo così contento”. Questo è quello che penso».

Non c’è stato solo Fiorello.

«Perciò ho aspettato la seconda serata. Fiorello è una forza della natura, il divario è così evidente. Invece, guardando meglio, mi sono accorto che aspettavo riapparisse Baglioni. La sua presenza metteva a posto le cose, dava le misure. Michelle Hunziker e Pierfrancesco Favino sono entrambi bravi e professionali, ma è stato Baglioni la ricchezza del Festival».

Il «dittatore artistico» che ha inserito tanti artisti della Friends & Partners, la società che lo produce.

«Queste sono cattiverie per i titoli dei giornali. Se devi fare un bel Festival chiami chi fa squadra. E magari così riesci a spendere meno. Poi ci sono anche gli altri, i Negramaro non erano di Friends & Partners. Anche quando conducevo il Festivalbar dicevano: Cecchetto fa cantare i suoi, Sandy Marton, Tracy Spencer… Ma era gente affermata a livello internazionale. Conta che il pubblico sia contento e mi pare lo sia stato».

Cosa fa quando c’è Fiorello in tv? Vi sentite prima e dopo?

«Ci siamo sentiti, era contento. Fiorello non è un Robocop. Ha bisogno di avvertire affetto attorno a sé. Quando è salito all’improvviso sul palco quell’uomo, lui ci avrebbe fatto mezza serata. È un’anima sorridente, un cuore allegro, diverso da un comico».

Però fa divertire.

«Che non è solo far ridere. Ha la comicità della nostra gang, che ricorda i vecchi caffè degli artisti, dove si discuteva e si cresceva. Il posto favorisce le contaminazioni: Jovanotti che incontra Fiorello che incontra Gerry Scotti che incontra Fabio Volo che incontra Max Pezzali. Una catena del talento».

Fiorello è stato presentato come lo scaldapubblico.

«È riduttivo. Fiorello garantisce una partenza positiva. È uno generoso, preferisce essere all’inizio delle cose. Non dice: prima voglio vedere se funziona. Piuttosto, la sua partecipazione alza l’asticella per quelli che arrivano dopo».

Fiorello ospite della prima serata del Festival con Baglioni e Michelle Hunziker

Fiorello ospite della prima serata del Festival con Claudio Baglioni e Michelle Hunziker

Come fa un ragazzo nato a Ceggia, seimila anime, a diventare Claudio Cecchetto?

«Culo. Volevo intitolare Che culo il mio libro. Sottotitolo: quello che ho avuto e quello che mi sono fatto».

Ha un’immagine di questa storia?

«Ci dev’essere qualcuno lassù che ha pensato a me. Io ho cercato sempre di farmi trovare pronto e nello stesso tempo di non montarmi la testa. Ho cercato di trasmettere questa semplicità anche ai ragazzi. Quando vedevo il rischio, partiva il discorso preventivo: ricordiamoci sempre da dove veniamo, che la nostra è una condizione fortunata e non dovuta. Ringraziamo il cielo che ci sia, ma quello che abbiamo ottenuto è gratis. Ho sempre pensato che se fai bene le cose prima o poi i risultati arrivano».

Da ragazzino voleva fare il batterista. Un giorno di riposo della band andò nello studio per cambiare le pelli dei tamburi e vi trovò i suoi compagni che suonavano con un altro batterista.

«Da ragazzi si pensa che la batteria permetta di non studiare la musica. A me piaceva il ritmo. Mi piace sentire suonare bene la batteria; ma se io non la suono bene non piace neanche a me. Volevo stare in quella band, ma dopo il primo momento di stupore, mi accorsi che quel ragazzo suonava meglio. Lì è scoccata la scintilla del talent scout. Se trovo uno che sa fare bene una cosa e collaboriamo affinché si affermi, in qualche modo mi affermo con lui».

Dice Jovanotti che «il mondo di Claudio Cecchetto è un posto dove un ragazzo che mixa i dischi diventa un cantante che scrive le sue canzoni, il commesso di un panettiere diventa lo scrittore che vende di più e un animatore di villaggi diventa il più grande showman in circolazione». Scoprire e valorizzare i talenti degli altri è il talento dei talenti?

«Certamente è un talento. Bisogna vedere le persone, intravederle. Fabio Volo venne a Radio Capital per convincermi a trasmettere un suo disco. Rimanemmo mezz’ora a parlare: “Cosa ti piace fare?”. “Leggo molti libri”. Gli proposi un baratto: “Ti metto il disco a patto che tu venga a trasmettere da me”. Ero pieno di dj che sapevano solo di musica, finalmente uno che legge. Fiorello arrivò a Radio Deejay con Bernardo Cherubini, fratello di Lorenzo, che gli aveva detto che lì era pieno di ragazze. Andammo a cena e vidi subito quell’energia, un po’ grezza, ma esplosiva e incontenibile. Peraltro, lui imitava cantanti italiani e Deejay trasmetteva solo musica inglese. Poco alla volta ci siamo integrati, modernizzati, ognuno rimanendo sé stesso».

Jovanotti, Fiorello, Max Pezzali, Amadeus, Gerry Scotti, Leonardo Pieraccioni, Fabio Volo, Dj Francesco, Sandy Marton. Si parla poco di Sabrina Salerno…

«Ho prodotto il suo primo album che conteneva Boys boys boys, ma non faceva parte della mia organizzazione. Ha camminato con le sue gambe. È una figura legata agli anni Ottanta e Novanta, anche se mi risulta abbia ancora seguito in Spagna».

Sanremo e Fantastico, poi il lancio di Radio Deejay: erano gli anni delle ideologie, gli anni di piombo. Non è mai stato sfiorato dalla politica?

«Avevo così tanto da fare… Finivo un progetto ed entravo direttamente in un altro».

C’era la guerra in Italia.

«Pensavo a creare un mondo migliore con i miei mezzi. Mia sorella è psicologa e si occupa di far star bene chi soffre. Anch’io mi sono sempre occupato del benessere delle persone. Sono figlio degli anni Settanta, ero partito dagli ideali: ci sono i problemi, i conflitti, ma possiamo anche divertirci. Non mi spiegavo come mai se i giovani partono sempre di sinistra, alla fine la sinistra perdeva lo stesso. Vorrei vedere più giovani in politica. Ma non come i giovani di Sanremo, che sono istruiti dai vecchi e fanno le stesse cose dei vecchi».

È uno dei pochi ad aver lavorato in Rai, in Mediaset e con il Gruppo Espresso: come se lo spiega?

«Avevo un prodotto di successo, che per loro era un business. La radio volevo venderla a Berlusconi, ma Adriano Galliani disse che non erano interessati. Glielo dissi quando Berlusconi mi chiese: “Perché non l’hai venduta a me?”. Se volevo che Deejay crescesse dovevo associarmi a un grande marchio. Nonostante tutto, il Gruppo Espresso ha usato Deejay per la musica non come veicolo politico».

Adesso che cosa sta facendo?

«Faccio il Cecchetto, come al solito, mille cose insieme».

Ok, il progetto principale?

«Sto seguendo il tour di Max Pezzali, Nek e Francesco Renga. Era un’idea buona, ma vogliamo creare un evento musicale che vada oltre la somma dei fan dei tre artisti».

Che rapporto ha con il web?

«È la nuova frontiera del talent scout. Radio e tv sono sature e hanno tempi sempre più stretti. Internet è il pianeta dove trovare gli artisti del futuro. Con Stefano Longoni cerchiamo ragazzi da lanciare attraverso un format che abbiamo chiamato Starcube e che è il contrario di The Voice. Dentro un cubo vedo l’artista muoversi e ballare con l’audio abbassato: dev’essere la sua presenza a farmi venir voglia di alzare il volume. È il mio metodo di lavoro: non ho mai fatto provini sulla voce, è il contatto con la persona a svelarne il talento. Se mi fossi basato sull’estensione vocale forse non avrei lanciato Jovanotti».

Claudio Cecchetto con Fiorello e Max Pezzali, due degli artisti da lui lanciati

Claudio Cecchetto con Fiorello e Max Pezzali, due dei tanti artisti da lui lanciati

Accoglienza finora?

«Tiepida, ma non demordo. Oggi i dirigenti tv producono solo format garantiti. Io non voglio sostituire prodotti già in voga, ma aggiungere un’alternativa. Prima o poi produrrò una puntata pilota».

Cosa pensa dei talent show?

«Sono il matrimonio giusto tra tv e discografia. La tv ha suggerito alla discografia di fare spettacolo e non solo musica. Il primo talent show fu Castrocaro. Gli artisti di successo possono emergere anche altrove, non è colpa dei talent se non esce l’artista».

Qualcuno che le piace di più di questi anni?

«Marco Mengoni ha buone possibilità di diventare un artista storico. Del livello di Tiziano Ferro, Cesare Cremonini, Negramaro, Max Pezzali, Biagio Antonacci. L’X Factor che produce più artisti è quello inglese perché c’è Simon Cowell, un talent scout. Per un cantante è difficile giudicare un altro cantante».

Mara Maionchi?

«È una discografica, un’animale televisivo. Un piacere sentirla su qualsiasi argomento».

Il momento che ricorda con più piacere della sua carriera?

«Il Festival del 1981. Uscendo alla fine della finale, il mondo mi era cambiato davanti. La gente mi voleva abbracciare, le ragazze m’infilavano il numero di telefono in tasca, scene di fanatismo. Quella volta ho pensato ai Beatles».

E quello che le provoca dispiacere?

«Ognuno ha qualche rimpianto. Ma con la fortuna che ho avuto non è proprio il caso di lamentarsi».

Un progetto ancora da realizzare?

«Ho avuto due nascite, quella naturale a Ceggia, e quella artistica, a Sanremo. Per questo, mi piacerebbe tornare a Sanremo da direttore artistico».

In un libro sul lavoro Primo Levi scrive che si avvicina alla felicità l’uomo che riesce a far coincidere la sua passione con il mestiere.

«Le prime volte che andavo in radio non c’era lo stipendio, si mangiava gratis al ristorante in cambio della pubblicità. Non mi mancava nulla, non pensavo a guadagnare. La felicità di svegliarsi ogni giorno sapendo di fare la cosa che mi piaceva di più era appagante. Se poi ti pagano anche, è il massimo».

Non c’è il rischio che la vita coincida con il lavoro?

«Solo così si hanno grandi risultati. Una passione non prevede il part time. Per esempio, in discoteca mi annoiavo. O mettevo i dischi o niente».

Va in vacanza?

«All’Elba. Sono amico del padrone dell’hotel. Organizzo la serata di Ferragosto. Metto i dischi, li scelgo, preparo la scaletta. Una settimana di preparativi. Spotify, I-tunes, un’ora in spiaggia al giorno. Dal 16 mi annoio. Quando mi chiedono che musica metto in sottofondo, rispondo: in sottofondo non esiste, quello che faccio è in sottofondo. Per questo non posso fare l’amore con la musica».

Il genere musicale del futuro?

«La musica trap. Quella di Ghali e Sfera Ebbasta».

Come talent scout su chi scommetterebbe?

«Su Oel, quello delle Focaccine dell’Esselunga».

Diciamo che non deve fare molta strada.

«Diciamo che lo conosco bene».

Che cos’è la gratitudine?

«È un sentimento ambivalente, che serve al gratificato e al gratificante. Si deve anche stare attenti a non pretendere una gratitudine maggiore di quella che ci si merita. Quando lanci un artista è come un figlio: dev’essere libero di andare e sbagliare, senza pensare di doverti ringraziare tutta la vita. L’artista ha la sua strada, lo sa che sei suo padre. Bisogna avere le palle per essere grati. I miei artisti le hanno».

La Verità, 11 febbraio 2018

E se Povia fosse una specie di Grillo pro life?

L’ultima volta che si è sentito parlare di Giuseppe Povia è stato al Festival di Sanremo. Come a tutti gli ospiti, Carlo Conti aveva chiesto a Francesco Totti qual era la sua canzone preferita e lui ha pronunciato il nome proibito: «Povia». Non il titolo di un brano, ma il nome di un cantante. Anzi, di un cantautore. Nome all’indice all’Ariston. Di Povia il grande pubblico ricorda le controverse partecipazioni proprio al Festival della canzone italiana. Uno anche vinto nel 2006, conduttore Giorgio Panariello. Nel 2008, Pippo Baudo lo escluse dalla competizione, in coppia con Francesco Baccini avevano proposto Uniti. Nel 2009, invece, conduttore Paolo Bonolis, Luca era gay si classificò al secondo posto. Nel 2010 arrivò alla serata finale con la canzone La verità, ispirata al caso di Eluana Englaro. Fin qui il suo rapporto con Sanremo. In realtà, di Povia ce n’è un altro, con una vita artistica lontana dal Festival, fatta di concerti in circuiti alternativi e di album autoprodotti. Una vita artistica che sconfina nell’attivismo pro life e non solo. L’ultimo suo video su Facebook (oltre 320.000 visualizzazioni) è una contestazione punto per punto di un lungo servizio di Nadia Toffa delle Iene favorevole alla maternità surrogata. Si potrebbe chiamarla controinformazione, usando una parola di moda a sinistra. Ma se Le Iene stesse si presentano come un programma di controinformazione, allora il corto circuito c’è tutto. Perché, in realtà, oggi sono mainstream l’utero in affitto a pagamento e il «genitore 1» e «genitore 2». Mentre è considerato retrogrado chi sostiene che il padre è un uomo e la madre una donna. Con qualche eccesso complottista, bisogna riconoscere che nei video, nel blog e nel cd Povia ha il coraggio di mettere a nudo questo meccanismo. Il problema è che, di Povia, ce n’è un altro ancora. Forse già prigioniero del personaggio o del ruolo di piccolo guru, conclude i suoi interventi con l’invito a ordinare il disco o ad allestire concerti e raduni in cui farlo esibire. Per farsi intervistare di persona pone una serie di condizioni, è reticente di fronte alle domande sul suo passato e la sua formazione personale. E, infine, non disdegna d’insegnare come si fanno le interviste.

Peccato.

Francesco Totti all'ultimo Festival di Sanremo

Francesco Totti all’ultimo Festival di Sanremo

Ripartiamo dall’ultimo Festival di Sanremo. Perché Totti che pronuncia il suo nome all’Ariston dà la sensazione di violare un tabù?

«Ci sono due tipi di pubblico: quello della tv e quello del web. Il primo prende quello che gli dai, ma si accorge se c’è un fuori copione. Il gelo che hanno mostrato Karl e Mary per sempre quando Totti ha fatto il mio nome indica come io sia un cantautore al momento non con…forme. Nel web il pubblico è più attento e selettivo perché si può esprimere, fino a quando sarà permesso. Infatti ho centinaia di migliaia e a volte milioni di visualizzazioni per la musica e per i temi che tratto».

Ha un rapporto travagliato con il Festival, nel 2006 l’ha vinto con Vorrei avere il becco, l’anno prima la sua I bambini fanno ooh era stata esclusa perché l’aveva cantata a una manifestazione.

«Vorrei avere il becco è dedicata a tutti i nonnini che come i piccioncini si sono accontentati delle briciole e hanno ricostruito l’Italia distrutta dalla guerra, poi costituita nel ’48. I bambini fanno oh è stata una vittoria comunque».

Nel 2007 ha partecipato al primo Family Day: molto controcorrente nel mondo della musica e dello spettacolo in genere…

«Già lì avevo capito che l’ovvietà sarebbe stata controcorrente. Infatti oggi se dici che un bambino deve crescere con una figura maschile e una femminile sei un rivoluzionario».

Come nasce Giuseppe Povia, cantante? Com’è stata la sua formazione?

«Sono sempre stato un autodidatta che adatta le canzoni in base al tema che tratta».

Torniamo a Sanremo. Nel 2009 presentò il brano Luca era gay: polverone prevedibile?

«Se canti temi sociali si accende un dibattito. Ma la cosa imprevedibile è stato il coraggio di un grande conduttore: Paolo Bonolis».

Possiamo chiarire otto anni dopo chi era il Luca della canzone? Lei ha più volte detto che non era Luca Di Tolve, ex ballerino e organizzatore di crociere per omosessuali poi convertitosi all’eterosessualità e organizzatore di corsi per la presunta guarigione.

«Luca nella vita reale si chiama Massimiliano. Conosciuto nel 2004, ateo convinto».

In quella canzone cantava «nessuna malattia, nessuna guarigione». Come va considerata l’omosessualità?

«Noi siamo quello che pensiamo e conduciamo uno stile di vita, gay o etero, in base alla relazione sociale che abbiamo avuto nella vita stessa. È un punto di vista personale, ma anche la scienza è divisa su questo argomento e quando è così tutti hanno torto e tutti hanno ragione.

Le malattie sono il cancro, la leucemia…».

Quali sono le cause dell’espansione delle teorie gender?

«In breve, molto in breve, le cause sono il business e soprattutto Usa e Gb che ci inondano di tendenze. Per approfondire venite a vedere un mio concerto o, meglio ancora, un concerto/convegno con l’avvocato Gianfranco Amato. Le date sono sulla mia pagina Facebook».

La nuova frontiera sono le cosiddette nuove genitorialità attraverso la gestazione per altri… L’utero è di chi lo affitta?

«Sì, ma come dico nel brano Dobbiamo salvare l’innocenza “la vita non si vende e non inganna” e a rimetterci sono sempre i bambini».

Perché le minoranze sessuali sono sempre più potenti? Adesso c’è anche l’oscar della comunicazione per chi si mostra più bravo a comunicare lo stato delle persone Lgbt…

«Le minoranze hanno sempre comandato il mondo in ogni campo».

Che cos’è l’omofobia?

«Omofobia è un termine inventato nel 1971 da George Weinberg, psicologo magari bravo ma ideologizzato. Non vuol dire niente se non paura dell’identico, che vuol dire ancora meno. Non c’entra niente con l’omosessualità. Ma con la scusa dell’odio e dell’ignoranza si vuole creare una nuova legge. Se dovesse passare, dire che un bambino deve crescere con una mamma e un papà potrebbe mandarti in prigione. Dipenderà dal giudice. Ricorda il nazismo o i regimi totalitari sovietici, come sostiene Gianfranco Amato».

Che margini ci sono per difendere la famiglia tradizionale senza esserne accusati?

«Per ora tutti, la si può difendere a spada tratta. Ma se siamo arrivati al punto di domandarcelo, c’è da preoccuparsi. Negli anni 50/60, se non sbaglio, il partito comunista fece un manifesto con raffigurati donna, uomo e figli in difesa della famiglia. Oggi l’evoluzione di quel partito la sta distruggendo con la scusa del progresso».

L’ultimo suo cd, il decimo, s’intitola il Nuovo Contrordine Mondiale. C’è relazione tra gli argomenti e il fatto che sia un album autoprodotto?

«Sostanzialmente mi sono sempre autoprodotto, ma sbagliavo a regalare i diritti e le edizioni in cambio di una promozione adeguata che poi non avveniva».

Ora lei tiene concerti/convegni e ha un blog piuttosto militante. Sta diventando il Beppe Grillo di centrodestra? Ha mai pensato di fondare un movimento o ne supporta qualcuno già esistente?

«Sono un artista libero e canto ovunque mi facciano esprimere. Non ho lo la tessera di nessun partito, dico ciò che penso e di conseguenza mi danno una collocazione. Io mi metto a ridere perché nessuno sa mai cosa potrei dire di lui, da sinistra a destra».

Parla meno di famiglia e bambini e più di potere e pensiero unico…

«Ho fatto un disco a 360° che parla di finanza, economia, diritti e sociale. Non si trova nei negozi e si  può ordinare solo a ufficiostampa@povia.net».

In Chi comanda il mondo parla di «una dittatura di illusionisti finti economisti equilibristi terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti» e nel video lei ha il simbolo dell’euro dipinto sulla faccia: un po’ forte no?

«E non si è accorto che nel video ci sono anche Mario Draghi, Angela Merkel, la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale e il panfilo Britannia dove nel ’92 si è decisa la svendita dell’Italia? Questi sono quelli che ci comandano, bene o male decidetelo voi. L’euro non è una moneta, è una dittatura. Ormai l’hanno percepito tutti».

Mi sono accorto, sì. Il suo è complottismo un po’ inquietante.

«Il complottismo è quando non ci sono documentazioni. Io documento tutto ciò che dico e per questo ringrazio anche Paolo Barnard, l’unico giornalista di inchiesta serio in Italia».

Un po’ se le va a cercare… non le va bene nemmeno Garibaldi.

«Pensi che c’è gente che crede ancora che uno con mille soldatelli abbia conquistato un regno di 9 milioni di persone. Povero Sud: aveva tre volte la ricchezza di tutti gli Stati del nord messi insieme. E non lo dico io, ma importanti storici revisionisti. Prima dell’unità di Italia al sud non esisteva emigrazione né disoccupazione».

C’è qualcuno o qualcosa in giro che le suscita un sorriso se proprio non vogliamo azzardare un moto di speranza?

«L’innocenza dei bambini».

La Verità, 2 aprile 2017