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«Le chiese in lockdown mi hanno spinto in Africa»

Il 27 aprile 2020, piena era Covid, con un video di quattro minuti contestò la decisione dell’allora governo Conte di mantenere le chiese chiuse. Poi, nell’ottobre successivo, si dimise da vescovo di Ascoli Piceno e si ritirò in un monastero in Marocco: «In un momento difficile come questo in cui regna confusione e nella società c’è tanta paura, sento profondamente il bisogno di dedicarmi alla preghiera». Giovanni D’Ercole, già vescovo ausiliare a L’Aquila e poi pastore ad Ascoli Piceno, è un volto familiare non solo per i cattolici, ma per tanti altri essendo stato per 24 anni conduttore del programma di Rai 2 Prossimo tuo diventato poi Sulla via di Damasco. A tre anni da quella scelta ha accettato di rispondere alle domande della Verità.

Qual è il motivo del suo trasferimento nel monastero Nôtre Dame de l’Atlas a Midelt?

«Con la pandemia del Covid-19 perdurava la chiusura delle chiese senza la possibilità dei sacramenti. Come pastore non accettavo che si considerassero le chiese luogo del contagio più dei supermercati. Da qui quel video».

Come venne accolto?

«Mi dissero che rompevo la comunione tra noi vescovi non seguendo le indicazioni del governo».

Da chi le fu fatto osservare?

«Alcuni lasciarono capire che anche il Papa lo pensava. Così, per coerenza e per non creare inutili dissidi, decisi di dimettermi e il 29 ottobre 2020 lo feci».

Vedeva una gerarchia troppo acquiescente allo Stato?

«Si erano accettate le direttive del governo e, non volendo fare polemiche, ho scelto di ritirarmi in monastero. Tanta gente si sentiva abbandonata e l’ho portata in preghiera con me. Poi ho cominciato a sostenere spiritualmente diversi sacerdoti, ed è nato il gruppo “Verità e riconciliazione” il cui scopo è dalla sofferenza del Covid far nascere la speranza. Recentemente molti di “Verità e riconciliazione” hanno inviato una lettera ai giornali cattolici perché si faccia verità sui vaccini per cui tante persone si sono allontanate dalla Chiesa. Anche voi della Verità ne avete parlato».

Ha visto che in Italia la Commissione d’inchiesta sulla pandemia stenta a decollare?

«Ricercare la verità fa bene a tutti, anche perché c’è gente che soffre le conseguenze dei vaccini. Il comitato “Ascoltami” raccoglie più di 4.000 persone con gravi postumi dal siero e chiede aiuto. Al loro grido ha risposto un gruppetto di sacerdoti denominatosi “Chiesa in ascolto” per dare a chi soffre un segno di vicinanza della Chiesa. Anch’io ho aderito: parlando con malati a distanza avverto tanta paura e bisogno di ascolto».

Che risposte avete avuto?

«Ho visto tanta rabbia calmarsi quando ci si rende conto che qualcuno ascolta, almeno nella Chiesa».

Tre anni fa divenne in anticipo vescovo emerito di Ascoli Piceno: una scelta che poteva ricordare le dimissioni di Benedetto XVI nel 2013?

«Ho scelto di ritirarmi in preghiera; stando in monastero mi è stato proposto di restare in Marocco a sostegno dei sacerdoti e ringrazio l’arcivescovo di Rabat, il cardinale Cristóbal López Romero, che mi ha accolto. Da quasi tre anni sono al servizio della comunità cristiana composta da 40.000 fedeli in un popolo di 35 milioni di abitanti. Una Chiesa, secondo le parole del cardinale, “insignificante ma significativa”, in gran parte composta da giovani subsahariani».

Come si svolge la vita di preghiera?

«Dalle 3,45 alle 20,30 la giornata scorre tra silenzio, preghiera, lavoro, studio, con la Messa cuore di tutto. Spesso i tempi delle nostre preghiere coincidono con quelli delle preghiere islamiche, annunciate dal muezzin e quasi ogni giorno, al mattino, gli operai tutti musulmani preparano una colazione che chiamiamo “la seconda eucaristia”, un segno che unisce i monaci alla gente».

Il suo monastero ha accolto i superstiti dei trappisti di Tibhirine uccisi in Algeria nel 1996. In che modo ne proseguite l’eredità?

«Padre Jean Pierre Shoumacher, l’ultimo sopravvissuto, è morto il 21 novembre 2021 a Midelt dove si vive il carisma di Tibhirine che unisce alla vita dei trappisti il dialogo con l’islam».

Dopo quel martirio com’è possibile il dialogo in un Paese quasi totalmente musulmano?

«Non si meravigli se le dico che è possibile e anzi persino fruttuoso: è l’incontro di gente che prega e quindi tra credenti. A contatto con quest’islam ho riscoperto la mia fede cristiana, seguendo le orme di Charles de Foucauld e del suo discepolo padre Albert Peyriguère, sepolto in questo monastero».

Ammette che si tratta di un’esperienza singolare, considerato tutto quello che accade in Israele e la sequela di morti di innocenti in Europa?

«Tutto si complica quando si alimentano preconcetti e pregiudizi: il dialogo è invece possibile e papa Francesco sta facendo di tutto per implementarlo. Il dialogo è rispettare e accettare le differenze in cerca di ciò che ci unisce senza accentuare i contrasti. Il vero atout è conservare la propria identità e viverla in modo serio e visibile. Mi permetta di dirle che ascolto spesso musulmani affermare che noi cristiani europei ci vergogniamo della nostra fede. Ed io non so come fare per aiutare a capire che svendere la nostra fede per andare incontro ai musulmani è un grosso errore. Non bisogna aver paura, la violenza, quando c’è, è al di fuori della religione».

C’è chi dice che invece la violenza sia insita nel Corano. Lei non crede che l’islam abbia ambizioni di conquista del mondo occidentale?

«Che i musulmani possano avere questa intenzione è possibile, è il proselitismo, ma il problema è che noi europei abbiamo abdicato alla nostra fede, diventando non più credenti e quindi assai fragili».

La nostra arrendevolezza facilita l’espansione dell’islam?

«Sicuramente, soprattutto se non viviamo più da cristiani perché il confronto deve essere tra “credenti”».

La invito a riflettere su alcuni fatti che sfuggono a questa lettura. In Francia nel 2016 padre Jacques Hamel è stato sgozzato a Rouen da due estremisti islamici, nell’agosto del 2021 padre Olivier Maire è stato ucciso in Vandea dall’uomo che un anno prima aveva appiccato l’incendio nella cattedrale di Nantes.

«Stiamo parlando dell’estremismo. È vero: esiste e le prime vittime sono gli stessi musulmani moderati. L’estremismo è una mina vagante, che riguarda una minima parte dell’islam. Per combatterlo si vive la fede cristiana “senza se e senza ma” e ci si allea strategicamente con quei musulmani che come noi credono in un Dio misericordioso. Ma una domanda va fatta: come si stanno accogliendo gli immigrati in gran parte islamici? La violenza potrebbe nascere proprio da come li trattiamo».

Molti segnali indicano che le seconde e le terze generazioni non vogliono integrarsi e vivono in zone metropolitane dove vigono leggi alternative a quelle dei Paesi ospitanti.

«È tutto vero: paghiamo il prezzo della politica dell’immigrazione che non ha puntato seriamente all’integrazione. Come cristiani poi non siamo spesso un esempio di Chiesa viva, e allora molti giovani musulmani sono sedotti dalla laicizzazione dilagante e dalla violenza come conseguenza di tanti fattori».

In Europa ammette che l’integrazione è fallita anche chi, come Angela Merkel, ci ha provato e creduto a lungo.

«Può essere, ma mi permetta di aggiungere che nessuno finora ha preso sul serio l’integrazione come valorizzazione delle differenze. Domina sempre la paura e la disistima verso il “diverso”.  Don Tonino Bello sognava la “convivialità” e non lo scontro fra le culture».

Da lì come vede l’ondata migratoria verso l’Europa?

«È un’invasione inarrestabile di popoli sfruttati nell’epoca coloniale e oggi con il miraggio dell’eden europeo».

Miraggio è la parola corretta perché indica una realtà che appare, ma non si realizza.

«Si realizza nel senso che chi arriva in Europa è disposto a tutto perché ha capito, a differenza di molti giovani italiani, che bisogna faticare per costruirsi una situazione dignitosa. E ci riescono perché ne sono certi».

Per ora le conseguenze sono soprattutto delinquenza e criminalità.

«Il fenomeno della delinquenza non potrebbe essere utile politicamente a qualcuno?».

Che ruolo ha la Chiesa cattolica nella convivenza tra le diverse religioni?

«Papa Francesco invita al dialogo senza abdicare alla propria identità. Guai a diluire il vangelo perché chi debole si fa, finirà per perdere nel confronto«.

Perché le esortazioni alla pace di papa Francesco sono poco considerate?

«Molti ammirano papa Francesco per il suo desiderio di includere, ma mi capita di sentire gente che non lo vuole ascoltare. Allora dico loro: leggete quel che Francesco scrive nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: “La gioia del vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”. La pace, diceva Giovanni Paolo II, nasce solo da cuori pacificati e Cristo è la nostra pace».

Lei è anche un uomo di comunicazione: papa Francesco è ascoltato quanto merita o il moltiplicarsi degli interventi sull’attualità rischia di ridurne l’autorevolezza?

«Una regola basilare della comunicazione è che quanto più si parla, meno si è ascoltati. E questo riguarda tutti».

Ha apprezzato l’esortazione apostolica Laudate Deum?

« A mio avviso tutto è utile e interessante, ma oggi si deve andare all’essenziale perché nello sconquasso generale si ha urgente sete di verità: di Dio, come Francesco aveva annunciato attraverso il Giubileo straordinario della misericordia del 2015-2016».

Ha visto nella Laudate Deum un appiattimento sui temi dell’ambientalismo? 

«Conservo sempre nel cuore quello che Francesco ha più volte ripetuto e cioè che la Chiesa non è una Ong che fa solo promozione umana».

Come ha vissuto il Sinodo sulla sinodalità?

«Il cardinale arcivescovo di Rabat è tornato entusiasta soprattutto per il clima di preghiera che l’ha guidato, mentre un vescovo africano era perplesso per le aperture che si stanno facendo».

Che cosa pensa della decisione di papa Francesco di sollevare dall’incarico il vescovo americano Joseph Strickland a causa delle sue posizioni tradizionaliste?

«Il Papa è il Papa e quello che fa ho imparato a non giudicarlo».

Da decenni c’è il calo di partecipazione ai sacramenti e la crisi delle vocazioni. Perché i giovani di oggi dovrebbero essere attratti dalla Chiesa se propone le stesse cose che propone il mondo?

«Ha ragione, ma c’è una grande novità all’orizzonte: è Gesù e i giovani oggi ne hanno sete. Non tradiamo le loro attese».

Le manca la vita attiva di pastore e pensa di tornare in Italia?

«Vivo intensamente la giornata con ampi spazi di preghiera e di ascolto della gente. Ringrazio Dio per tutto e farò in futuro quello che Lui vuole».

 

La Verità, 25 novembre 2023

 

«Papa Francesco riduce la Chiesa all’irrilevanza»

Il suo blog Duc in altum è una delle voci più seguite nel mondo cattolico conservatore. A lungo vaticanista del Tg1, Aldo Maria Valli è autore di saggi e interventi sulla Chiesa italiana e mondiale. La quale, ha scritto di recente, non vive solo una crisi, ma una vera rivoluzione che può portarla all’estinzione. Secondo lui, per scongiurare simile apocalisse, i cattolici devono diventare controrivoluzionari.

Aldo Maria Valli, che cosa pensa della Nota con cui l’ex Sant’Uffizio, retto dal cardinal Victor Manuel Fernández, e controfirmata da papa Francesco, stabilisce che chi cambia sesso può accedere al battesimo come pure i figli di genitori gay concepiti con l’utero in affitto?

«Penso che il documento costituisce una nuova tappa nel percorso di allontanamento dalla dottrina cattolica. E ciò avviene nel modo abituale, con ben scarsa chiarezza, forte ambiguità e strizzando l’occhio alla mentalità dominante. Ciò che interessa è unicamente dare l’idea di un’apertura. Infatti, tutti i media hanno titolato: “Il Vaticano apre a trans e gay”. Il peccato è nascosto sotto una coltre di parole. Nessuna preoccupazione pastorale: si vuole normalizzare un comportamento che la Chiesa in realtà non può accettare. È una strategia che Bergoglio persegue con determinazione».

Tuttavia il battesimo è il più democratico dei sacramenti e la Nota stabilisce le condizioni per accedervi.

«Il battesimo non è un diritto, ma un sacramento. Chi lo chiede per un piccolo s’impegna a far conoscere Dio e a seguire i suoi insegnamenti».

Qualche giorno fa è stato annunciato un nuovo libro intervista di papa Francesco a Fabio Marchese Ragona, vaticanista di Mediaset.

«Dicono che sarà un’autobiografia e che il Papa si toglierà sassolini e sassoloni dalle sue umili scarpe nere. Un altro passo verso la “normalizzazione” della figura papale».

In che senso?

«Penso che questa autobiografia sarà utilizzata per accreditare ancora di più la figura di Bergoglio come quella del Papa della gente e della misericordia. E per regolare qualche conto con tutti quelli che in un modo o nell’altro sono entrati in rotta di collisione con lui».

Perché le interviste e i dialoghi di Bergoglio con i media sono così frequenti?

«Per protagonismo, perché Bergoglio è consumato dall’ansia di piacere alla gente che piace: vuole mostrarsi come uomo fra gli uomini, come colui che non giudica ma accompagna. Gli interessa eliminare dalla figura papale ogni residuo elemento divino per appiattirla sul mondo».

Non è il suo modo di evangelizzare, di essere missionario?

«No, è un modo di esaltare il personaggio. Con questi interventi non conferma i fratelli nella fede, ma i lontani nella loro lontananza. Non a caso, applausi e complimenti arrivano proprio dai lontani, da quelli che sono sempre pronti a puntare il dito contro la Chiesa».

Cosa pensa dei pronunciamenti del Pontefice sulle guerre in Ucraina e in Israele, la «Terza guerra mondiale a pezzi»?

«A proposito della guerra in Medio Oriente Francesco ha chiesto di cessare il fuoco, di percorrere ogni via per evitare l’allargamento del conflitto, di liberare gli ostaggi, di garantire spazi per gli aiuti umanitari. Ha detto e ripetuto che la guerra, ogni guerra, è una sconfitta. Ha anche detto che è diritto di chi è attaccato difendersi. Riguardo all’Ucraina, ha mandato in missione il presidente della Cei, Matteo Zuppi, a Kiev, Mosca e Washington per tentare una mediazione».

Con quali risultati?

«Praticamente nulli. Sia Kiev sia Mosca hanno detto no. E Putin si è ben guardato dall’incontrare l’inviato papale».

Perché le frequenti richieste di cessare il fuoco sono poco considerate?

«La voce del Papa ormai non spicca sulle altre. Ha perso autorevolezza e prestigio. Nel 1962 l’intervento di Giovanni XXIII fermò la minaccia della guerra nucleare fra Usa e Urss per i missili installati a Cuba. Dopo l’apertura degli archivi sovietici abbiamo potuto conoscere l’importanza di quell’appello del Papa. Sappiamo anche che, sebbene sopravvalutata da certa storiografia, l’azione di Giovanni Paolo II ebbe certamente un ruolo nell’indebolimento dell’orso sovietico e nella caduta del muro di Berlino. Ma era un altro Vaticano, con un’altra diplomazia. È significativo che per l’Ucraina il Papa si sia affidato a Zuppi. Zuppi vuol dire la Comunità di Sant’Egidio. La Segreteria di Stato è stata saltata».

Dopo l’ingiustificato atto terroristico di Hamas la Santa Sede avrebbe potuto esprimersi in modo più nitido?

«Avrebbe potuto fare e dire tante cose. Resta il fatto che la voce del Papa ha perso rilevanza, così come la diplomazia della Santa Sede».

La Chiesa potrebbe esprimere una posizione più chiara sulla nuova ondata di antisemitismo?

«Idem come sopra. Prendiamo atto che la voce del Papa è ormai una fra le tante».

Che cosa pensa del fatto che qualche giorno fa, a causa del cattivo stato di salute, Francesco ha preferito far distribuire il discorso anziché leggerlo ai rabbini europei durante l’udienza a loro riservata?

«Una volta in questi casi si parlava di raffreddore diplomatico. Bergoglio al mattino non ha parlato ai rabbini perché “malato”, ma nel pomeriggio è miracolosamente guarito e si è intrattenuto con migliaia di bimbi, rispondendo a una raffica di domande».

Qual è la sua valutazione sul Sinodo sulla sinodalità?

«Aria fritta in dosi esorbitanti. A nessuno interessa un fico secco. Il Papa ripete che la Chiesa non deve essere autoreferenziale e poi escogita un Sinodo che è il massimo del clericalismo. Ciò che gli interessa è disarticolare la Chiesa dall’interno e introdurre un falso metodo “democratico” funzionale a questo progetto. Al grido di “È il popolo che lo chiede” può innescare i processi da lui desiderati. Anche il ridimensionamento del ruolo dei vescovi serve a questo. Ma ovviamente è tutto fumo, perché le decisioni sono già state prese in anticipo».

Una visione molto negativa. Un Sinodo così è un segnale di ripiegamento?

«Manifesta quello che dicevo prima: fumo negli occhi per nascondere il vero fine, che è disarticolare la Chiesa. Non sono d’accordo con chi dice che siamo di fronte a una profonda crisi della Chiesa. Non è una crisi, è una rivoluzione. Bergoglio vuole una nuova Chiesa, funzionale a una nuova religione ecologista e mondialista. E il Sinodo è uno degli strumenti di cui si serve».

Che esiti potrà produrre nel tempo?

«L’obiettivo di questo Sinodo, che definisco “il Sinodo truffa”, è far penetrare nella Chiesa alcune idee. Circa, per esempio, il sacerdozio femminile e la benedizione delle coppie omosessuali, al Papa non interessa tanto il risultato concreto e immediato, quanto innescare un processo. L’obiettivo è quello di tutti i modernisti: mettere la Chiesa al passo con il mondo. Il relatore del Sinodo, il cardinale Jean-Claude Hollerich, ha più volte affermato che l’assemblea non ha l’autorità di prendere decisioni: quello che può fare è solo “discernere”. Ma questa è una furbata, perché già il modo in cui si discute serve ad allineare la Chiesa a certe tendenze. Il metodo è il messaggio. Ciò che più mi disgusta è che per giustificare tutto questo i modernisti tirano in ballo lo Spirito Santo».

Che segno sta lasciando l’esortazione apostolica Laudate Deum?

«Zero, nulla. A otto anni dalla Laudato si’, l’enciclica dedicata alla “cura della casa comune”, il Papa ha voluto tornare in campo per rinnovare le sue “accorate preoccupazioni”, ma lo ha fatto in modo totalmente ideologico e con una superficialità e una partigianeria che lasciano stupefatti. Qualcuno ha detto che se un testo simile fosse stato presentato da uno studente universitario avrebbe meritato una sonora bocciatura per quanto è inconsistente. Intendiamoci: nessuno discute il diritto-dovere di Francesco, in quanto vicario di Cristo sulla terra, di occuparsi di questi problemi. Il problema è che Bergoglio parla come una Greta Thunberg qualsiasi. In questo modo, paradossalmente, il Papa che non vuole essere dogmatico “dogmatizza” l’ideologia ecologista, e il Papa dell’ascolto rivela una totale intolleranza verso chi la pensa diversamente, definendo “irragionevoli” le opinioni di chi, anche nella Chiesa, non concorda con la sua valutazione. Inquietante è il fatto che ancora una volta dipinga l’uomo bianco e occidentale come nemico della natura, che si schieri apertamente dalla parte dei gruppi ambientalisti radicali e che chieda “di stabilire regole universali ed efficienti”, così da imporre “norme vincolanti di transizione energetica”. Vuole un governo mondiale, qualcosa che appartiene al repertorio massonico, non alla linea della Chiesa cattolica».

Perché la rilevanza del magistero sembra inversamente proporzionale alla quantità dei pronunciamenti?

«Troppi interventi, troppe interviste, troppe parole superficiali e ambigue, troppa chiacchiera da bar. Ma tutto ciò è voluto: l’obiettivo è ridurre la Chiesa all’irrilevanza. Bergoglio è stato scelto per questo e sta portando a termine la missione».

Addirittura. Che cosa pensa della pastorale in atto sui movimenti?

«Non ne penso nulla. Bergoglio è totalmente indifferente ai movimenti, se non nella misura in cui possono intralciare i suoi progetti».

È sufficientemente nei pensieri dei vertici ecclesiali la realtà fotografata da Euromedia Research per Il Timone da cui risulta che solo il 13% degli italiani frequenta la messa domenicale?

«I vertici ecclesiali sono stati impegnati per un mese in un Sinodo inutile. C’è da aggiungere altro? Sembrano l’orchestra che suona sulla tolda del Titanic».

La crisi delle vocazioni preoccupa quanto dovrebbe?

«Vuole scherzare? Con l’eccezione di qualche vescovo e qualche bravo sacerdote, la Chiesa non se ne cura minimamente. Il Sinodo ne è la prova».

Cosa pensa del fatto che il presidente della Cei Matteo Zuppi ha criticato l’accordo tra Italia e Albania sui migranti?

«È una frecciata al governo, non stupisce. Forse sarebbe meglio se si occupasse dello stato comatoso della Chiesa, con la continua perdita di fedeli e vocazioni».

Nei suoi ultimi interventi lei afferma che siamo di fronte a una rivoluzione nella Chiesa più che a una crisi della Chiesa. Che cosa vuol dire essere controrivoluzionari?

«Ristabilire l’ordine che è stato infranto. A tutti i livelli, secondo una visione gerarchica che è propria della Chiesa e non può essere sostituita da nessun meccanismo sinodale. Prima di tutto occorre rimettere Dio al posto che gli spetta, perché i neo-modernisti lo vogliono detronizzare, per lasciare campo libero alle idee del mondo».

 

 La Verità, 11 novembre 2023

«L’islam conquista l’Europa con migranti e natalità»

Giornalista del Foglio, già collaboratore del Jerusalem Post e del Wall Street Journal, autore di saggi sulle religioni del Medio Oriente, Israele e mondo arabo, Giulio Meotti è uno dei maggiori esperti italiani di islam.

Il suo ultimo libro pubblicato da Cantagalli s’intitola La dolce conquista, sottotitolo: l’Europa si arrende all’islam. Perché sarebbe dolce questa conquista?

«Perché è più pericolosa delle bombe e delle uccisioni, ce ne sono state tante con centinaia di morti».

Sembra un controsenso.

«È più pericolosa perché non provoca una reazione dell’opinione pubblica e di coloro che dovrebbero proteggerci».

La dolcezza risalta a confronto con i precedenti tentativi di conquiste, quella dei Mori della Spagna, e quella dei Turchi passando dai Balcani?

«In parte sì. Il grande islamologo e arabista Bernard Lewis diceva che questa è la “terza conquista”, dopo che i musulmani sono stati fermati a Poitiers e alle porte di Vienna».

Di quali mezzi si serve?

«Della demografia perché il tasso di fertilità è di gran lunga superiore al nostro, dell’immigrazione e della dawa, che è la predicazione attraverso le moschee e la proliferazione dei simboli islamici».

È più l’Europa che si arrende o la religione islamica che è aggressiva?

«Un mix delle due cose. Da un lato c’è l’arrendevolezza dei politici europei e dall’altra la volontà di espansione che appartiene all’islam che, ricordiamolo, si distingue tra il dar al-islam, la terra dell’islam, e il dar al-harb, che è la terra della conquista, tutto ciò che non è islamico ma lo dovrà diventare».

Premesso che Francesco sottolinea che la missione si esprime attraverso il contagio, il proselitismo appartiene a tutte le religioni.

«Con la differenza che il cristianesimo nella vecchia Europa è in ritirata mentre l’islam è in una fase di grande avanzata. Il mix letale è scristianizzazione più islamizzazione».

Un travaso fra vasi comunicanti?

«A suo tempo il cardinal Giacomo Biffi disse che “l’Europa o ridiventerà cristiana o diventerà islamica”».

Sono proselitismi paragonabili?

«Non c’è nella storia dell’islam un Paese che si islamizza e preserva comunità religiose alternative. Nel più laico tra i paesi musulmani, la Turchia, gli ebrei sono una manciata e i cristiani stanno scomparendo».

Non ammettono la convivenza con altre confessioni?

«Boualem Sansal, autore di 2084. La fine del mondo, ha paragonato l’islamismo a un gas, “nel lungo periodo occupa tutto lo spazio”».

È corretto definire l’islam religione?

«Non è solo una religione, è un’ideologia e un modo legislativo di vivere: non bere alcolici, fai crescere la barba ma non i baffi, vela le donne. L’islam non ha capacità di separare il privato dal pubblico».

Prevede anche la poligamia, la guerra santa contro gli infedeli, l’assassinio degli apostati, la sottomissione delle donne?

«Nel Corano si può trovare tutto e il contrario di tutto. Ma per come si è impostato nei secoli, l’islam è diventato una straordinaria macchina di conquista per cui, oggi, gli stessi musulmani sono oggetto di conquista. Lo vediamo in Europa dove le seconde e le terze generazioni sono più religiose dei loro padri».

In che senso?

«I padri sono venuti qui per lavorare alla Renault e alla Fiat e si sono laicizzati a contatto con le libertà e i diritti occidentali. Ora i figli si sono reislamizzati. Con l’affermazione degli ayatollah e dei Fratelli musulmani i giovani sono diventati oggetto di una nuova campagna di indottrinamento. Altrimenti come spiegarsi il fatto che, pur essendo in Occidente da decenni, ancora pensano al Profeta, al califfato, alla sharia?».

La jihad è solo un movimento religioso?

«Jihad significa sforzo quindi è anche militare ed economica. Lo si vede dall’esplosione del mercato halal, i ristoranti, i menù nelle mense, le catene alimentari, i pellegrinaggi organizzati dall’Europa verso La Mecca. E poi dalla quantità di denaro spaventoso che Qatar, Arabia saudita e Turchia investono in Europa».

Però esiste anche un islam moderato.

«Esistono i musulmani moderati, persone che vogliono vivere la loro vita in mezzo a noi, che non hanno in testa la guerra santa o la sottomissione. Ma guardando ai grandi poli dell’islam mondiale, cioè l’Arabia saudita, l’Iran, il Qatar, il Pakistan, la Turchia e i Fratelli musulmani non esiste una corrente che abbia fatto la riforma. Cioè, reinterpretato il Corano nel presente. Anche perché, per loro, il Corano è stato dettato da Allah e quindi va applicato letteralmente».

L’islam moderato conta poco?

«Il grande studioso Rémi Brague ha detto: “L’islamismo è un islam che ha fretta”. I musulmani moderati sono singole persone».

Tra queste Pietrangelo Buttafuoco, appena designato alla presidenza della Biennale di Venezia.

«È una persona che stimo, con cui ho lavorato per tanti anni al Foglio. La sua non è una conversione militante».

Ci sono margini per una convivenza armonica?

«Sì, se l’Occidente si fa rispettare e pone delle condizioni. La prima è che l’Europa è giudaico-cristiana. La seconda è che gli islamici accettino che la libertà di pensiero e di parola è un diritto sacrosanto. E la terza che la donna e l’uomo sono uguali».

Pensa che integrazione e multiculturalismo siano utopie?

«Lo ha detto Angela Merkel: “Il multiculturalismo è fallito”».

In cifre come si può quantificare questa espansione?

«Bruxelles, la capitale dell’Unione europea, è per il 30% islamica, con vere e proprie enclavi dove si arriva al 50%. Birmingham, la seconda città britannica, ha il 30% di cittadini musulmani. Le grandi città francesi, da Marsiglia a Lione, hanno comunità dal 30 al 40% di cittadini islamici. È possibile che nel giro di una generazione i musulmani saranno la maggioranza».

Cosa significa che in Gran Bretagna città come Londra, Birmingham, Leeds, Sheffield, Oxford e altre hanno sindaci musulmani nonostante la Brexit?

«Significa che hanno rinunciato all’operaio polacco per avere quello pakistano. Con la Brexit si sono sparati sui piedi, fermando i flussi dall’Est Europa e aumentando quelli dall’Asia. Gli unici Paesi che sono riusciti a fermare un po’ questa conquista, un po’ perché sono meno attraenti e un po’ perché hanno un’identità più forte, sono i Paesi dell’Est europeo».

Quanto concorre l’arrendevolezza della nostra civiltà a questa espansione?

«Per una buona parte, ma dobbiamo distinguere due categorie. I fifoni, che sono atterriti e intimoriti, ma sanno cosa c’è dietro questa strategia. E i collaborazionisti. Coloro che si sono prestati in cambio di voti a fare il gioco del cavallo di Troia dell’islam politico. Il partito socialista belga non esisterebbe oggi senza il voto degli immigrati».

Esempi di collaborazionismo italiani?

«Se fossi un esponente della sinistra, farei mio il progetto vincente del voto di scambio del partito socialista belga. In Francia Jean-Luc Mélenchon per non alienarsi l’80% del voto islamico difende i veli e non critica l’attacco di Hamas».

Prima accennava all’influenza dell’Arabia saudita e del Qatar.

«L’Arabia saudita è stata decisiva dagli anni Sessanta ai primi anni Duemila e le grandi moschee di Roma, Bruxelles e Madrid sono tutte saudite. Dopo sono arrivati il Qatar e la Turchia, che oggi sono i costruttori delle moschee con i minareti in tutta Europa».

Con la forza del denaro.

«In Francia, dove ogni due settimane circa apre una nuova moschea, arrivano i soldi del Qatar attraverso le sue ong. Ma avviene così anche in Italia».

L’islam politico si è alleato con la cultura di sinistra attraverso l’ideologia green e Lgbtq?

«È riuscito a fare sue le parole d’ordine del progressismo: diversità, antirazzismo e lotta alla cosiddetta islamofobia».

Ma il movimento arcobaleno è agli antipodi dell’islam.

«Gli attivisti arcobaleno sono come i tacchini che festeggiano il giorno del ringraziamento. Infatti, siamo alla resa dei conti. In Belgio la sinistra ha portato il gender in tutte le scuole e i fondamentalisti islamici sono scesi in piazza a protestare anche con metodi aggressivi».

La cancel culture favorisce questa conquista?

«Prepara il terreno creando una società gelatinosa, senza storia e identità, perfetta per realizzare la sostituzione di civiltà. In Gran Bretagna, hanno abbattuto decine di statue di personaggi storici e a Birmingham hanno appena eretto una grande statua di una donna velata».

Perché ogni anno di questi tempi spunta qualche ente che vuole obliterare il Natale cristiano?

«Quest’anno tocca all’Istituto europeo di Fiesole. L’Europa è una società in metastasi, quasi masochista nell’automutilazione: non ho mai sentito i musulmani lamentarsi per il Natale».

Come valuta il magistero di Francesco?

«È il grande Papa post europeo. Dopo Benedetto XVI che ha provato a salvare l’Europa da sé stessa, è arrivato il Papa che dice che l’Occidente è fili spinati e schiavitù. Quindi è come se per lui l’Europa continente cristiano non fosse da preservare».

Come incidono in questo scenario i movimenti migratori?

«Persino Jacques Attali che è il grande intellettuale globalista di Emmanuel Macron ha detto che l’Europa è un colabrodo. Che altro vogliamo aggiungere».

Ora la guerra in Israele renderà tutto tremendamente più complicato.

«Favorisce il grande risveglio della coscienza islamica che, ricordiamo, è una umma, una comunità di 1,5 miliardi di fedeli che non sono divisi in Stati-nazione. La causa palestinese è il grande afrodisiaco dell’islam».

Si risveglia anche l’alleanza con la sinistra?

«La sinistra alimenta manifestazioni all’insegna di “Allah akbar”, “morte agli ebrei” e “Palestina libera”. La più grande strage di ebrei dopo la Seconda guerra mondiale ha dato vita alla più grande esplosione di antisemitismo in Europa».

Senza dimenticare le responsabilità di Israele.

«Ci sono in tutti i conflitti. Non vedo armeni accoltellare azeri, o ciprioti del sud accoltellare ciprioti del nord».

Il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres ha detto che gli attacchi di Hamas non sono nati dal nulla.

«L’Onu è diventato il teatro dell’assurdo di Ionesco per cui i grandi regimi della terra lo usano in nome dei diritti umani per imporre la loro visione del mondo».

Perché grande sostituzione e sostituzione etnica sono espressioni tabù?

«Perché sembrano preconizzare un complotto, mentre indicano un fatto della vita dei popoli europei di oggi. E perché siamo degli struzzi che non vogliono capire che se cambia la popolazione di un Paese cambia anche la sua cultura. Per quanto abbiano tutti gli stessi diritti, gli esseri umani non sono intercambiabili».

 

La Verità, 28 ottobre 2023

«Ho studiato Cl per capire la rimozione di Carrón»

Marco Ascione è un giornalista che non disdegna le situazioni scomode. Capo della redazione politica del Corriere della Sera, bolognese con inizi professionali al Resto del Carlino, ha scritto Strana vita, la mia, l’autobiografia di Romano Prodi (Solferino). Nel nuovo libro per lo stesso editore si avventura nel mondo di Comunione e liberazione e dei suoi rapporti con la Santa sede, culminati il 15 novembre 2021 con le dimissioni di don Julián Carrón dalla presidenza della Fraternità. Titolo del volume: La profezia di Cl. Sottotitolo: Comunione e liberazione tra fede e potere. Da Formigoni a Carrón e oltre. Roba tosta.

Come nasce questo libro?

«Dalla curiosità. Mi è sembrato che Cl fosse passata da Luigi Giussani a Davide Prosperi senza interrogarsi sui 16 anni di Julián Carrón. E mi sono chiesto perché».

Per questo il libro è incentrato su di lui?

«Carrón è il grande convitato di pietra di cui alcuni in Cl faticano a parlare. Inoltre, lo stesso teologo spagnolo ha scelto di ritirarsi del tutto dalla vita pubblica».

Ha dovuto?

«Sicuramente centra il dovere di obbedienza. Quando si è dimesso si è limitato a dire che da quel momento in poi ognuno doveva assumersi la responsabilità del carisma».

Questo libro è stato suggerito da qualcuno?

«Da nessuno. Se non dalla mia curiosità giornalistica».

Qual è la profezia di Cl?

«Quella introdotta dallo stesso Giussani che, per primo, si preoccupò di creare una distanza tra il movimento e gli uomini che vi si erano formati e avevano scelto d’impegnarsi in politica».

La novità di Cl è anche che dal Concilio Vaticano II, con Luigi Giussani e poi Carrón, la proposta cristiana si rivolge alla libertà dell’uomo e non è più la prescrizione di alcuni comportamenti?

«Sicuramente Carrón si è mosso in coerenza con Giussani, con papa Francesco, Ratzinger e il Concilio. Tant’è che ama ripetere una frase sempre utilizzata prima da Benedetto XVI e poi da Francesco, e cioè che il cristianesimo si trasmette per attrazione e non per proselitismo».

Perché il suo lavoro parte dal docufilm Vivere senza paura nell’età dell’incertezza della regista Giulia Sodi?

«Insieme a lei, tra i curatori ci sono studiosi e filosofi di estrazione ciellina e non solo. Tutto parte da quel docufilm perché mi ha colpito il suo approccio innovativo e moderno alla fede, al punto che, dopo la sua visione, ho deciso di approfondire la conoscenza del pensiero di Cl. Questo fatto, insieme alla sensazione che Carrón fosse scomparso, mi hanno messo in moto».

La lezione di Carrón è che la Chiesa dev’essere «attrezzata per la battaglia della modernità»?

«La lezione del sacerdote dell’Estremadura è che la Chiesa deve imparare a confrontarsi con la modernità. È proprio questo il motivo per cui Carrón scelse di non schierare il movimento al Family day contro la legge Cirinnà».

L’ha fatto in linea con la cosiddetta scelta religiosa, prendendo le distanze dall’impegno politico e dagli eccessi di alcuni suoi esponenti?

«Bisogna intendersi su cosa significa scelta religiosa. Secondo me don Julián non ha voluto ritirare Cl dalla  vita pubblica, ma ha cambiato il metodo. Ha ritenuto che bisogna confrontarsi costantemente con ciò che è diverso».

La svolta più clamorosa si ebbe con la lettera a Repubblica del maggio 2012 in cui si scusava perché il movimento si «è identificato con l’attrattiva del potere, dei soldi e con stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato»?

«È vero. Ricordò che Cl è un movimento di educazione alla fede. In questo senso si può dire che la sua sia stata una scelta religiosa».

Quella lettera risultò per molti ciellini un pezzetto di «liberazione»?

«Spaccò letteralmente il movimento che da quella divisione non si è ancora del tutto ripreso. Una parte la visse come una liberazione, un’altra come un tradimento della teologia della presenza che è ritenuta un tratto distintivo della storia della Fraternità».

Sul terreno del confronto e dell’apertura alla modernità Carrón avrebbe dovuto incontrare l’approvazione di papa Francesco: perché non è accaduto?

«A questa domanda non è facile rispondere. Alcuni degli interlocutori con cui mi sono confrontato sostengono che potrebbe essere mancata un’alchimia tra Bergoglio e il sacerdote spagnolo. Ma sarebbe più corretto affermare che questo Papa appare in genere piuttosto severo con i movimenti. Forse è vero quello che sostiene Robi Ronza, storico intervistatore di Giussani, quando dice che Francesco viene da un continente dove si avverte meno bisogno della presenza dei movimenti. E dove la teologia del pueblo, ossia la tradizione religiosa popolare, occupa il loro posto».

C’è differenza tra Bergoglio e Ratzinger in rapporto ai movimenti?

«Dal punto di vista di Carrón non ce n’è».

E oggettivamente?

«Ratzinger e Giovanni Paolo II li possiamo considerare i due papi più vicini ai movimenti».

Bergoglio vuole istituzionalizzarli?

«Secondo me sta facendo per certi versi un’operazione di trasparenza. Credo si possa dire che li vuole istituzionalizzare».

Non c’è il pericolo che inseguire la modernità tolga alla Chiesa il mistero e l’autorevolezza che le derivano dal suo essere un’entità dell’altro mondo?

«Questo rischio c’è, ma la Chiesa deve avere il coraggio di capire che è corretto confrontarsi con la complessità del presente. Personalmente mi affascina molto un cristianesimo capace di attrarre per contagio, senza mai cercare di imporre i propri valori».

Prima o poi però bisogna annunciare che Cristo è la risposta a questa complessità, o no?

«Dal punto di vista della Chiesa e di Cl in particolare, certamente sì. Mi pare che il movimento lo faccia».

San Paolo invita anche a non conformarsi alla mentalità del secolo per poter discernere ciò che è gradito a Dio.

«Non conformarsi non equivale a non confrontarsi».

Perché il capitolo più lungo del libro riguarda il rapporto con i diritti civili?

«Perché è la chiave di volta dell’azione di Carrón all’interno del movimento sotto il profilo del rapporto con la politica e il potere».

Addirittura?

«Sì, credo che i momenti chiave siano la lettera a Repubblica, la decisione di non schierare Cl ai Family day e il secondo volantino sul caso di Eluana Englaro».

Quello che diceva che abbiamo bisogno di «una carezza del Nazareno»?

«Tentando di spostare lo sguardo anche sul padre di quella ragazza».

C’è differenza tra accompagnare delle situazioni di sofferenza anche estrema e lasciare campo libero ai desideri che diventano diritti di minoranze inflessibili?

«La Chiesa ha tutto il diritto di esprimere il proprio punto di vista, lasciando che lo Stato faccia lo Stato e legiferi su queste situazioni anziché rimettersi alla supplenza della magistratura».

Come valuta il fatto che all’udienza del 15 ottobre per il centenario di don Giussani, Francesco ha parlato di «impoverimento nella presenza di un movimento… da cui la Chiesa, e io stesso, spera di più»?

«Lo valuto come una critica al movimento tutto. In quel contesto il Papa ha elogiato Carrón facendo poi seguire il suo discorso da un “tuttavia” che ha lasciato intendere che le sue critiche fossero estese anche al prete spagnolo. E questo nonostante, secondo me, la sua azione sia stata nel solco dell’invito magisteriale alla “Chiesa in uscita”».

Carrón ha suggerito la via della testimonianza invece di quella della militanza.

«Testimonianza non è sinonimo di assenza».

Lo scrive verso la fine del libro: «Il prete che ha rivoltato Cl si trova, nei fatti, messo alla porta dal Vaticano». Una contraddizione che anche lei fatica a spiegarsi?

«Sì, fatico a spiegarmela. Ma credo vada collocata nel raggio più ampio dell’azione del Papa nei confronti dei movimenti. Cl ha temporeggiato nella riforma chiesta dal Vaticano e questo evidentemente non è stato gradito da Francesco».

Perché il Vaticano ha chiesto a Cl una revisione dello statuto?

«L’ha chiesto a tutti i movimenti. Nel caso di Cl si aggiunge anche il commissariamento dei Memores domini (i laici del movimento che fanno voto di povertà, castità e obbedienza ndr) che ha tolto a Carrón ogni potestà su di loro».

Le autorità vaticane hanno suggerito un metodo elettivo per scegliere i responsabili, con mandati rinnovabili fino a un tempo massimo: una sorta di riforma democratica?

«In qualche modo lo è. La differenza è minima perché, dopo l’indicazione di Giussani, Carrón è sempre stato rieletto dagli organi direttivi. Per altro una nuova elezione non c’è ancora stata perché il Vaticano ha concesso anche all’attuale guida, Davide Prosperi, ulteriore tempo per la riforma dello statuto».

Il pensiero di base è che, dopo i fondatori, il carisma non risiede stabilmente in una sola persona?

«Sì, questa è la preoccupazione di Bergoglio. Di fondatore ce n’è uno, tutti gli altri sono portatori del testimone».

Il paragone storico è con gli ordini religiosi, dopo San Francesco o San Benedetto come ci si è regolati?

«Secondo Robi Ronza vale per i movimenti ciò che vale anche per gli ordini religiosi. Ci si ricorda solo di San Francesco e non dei successori».

Il libro si chiude con lo spauracchio del ritorno in campo di Roberto Formigoni e il comunicato di Davide Prosperi per la morte di Silvio Berlusconi. L’obiettivo è mettere in guardia da un nuovo collateralismo con il centrodestra?

«No, non lo è. Tanto che non userei la parola spauracchio. Il libro ha l’ambizione di essere un racconto e un’analisi. E di rapportarsi alla realtà, termine fondamentale nel vocabolario del movimento. Ancora non sappiamo se cambierà l’approccio di Cl alla politica. Mi sembra che Prosperi ora sia più preoccupato degli equilibri interni e del rapporto col Vaticano».

Ha fatto bene Giorgia Meloni a non andare al Meeting di Rimini, dove invece si sono visti il cardinal Matteo Zuppi e Sergio Mattarella?

«Mi rimetto alla vulgata, secondo la quale essendoci il presidente della Repubblica, la premier ha ritenuto di non dover presenziare. In compenso, c’era mezzo governo e Matteo Salvini ha trovato calda accoglienza».

Come vede il futuro di Cl e qual è il suo sentimento nei suoi confronti?

«Il futuro è nelle loro mani. Il mio è un apprezzamento per una grande storia che non m’impedisce di vedere sia le luci che le ombre».

Sbaglio se dico che i suoi punti di riferimento sono Romano Prodi e il cardinal Matteo Zuppi?

«Zuppi e Prodi sono due importanti protagonisti del nostro tempo. Più che avere punti di riferimento, faccio il cronista e mi limito a raccontare quello che vedo».

 

La Verità, 26 agosto 2023

«Ratzinger parlò della rinuncia già nel 2006»

Anch’egli eminente teologo e liturgista, don Nicola Bux è stato stretto collaboratore di Joseph Ratzinger prima nella Congregazione per la dottrina della fede e poi in altri organismi vaticani. Dopo averlo conosciuto all’inizio degli anni Ottanta, l’ha frequentato fino al 2014, per cui lo si può definire suo amico personale. Ora che si torna a riflettere sulla rinuncia del Papa emerito (Antonio Socci, che il 25 settembre 2011 l’anticipò, ha ricostruito nei giorni scorsi come maturò), don Nicola svela alla Verità una circostanza inedita. Nel febbraio 2006, meno di un anno dopo la sua nomina, Benedetto XVI incaricò alcuni prelati, tra cui anche lui, di verificare l’istituto della rinuncia papale.

Che pensiero le suscita la partecipazione popolare ai riti per la morte di Benedetto XVI?

«La Chiesa è il popolo di Dio, che indica la via della salvezza in Gesù Cristo, come un vessillo elevato tra le nazioni, cioè, anche tra coloro che non credono o professano altra credenza. Benedetto XVI ne è stato fautore per tutta la sua vita: il risultato è davanti ai nostri occhi. L’intellighentia che dirige curie e istituti teologici, un po’ come gli scribi e i farisei che tenevano lontano il popolo da Cristo, non di rado hanno pensato che fosse un papa senza popolo, o a capo di nostalgici: l’afflusso di tanti giovani, specialmente sacerdoti e seminaristi, lo smentisce. Questo popolo che si è manifestato anche nel giorno delle esequie è espressione della sinodalità spesso invocata, ma a volte in senso più astratto che reale. Sinodale vuol dire in movimento. Quella che abbiamo visto in questi giorni è una Chiesa messa in movimento da Benedetto XVI».

Chi è stato per lei Joseph Ratzinger?

«L’esempio del credente in Cristo, che è “sale della terra”, affinché questa non si corrompa ma si conservi e si rigeneri. Per questo, egli ha sempre additato come priorità la fede per affrontare la crisi del mondo, in specie dell’Occidente, che a sua volta oggi, è in crisi di ragione. Per superare la crisi, questa – egli ha ripetuto – deve allargarsi alla fede».

Quando lo conobbe?

«All’inizio degli anni Ottanta, partecipando agli esercizi spirituali da lui tenuti. Cercavo di capire cosa fare, nello scombussolamento postconciliare. E trovai la risposta proprio nel tema che egli stava trattando: “Guardare a Cristo”. Seguì il coinvolgimento nel lavoro della rivista teologica internazionale Communio, da lui promossa insieme ad Hans Urs von Balthasar e altri studiosi».

Un incontro nella redazione di una rivista teologica fa pensare a un rapporto fatto di cose alte.

«Invece, quella rivista mirava ad aiutare il popolo cattolico, smarrito e confuso dal “post-conciliarismo”. In tal senso, un grande apporto a Ratzinger lo diede Luigi Giussani, e noi dietro di lui. Per Ratzinger la teologia non era speculazione fine a sé stessa, ma finalizzata a collaborare alla ricerca della verità, tentativo, in vario modo, proprio ad ogni uomo».

Communio era una rivista diversa da Concilium, considerata più aperta. Negli anni del Concilio Vaticano II e successivi anche Ratzinger era considerato un teologo «aperto».

«Egli era aperto alle mozioni dello Spirito, onde capire come discernere gli avvenimenti nella Chiesa, senza subire il fascino delle mode, cioè del modernismo. Per esempio, da studioso della forma della liturgia, s’accorgeva delle deformazioni intervenute dopo il Concilio, “al limite del sopportabile”, e interveniva con una terapia: riavvicinarla alle fonti della tradizione, da cui tendeva a distaccarsi; lo ha fatto proponendo il contagio virtuoso tra la forma antica e quella nuova, che denominò “straordinaria e ordinaria”. Lo propose, non lo impose. Se lo capissero, nella Chiesa, che le cose proposte si diffondono e si radicano di più! Invece, quelle imposte o peggio le proibizioni, come il Motu proprio Traditionis custodes, sono destinate al fallimento, perché carenti di… pazienza, “la pazienza dell’amore”, come amava ricordare Ratzinger».

Conferma quanto rivelato da George Ganswein, cioè che Ratzinger fu molto rattristato dal Motu proprio Traditionis custodes con il quale nel 2021 Francesco operò una stretta sulla messa in latino, invece ammessa dal Summorum pontificium di Benedetto XVI?

«Non mi sorprende. Ma, è l’atto di papa Francesco che va meditato, e dei fautori della rottura: a chi giova rompere la pace liturgica, come Benedetto disse a Parigi? Per non dire dell’affermazione, priva di fondamento storico, che la lex orandi della Chiesa è una. Se così fosse, si dovrebbero annullare le forme liturgiche orientali e occidentali. Mi auguro un ripensamento al Dicastero del culto divino e quindi nel papa».

I vostri rapporti s’intensificarono quando, nominato da Giovanni Paolo II, entrò nella Congregazione per le cause dei santi e nell’ex Sant’uffizio presieduto da Ratzinger?

«Alla Congregazione per la dottrina della fede, soprattutto, collaborai ai vari dossier che erano sottoposti ai consultori, in particolare la Dichiarazione Dominus Iesus, intesa a riaffermare che Gesù è l’unico salvatore del mondo. L’allora prefetto mi annoverò tra i membri della Commissione che doveva studiare le forme di esercizio del primato del papa, secondo l’auspicio dell’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint. In quel frangente, s’intensificarono lo scambio di lettere e gli incontri. Gli avevo chiesto ragione di una sua affermazione, ritenuta in contrasto con altre da lui fatte in seguito; mi rispose il 23.12.2002 con la sua grafia minuta: “Caro professore Bux, evidentemente l’interpretazione delle mie parole di 30 anni fa dev’essere, che la parola ‘successore di Pietro’ implica il diritto divino del Primato Romano con la prerogativa del principe degli apostoli; anche le parole di Sant’Ignazio (d’Antiochia) proestòs tìs agàpis, dal greco: presidente della carità, implicano per me lo stesso contenuto. Ma devo dire, che oggi – per evitare ogni ambiguità – mi esprimerei in modo più preciso. Tanti auguri per Natale e per l’anno nuovo. Suo nel Signore”. Nell’umiltà del suo pensiero cattolico, prima che delle sue azioni, risiedeva la grandezza di Benedetto XVI».

Quando divenne papa come proseguì la vostra collaborazione?

«Già designato da lui nel 2003 a preparare i Lineamenti del sinodo sull’eucaristia, una volta eletto, collaborai al documento base, l’Instrumentum laboris, su cui doveva tenersi il sinodo programmato per il 2005, a cui partecipai come esperto. Lì emerse tutta la visione di Ratzinger sulla liturgia e sulla Messa, ma sempre senza imporre, come si può dedurre dall’Esortazione apostolica che ne seguì: Sacramentum Caritatis. Comunque Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, ha fatto scuola. Coi cardinali Raymond Burke e Carlo Caffarra, abbiamo seguito in certo modo il suo pensiero e il suo metodo, promuovendo la Scuola ecclesia mater, una rete di amicizia di alcune centinaia di sacerdoti e laici».

Le affidò qualche incarico delicato che oggi, dopo la sua scomparsa, può rivelare?

«L’incarico di consultore è di per sé soggetto alla discrezione. Insieme ad altri quattro, fui richiesto di esprimere un parere sulla eventualità della rinuncia del papa, cosa prevista dal Codice di diritto canonico. Tra le motivazioni, rilevai che il Signore non ha mai fatto mancare al papa la forza necessaria per esercitare il suo ministero fino alla fine. Pertanto mi espressi negativamente. Eravamo nel febbraio 2006».

Vuol dire che appena un anno dopo la nomina stava considerando l’ipotesi delle dimissioni?

«Per averla sottoposta al Pontificio consiglio dei testi legislativi, e fatto richiedere un parere ad alcuni esperti, probabilmente sì».

In che modo avvenne questa richiesta? E gli altri quattro consultati come si espressero?

«Avvenne mediante una riunione col cardinale prefetto del Pontificio consiglio, in cui si discusse soffermandosi sull’eventualità della rinuncia del romano pontefice per incapacità permanente. Tranne uno, se ben ricordo, che si mostrò possibilista, ci esprimemmo negativamente».

La propensione alle dimissioni era dovuta alla difficoltà a fronteggiare ostacoli interni o maggiormente a un senso d’inadeguatezza personale?

«È noto che all’atto di cominciare il ministero di supremo pastore, chiese di pregare affinché non dovesse essere costretto a correre davanti ai lupi: un’espressione mi pare, ripresa dal papa san Gregorio Magno».

Il fatto che abbia iniziato a pensare alla rinuncia molto presto è confermato anche da quanto disse a Peter Seewald in Ultime conversazioni: «Il governo pratico non è il mio forte»?

«Una volta, vedendo confabulare il segretario di stato e quello suo personale, osservò, con la sua nota ironia: devono governare la Chiesa…».

Ebbe occasione di parlargli nei giorni che precedettero l’annuncio dell’11 febbraio 2013?

«No, perché, qualche giorno prima, mi era stato comunicato che il mio servizio alla Congregazione per la dottrina della fede era terminato».

Dopo essersi ritirato le ha mai fatto qualche confidenza?

«Sono stato in visita da lui nel luglio 2014, quasi un’ora di conversazione, nel Monastero dove risiedeva in Vaticano. Mi è venuto incontro nel salotto, chiudendo dietro di sé la porta dello studio, senza ausili, esclamando: “Bari, san Nicola!”. Ci siamo seduti ai due angoli delle due poltrone bianche, protendendoci l’uno verso l’altro, “perché, – esordì – non sento bene”. Dovevo sottoporgli, a un anno dalla sua rinuncia, le riflessioni e osservazioni di tanti autorevoli amici circa il suo atto e la situazione conseguente; in particolare chiedergli come egli spiegherebbe la figura del tutto inedita del “Papa emerito”. Gli lasciai uno scritto al quale mi rispose un mese dopo».

Che cosa pensa del modo in cui è stato raccontato dai media in questi giorni?

«Ho notato la difficoltà a sganciare il giudizio sulla sua persona dall’atto della rinuncia, addirittura a ritenerlo grande per questo. L’impressione è che qualcuno di quelli a lui più vicini, sia tra i responsabili della fine del suo pontificato. Ma ci vorrà molto tempo per una visione obbiettiva, come dovrebbe essere per ogni papa. Invece, piuttosto in fretta, ci si è preoccupati di canonizzare i cosiddetti “Papi del Concilio”, forse per blindare quest’ultimo. Ciò è andato a scapito dell’analisi disincantata della loro opera».

Che eredità lascia il papa emerito e cosa perde la Chiesa con la sua scomparsa?

«È troppo presto per dirlo. Con la morte di papa Benedetto, è finita l’“èra dei due Papi”: una situazione a mio avviso intollerabile, e speriamo che non se ne crei un’altra. Comprenderà ora, papa Francesco, che deve caricarsi sulle spalle quella parte cospicua di Chiesa che ha visto rendere omaggio a Benedetto XVI?».

 

La Verità, 6 gennaio 2022

«Con il ddl Zan cattolici a rischio discriminazione»

Massimo Introvigne è uno studioso di profilo internazionale non fosse altro per la specializzazione in sociologia delle religioni. È autore di una settantina di volumi sul pluralismo religioso e direttore del Centro studi sulle nuove religioni (Cesnur). Nel 2011 è stato rappresentante dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa. Dal 2016 vive e lavora in Toscana. È la persona giusta a cui chiedere un giudizio sul dibattito a proposito dei cattolici che, amando un dio bambino, rifiuterebbero la complessità.

Professor Introvigne, cosa pensa dell’articolo di Michela Murgia sull’infantilismo dei cattolici?

«Scrivo anch’io sui quotidiani e so che la titolazione di solito non è opera degli autori. In questo caso mi sembra si sia scelto un tono impropriamente aggressivo per provocare, devo dire con successo, un dibattito sugli altri giornali, il Web e i social. Ma Il titolo non corrisponde all’articolo, che contiene alcune argomentazioni condivisibili, altre in parte condivisibili e altre ancora decisamente problematiche».

Tra queste ultime c’è che l’accusa d’infantilismo dovrebbe riguardare tutti i cristiani e non solo i cattolici?

«Diversi elementi fanno ritenere che l’autrice non sia esattamente una specialista di religioni comparate. Gliene dico tre, per me clamorosi. Il primo è quando la Murgia scrive che nel cristianesimo non cattolico non ci sono bambini Gesù se non in una chiesa di Praga».

È un passaggio un po’ ambiguo.

«Come leggo io il testo sembra che quel Bambino sia un’immagine protestante mentre, non solo è cattolica, ma fu introdotta in Boemia proprio in funzione anti-protestante».

Il secondo elemento errato?

«È là dove dice che nel mondo protestante non c’è un’iconografia sulla nascita di Gesù. In realtà, nel protestantesimo c’è pochissima iconografia in generale perché è una confessione tendenzialmente iconoclasta. Tra i protestanti conta di più la parola, si segue più l’arte letteraria di quella figurativa. Nella loro letteratura si trovano molti riferimenti al Bambino, come per esempio in Notte santa, una famosa poesia di Elizabeth Barrett Browning colma di tenerezza verso il piccolo Gesù».

Qual è il terzo errore della Murgia?

«Sembra non parlare soltanto di confessioni non cristiane quando afferma che solo tra i cattolici c’è la devozione a un dio bambino. Un sociologo e specialista di religioni comparate come me salta sulla sedia perché fuori dal cristianesimo le divinità bambine abbondano, a cominciare dal Krishna induista, spesso raffigurato come un bambino».

Sul fatto che i cattolici costruiscano attorno alla nascita di Dio «una retorica di tenerezza zuccherosa» invece ha ragione?

«È una delle affermazioni parzialmente condivisibili. Esiste il rischio di censurare il fatto che la nascita di Dio sia un susseguirsi di avvenimenti tragici. A tutti sono simpatici i Re Magi, ma la loro storia è inseparabile dalle trame di Erode e dalla strage di innocenti, cioè bambini ammazzati con le sciabole e strade che si riempiono di sangue. A tutti è simpatico l’asinello della fuga in Egitto, ma c’è perché altrimenti Gesù sarebbe anche lui sgozzato. Naturalmente tutto questo si perde quando i Re Magi vengono venduti in sagome di cioccolato o di marzapane».

Quindi la Murgia ha ragione?

«Sì, ma la sua osservazione ha due limiti. Il primo è che tutti i simboli patiscono un’inevitabile banalizzazione. Per esempio, Ernesto Che Guevara è un personaggio che ha fatto una brutta fine, l’agonia notturna, la perdita di sangue, il colpo di grazia… Ma per un’ampia massa di persone è solo un’effigie su una maglietta o un asciugamano. Molti di coloro che indossano quella maglietta sanno solo vagamente chi era e quanto tragica sia stata la sua morte».

Anche l’uso di vezzeggiativi come «bambinello» e «pastorelli» sono una banalizzazione.

«Questo è il secondo limite del discorso della Murgia. Le religioni si presentano ai popoli attraverso narrative che si rivolgono anche al cuore, e al bambino che è in noi, non solo alla mente. Per esempio, poche religioni sono caratterizzate dalla complessità come il buddismo…».

Eppure…

«Basterebbe entrare in un ristorante cinese per vedere immagini del Budda che sembrano giocattoli prodotti nelle fabbriche della Repubblica popolare cinese, ufficialmente atea. Altre complessità banalizzate le troviamo in India nei fumetti, spesso ma non sempre di buona qualità, che illustrano l’induismo».

Una nascita in una capanna riscaldata dal fiato di animali, a quanto sappiamo senza donne che accudiscano la puerpera e con il neonato steso nella mangiatoia non è abbastanza complessa?

«Ha ragione. Ma tutte le narrative scritte e ancor più quelle figurative sono polisemantiche, cioè aperte a una pluralità d’interpretazioni. Di fronte ai Re Magi il biblista vede la storia tragica di Erode, un sociologo coglie un adombramento del rapporto fra religioni orientali e occidentali, un bambino di certe regioni della Germania, dove i regali li portano i tre Re, vede una specie di Babbo Natale».

Con tutto il rispetto per la polisemanticità, la complessità della situazione non è oggettiva?

«Forse la Murgia obietterebbe che, per esempio, non lo è per chi guarda un presepio napoletano del Settecento dove tutti sorridono e i pastori giocano con le caprette».

Ma questo è il contorno…

«Però ha una sua importanza. Tutte le religioni, tranne alcune forme di protestantesimo liberale, usano narrazioni diverse di cui hanno bisogno anche gli adulti, non solo i bambini. Benedetto XVI, al quale in questo momento va un pensiero affettuoso, ha rivelato che la storia del Natale non è idilliaca, ma molto complessa. Però ci sono momenti in cui anche l’adulto si commuove di fronte al presepe o al canto di Tu scendi dalle stelle che, al di là delle banalizzazioni, rimane un canto commovente. Se teniamo solo la complessità e togliamo le rappresentazioni rivolte al cuore ci avviciniamo a quel protestantesimo razionalista e freddo che rischia di sparire proprio perché l’uomo non è pura razionalità. Parlando di queste narrazioni, il filosofo marxista Ernst Bloch diceva che evocano “la patria che a tutti brilla nell’infanzia e in cui nessuno ancora fu”. Bloch non era credente, ma con questa espressione cercava di spiegare perché i credenti ci sono».

Pur con questi svarioni dell’autrice, il più grave forse è nel titolo: «I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità».

«Di solito le intestazioni sono opera dei titolisti. Non so se qui la Murgia ci abbia messo mano. È un titolo ingiustamente provocatorio nei confronti dei cattolici e contiene una solenne sciocchezza: da San Tommaso a Benedetto XVI abbondano i teologi che hanno spaccato il capello in undici teorizzando la complessità del Natale».

È un titolo che asfalta il mistero dell’incarnazione, una delle caratteristiche pregnanti del cristianesimo?

«La cui unicità tuttavia non va esagerata. Tra le tante religioni, quella del cristianesimo non è l’unica con un’incarnazione divina. Quando il Dalai Lama sta per morire, i monaci tibetani iniziano a cercare la nuova incarnazione in un bambino. Abbiamo citato l’esempio del Krishna induista raffigurato come un bambino, per altro piuttosto vivace. Anche dei fondatori di nuove religioni cinesi o coreane, a loro volta incarnazioni di divinità supreme, si racconta che facevano miracoli già da bambini».

Qual è lo scopo di un articolo di questo tenore?

«Il bersaglio è la Chiesa cattolica perché, nella visione dell’autrice, è abbarbicata a una visione conservatrice e patriarcale che si contrappone al femminismo e ribadisce che i sessi sono due e non tre o di più. Sono convinzioni che vagheggiano una modernità illuminata secondo la quale, per venire al mondo, i bambini non hanno bisogno solo di una mamma e un papà, ma magari anche di due mamme o due papà, oppure di una comune dove si pratica il poliamore, l’incontro amoroso tra più uomini e/o più donne. Tutto questo sarebbe in sé stesso più bello perché più complesso».

È corretto dire che la Sacra Famiglia è una famiglia di migranti?

«Quando va in Egitto è una famiglia di rifugiati, quando sta in Palestina è una famiglia reale. Guardando alla genealogia si vede che Giuseppe e Maria appartengono a una sorta di nobiltà decaduta, ma di stirpe reale. Anche in questo caso mi pare che la Murgia sbagli obiettivo perché non c’è una realtà, un’agenzia internazionale, che difenda gli immigrati più della Chiesa di papa Francesco. Forse può prendersela con Matteo Salvini che, però, non è la Chiesa cattolica».

Sbaglia bersaglio, tuttavia l’accusa peggiore è il rifiuto della complessità.

«Per chi le conosce, tutte le visioni del mondo sono complesse, mentre chi le ignora o le conosce da ritagli di giornale può ridurle a caricatura. Sono disponibile a riconoscere che la visione queer cara alla Murgia, dove la sessualità è diversificata in decine di sessi, può essere banalizzata da chi non la conosce. Non basta limitarsi a qualche slogan o a dire che chi la propugna vuole distruggere la famiglia tradizionale. Ma questo vale anche per il cattolicesimo, per l’induismo o, che so, la chiesa di Scientology. È insufficiente ridurle allo stereotipo di difensori di valori retrogradi e della società patriarcale».

In molti Paesi del mondo i cristiani continuano a subire persecuzioni. In Italia e in Europa si vanno espandendo forme d’intolleranza e di razzismo culturale nei confronti del cristianesimo?

«Quando ero rappresentante dell’Osce ho proposto di distinguere tra intolleranza, discriminazione e persecuzione riguardo al cristianesimo. Quest’ultima esiste in alcuni regimi totalitari come il Nicaragua, denunciato di recente anche dalla Santa sede. In Europa e in Italia ci troviamo nella fattispecie dell’intolleranza. Essa deriva dal fatto che nei media e negli enti produttori di cultura c’è una maggioranza di persone ostili o critiche verso il cristianesimo che può favorire un clima di antipatia. Rodney Stark, importante sociologo protestante americano, ha dedicato anni di studi a questo fenomeno. La discriminazione è un concetto giuridico che si attua con leggi e regolamenti che penalizzano i membri di una certa religione. È presente in Cina e in Russia, in Europa è rara. In Italia è stata sfiorata a causa del ddl Zan, disegno di legge su cui conviene vigilare perché può ridurre la libertà di espressione dei cristiani in materia di famiglia e sessualità».

 

La Verità, 31 dicembre 2022

«Chi fa figli aiuta anche chi non li vuole»

Lo scenario ha tratti inquietanti. La popolazione italiana continua a diminuire e a invecchiare. L’Istat ha appena diffuso i dati del censimento del 2021: calo dello 0,3% (-206.080 persone) rispetto al 2020 e aumento dell’età media da 43 a 46 anni rispetto al 2011. La causa di tutto è l’inverno demografico nel quale siamo precipitati e che nei primi nove mesi del 2022 si è fatto ancora più rigido. In questa intervista Gian Carlo Blangiardo, presidente Istat e autorevolissimo demografo, approfondisce la riflessione articolata al recente Festival della statistica e della demografia di Treviso, provando a vedere «il bicchiere mezzo pieno». Ma anche suggerendo, pur nel linguaggio tipico di chi ha un ruolo istituzionale, un paio di chiavi di lettura. La prima è che chi fa figli aiuta anche chi non ne fa perché i bambini di oggi, da adulti sosterranno il welfare di tutti. La seconda è che sulle politiche in favore della famiglia e della maternità, l’attuale governo sta andando «nella direzione giusta», se invece si guarda «più indietro nel tempo non era così».

Professor Blangiardo, quali sono i dati relativi all’andamento demografico del nostro Paese nei primi nove mesi del 2022?

«Sono dati che confermano la tendenza alla non crescita. Continuiamo a perdere popolazione a causa del saldo naturale negativo: ci sono più morti che nati».

È un dato ancora in calo rispetto al 2021?

«In particolare sul fronte dei nati. La natalità nei primi nove mesi di quest’anno registra una diminuzione del 2% rispetto allo stesso periodo del 2021».

Eppure il 2022 è stato meno drammatico dei precedenti sul terreno del Covid.

«Questo lo abbiamo visto tutti. Ma non ci siamo ancora ripresi dal sentimento di paura e dalle difficoltà che la pandemia ha creato sul fronte della riproduzione. La programmazione della nascita di un figlio è influenzata da aspetti sanitari ed economici. Questi fattori, che hanno limitato la fecondità nel 2020 e 2021, hanno allungato i loro effetti anche nell’anno che sta finendo. Per di più, già nel 2019 era in atto una tendenza regressiva. Il numero dei nati diminuisce costantemente già dal 2008».

Che previsioni si fanno per il futuro?

«Le previsioni hanno sempre un margine d’incertezza. Comunque, se partiamo dai 400.000 nati del 2021 con indice di fecondità di 1,25 per donna, anche aumentandolo a 1,5, nel 2070 i nati scenderebbero a 350.000. Ovvero: i nati non aumenterebbero perché il numero di donne in età feconda continua a diminuire per effetti del calo di natalità degli anni passati. Per invertire la tendenza servirebbe almeno un indice di fecondità pari a 2, due figli per donna. E anche in questo modo non si arriverebbe a recuperare i livelli precedenti al 2008».

Il cosiddetto inverno demografico è solo all’inizio?

«È uno scenario certamente preoccupante per le conseguenze che provoca. Nel 2070 perderemo 11 milioni di abitanti, passando da 59 a 48 milioni di residenti. In parallelo si registrerà una  riduzione nella fascia 20-66 anni, con una minor potenzialità produttiva. Un secondo aspetto da considerare attentamente è che la componente anziana e vecchia della popolazione continuerà a crescere decisamente. Oggi ci sono circa 800.000 ultranovantenni, nel 2070 ce ne saranno più di 2 milioni, mentre gli ultracentenari saranno 145.000, oggi sono circa 20.000. Si capisce facilmente che garantire un servizio sanitario adeguato a una quantità considerevole di persone di questo tipo sarà molto difficile».

E sulla nostra economia quali saranno le conseguenze?

«A parità di tutte le altre condizioni e ragionando sui consumi medi delle famiglie, solo per effetto del cambiamento demografico, della composizione per età della popolazione, del numero di abitanti, dai circa 1.800 miliardi di oggi il Pil scenderebbe di 500 miliardi. Quindi, nel 2070, la torta verrebbe a ridursi, in valore assoluto, di un terzo».

L’inverno demografico riguarda soprattutto l’Italia o si estende a gran parte del pianeta?

«Riguarda l’Europa in particolare, non l’America che continuerà a crescere. Il processo in atto da noi è molto simile a ciò che sta avvenendo in Spagna e in Grecia e che si diffonde, in generale su tutto il continente, con qualche differenza in Francia, dove la natalità è maggiore».

Il 13 settembre scorso, incontrando gli imprenditori di Confindustria, papa Francesco ha detto che «oggi fare figli è una questione patriottica, per portare il Paese avanti»: cosa ne pensa?

«Una nazione è costituita da tre elementi: il territorio, la popolazione e la sovranità, ovvero il suo ordinamento giuridico. Posto che il territorio è quello che è, e lo stesso vale per l’elemento istituzionale, quanto alla popolazione: se essa si modifica quantitativamente e qualitativamente gli equilibri del sistema paese vengono messi in discussione. Perciò la dichiarazione di papa Francesco è in linea con l’evidenza delle cose. Se vogliamo continuare a esistere come Paese, e come un grande Paese, dobbiamo continuare a esistere anche come popolazione, con una dimensione adeguata; altrimenti lo Stato si estingue».

Come incidono in questo scenario le migrazioni?

«Nei calcoli che prevedono 48 milioni di italiani nel 2070 è già conteggiata un’immissione netta, la differenza tra chi emigra e chi immigra, di 130.000 persone mediamente ogni anno. È chiaro che un maggior ingresso dall’esterno attenuerebbe l’effetto regressivo della denatalità. Ma in questo caso il rischio riguarderebbe il processo d’integrazione. Integrare 100.000 o 200.000 persone è un conto, farlo con numeri più elevati potrebbe essere problematico».

Quali sono le principali cause di denatalità in Italia?

«Sono codificate da tempo. Dicendole banalmente: i figli costano, i figli vincolano, i figli impegnano soprattutto la donna se ha un lavoro, ponendo un problema di conciliazione. Richiedono cura e quindi pongono il tema del numero di posti, e di costi, negli asili nido, perché non sempre ci sono i nonni. Inoltre, val la pena riflettere su una questione che definirei culturale. Nella mentalità comune ci siamo abituati a pensare che “se volete figli, sono fatti vostri”. Invece, dobbiamo mettere in conto che “sono anche fatti nostri”, cioè di chi non fa figli. È il momento d’iniziare a pensare in termini di condivisione. I benefici di questi bambini, che da grandi verseranno i soldi sostenendo il welfare, si estenderanno anche a chi figli non ne ha fatti. Perciò, se usufruiremo dei benefici da loro, è giusto condividere in proporzione anche i sacrifici di chi li ha voluti e cresciuti».

La politica in favore della famiglia e della maternità è carente?

«Io preferisco guardare il bicchiere mezzo pieno. Ora mi sembra che stiamo andando nella direzione giusta, se guardiamo più indietro un tempo non era così. Teniamo presente che le risorse sono poche e non si potranno far miracoli. Però aver iniziato un percorso è importante, altrettanto lo è proseguirlo».

Cosa pensa del fatto che la premier Giorgia Meloni ha annunciato iniziative a sostegno delle madri che vogliono partorire ma che hanno difficoltà economiche?

«Se parliamo di madri che vogliono partorire è fondamentale dar loro una mano sia come riconoscimento di un diritto sia come perseguimento di un interesse collettivo».

Prima la crisi finanziaria, poi la pandemia, la guerra in Ucraina, l’emergenza climatica: sono anche queste cause del calo delle nascite?

«Sono fattori emersi negli ultimi anni, ma la fase di crollo della denatalità era iniziata già nel 2008».

Con la prima crisi finanziaria.

«Che l’ha fatta ripartire. La denatalità è una tendenza di lungo periodo. Già negli anni Settanta in Italia si era passati da 900.000 nati annui a 600.000. A inizio secolo una piccola ripresa era derivata dai ricongiungimenti famigliari degli immigrati. Esaurita questa spinta, prima la crisi del 2008 e poi quella del 2012 hanno riproposto la tendenza di fondo. Negli ultimi anni si è passati da 600.000 a 500.000 ora a 400.000 nati».

Pochi giorni fa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha accennato a nuove emergenze chimico-nucleari, mentre la presidente della Bce Christine Lagarde ha parlato di permacrisi. Gli scenari più foschi e lo stato di emergenza costante deprimono l’indice di fecondità?

«È chiaro che un atteggiamento ottimistico porta a fare scelte proiettate nel futuro. Un ottimista investe il proprio denaro, un pessimista teme di perdere il capitale. Programmare una nuova vita in un contesto molto incerto non è semplice. Nessuno poteva prevedere il Covid o la guerra o pochi anni fa un’inflazione a questi livelli. Forse ci attendono altre incognite, ma credo sia utile recuperare un po’ di ottimismo. Chi vuol essere protagonista del proprio futuro pensa che quando arriveranno nuove difficoltà le affronterà. Può essere frustrante restare passivi nell’ipotesi che potrebbero arrivare».

I figli che non voglio (Mondadori) è un libro nel quale scrittrici, giornaliste e intellettuali rivendicano la scelta di non essere madri o padri. Sul settimanale Oggi un’attrice molto amata dice: «Non ho figli, e allora?». Anche questa cultura frena la natalità?

«Non ho nulla in contrario che qualcuno decida di fare o non fare una cosa che è una scelta personale. Dev’esserci la libertà di non avere figli come di averne cinque o sei. Auspico che si operi per creare le premesse che garantiscano concretamente questa possibilità di scelta in entrambe le direzioni».

Sembra anche a lei che su gran parte dei nostri media l’ansia per la tutela del diritto all’aborto prevalga sulla preoccupazione di favorire le politiche di accoglienza della vita?

«Mi limito a ricordare che la legge 194 ha come titolo “Tutela della maternità e interruzione della gravidanza”: ognuno lo legga a modo suo, ma per intero».

Quando il filosofo Paul Virilio osservava che dopo la morte del Creatore si sarebbe arrivati alla morte del procreatore sembrava tracciare una distopia: ci stiamo lentamente avvicinando?

«Questo scenario rientra nelle visioni pessimistiche che si possono immaginare. Credo che il genere umano abbia grande capacità di reazione di fronte alle avversità. Stiamo vivendo un momento delicato e difficile com’è questo inverno demografico. Ma confido che, parafrasando una vecchia canzone di Renato Rascel, un grande dello spettacolo ai tempi della mia adolescenza, “dopo l’inverno viene sempre la primavera” e che quindi il presente possa evolvere in stagioni diverse e meno problematiche».

 

 

 

 

 

 

Francesco è «scomodo» e la sinistra lo silenzia

Francesco, papa «scomodo». «Francescomodo», si potrebbe dire fondendo il concetto in una crasi. Il succo è che papa Bergoglio non va più bene, non è più amato, non è più mainstream. Figuriamoci: ora che manifesta rispettosa attenzione verso il nuovo governo… C’è stato un tempo in cui era la stella polare, il leader mondiale, l’autorità universalmente riconosciuta. Soprattutto nei grandi media e presso gli esponenti politici della gauche. Senza dimenticare i vescovi e la stampa cattolica di osservanza Sant’Egidio. C’è stato un tempo in cui era studiato, imparato e mandato a memoria dall’intellighenzia. Un tempo in cui lui stesso citava Fabio Fazio su Repubblica: 18 marzo 2020, dopo un suo fervorino sulla quarantena da coronavirus. Invece qualche sera fa, mentre fior di giornalisti discutevano di accoglienza, e dopo che nello stesso giorno lui aveva parlato a lungo dell’argomento, zero: nessun riferimento, nessuna citazione. Storia finita, amore tramontato, Francesco lo si ascolta solo per dovere. Ma poi, anche nelle gerarchie, si tira dritto per schierarsi e colpire l’avversario, il solito.

Domenica nello studio di Che tempo che fa si erano dati convegno Roberto Saviano, Marco Damilano, Massimo Giannini, Claudio Cerasa e Fiorenza Sarzanini. Una grande rimpatriata, uno sfogatoio contro il governo delle destre. Durante il quale si è a lungo parlato delle quattro navi delle Ong ormeggiate nei porti italiani che, assicurava il conduttore, «sarà l’apertura dei giornali di domani». Purtroppo, essendoci stati anche l’annuncio della candidatura di Letizia Moratti alla regione Lombardia con il terzo polo e l’intervista rilasciata da Francesco sull’aereo di ritorno dal Bahrein, l’indomani solo La Stampa confermava la previsione di Fazio. Del resto, nel corso della serata Giannini era riuscito a dire che gli sbarchi selettivi – ovvero di donne, bambini e malati – gli ricordavano la selezione nazista dei deportati ebrei. Ora, come accennato, si dà il caso che proprio nel pomeriggio Bergoglio aveva buttato lì un paio di cosette sul tema dei migranti. Per esempio, dopo aver detto che vanno «accolti, accompagnati, promossi e integrati» e che «la vita va salvata in mare, perché il Mediterraneo è diventato un cimitero, forse il più grande del mondo», il Pontefice aveva caldeggiato l’attiva partecipazione dell’Unione europea. «Ogni governo della Ue deve mettersi d’accordo su quanti migranti può ricevere. Al momento sono quattro i Paesi che li accolgono: Cipro, Grecia, Italia e Spagna. Ma la politica va concordata tra i Paesi e l’Unione. Non si può lasciare a Cipro, Grecia, Italia e Spagna l’accoglienza di tutti i migranti che arrivano sulle spiagge». E ancora: «Ho sentito che hanno fatto sbarcare bambini e donne. Ma l’Italia e questo governo, o anche un governo di sinistra, non possono fare nulla senza l’accordo a livello europeo e la responsabilità europea». In conclusione aveva citato Angela Merkel: «Se vogliamo risolvere i problemi dei migranti, risolviamo i problemi dell’Africa con un piano di aiuti». Di tutto questo, nessun accenno. Zero citazioni per lo stesso identico Papa che il 6 febbraio scorso Fazio aveva ospitato, collegato dalla casa Santa Marta. Quella sera, insieme al conduttore, il parterre di giornalisti quasi identico a quello di domenica, aveva introdotto l’intervista con una raffica di enfatiche definizioni del capo di santa romana Chiesa: «Un intellettuale di cuore» (Fazio), «il Papa vicino alla gente, inviso alle gerarchie» (Giannini), «uno straordinario rivoluzionario» (Sarzanini), «l’ultimo socialista» (Saviano), «un grande uomo solo» (Carlo Verdelli).

Insomma, la figurina da aggiungere all’album della «Chiesa che va da Madre Teresa di Calcutta a Che Guevara». E che sembra ancora piacere alla Cei presieduta da Matteo Zuppi, come dimostra la linea dettata da Avvenire che ieri, dopo aver dedicato mezza riga del catenaccio al pensiero papale, ha sparato un lapidario: «È crisi disumanitaria». Perfettamente allineato è l’appello della Fondazione Cei Migrantes di monsignor Giampaolo Perego firmato da 24 organizzazioni di volontariato, nel quale si afferma che gli sbarchi selettivi «sono incostituzionali». Sordità verso le parole di Bergoglio a proposito della responsabilità dell’Europa trapelavano invece nell’intervista a Repubblica dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice («Il governo discute inutilmente sul fatto che le imbarcazioni battano questa o quell’altra bandiera…»). Il quale, ospite ieri di Agorà, ha fatto dire a Gesù «ero profugo e mi avete accolto» invece dell’originale «ero forestiero…».

Forzature bibliche a parte, il magistero bergogliano amplificato fino a qualche mese fa dai giornaloni che se ne contendevano le interviste e i testi, oggi è accolto con sufficienza quando non ignorato. Lo si è visto anche sulla guerra in Ucraina. L’invito alle autorità coinvolte nel conflitto a far tacere le armi per avviare una trattativa che risparmi le vite umane è regolarmente sottaciuto. Gli interessi atlantici pulsano altrimenti. Così, è stata rimossa la denuncia che in alcuni momenti «la Nato ha abbaiato alle porte della Russia». E lo sono stati il riconoscimento che «difendersi è non solo lecito, ma anche un’espressione di amore alla patria», e la riflessione che «io non escludo il dialogo anche con l’aggressore… Alle volte il dialogo si deve fare così. Puzza, ma si deve fare». Parole cadute nel vuoto (pronunciate il 22 settembre, tornando dal Kazakistan). Come quelle sul bisogno di sostenere la natalità e contrastare la crisi demografica: «È urgente sostenere nei fatti le famiglie e la natalità», disse Bergoglio agli imprenditori di Confindustria, in udienza nell’Aula Paolo VI (13 settembre). «Su questo dobbiamo lavorare, per uscire il più presto possibile dall’inverno demografico nel quale vive l’Italia e anche altri Paesi. È un brutto inverno demografico, che va contro di noi e ci impedisce questa capacità di crescere. Oggi fare figli è una questione, io direi, patriottica, anche per portare il Paese avanti».

Disse proprio così, «patriottica». No, decisamente: Francesco non è più di moda.

 

La Verità, 9 novembre 2022

«La 194 va abolita, l’aborto non è un diritto naturale»

Pochi se e pochi ma, Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia e San Remo, è abituato a lanciare il sasso in piccionaia per non lasciar scorrere gli eventi senza far sentire una voce della Chiesa. Lo ha lanciato anche in occasione delle ultime edizioni del Festival della canzone italiana che ha sede nella sua diocesi. Nei giorni scorsi, invece – sempre fedele al consiglio evangelico «il vostro parlare sia “sì, sì, no, no”» – si è pronunciato in favore della sentenza della Corte suprema americana che rimette ai parlamenti dei singoli Stati la decisione circa l’applicazione della legge sull’interruzione della gravidanza.

Eccellenza, perché ha così apprezzato la sentenza dei supremi giudici americani?

«Per tre fondamentali motivi. Il primo risale a quand’ero un giovanissimo seminarista liceale e in Italia si scatenò il dibattito che precedette il referendum che portò all’approvazione della legge sull’aborto. Ricordo i vescovi di allora, il giornale Avvenire, i parroci e la chiarezza di papa San Giovanni Paolo II su questo tema. Perciò è un argomento che giudico di tragica attualità e di una certa decisività, in ordine alla morale cattolica e al contributo che la Chiesa deve dare alla civiltà».

E gli altri motivi?

«Ho una grande stima del movimento Pro-life americano che con questa sentenza ha ottenuto una importante vittoria. Infine, credo che l’indifferenza in cui è caduto il dramma dell’aborto richieda invece che lo si riproponga e lo si affronti da tutti i punti di vista, compreso quello giuridico».

Con questa sentenza saranno i cittadini dei singoli Stati americani a decidere: non teme che questo creerà nuove disuguaglianze?

«Sì, ma non è l’aspetto principale della sentenza. Il suo valore sta nell’aver cancellato un’acquisizione giuridica indebita e cioè che l’aborto sia un diritto costituzionale».

Si potrà creare un turismo dell’interruzione della gravidanza sostenibile solo dalle famiglie più agiate?

«È un effetto collaterale che a mio parere non influisce sulla portata della sentenza».

Come le pare che la Chiesa italiana l’abbia accolta?

«Penso e spero con grande soddisfazione. Dal mio punto di vista ho ritenuto di manifestare questa soddisfazione per incoraggiare tutte le persone di buona volontà o che militano nei movimenti che promuovono e sostengono la vita, persone che, sia come credenti che anche da non credenti, hanno un giudizio autentico sulla vicenda».

È stato uno dei pochi esponenti della gerarchia a esprimersi pubblicamente o sbaglio?

«A quanto mi risulta non si sbaglia».

Come se lo spiega?

«Molti temono che l’argomento possa essere divisivo. Personalmente penso che di fronte a un valore non negoziabile, come si diceva un tempo, si possa e si debba preferire la chiarezza delle posizioni al pericolo della sua divisività».

Ha auspicato che quella sentenza «faccia scuola anche in Italia»: in che modo?

«Innanzitutto promuovendo una riflessione sempre più approfondita sull’argomento. Una riflessione impegnata e concentrata non tanto sui diritti individuali quanto sulla sacralità e sulla dignità della vita umana. Perché qui sta l’equivoco: l’aborto non è un diritto, ma si configura come un omicidio perché è la soppressione illecita della vita umana. È su questo che bisogna ragionare».

Auspica un approfondimento della riflessione o la realizzazione di atti concreti?

«A partire dalla riflessione stimo e auspico conveniente arrivare a una cancellazione della legge 194.

Addirittura.

«Certamente. È una legge che annuncia finalità tanto buone quanto velleitarie».

Perché velleitarie?

«Perché al dettato legislativo non corrispondono autentiche politiche di tutela della maternità e di promozione della vita».

È un giudizio molto pesante, davvero ci sono solo buone intenzioni?

«È una legge intrinsecamente negativa perché legittima l’uccisione di un essere umano nel grembo della madre».

Lei vuole scatenare un putiferio con i movimenti femministi.

«Con buona pace delle femministe l’aborto è ciò che abbiamo detto. La prima forma di carità, solidarietà e rispetto verso tutti è dire la verità. È di tutta evidenza che l’aborto è la soppressione di un essere umano».

Torniamo al dibattito di quarant’anni fa?

«Lei si riferisce all’aborto che, se non regolato dalla legge, è confinato alla clandestinità?».

Mi riferisco al fatto che lo si ritiene un progresso acquisito, un traguardo raggiunto per sempre.

«I termini che lei usa non li ritengo adeguati. Per me non è né un traguardo né un esempio di progresso. Anzi, lo considero una vergogna rispetto all’umanità».

Fior di biologi, antropologi e giuristi considerano l’aborto un diritto naturale inalienabile.

«È una posizione che non condivido. Per me diritto naturale inalienabile è quello alla vita del concepito e mi domando come si possa ritenere diritto inalienabile la scelta di un individuo che comporti la soppressione di un altro essere umano».

Tornano a contrapporsi un’ideologia in difesa del diritto all’aborto e un’altra in difesa del diritto alla vita del nascituro?

«Diciamo che non si possono considerare due ideologie simmetriche. La difesa del diritto del nascituro a vivere è un’affermazione del diritto naturale antropologicamente corretta. Se si afferma che in una tale situazione l’uomo può essere soppresso, oltre a legittimare un omicidio, si apre una voragine sterminata di abusi contro la dignità dell’uomo. Viceversa considero vera e propria ideologia, talvolta anche espressa in forme violente, quella degli abortisti che non avendo ragioni scientifiche valide ricorrono a pressioni di tipo ideologico».

C’è chi osserva anche da posizioni cattoliche che la depenalizzazione dell’aborto è stato un diritto fondativo del movimento femminista.

«Purtroppo, storicamente è vero. Ma rimane un dato sbagliato e incompatibile con la fede cattolica».

Lucetta Scaraffia sottolinea che non può essere considerato un diritto naturale perché coinvolge anche un’altra persona, cioè il padre.

«È un’osservazione vera, ma debole e insufficiente in quanto, più che ledere il diritto del padre, lede il diritto fondamentale alla vita del nascituro».

Se lo chiamiamo nascituro vuol dire che non è ancora protagonista di una vita piena?

«No, la vita piena è dal concepimento. Non sono le fasi della vita a determinarne la dignità, ma è la sua dimensione ontologica a farlo. Altrimenti si aprirebbe una gamma infinita di eccezioni».

È proprio la prospettiva verso la quale stiamo andando?

«Purtroppo».

Come per esempio nei casi di suicidio assistito?

«Esattamente».

Come giudica il fatto che quando si torna a parlare di questi argomenti si alza un coro che proclama l’intoccabilità della legge 194?

«Di fatto siamo esposti a una forma di dittatura ideologica».

Le posizioni ideologiche complicano la gestione di un tema delicato. Se lo Stato e i vari corpi intermedi fossero più impegnati nei servizi di accoglienza alla vita molte problematiche si potrebbero risolvere?

«Affermare i principi è necessario e doveroso. Altrettanto importante è che le affermazioni siano accompagnate e sostenute da atti di accoglienza e solidarietà a tutti i livelli dello Stato e dei corpi intermedi. Le iniziative del Movimento per la vita impegnato non solo nelle enunciazioni, ma anche nell’aiuto concreto nelle situazioni di difficoltà di madri e famiglie, sono già un esempio di questa condivisione».

Molti lamentano che in tanti ospedali pubblici troppi medici obiettori di coscienza rendono inapplicabile la 194.

«È uno dei tanti segni che l’aborto non può essere affermato come lecito».

La liceità è affermata da una legge seguita a un referendum.

«Io parlo della liceità morale, che è superiore a quella della legge».

Auspica un maggior protagonismo della gerarchia e dei cattolici su questi temi?

«So che nella Chiesa sono in buona compagnia. Anche di recente papa Francesco ha ribadito il giudizio della Chiesa sull’aborto. Queste riflessioni sono scritte nel catechismo, nella sana teologia e nei pronunciamenti di molti pastori. Poi le modalità dipendono dalla sensibilità e dal discernimento di ciascuno».

Non è una battaglia di retroguardia ridiscutere l’interruzione di gravidanza?

«È una battaglia di fede e di civiltà che dobbiamo combattere pacificamente. Con la buona ragione, con la preghiera, con la testimonianza del vangelo e favorendo una cultura della vita a 360 gradi».

Lei si espone spesso su temi etici e civili come per esempio sul disegno di legge contro l’omotransfobia. Pensa che i cattolici debbano avere una funzione critica della cultura dominante?

«È una questione di responsabilità che personalmente avverto. In proposito cito spesso il profeta Isaia che rimprovera in nome di Dio i pastori del popolo d’Israele chiamandoli “cani muti” quando, di fronte al pericolo e alla menzogna, non lanciano l’allarme».

Dove vede questo pericolo e questa menzogna oggi?

«Nella mentalità dominante che tende a livellare e appiattire tutto in un orizzonte di esasperata libertà individuale».

Perché in occasione del Festival di Sanremo ha a criticato le esibizioni più trasgressive?

«Perché erano irrispettose dei simboli del cristianesimo. L’ho fatto per dare voce a tutte le persone che si sentivano offese da quelle esibizioni, fintamente trasgressive. E per esprimere una parola chiara rivolta soprattutto a persone giovani che possono essere indotte al male da messaggi sbagliati».

I media e il mondo dello spettacolo parlano un’altra lingua: è ottimista riguardo all’efficacia dei suoi pronunciamenti?

«Sono assolutamente ottimista perché i pensieri che cerco di dire a voce alta sono radicati nel cuore di tante persone, molte più di quelle che le statistiche della cultura dominante registrano. Ma soprattutto sono ottimista perché credo nella bellezza e nella forza della verità e nella potenza salvifica di Dio».

 

La Verità, 2 luglio 2022