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«In questa Ue i tecnici vogliono fare le leggi»

La maggioranza dei profili personali dei social è fuffa. Roba superflua. Poi ce n’è qualcuno di utile perché segnala notizie e offre angolazioni originali dei fatti. L’account X di Leonardo Panetta, corrispondente da Bruxelles dei tg e dei programmi Mediaset, è un piccolo controcanto del pensiero mainstream che domina nei media. Solo per citare qualcuno degli ultimi post, giorni fa ha diffuso la notizia del rimpatrio in Qatar di 22 migranti irregolari dalla Svezia, poi ha mostrato la cattedrale di Strasburgo con le luci spente per favorire il risparmio energetico.

Da quanto tempo sei a Bruxelles?
«Otto anni, dal settembre 2016».

Mese e anno di nascita della Verità.
«Potremmo festeggiare insieme i dieci anni».

Come ci sei arrivato?
«Fu una scelta dell’editore, che decise di coprire in modo più sistematico l’Europa. La Commissione era presieduta da Jean-Claude Juncker, un politico del Ppe che aveva il pugno duro verso l’Italia, per esempio, contro il governo gialloverde».

Copri tutte le testate Mediaset?
«Faccio capo alla struttura di Tgcom24 diretta da Andrea Pucci. E sono a disposizione di tutte le testate, tranne il Tg5, e di tutti i programmi di approfondimento e di prima serata, sito compreso».

Quello da Bruxelles è un giornalismo un po’ distante dalla vita della gente comune?
«A volte i temi in discussione richiedono un’informazione tecnica. Lavorando per le tv generaliste ho sempre cercato di semplificare gli argomenti. Con Paolo Liguori direttore, tenevo una rubrica intitolata “Cavoletti da Bruxelles”».

Per dire che da Bruxelles arrivano problemi?
«Diciamo che certe norme hanno una gestazione problematica. Qui i decisori si chiamano policy maker e forse lavorano su troppi fogli excel».

Su schemi rigidi.
«Si pianifica su cinque anni, ma poi ci si scontra con quello che accade nel mondo. Nessuno due anni fa, quando c’erano i trattori dei produttori agricoli che bloccavano le città, immaginava che Ursula von der Leyen avrebbe avviato un ripensamento politico. Dicendola sinteticamente, qui si vive l’eterno scontro tra tecnica e politica».

Cioè?
«I funzionari che definiscono le direttive sopportano con fastidio l’intervento della politica sulle leggi. Però la Commissione è espressione della politica».

La rigidità è più dei tecnici, quindi?
«C’è un concorso di colpa. Per esempio, il contestato green deal è condiviso anche dai suoi detrattori perché nessuno vuole un mondo inquinato. Ma tutto dipende da come lo si attua. I tecnici hanno favorito un’impostazione più rigida per metterlo al riparo del cambio di legislatura, prima delle ultime elezioni. Ma oggi la situazione si sta complicando».

Un certo dirigismo viene dai tecnici?
«Per rispondere a delle critiche sul mio profilo X ho spiegato che in tante zone della Germania l’exploit di Afd dipende più dalle normative green per le caldaie che dalle politiche sui migranti».

Come nasce il tuo profilo X, piccolo presidio di controinformazione?
«Leggendo molta stampa straniera posso dare notizie che altrove non ci sono. Mi sembra più contro l’informazione non darle, certe notizie».

In un post hai rilanciato quella dei 22 migranti restituiti dalla Svezia al Qatar nei giorni in cui in Italia si bocciavano Egitto e Bangladesh come Paesi sicuri.
«Parlo spesso della Svezia perché ho constatato che è un caso limite».

Perché?
«Per 50 anni è stata un Paese di accoglienza dei rifugiati politici dal Cile, la Siria, l’Iraq, la Somalia. Sia con i governi di centrosinistra che di centrodestra. Alle porte di Stoccolma si sono creati veri e propri ghetti. Poi c’è il caso di Malmö. Se ne parla poco, ma in questi anni è esplosa una guerra tra bande legate alla criminalità organizzata composte dai figli dei rifugiati. Le seconde e terze generazioni non si sono integrate. Invece di campare con i sussidi tanto decantati del modello Nordeuropeo preferiscono vivere guadagnando dieci volte con la criminalità organizzata».

Così la Svezia ha cominciato a rimpatriare chi non rispetta le leggi?
«Il nuovo governo di centrodestra ha iniziato a rimpatriare chi aveva asilo politico, ma collezionava condanne. Dall’ottobre 2023 Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia hanno cominciato a prevedere questo tipo di rimpatri. Un altro esempio: quando c’era la guerra in Siria sono stati accolti molti profughi, ma cessata la guerra li fanno tornare».

E la magistratura scandinava ricorre contro le leggi dei governi?
«Le associazioni e le Ong ricorrono, ma i governi procedono. La decisione sui 22 qatarioti è stata applicata. Qui a Bruxelles si osserva l’andamento dell’accordo tra Italia e Albania. Anche in Danimarca si attende il pronunciamento della Corte di giustizia europea al ricorso della Procura di Bologna».

Che difficilmente sarà rapido.
«Nei governi dei Paesi scandinavi c’è la volontà di risolvere le problematiche sociali e di criminalità. I Paesi del Nordeuropa, dove non ci sono stati né il terrorismo né l’espansione della criminalità organizzata, guardano all’Italia come modello di contrasto al crimine e la magistratura è interessata a conoscere gli strumenti che abbiamo adottato».

Un altro dei tuoi post ripreso dalla stampa è quello sulle luci della cattedrale di Strasburgo spente dopo le 23 per risparmio energetico.
«In Italia c’è una rappresentazione idilliaca del Nordeuropa. I Verdi sono stati al governo in molti Paesi, ma ora sono stati ridimensionati. Con l’ambientalismo si fanno battaglie epocali sulle aiuole, mentre a pochi metri esplode la criminalità. A Strasburgo la sindaca verde Jeanne Barghesian ha deciso di tagliare l’illuminazione della cattedrale. Me ne sono accorto andando a seguire le sedute del Parlamento europeo. La cattedrale cattolica svetta, è uno dei simboli della città, visitata anche la sera. Improvvisamente, non la vedevo più. Il risparmio per le casse del comune è di 5 euro al giorno».

La casa editrice Hachette vuole promuovere il libro di Jordan Bardella nelle stazioni, ma il sindacato dei ferrovieri minaccia ritorsioni. La pubblicità viene ritirata.
«La Hachette aveva fatto l’accordo con la società francese delle ferrovie, ma il sindacato può paralizzare il paese con gli scioperi. Così, si violano i criteri d’imparzialità perché altre biografie hanno avuto la loro promozione. Alla fine la limitazione ha avuto un effetto boomerang perché nelle tv francesi se n’è parlato parecchio».

Si diceva che la Germania avrebbe evitato la crisi dell’industria perché aveva investito nelle rinnovabili. Invece.
«Un paio d’anni fa ho visitato un grande laboratorio che sviluppava l’Intelligenza artificiale per le auto. Il primo paradosso era che era alimentato con il gas della Russia, il secondo che a 40 chilometri c’era una centrale nucleare francese, mentre la Germania le aveva chiuse perché prevedeva di diventare capofila delle rinnovabili. Salvo accorgersi che non riescono a rispondere alla richiesta energetica del sistema».

Era la locomotiva d’Europa.
«Questo governo socialista verde e liberale verrà ricordato per aver dovuto gestire la più grossa crisi energetica degli ultimi 20 anni. I tedeschi sono spaesati, non hanno capito che la crescita delle formazioni populiste come Afd è alimentata dalla crisi economica. Le elezioni del settembre 2025 saranno meno “noiose” perché potrebbero tenersi con gli operai in strada».

Quelli licenziati per le chiusure delle fabbriche Volkswagen che, però, non fanno ridiscutere lo stop ai motori tradizionali del 2035?
«Quell’obiettivo non viene ritoccato per perché la Germania deve ancora far dimenticare il dieselgate e perché sono stati fatti molti investimenti in quella direzione. A Bruxelles c’è lo stabilimento dell’Audi, gruppo Volkswagen, che produceva l’Audi 1. Due anni fa è stato convertito per la produzione della E-tron elettrica da 80-90.000 euro, e presentato come un progetto d’avanguardia perché decarbonizzato. Chiuderà a febbraio 2025 perché le auto non vendono e produrle costa troppo. L’ultima chicca simbolica è che la E-tron è l’auto blu delle istituzioni europee».

Un buon navigatore direbbe: «ricalcolo».
«E senza aspettare il 2035. Già l’anno prossimo le case automobilistiche dovranno pagare una multa per non aver venduto il numero di auto elettriche previste dall’agenda green. Situazione curiosa: in America le auto elettriche si vendono perché sono uno status symbol. È giusto cominciare così per poi estenderne l’uso gradualmente. Dire che dobbiamo usarla tutti è frutto di una miscela di socialismo e dirigismo. L’idea di chiudere le fabbriche e intervenire con i sussidi mi ricorda la politica dei sussidi distribuiti dopo la chiusura delle miniere e delle acciaierie in Vallonia, ora zona depressa. Invito a venire qui e nel Nord della Francia, non a caso serbatoio del Rn di Marine Le Pen».

Facciamo un salto in America. Hai scritto che, a un passo dal voto, la campagna elettorale si concentra sulla domanda: Trump è fascista o no?
«È un cambio di rotta innescato dalle parole di John Kelly, suo ex capo di gabinetto, secondo cui Trump aveva simpatie per i generali di Hitler. Se anche in America si parla di Trump fascista forse vuol dire che scarseggiano gli argomenti contro il tycoon».

Con i suoi soldi Elon Musk sta sovvertendo le elezioni americane?
«Gli imprenditori digitali hanno sempre finanziato la campagna democratica. L’endorsement di Musk a Trump ha stravolto una consuetudine, poi la lotteria ha alimentato il finanziamento. Ora anche Jeff Bezos ha impedito al Washington Post l’endorsement a Kamala Harris. Finché erano tutti dalla parte dei democratici non c’era scandalo. Two tier, dicono gli inglesi, due pesi…».

Riporti la notizia di un quotidiano italiano: la linea M5 della metropolitana di Milano ostaggio della baby gang: rubati telefonini, bracciali, tessere Atm. E scrivi: «Completiamo il titolo: baby gang composta da nordafricani, tra i 18 e 21 anni, senza fissa dimora e con altri precedenti penali».
«Mi sono occupato di cronaca nera, e ricordo la regola delle 5 W. Bisogna dire dove, come, quando, ma anche chi. Noto che nelle vicende che riguardano gli stranieri le loro origini non si mettono nel titolo ma solo in fondo al pezzo. Si danno tutti i dettagli della vittima, si stemperano quelli degli autori della violenza. Invece, voglio sapere da chi è composta la baby gang, se sono ragazzi della Milano bene o nordafricani senza fissa dimora. È una questione di correttezza professionale, di completezza dell’informazione, non di razzismo».

 

La Verità 2 novembre 2024

 

«Le case green riducono il Pil e non risolvono nulla»

La svolta verde avanza. E sembra non ci sia modo di fermarla, come dimostra la recente approvazione al Parlamento europeo della normativa sulle case green. Ugo Spezia, ingegnere nucleare di lungo corso, esperto di fonti energetiche, già dirigente Sogin (Società gestione impianti nucleari) e membro della Giunta esecutiva del Foratom (Forum atomico europeo), organismo consultivo del medesimo Parlamento europeo, non si accontenta del fatto che l’ultima versione appaia più morbida delle precedenti. «È una decisione che va rivista radicalmente», afferma, «perché è un’operazione antieconomica per il Pil dei Paesi membri e per i bilanci delle famiglie e delle imprese».

Ingegner Ugo Spezia, che cosa pensa della direttiva sulle case green con cui l’Unione europea punta ad azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050?

«È l’ennesima imposizione finalizzata, in teoria, a contrastare i cambiamenti climatici. Ma è scientificamente dimostrato che i cambiamenti climatici non dipendono dalle emissioni di Co2. Anzi, è vero il contrario: l’aumento della temperatura media globale – che peraltro, resta tutto da dimostrare -determina l’aumento della temperatura media degli oceani, che a sua volta causa la liberazione in atmosfera di parte della Co2 disciolta negli oceani. Quindi è l’aumento di temperatura a generare la Co2, non il contrario. Ma c’è un’altra considerazione che dovrebbe indurre alla razionalità anche chi di scienza capisce poco. L’Europa è attualmente responsabile del 7% delle emissioni di Co2 a livello mondiale e le emissioni del resto del mondo stanno aumentando del 7% all’anno. Quindi, anche se l’Europa azzerasse oggi le proprie emissioni, entro un anno questa riduzione sarebbe annullata da quelle del resto del mondo. Alla luce di queste cifre, le pare che la politica climatica dell’Unione europea abbia senso?».

Questo lo devono dire le persone competenti come lei e lo giudicheranno gli elettori. È realistico l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas del 16% dal 2030 e del 22% dal 2035?

«Premesso che, come detto, non servirebbe a niente, l’obiettivo è realisticamente raggiungibile. Bisogna vedere a quale prezzo. La riduzione delle emissioni ha costi elevatissimi che vengono fatti pagare alle famiglie e alle imprese. Se l’economia europea continua a essere depressa come dal 2008 a oggi, quegli obiettivi rischiamo di raggiungerli senza fare nulla: sarebbe sufficiente la chiusura, ormai dietro l’angolo, delle industrie ad alta intensità energetica, le quali, dati i costi dell’energia, già oggi non sono più in grado di reggere la concorrenza internazionale».

Non male come paradosso. In Italia circa 5 milioni di edifici dovranno essere ristrutturati. Cosa pensa del fatto che, mentre non sono previsti incentivi pubblici, la spesa media prevista è di 60.000 euro per unità abitativa?

«E dove sono i 250 miliardi che servono? È evidente che le famiglie italiane non saranno in grado di fare fronte a un impegno tanto gravoso senza un sostegno pubblico. In realtà, servirà molto di più di quanto preventivato. Le ristrutturazioni “coatte”, così come hanno dimostrato le vicende del “superbonus edilizio”, scontano prezzi di mercato gonfiati. Grazie allo “sconto in fattura” i valori a preventivo sono raddoppiati, tanto paga Pantalone… L’improvviso incremento della domanda ha fatto salire alle stelle i prezzi dei materiali, che peraltro non si trovavano più. Con il risultato che la maggior parte degli interventi di ristrutturazione è costata più del doppio dei prezzi di mercato ed è tuttora incompiuta. Le stesse imprese edilizie, dopo l’abbuffata del superbonus, oggi sono in crisi per mancanza di commesse. Vogliamo ripetere quell’esperienza nefasta, pagata ancora una volta dai cittadini italiani?».

La nuova normativa stabilisce che dal 2040 saranno bandite le caldaie a gas. Decisione corretta?

«È la fotocopia di una legge che è stata introdotta qualche anno fa in Germania e che ha causato una sollevazione popolare contro il governo e la “coalizione semaforo” di maggioranza. Anche grazie a questa politica avventurista, i partiti che la compongono perderanno le prossime elezioni e chi subentrerà dovrà per forza rimuovere una scelta tanto sconsiderata. Scelta che, nel frattempo, i tedeschi sono riusciti a esportare anche in Europa. Pensi che in Germania è vietato l’uso del carbone, del gasolio, dei termo-camini a legna e delle stufe a pellet. Vietando anche il gas, i tedeschi sono costretti a scaldarsi con le stufe elettriche e con le pompe di calore, anch’esse elettriche, scontando un prezzo dell’energia che, grazie alla recente chiusura delle centrali nucleari, è praticamente raddoppiato e costringe la Germania a importare energia elettrica di origine nucleare dalla Francia. Grazie a queste scelte oggi l’economia tedesca è in recessione. Non è certo un esempio da seguire».

È un obiettivo realistico che gli edifici privati di nuova fabbricazione abbiano zero emissioni dal 2030 e dal 2028 quelli pubblici?

«Per gli edifici di nuova costruzione è un obiettivo realistico, ma solo scontando un notevole aumento dei costi di costruzione e, conseguentemente, un incremento ancora maggiore dei prezzi di mercato dei fabbricati. Chi pagherà?».

Come valuta il fatto che i nuovi fabbricati dovranno funzionare con fonti a basso dispendio energetico con l’installazione di pannelli solari?

«Ancora una volta, è questione di costi. Un impianto solare di notte non funziona e funziona pochissimo anche di giorno quando il cielo è coperto. I dati di esercizio dimostrano che un impianto solare, anche quando è posizionato in modo ottimale, funziona solo per il 15% del tempo. Il resto dell’energia deve essere prodotto in altro modo. Servono dunque impianti sostitutivi di altro tipo. Questo è il motivo per il quale l’investimento nel fotovoltaico e nell’eolico, che sono fonti aleatorie, non è sostitutivo ma aggiuntivo all’investimento in impianti convenzionali».

La tecnologia fotovoltaica presenta punti deboli o comporta effetti collaterali?

«Scontata l’intermittenza e le diseconomie, nessuno finora ha mai detto come saranno smaltiti i pannelli fotovoltaici quando giungeranno a fine vita. Tenga presente che già dopo dieci anni di funzionamento la loro efficienza energetica si riduce del 50% e che il materiale semiconduttore di cui sono fatti contiene quantitativi non trascurabili di arsenico».

Che cosa sono le cosiddette «comunità energetiche» che dovrebbero trarne vantaggio?

«Sono associazioni, promosse da una direttiva europea del 2018 e da una legge nazionale del 2019, di enti locali, aziende, attività produttive e commerciali e privati cittadini che si consorziano per dotarsi di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Una finalità apparentemente nobile che nasconde una verità moto diversa. Siccome le fonti rinnovabili sono lautamente incentivate dallo Stato – altrimenti costerebbero troppo e non le utilizzerebbe nessuno – e siccome gli incentivi pagati dallo Stato sono posti a carico di tutti i consumatori elettrici e costituiscono circa un quarto del costo delle bollette elettriche, il risultato di questa “nobile” iniziativa è che i “nobili” membri della comunità energetica non pagano il vero prezzo dell’energia elettrica che producono. Prezzo che invece è addebitato per intero alla collettività, attraverso gli oneri di sistema».

A trarne vantaggio saranno soprattutto le aziende produttrici di questa tecnologia?

«Che si trovano in Cina e che hanno già oggi difficoltà a garantire le forniture di componenti. Ma bisogna essere giusti: anche i furbetti di cui dicevo prima hanno il loro tornaconto personale…».

C’è il rischio che la casa green si riveli una forzatura come quella dell’imposizione dell’auto elettrica?

«Non è un rischio: è una certezza. Non credo che la direttiva europea sarà attuata. Al prossimo rinnovo del Parlamento europeo certe scelte dovranno essere riviste. E spero che anche il governo italiano faccia sentire la propria voce, senza i timori reverenziali, leggasi spread, cui i precedenti governi ci hanno abituato».

È troppo malizioso pensare che siccome l’economia della Germania è in difficoltà l’incentivo che deriverà all’industria del fotovoltaico possa favorirne la ripresa?

«Sarebbe una mossa intelligente, ma anche la Germania importa le tecnologie fotovoltaiche».

È una conquista di cui accontentarsi il fatto che, rispetto alla precedente, questa nuova direttiva consente un margine di due anni ai singoli Stati per adeguarsi e presentare un proprio piano per raggiungere gli obiettivi?

«Certamente no. La direttiva deve essere comunque rivista radicalmente».

Esistono altre fonti sicure per l’approvvigionamento energetico del nostro sistema edilizio? Quali sono e perché non vengono verificate?

«Gli edifici a uso abitativo, specie quelli delle grandi città, hanno solo due modi per soddisfare il loro fabbisogno energetico: l’elettricità proveniente dalla rete, non quella fotovoltaica che costa troppo e non sarà mai sufficiente, e il gas. Quest’ultimo ha consentito di sostituire, nell’ultimo secolo, prima la legna, poi il carbone e infine il gasolio, decisamente più inquinanti. Ha assolto in tal modo anche una funzione di salvaguardia ambientale. In un Paese come l’Italia, che paga da molto tempo l’energia elettrica più cara del mondo, visto che è fatta per circa il 50% con il gas e per il 15% con fotovoltaico ed eolico incentivati, non è possibile adottare la soluzione francese. I Francesi hanno risolto il problema grazie all’elettricità nucleare. Nelle case francesi sono elettrici sia i sistemi di riscaldamento che i sistemi di cottura, che costano poco sia dal punto di vista impiantistico che nei consumi. Noi italiani invece siamo strangolati da un lato dal prezzo del gas, tutto di importazione, e dall’altro dal prezzo dell’elettricità, prodotta in modo sconsiderato. La risposta alla sua domanda è, dunque, banale: è necessario produrre elettricità nucleare e sostituire con essa il gas negli usi domestici».

Complessivamente, che cosa pensa della svolta green voluta dall’Europa?

«È una scelta di carattere ideologico, imposta dai Verdi grazie alla loro posizione di ago della bilancia nelle coalizioni di governo di molti paesi. Ma è anche una scelta antieconomica che ha effetti drammatici sul Pil dei Paesi europei e, in particolare, sui bilanci delle famiglie e delle imprese».

 

 

La Verità, 16 marzo 2024

«Meloni se la caverà se sarà coraggiosissima»

Ricapitoliamo: Maria Giovanna Maglie, lei non doveva candidarsi alle elezioni del 25 settembre?

«Non è mai stato vero; un po’ come quando i giornali scrivono che Giorgia Meloni e Matteo Salvini litigano. Se n’era parlato negli ambienti della Lega, ma io non ho mai dato segnali…».

Sembrava avesse offerte anche da Fdi, invece?

«Sono buona amica sia di Matteo Salvini che di Giorgia Meloni e mi è capitato di parlare a qualche comizio del centrodestra. Dove ho detto liberamente ciò che penso e cioè che, dopo vent’anni di non voto, mi è era tornata la voglia di occuparmi di politica».

Poi ha votato Lega?

«Da quando ho ripreso a farlo, ho votato per la Lega di Matteo Salvini».

Meglio precisarlo: non quella dei governatori e di Bossi 2 il ritorno?

«Ho grande rispetto della storia e della capacità rivoluzionaria avuta da Bossi a suo tempo. Perciò, mi auguro che nessuno si provi a strumentalizzarlo. Quanto ai governatori, ammesso che ci sia un partito dei governatori, hanno sbagliato due volte. La prima, appiattendosi sul governo Draghi, la seconda, cadendo nel proibizionismo vaccinale».

È vero che è molto ascoltata dalla presidente di Fdi?

«Conosco Giorgia Meloni da molti anni e l’ho sempre sostenuta, apprezzando che sia riuscita a diventare da donna il capo di un partito maschile, gareggiando e affermandosi sugli uomini perché è rigorosa, secchiona e cocciuta. Se a essere il più rigoroso, secchione e cocciuto fosse un uomo dovrebbe essere premiato lui. Detto questo, mantengo un rapporto di stima e amicizia con Salvini, di cui aspetto la riscossa».

Dopo il 25 settembre avrebbe dovuto fare un passo indietro?

«Non vedo perché. Un certo insuccesso è da attribuire al prevalere di altri nella Lega più che a Salvini. Se qualcosa gli va imputato è che sta troppo a sentire gli altri. Lui l’ha sempre pensata allo stesso modo, anche se ha fatto quello che non gli piaceva».

Per esempio?

«Ricordo un giorno dell’autunno 2021, Draghi in carica da sei mesi, quando io a un convegno già lo criticavo apertamente. Allora Salvini disse che invidiava il mio coraggio e che si mordeva la lingua 20 volte al giorno».

In campagna elettorale è stato un po’ ondivago?

«Anche se c’è qualcuno che dà cattive notizie ai giornali, la Lega è un partito che marcia unito e il segretario non fa di testa sua. Per disciplina e militanza ricorda il vecchio Pci. Salvini ritiene di dovere qualcosa alla leadership della Lega ed è più disciplinato di quanto non si creda. È un uomo di passione civile e generosità, virtù dimenticate soprattutto a sinistra. Questo in una fase di mediocrità della classe politica che affligge tutto il mondo».

Giudizio pesante.

«Ma realistico, la grande politica di un tempo non c’è più. Abbiamo apprezzato Angela Merkel, ma prima c’era Helmut Kohl, o Boris Johnson, ma prima c’era Margaret Thatcher, Emmanuel Macron, ma c’erano Francois Mitterand e Charles De Gaulle. Ora individuo in Salvini e Meloni la scintilla della passione che mi consente d’intravedere la luce in fondo al mio astensionismo storico».

Il fatto che non si stia impuntando sul ministero dell’Interno è un buon segnale?

«In un momento di forte drammaticità sociale, il ministero dell’Interno lo lascerei a un tecnico. Idem quello delle Infrastrutture. Altrimenti qualsiasi mozzicone di ponte cadrà, saranno tutti a chiedersi dov’era a cena il ministro. Credo sia più salutare impegnarsi in un settore legato alla propria passione. Questo ti fa essere autorevole. Se ti occupi di agricoltura, per esempio, puoi chiedere conto all’Unione europea di quella sciocchezza che si chiama Nutriscore. Interni e Infrastrutture li eviterei come la peste. Piuttosto, prenderei il ministero della Cultura, che è un buco nero».

Sono cose che dice quando è ospite nei talk show e su Dagospia, anche se ultimamente la si legge meno…

«Dagospia ha cambiato linea, ora è schierato, secondo me, prima non lo era. Pensi che mi ha fatto scrivere per più di un anno a favore di Donald Trump. Ora non lo farebbe più, di recente mi ha accusato di essermi trasformata in un agit prop di Salvini. Io potrei rispondere che Dago sembra The Quirinal Voice e che il suo livore verso Salvini è immotivato. Ma non importa, la verità è che ognuno ha fatto le sue scelte».

A lungo corrispondente Rai dagli Stati uniti, Maria Giovanna Maglie è un volto noto ai telespettatori di La7 e Rete 4. Nel conformismo della narrazione in auge nei nostri giornali e nelle nostre tv, le sue opinioni risultano inevitabilmente spiazzanti. Qualche giorno fa ha pubblicato un saggio sul caso Orlandi, intitolato Addio Emanuela (Piemme).

Com’è riuscita a indagare nel mistero più impenetrabile degli ultimi 40 anni?

«Stavo cominciando a lavorare a un libro-intervista con Salvini, ma la caduta del governo e le elezioni hanno cambiato i piani».

E com’è arrivata alla Orlandi?

«Il caso di Emanuela Orlandi accompagna la nostra generazione dagli inizi perché, quando scomparve, muovevamo i primi passi da giornalisti. Nel 1983, occupandomi dei desaparecidos argentini, capii l’impossibilità di elaborare il lutto se non si può vedere il corpo del defunto. Un diritto che è stato negato alla famiglia Orlandi, ma anche a tutti noi».

Perché è interessante illuminare i lati oscuri di questo caso?

«Attraverso di esso si capisce cos’era la chiesa di Karol Wojtyla e le forze che vi si opponevano. Si capisce il ruolo dell’Italia nello scacchiere del terrorismo internazionale. Gli anni Ottanta hanno portato alla caduta del Muro di Berlino. In Italia si usciva dallo scandalo della P2 e ci si avvicinava a quello di Tangentopoli».

Qualcuno ha tentato d’invitarla a non approfondire troppo?

«Sì, però sono andata avanti tranquillamente. Ho potuto verificare da parte del Papa attuale una grande volontà di chiudere serenamente questo capitolo, per quanto gli è possibile. Quella che si è risentita è un’altra parte della curia. Il fatto che i responsabili della morte e della sparizione del corpo di Emanuela sono tutti morti potrebbe essere l’occasione per scrivere la parola definitiva sul caso. Il Parlamento italiano non dovrebbe esimersi dal farlo. Nel libro indico una soluzione pubblicando un documento, si potrebbe partire da lì».

Il documento che prova che il corpo di Emanuela è stato cremato.

«Che era già agli atti, ma che nessuno ha preso seriamente in considerazione».

La sua tesi è che il rapimento sia da collegare ai rapporti tra lo Ior di Marcinkus e la banda della Magliana?

«La mia tesi è che Emanuela Orlandi sia l’oggetto di un ricatto al quale la Chiesa non ha ceduto».

Era una questione di soldi?

«I rapitori rivolevano indietro dei soldi dal Vaticano. Emanuela è stata la vittima sacrificale: se mi chiede se si poteva evitare, rispondo di sì».

Tornando alla politica, ritiene che Meloni sia in grado di affrontare emergenza energetica, caro bollette, emergenza sanitaria, guerra…

«Con una certa arroganza, Draghi lascia al suo successore un fardello pesante fingendo che ciò che è accaduto negli ultimi tempi derivi dalla guerra. In realtà, è ereditato da anni di retorica ecologista. È un’eredità di decine di migliaia di aziende che chiudono. Un governo tecnico che si accorge che non siamo autosufficienti sul piano energetico avrebbe dovuto attrezzarsi per arrivare a esserlo. Altro che transizione ecologica. L’autorevolezza di Draghi presso l’Ue non ha ottenuto nulla se non maggiori ossequi nel cerimoniale, ma concretamente ha continuato a subire».

E Meloni cosa dovrà fare?

«Il vero punto da affrontare è la sovranità italiana. Se verrà limitata bisognerà combattere, anche a costo di modificare la Costituzione che ci condanna a essere un Paese molto simile alla Grecia».

Dopo una prima fase d’interferenze media e cancellerie straniere stanno adottando una linea meno pregiudizievole?

«I media stranieri copiano i media mainstream e le parole d’ordine radical chic italiane. Se prima scrivi che incombe il pericolo fascista e poi che Meloni deve rassicurare le cancellerie l’hai già fiaccata. Meloni non deve rassicurare nessuno. Se Joe Biden e l’industria americana vogliono vendere il gas al prezzo più alto si fanno andare bene anche lei. In questa situazione catastrofica c’è la piccola fortuna che la Ue si cannibalizza».

La Germania che scuda con 200 miliardi gli aumenti del gas toglie argomenti alla retorica europeista?

«Certo. La Germania ha fatto in modo brutale quello che ha sempre fatto, ma stavolta tutti hanno capito. Prima di lei, l’avevano fatto la Spagna, la Francia, l’Olanda e i paesi frugali. C’è chi si straccia le vesti per il disfacimento dell’unità europea e grida al ritorno dei nazionalismi. Io auspico che ciò avvenga».

Le sembra che Sergio Mattarella stia scegliendo un comportamento più defilato rispetto alla formazione di altri governi o è presto per dirlo?

«È ancora presto. Mattarella è momentaneamente spiazzato dall’esito del voto come tutti gli uomini del Pd. Credo che, quando sarà il momento, lo troveremo puntuto e notarile nell’esercitare il suo potere per spogliare di diversità e spessore il prossimo esecutivo. Il quale se la caverà solo essendo coraggiosissimo».

Altrimenti dovrà subire e annacquare?

«E le piazze lo identificheranno come il nuovo nemico. Come, con buona pace dei sondaggisti, è successo a Draghi. Se il nuovo governo non avrà il coraggio di denunciare la passività dell’Europa, i ritardi del Pnrr rispetto alle emergenze reali, di fare debito e tagliare le tasse non andrà da nessuna parte. Dovrà essere un governo che ascolta, altrimenti rancore e astensionismo dilagheranno».

La polemica sui ritardi negli step di attuazione del Pnrr ha sgombrato il campo sul draghismo di Giorgia Meloni?

«È stato inventato dai giornali per indebolirla. La narrazione è questa: Meloni ha vinto, ma per farcela deve ignorare Salvini e Berlusconi e appoggiarsi a Draghi. Così, quando fallirà si farà presto a richiamarlo in servizio».

Con un’esperienza limitata al ministero della Gioventù in un governo Berlusconi, è comprensibile che per Meloni si cerchino tanti tutor, da Draghi a Mattarella alle cancellerie europee?

«Siccome è femminuccia, piccolina e carina ha bisogno di qualche maschietto intorno… Chi lo facesse per un uomo, si prenderebbe un sonoro pernacchio, al maschile. In passato abbiamo avuto politici unti dal Signore come Enrico Letta e Matteo Renzi e abbiamo visto com’è andata. Se Giuseppe Conte è stato premier per due mandati, penso che Meloni, che mastica politica da quando è ragazzina, saprà cavarsela egregiamente».

 

La Verità, 8 ottobre 2022

«Bollettini e decreti hanno trasmesso insicurezza»

Di Luciano Gattinoni, professore emerito dell’università di Gottinga in Germania, ex direttore scientifico del Policlinico di Milano, già presidente della Società mondiale di Terapia intensiva, si legge online che è stato lo scopritore dei benefici dell’ossigenazione in posizione prona in alcune patologie polmonari. Se in tanti servizi televisivi nei reparti Covid-19 si vedono i pazienti distesi a pancia in giù lo dobbiamo a questo medico rianimatore di fama internazionale, un signore milanese di 75 anni che si esprime con una modica quantità d’ironia. Quello che invece nelle bio spunta appena è che è anche un «pianista di talento».

Che musica suona, professore?

«Suono in un quartetto che si chiama Mnogaya Leta, che in russo bizantino vuol dire tanti auguri o anni felici. Siamo quattro voci, due tenori e due bassi, più pianoforte, chitarra, contrabbasso e batteria. Il nostro genere è il negro spiritual, il gospel, che è alla base del blues e del jazz».

Mnogaya Leta… Suona il pianoforte e anche canta?

«Esatto, sono il secondo tenore. Cantiamo insieme dal 1961, eravamo al liceo, tre al classico e uno allo scientifico. Poi due abbiamo fatto medicina, uno agraria e il quarto economia».

Mnogaya Leta… Fate concerti, tournée?

«Tournée è parola grossa. Concerti sì, ne abbiamo all’attivo un migliaio, quasi tutti in Italia».

Ci sono; ne faceste uno anche a una festa dei Cattolici popolari, preistoria del 1980, Old time religion, Go down Moses

«Sì, sono brani nostri. Eravamo noi».

Risolta la reminiscenza, veniamo al presente, professore: possiamo dire che l’Europa sta uscendo dal tunnel del coronavirus?

«Sicuramente l’invasività dell’epidemia sta diminuendo, ma se siamo fuori lo sa solo il Padreterno. La Sars scomparve spontaneamente, speriamo succeda anche stavolta. Le previsioni si basano su modelli matematici, ma se si avesse la pazienza di metterle in fila, si constaterebbe la modesta validità delle previsioni degli esperti. E si concluderebbe che nessuno lo è».

Esperto deriva da esperienza, ma…

«Nessuno l’ha già vissuta. Ognuno cerca di incasellare ciò che vede nelle proprie conoscenze. Ma se ciò che succede è inedito, l’incastro perfetto non riesce».

Stiamo imparando a contrastare meglio il Covid-19?

«Fino a qualche settimana fa parlavamo tutti di polmonite. Ora si è scoperto che il polmone è una delle vittime del virus. L’aumento della coagulabilità del sangue causata dal virus produce trombi che possono interessare vari organi. Ma se chiede perché in alcuni pazienti il virus è stato quasi innocuo, in altri ha causato la morte o una patologia mediamente grave, non lo sappiamo. Perché non sappiamo come si muove nell’organismo».

Per il Covid-19 non c’è vaccino e la Sars è scomparsa spontaneamente: la scienza mal sopporta l’imprevisto?

«No. La scienza si occupa di ricerca che riguarda ciò che è inatteso. Nel rapporto con l’imprevisto si misura la genialità dell’uomo, l’azione su ciò che già si conosce è normale lavoro».

Il filosofo Alain Finkielkraut parla dell’imprevisto «come supremo metodo di conoscenza».

«Sottoscrivo».

Se non si è trovata la cura, a cosa dobbiamo il calo di contagi e decessi?

«A una serie di fattori. Alcuni studiosi sostengono che il virus sia mutato, altri dicono che il merito è del lockdown. Personalmente, nutro qualche dubbio perché anche ora che si è riaperto da due settimane la diminuzione continua. Ci sono meno ricoveri perché stiamo cominciando a capire cos’è questa malattia e a curare meglio i pazienti».

Il calo dipende da una modificazione del virus, dal cambiamento del clima, dalle nostre contromisure?

«Non c’è una sola ragione che spiega tutto. Dipende da una combinazione di elementi, ma in quale proporzione non sappiamo».

Parliamo del «prima»: cosa pensa delle voci che ipotizzano la creazione del virus in laboratorio, del fatto che l’epidemia fosse iniziata già nel 2019, che varie fonti l’avevano prevista in anticipo, che la Cina abbia nascosto il contagio?

«Per evidenti ragioni culturali e politiche ci sono obiettive difficoltà a sapere che cosa sia davvero successo in Cina. Non ho la minima idea se la diffusione del Covid-19 sia partita da un laboratorio o sia frutto di spillover, il salto di specie di un germe patogeno. Molti scienziati che hanno lavorato in quel campo sostengono che la creazione in laboratorio sia inverosimile. Invece, l’espansione di un’epidemia dall’Asia ha basi più solide. Dato che ogni otto dieci anni si verifica un’epidemia virale, nel 2018 alcuni studiosi l’avevano prevista, sottolineando la necessità di approvvigionarsi di respiratori. Ma, come sempre dai tempi della guerra di Troia, quando qualcuno predice disavventure preferiamo dargli della Cassandra. Il successo della prevenzione è scongiurare la sciagura. Qual è il politico che investe in qualcosa il cui scopo è un non avvenimento? La prevenzione non porta voti. L’animo umano è fatto così e dopo l’epidemia non cambierà».

Perché in Germania, che è la sua seconda patria…

«Non esageriamo. Prima sono stato negli Stati uniti dove, con un’équipe, abbiamo lavorato alla circolazione extracorporea e all’ossigenazione in terapia intensiva. Poi sono tornato a Milano. Da pensionato ho accettato questa offerta, memore dell’insegnamento del professore di greco Mario Zambarbieri, il quale sosteneva che un uomo di cultura deve poter leggere Goethe in lingua originale».

Quindi Germania patria di affinità elettive: perché lì ci sono stati meno decessi che da noi?

«Qui funziona una collaborazione fra medici di base e ospedali che in Lombardia non esiste. Una legge del 1977 ha stabilito che il medico generalista va da una parte e l’ospedale dall’altra. Questa cultura ha avuto conseguenze pesantissime».

È vero che in Germania c’è stato un lockdown meno rigido?

«È vero. I tedeschi hanno un rispetto per le istituzioni e le regole superiore al nostro. Sono educati così fin da bambini. Provi a contare quante volte ha parlato Angela Merkel. Le sono bastate poche parole. È laureata in fisica, è stata campionessa delle Olimpiadi di matematica, ha un curriculum vero. La credibilità non s’inventa: i nostri governanti, magari bravissimi, dovrebbero tenerne conto».

Il sistema delle terapie intensive lombardo compete con quello tedesco e quello francese, ma la metà dei decessi in Italia è avvenuta in Lombardia: quali errori sono stati commessi?

«Il sistema delle terapie intensive lombardo è tra i migliori al mondo e ovunque, nel settore, questo è noto. Semplicemente, molti decessi sono avvenuti altrove. Se si aumentano i posti letto senza aumentare il personale, l’attenzione al malato ne risulta penalizzata».

Concorda con gli analisti per i quali un ruolo eccessivo dei virologi ha favorito una visione riduttiva dell’epidemia?

«La medicina non è democratica. Se in un paese tutti votano per chiudere una drogheria, magari ha ragione l’unico che vuole tenerla aperta. Io non conosco la composizione del Comitato tecnico scientifico. Dico che, di solito, un’epidemia richiede competenze diverse. Occorre qualcuno che sappia di terapia respiratoria oltre che di moltiplicazione del virus».

A proposito degli scienziati in tv ha parlato di tentazione di narcisismo.

«Riguarda anche me. “Narcis fue molto bellissimo” e si specchiava nell’acqua del pozzo».

Oltre alla visibilità immediata c’è l’indotto.

«Se si riferisce alle ospitate pagate, io non ho visto un euro, né l’avrei voluto. Quando comincia a girare denaro, la quota di libertà diminuisce, vale a tutti i livelli. Vedo che una collega laureata in veterinaria si spinge a dire come sarà il dopo, pronunciandosi sulla convivenza con il virus. Personalmente, sto attento a limitare i miei interventi a ciò che conosco. Le mie valutazioni sul salto di specie del germe dal pollo cinese o dal ratto siberiano valgono quanto quelle del mio panettiere. Ofelè fa el to mesté, si dice a Milano. Qualche volta sono stato ospite a La7, poi ho declinato alcuni inviti perché non vorrei apparire nel vidiwall di Maurizio Crozza».

Qual è la lezione che i nostri governanti dovrebbero trarre riguardo al sistema sanitario?

«Che qualsiasi azione andrebbe meditata e mai presa in base all’emotività. Per esempio, adesso ho sentito parlare di uno stanziamento per realizzare 3500 letti di terapia intensiva. Quando mi sono permesso di osservare che sono troppi, Maurizio Gasparri me ne ha chiesto ragione su whatsapp. Ho risposto che sono stato presidente della Società italiana, poi europea e mondiale di Terapia intensiva e che se avesse voluto delle spiegazioni avrebbe potuto telefonarmi».

In Cina il lockdown rigido è imposto da un regime, in Italia c’è stata un’esasperazione di tipo sanitario?

«Non mi addentro negli altri lockdown. Certo, noi abbiamo chiuso prima e riapriamo più tardi. Se compariamo Stoccolma a Helsinki è un disastro per Stoccolma, ma se la paragoniamo a Milano è un successo. Un giorno si dovrà fare un confronto serio, senza passioni politiche, tra realtà omogenee per dimensioni ed età media. Fornendo numeri certi, non come quelli dei contagi che ci vengono dati ogni sera e di fronte ai quali non si sa ridere o piangere per quanto sono inattendibili».

Una comunicazione di bollettini e decreti ha trasmesso l’idea di uno stato di emergenza?

«A me più che di uno stato di emergenza ha trasmesso uno stato di pochezza».

Di mancanza di preparazione?

«Di mancanza di visione. Si poteva limitarsi a una comunicazione ogni tre giorni, ma con numeri verificati».

C’era il permesso di portare fuori i cani non i bambini, riaprono le palestre non le scuole.

«Questa tragedia offre spunti umoristici per un’enciclopedia. E i congiunti affini? I 21 misteriosi parametri regionali per la riapertura? Che cosa vuol dire “aprire ma con prudenza”? Forniscano dei numeri se vogliamo parlare di fatti. Se vogliamo il rischio zero dobbiamo blindarci in eterno. Qual è il livello di rischio che accettiamo?».

Arriverà una seconda ondata?

«Speriamo che la natura sia madre e non matrigna e faccia spillunder invece di spillover».

 

La Verità, 30 maggio 2020

 

«Che errore uniformare tutta l’Italia con i decreti»

Professor De Rita, lei ha 88 anni ma conserva lo spirito ribelle dei ventenni: niente app e niente mascherina.

«Nessuno che mi conosca direbbe che ho uno spirito ribelle. Sono un uomo tranquillo, arrivato a 88 anni camminando con passo lento verso la morte, compimento della vita. Il mio detto preferito si trova nel salmo 83: “Cresce lungo il cammino il suo vigore finché compare dinanzi a Dio in Sion”».

Era una provocazione. Capisco la difesa della privacy meno il no al dispositivo di protezione.

«Oltre al fastidio, ci sono due ragioni. La prima è che mi sembra di respirare l’anidride carbonica del mio fiato. Forse proteggerà gli altri, ma a me non pare salubre. La seconda ragione è che la mascherina fa risaltare gli occhi e quando guardo i miei coetanei, diciamo gli over 75, vedo sguardi in parte disperati e in parte inespressivi. Non voglio apparire così».

Ecco: intervistare Giuseppe De Rita vuol dire imbattersi in pensieri originali e motivati. Fondatore e presidente del Censis – il Centro studi investimenti sociali che tutti gli anni ci consegna una fotografia del sistema nervoso del Paese – romano, otto figli avuti da Maria Luisa Bari, scomparsa nel 2014, De Rita è una delle figure più lucide e autorevoli del panorama intellettuale italiano. Un grande saggio. Che, con l’eccezione della partecipazione allo staff di Ciriaco De Mita a fine anni Ottanta, ha sempre mantenuto un’equilibrata distanza dalla politica. Nonostante questo, all’elezione per la Presidenza della Repubblica del 2006 ricevette 19 voti.

Professore, è corretto il confronto di questo periodo con quello della guerra?

«Non direi. Chi lo fa non ha visto le centinaia di quadrimotori americani che sganciavano bombe sulle nostre città. O le motociclette delle SS che attraversavano Roma mitragliando ad altezza d’uomo. Quella di oggi è una paura viscida e indistinta. Perciò anche persone razionali possono non controllarla. Qualche giorno fa a Roma alle 5 del mattino si è avvertita una piccola scossa di terremoto. C’è chi è sceso affannosamente in strada, io no. Una certa paura è stata alimentata dal clima generale di emergenza. C’è stato poco “ragionamendo”, direbbe De Mita».

L’enfatizzazione del pericolo è servita a puntellare un potere fragile?

«Questa mi sembra un’esagerazione. Il fatto è che tutto il sistema italiano era impreparato. E quando si è impreparati si sbanda. La Germania ha risposto diversamente. Ha funzionato il rapporto tra i länder e lo Stato centrale, non ci sono stati problemi per le mascherine e i letti in terapia intensiva. Il muscolo ha assorbito la botta e ha permesso di controllare la paura. Noi siamo abituati ad arrangiarci giorno per giorno. È la virtù dell’Italia. Ma abbiamo copiato la Cina, dicendo che gli altri ci seguivano. Non era vero. Così, alcuni errori ne hanno innescati altri».

Il principale?

«Stare tutti insieme appassionatamente, mentre l’Italia è fatta di differenze. Non era pensabile trattare la Lombardia come la Basilicata o Bergamo come Viterbo. Per differenziare bisognava essere sicuri che la muscolatura avrebbe risposto bene. Non essendolo, abbiamo fatto norme uguali per tutti».

Siamo nella crisi più complessa della nostra epoca governati dai politici più sprovveduti della storia repubblicana?

«Come ha detto Giulio Sapelli, siamo governati da eterni disoccupati. Sarebbe interessante che qualche giornalista consultasse la Navicella parlamentare per studiare i curricula di ministri e sottosegretari e vedere cosa tornerebbero a fare se non rieletti. Ma non è tutta colpa loro».

E di chi?

«La ventata anticasta si è trasformata in lotta contro il merito e l’esperienza. Un risvolto disastroso. Quando governava la Dc c’era un lungo percorso di formazione, da vicesindaco ad assessore regionale fino a deputato. Una volta alla Camera, i primi anni si trascorrevano a imparare. Se appena arrivati si va al governo è inevitabile che i governanti siano inadeguati».

Di conseguenza?

«Il dilettantismo genera improvvisazione e semplicismo. Non si mette in quarantena una società complessa come la nostra senza tener conto della specificità di situazioni e corpi intermedi, dalla Chiesa alle filiere produttive, dalle categorie professionali ai sindacati. È come andare avanti chiudendo gli occhi per evitare di vedere il pericolo».

Vede anche lei una sovrapposizione della comunicazione sulla politica come appare da una certa strategia degli annunci?

«La pandemia ha accentuato la verticalizzazione delle decisioni. Tutto si concentra al vertice: Protezione civile, Comitato tecnico scientifico, due o tre ministri con il premier. Quando prevale l’angoscia, il potere si concentra. Il risultato è che anche il rilancio è statalizzato. Ma questo non è un meccanismo privo di conseguenze».

Quali, per esempio?

«Avrà notato che non c’è stata beneficenza privata, se si eccettua l’iniziativa di Gaetano Caltagirone in favore del Gemelli e dello Spallanzani. Per il resto, niente appelli dei giornali o della Chiesa. Tutta la beneficenza è andata allo Stato attraverso l’app della Protezione civile».

Qualcuno veramente c’è stato… E la prevalenza della comunicazione?

«Verticalizzando e statalizzando si crea una distanza che si colma attraverso gli eventi. I famosi decreti, i provvedimenti poderosi. Gli eventi sono il terreno della comunicazione. Oggi si sottolinea il ruolo dei social, della Bestia di Salvini, del portavoce del premier, innalzandolo ad artefice. In realtà, Rocco Casalino dipende da un processo più strutturale».

L’approccio sanitario all’epidemia doveva essere complementare a una visione sociologica che è mancata?

«Non vorrei che la mia sembrasse una critica antagonista. Anche il ruolo quasi esclusivo avuto dai virologi nell’emergenza fa parte del processo di verticalizzazione. Il Comitato tecnico scientifico è composto in un certo modo. Cardiologi, animatori e altri specialisti sono rimasti al margine. Solo ora con le autopsie si inizia a vedere che non si muore di coronavirus, ma di altre complicazioni. Se domina la virologia il corpo umano è ridotto a portatore del virus e si perde di vista una visione completa».

Come giudica il decreto Rilancio?

«La ripartenza non si fa con le sovvenzioni ad personam. Ma è frutto di un processo socio economico complesso che rimetta in moto filiere produttive, gruppi di imprese e territori. Se i cittadini non hanno fiducia e non escono di casa, se non arrivano i turisti, i ristoranti restano chiusi anche se gli si dà il bonus per riaprire».

Ha visto la chat privata fra alcuni magistrati che attaccano Matteo Salvini? Quanto la cultura inquisitoria che domina nel M5s e nella magistratura può aiutare la ripresa?

«Tra Tangentopoli e post-Tangentopoli siamo diventati un Paese inquisitorio. Personalmente non amavo Francesco Saverio Borrelli, ma era un signore che aveva una storia familiare e suonava il pianoforte. Quelle espressioni fanno parte del protagonismo di magistrati che inseguono il protagonismo di Salvini. C’era anche in Borrelli, ma non in queste forme scomposte. Il degrado inquisitorio dipende dalle persone che interpretano ruoli e leggi. Non credo che potrà ostacolare la ripresa del Paese. L’Italia è meglio della magistratura che si precipita nelle Rsa nel pieno della tragedia».

Come possono sentirsi i piccoli e medi imprenditori di fronte al ricorso al prestito statale di Fca con sede nel Paese europeo a noi più ostile?

«Se si fa una società liberale e liberista si stabiliscono criteri che valgano per la richiesta Fca di oggi o per quella del Censis di domani. La Sace e la banca fanno le istruttorie tecniche e concedono il prestito in base a valutazioni oggettive. Ognuno fa il proprio mestiere. Se invece si introducono elementi politici si nega il prestito ai Benetton a causa dei morti del ponte Morandi e alla Fiat perché ha la sede in Olanda. Ma così non si gestisce più nulla».

Da cosa deriva l’eccesso di burocrazia che ci affligge? E perché siamo così impotenti nel combatterla?

«Si sottolinea la burocrazia statale, ma anche in banca e nei commissariati chiedono decine di firme. La burocrazia è il prodotto della diffidenza dell’italiano medio nei confronti del proprio simile. Se va in campagna un contadino non le parla bene del suo vicino. Moltiplichi questa diffidenza cellulare nelle relazioni più complesse, tra enti e organismi, ci aggiunga dieci anni di cultura del Vaffa, e avrà la burocrazia che ci sommerge».

Si può estendere il modello del ponte Morandi senza Codice degli appalti alla ripresa post-coronavirus?

«A Genova hanno applicato quello che a Roma si dice “famo a fidarse”. Sindaco e presidente della Regione si sono fidati, consapevoli di rischiare. Se fosse caduto un calcinaccio e qualcuno avesse aperto un’inchiesta… Non credo si possa agire in deroga per rifare le strade di Roma».

Il ponte Morandi mi ha ricordato l’Autostrada del Sole completata in anticipo di tre mesi.

«E anche il traforo del Monte Bianco, realizzato sulla spinta del conte Dino Lora Totino. Era un clima diverso, c’erano entusiasmo collettivo, gioia di vivere, voglia di crescere. Oggi non riusciamo a fare dieci chilometri di Tav. Se serve la firma del funzionario a ogni metro la gioia di vivere è finita».

In questa crisi i vecchi hanno mostrato di avere più carte di tanti giovani sprovveduti. Dopo la rottamazione è il momento di ricorrere all’usato sicuro?

«Persone come Sabino Cassese e il presidente Sergio Mattarella hanno fatto la ricostruzione e il boom economico, ma appartengono a una generazione che ha dato quello che poteva dare. Al massimo può consigliare chi deve decidere. Non però come le task force che stabiliscono i metri di distanza tra marito e moglie. Ho letto l’invito di Sapelli a coinvolgermi. Ma per far cosa?».

Il presidente della Repubblica, visto che già nel 2006 qualcuno la votò.

«Ne parleremo alla prossima intervista».

 

La Verità, 23 maggio 2020

Bello il calcio nostalgia, senza attori e sapientoni

Scherzi della nostalgia, certo. E dell’astinenza da calcio. Rivedere Italia Germania Ovest 1970, oppure Italia Argentina 1978, oppure ancora Italia Germania Ovest ma 1982, quella del Mundial, fa uno strano effetto. Fa scattare l’automatico era meglio quando si stava peggio. Oddio, peggio. Sicuramente meglio di questi giorni da reclusi. Provocazione: era meglio quel calcio lì. Asciutto, essenziale, schietto. Privo di tutte quelle insopportabili malizie che stanno intossicando lo sport più bello del mondo, oggi. Parlare di assenza di malizie quando i campi erano calcati da gente come Claudio Gentile o Marco Tardelli, come Daniel Passarella o Mario Kempes, come Gerd Müller o Paul Breitner, è tutto dire. Non che non succedessero cose strane, come per esempio nella finale del 1978 tra Argentina e Paesi Bassi (si chiamavano così, per la cronaca, 3 – 1 per la formazione di Cesar Luis Menotti) mal arbitrata dall’italiano Sergio Gonella, davanti al generale della giunta militare Jorge Videla. C’era gioco duro, c’erano i falli e si espelleva e ammoniva molto meno di ora. Ma c’erano anche meno sceneggiate, astuzie e proteste. L’arbitro fischiava, il giocatore si rialzava, si batteva la punizione. Meno ambiguità e protagonismi anche nelle telecronache a una sola voce che si limitavano al racconto, senza compiaciute lezioni di tattica. Un calcio più elementare e più selvaggio. Che Mediaset Extra ci sta permettendo di riassaporare nella maratona di Emozioni mondiali, tre giorni da giovedì a oggi, con il meglio dei match della Nazionale nella Coppa del Mondo dal 1970 al 2006. Quest’ultimo, altro torneo vittorioso ai rigori contro la Francia, dopo che in semifinale avevamo nuovamente battuto ed eliminato i tedeschi padroni di casa. Insomma, un concentrato di orgoglio azzurro in giorni di «stadi chiusi». Scherzi dell’astinenza oltre che della nostalgia. Alimentata dalle immagini in 4/3 dell’epoca. Dall’urlo di Tardelli dopo il gol del due a zero. O dalla voce di Nando Martellini e dallo storico triplice «campioni del mondo!» al Bernabeu di Madrid (11 luglio 1982). Oppure dal gol del 4-3 di Gianni Rivera alla fine dei tempi supplementari della «partita del secolo» (Città del Messico, 18 giugno 1970). Momenti nei quali tutti ricordiamo dov’eravamo e che, complice la clausura, si possono rievocare con chi allora non c’era. E chissà, considerata la probabilità che la quarantena si trasformi in ottantena, perché non riproporre anche altri storici match, senza l’assillo dell’audience? Tipo quelli della vertiginosa, rivoluzionaria e prediletta Olanda di Johan Cruijff e Ruud Krol, la nazionale più bella e sfortunata di sempre.

 

La Verità, 11 aprile 2020