Tag Archivio per: giornalisti

«L’Ia peggio del Truman show. Modifica il cervello»

Fissata in agenda qualche settimana fa, l’intervista a Mauro Crippa, gran capo dell’informazione Mediaset e autore, con Giuseppe Girgenti (docente di Storia della filosofia antica all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano), di Umano poco umano. Esercizi spirituali contro l’intelligenza artificiale (Piemme), è slittata più volte a causa di impegni e imprevisti. Nel frattempo, nel mondo della televisione, sono accaduti alcuni fatti su cui sarebbe interessante conoscere il suo pensiero. Ma, dato che i temi di questo fortunato saggio che oppone nove esercizi spirituali alle mirabilie dell’intelligenza generativa sono più stimolanti, l’addio di Amadeus alla Rai, la nascita del terzo polo tv americano e le avance di Mediaset a Bruno Vespa saranno «argomento di un’altra intervista», dice lui. Bene, dico io: la prendo come una promessa.
Filosofo e saggista, non sei solo un manager che taglia teste, strappa giornalisti ai concorrenti e dice che «voler bene è una debolezza»?
«Non condivido la premessa, ma la prendo come una provocazione. In realtà, sono molto attaccato al giornalismo e ai giornalisti. Oggi più che mai».
Siamo in pericolo?
«Il nostro futuro non è più solo materia da convegni. Oggi, se qualcosa di non umano può scrivere un articolo migliore, lo farà. Con l’intelligenza artificiale già succede. Non solo può scrivere meglio, ma anche a costi inferiori. Il gruppo editoriale tedesco Axel Springer sostituisce i giornalisti con sistemi di Ia. Negli Stati Uniti alcune emittenti radio sono completamente gestite da dj sintetici. Questi editori dicono: deleghiamo alcuni compiti all’Ia così i giornalisti si concentrano sulla parte nobile del mestiere. Sciocchezze. La raccolta dati è la parte più importante del giornalismo perché fornisce le basi della notizia. Se è un robot a raccogliere i dati, l’articolo è suo e non di chi lo mette in bella».
Questo saggio è la tua tesi di laurea integrata dal relatore?
«No, con umiltà mi sono avvicinato alla filosofia e devo molto a Giuseppe Girgenti, uno che nel classico ci vive letteralmente».
Il vostro timore non è che l’Ia conquisti tutti gli spazi dell’attività umana, ma che il nostro cervello si artificializzi.
«Con la tecnologia alcune abilità scompaiono altre sopraggiungono. Per esempio, non sappiamo più andare a cavallo. Ma, Nietzsche a parte, con un cavallo normalmente non si parla. L’Ia invece è una rivoluzione parlante. Ho capito quanto sia pericolosa la sera che mi sono ritrovato ad arrabbiarmi con Alexa».
È stata la scintilla che ti ha illuminato?
«In quel momento, Alexa non mi stava solo dando delle informazioni, ma seguiva un filo di conversazione coinvolgente che suscitava qualche emozione».
Perché la nostra artificializzazione è più grave dell’imbonimento prodotto dalla televisione?
«La televisione ha un potere di condizionamento limitato e comunque concorre a formare la pubblica opinione sulla base di un lavoro giornalistico. Con il digitale abbiamo invece un rapporto uno a uno, interattivo e immersivo. Siamo bombardati in maniera intensa, individuale e particolare. Nelle cosiddette eco chambers troviamo ciò che vorremmo trovare. L’infosfera lo sa e ci induce a seguire le nostre attitudini peggiori. Ora che si avvicinano le elezioni americane si tornerà a parlare di inquinamento della democrazia. Nell’infosfera scompare la differenza ontologica tra verità e menzogna, tra fake e non fake. Ma se io sbaglio in televisione qualcuno mi telefona e può farlo 24 ore al giorno, provate a cercare Mark Zuckerberg».
Ti iscriviamo di diritto tra gli apocalittici o si può dire che l’Ia ha fatto anche cose buone?
«Iscrivimi pure, sono in compagnia di alcuni dei fondatori dell’Ia. Certo che ha fatto anche cose buone, ma per ognuna bisogna cercare gli effetti collaterali. “There is no such thing as free lunch” (Non esiste un pranzo gratis ndr), recita un detto inglese. Salvare un solo essere umano con un’applicazione medica sarebbe già un grande traguardo. Ma accanto ai successi dell’Ia nella diagnostica e nella ricerca di nuovi farmaci, registriamo anche la tendenziale riduzione della figura del medico quasi alla stregua di un operatore informatico».
Poi c’è il controllo delle nostre azioni. Una sera parlavo di un brano di Madonna di cui non ricordavo il titolo, così ho digitato sul cellulare «Madonna» e, come prima canzone, Google ha immediatamente associato il suo nome a Frozen, il titolo che mi mancava.
«Dovremmo studiare a memoria Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff, un testo che ci fa capire quanto siamo sorvegliati e “apprezzati” dai padroni della rete anche riguardo ai nostri comportamenti futuri».
Le camere dell’eco dei social sono l’amara scoperta di una democrazia finta?
«L’agorà antica era una palestra di opinioni diverse e di combattimenti feroci sulle idee. I parlamenti democratici vengono da lì. Le community sono casse di risonanza totalitarie che alimentano un pregiudizio fino a farlo diventare articolo di fede».
Con algoritmi e social pilotati viviamo in un grande Truman show?
«Il Truman show è una distopia superata. Oggi le tecnologie entrano in noi, addirittura nel nostro cervello attraverso i chip creati dalla Neuralink di Elon Musk. Che si stiano perdendo i confini dell’umano lo denunciano con forza i cattolici. “L’uomo non diventi cibo per algoritmi!”, ha detto papa Francesco in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali».
Perché «intelligenza» e «artificiale» sono un ossimoro?
«Perché stridono come un’unghia sulla lavagna. L’intelligenza umana è una dotazione viva, con una componente emotiva. L’uomo ha un’esperienza originaria, mamma e papà lo hanno nutrito ed educato, forgiando il suo essere con esperienze inimmaginabili in una macchina».
La quale non ha coscienza, cioè non sa di sapere.
«La macchina ha potenza ma, direbbe Nietzsche, non ha volontà di potenza. Se anche i suoi creatori non sanno cosa aspettarsi da lei, figuriamoci se possiamo stare tranquilli».
La nuova frontiera è l’intelligenza generativa: c’è la pretesa di sostituire l’uomo e anche il Creatore?
«Generativa significa che può autoalimentarsi e autoespandersi. Non so dire se questo arrivi a usurpare il ruolo di Dio. Quanto all’uomo, se esiste una macchina più veloce, intelligente e onnisciente di noi, siamo destinati a delegarle simboli e forme di linguaggio, cioè la parte più alta e peculiare delle nostre abilità. Una volta che questo processo si compie rivelandosi efficace, è difficile tornare indietro».
Possiamo esemplificare?
«Se per selezionare del personale in una rosa di mille candidati un algoritmo la screma fino a 30, perché dovrei tornare ai colloqui di tutti gli iscritti? L’Ia è comoda ed economica, ma così le conferisco il potere di selezionare gli esseri umani. Nei sistemi militari avanzati la si usa per stanare il nemico, ma non mi pare che stiano diminuendo le vittime tra i civili».
Tra le cose buone ci sono i progressi in campo medico, perché bisogna fare attenzione?
«La circolazione dei dati in rete si scontra con i diritti alla riservatezza. Se con la medicina predittiva si sa che fra un paio d’anni avrò una malattia potenzialmente letale o invalidante, chi mi darà un lavoro o mi concederà un mutuo per la casa?».
È casuale che i regimi nazista e stalinista avessero medici tra i loro capi?

«Nella storia mondiale la gestione della salute ha spesso avuto elementi totalitari. I grandi sistemi sanitari sono stati inventati dal nazismo, dal fascismo e dai regimi comunisti. Non è un caso che la più feroce dittatura francese derivata dalla rivoluzione del 1789 agisse tramite il Comitato di salute pubblica».
È giusto essere vigili anche rispetto ai piani globali dell’Oms?
«Mi aspettavo questa domanda. Le preoccupazioni di intellettuali e filosofi come Massimo Cacciari possono essere criminalizzate, tuttavia è vero che nelle vaccinazioni di massa si avverte una concezione totalitaria della salute. Se, paradossalmente, ci fosse chi vuole ammalarsi, cosa facciamo, lo mandiamo al confino?».
Si torna alla sorveglianza e al controllo di azioni e intenzioni?
«La domanda è: quale società immaginiamo? Se dobbiamo essere tutti belli, sani e in perfetta forma è utile ricordare che l’intelligenza umana non porta a questo. Ma porta alla vita, che è anche disordine, malattia e, infine, morte».
Perché alla pornografia della rete che rende il sesso sempre più virtuale opponete la lezione di Ulisse?
«Le sirene sono come gli algoritmi che assecondano e amplificano le tendenze già presenti nel fruitore. È una seduzione fatta di assecondamento e amplificazione di ciò che l’utente vuole. È un meccanismo tossicomanico. Ci innamoreremo di intelligenze aliene, e siccome gli algoritmi sanno cosa vogliamo non ce ne libereremo più».
Pensando alla diffusione della ludopatia, proponete la proibizione anche di piattaforme di gaming, videogiochi e social?
«Sono di fresca pubblicazione i dati sull’esplosione della ludopatia tra i giovanissimi generata da attività online. Un media come la televisione è giustamente sottoposto a una griglia di controlli, regole e divieti. Perché non può essere regolamentato anche l’uso della rete, un mezzo infinitamente più aggressivo e selvaggio?».
Mentre insegnanti e padri perdono autorevolezza, l’Ia sale in cattedra con tutorial e nuove professioni?
«L’autorità si basa sulla gestione della conoscenza e sull’utilizzo di mezzi coercitivi per fare rispettare le regole. Oggi i ragazzi sono educati dagli influencer, i loro maestri virtuali. La percezione dei giovani è quella di un mondo orizzontale, senza regole e senza qualcuno in carne e ossa da seguire. Le grandi esperienze pedagogiche del Novecento, oggi in buona parte rimosse, gravitavano attorno a grandi maestri, sacerdoti e non, che stavano personalmente con i loro allievi».
L’ultimo esercizio spirituale è prepararsi alla morte?
«Sulla morte e il superamento dell’estremo stop l’Ia dispiega tutta la sua forza. È stato possibile creare una canzone dei Beatles da poche note gracchianti, farne un successo planetario e mostrare i Fab Four suonare ancora insieme, a mio avviso con un effetto grottesco».
Ora con i defunti si parla.
«E non con monosillabi, ma si conversa e si dialoga. Tecnicamente, si realizzano campionature vocali ricombinate dall’Ia con livelli di definizione via via crescente».
E questo non è un grande Truman show?
«È peggio, è il post-umano. Infatti, noi siamo umani in quanto moriamo. Se non moriamo più, non siamo più umani».

 

La Verità, 20 aprile 2024

La sala stampa non ci sta e tira Ama dalla solita parte

Niente da fare. Non si rassegnano. Un Festival di Sanremo non militante non può esistere. Meno che mai se non orientato dalla solita parte. Giornalisti, cronisti, critici e guastatori non si danno pace. Com’è possibile? Neanche uno straccio di monologo, un predicozzo, qualcosa che arruffi le platee e il benpensantismo gauchiste. Nemmeno un collegamento con, chessò, un Roberto Saviano. O un manifesto Lgbtq+. O una bella intervista a Nichi Vendola. Niente? Ma che Festival è? Eppure Amadeus l’aveva anticipato chiaro e tondo: è meglio se la politica sta fuori dall’Ariston. Detto per inciso, peccato averci pensato solo al quinto anno (magari per favorire la permanenza di Roberto Sergio, sagace spalla di Fiorello, sulla poltrona di amministratore delegato Rai). Comunque sia, il messaggio non è passato e la sala stampa ribolle.

Ieri, il capolavoro, dal suo punto di vista, l’ha compiuto Enrico Lucci, guastatore di Striscia la notizia. Interrompendo la serie di domande rivolte a Marco Mengoni debuttante nel ruolo di co-conduttore, ha chiesto al megadirettore artistico con la sua aria faceta da Tenente Colombo: «Teniamo la politica fuori dal Festival, ok. Ma ti puoi definire antifascista?». «Certo», ha abbozzato Amadeus, cosa poteva rispondere? «Anch’io», si è subito accodato Mengoni. «E allora fateci un accenno di Bella Ciao», ha incalzato Enrichetto. Attimo d’imbarazzo. «Qualche anno fa ho tentato di invitare due interpreti de La casa di carta», ha provato a deviare il discorso il conduttore. Ma Lucci non si è accontentato. «Dài, accennatela insieme». Così, Amadeus e Mengoni hanno intonato: «Una mattina mi son svegliato…», mentre buona parte della sala stampa ha subito accompagnato con battito di mani a tempo. «Per la gioia della Meloni», ha commentato Lucci. Il quale, va detto, innesca queste micce per goliardia oltre che per militanza disincantata.

Da due giorni si parla della presenza di una rappresentanza del movimento dei trattori a una serata della kermesse. Verranno? E quando? In un primo momento, la Rai ha smentito trattative ufficiali con esponenti della protesta. «Porte aperte», ha ribadito Amadeus. L’ipotesi più probabile è che il passaggio avvenga nella serata di venerdì, quella dei duetti. «Ma in ogni caso non sarà un comizio», ha precisato. Del resto, «quest’anno non sta succedendo niente, l’ospite di sabato potrebbe essere il Codacons», aveva gigioneggiato Fiorello, abituato a dire la verità anche quando cazzeggia. Insomma, per rompere la calma piatta, il Festival si attacca al trattore. «È un problema serio e importante che riguarda non solo l’Italia», ha chiosato Amadeus. «Ho detto di sì e rimango di questa idea. La fase successiva è che qualcuno contatti la Rai ed esprima il desiderio di essere presente».

Però, dài. I trattori sono roba troppo popolare e così poco glamour. Perciò, non ci si rassegna. E si prova in tutti i modi a colorare l’evento alla solita maniera. «Visto che ci è piaciuta Bella ciao, restiamo in quel mood», è intervenuto un collega di Fanpage, «se venisse qualche ragazzo di Ultima generazione accetteresti anche loro?». Amadeus ha dondolato il nasone: «Lo spazio a Sanremo non è illimitato. Ci sono tanti argomenti che sarebbero da trattare. Mercoledì avremo Giovanni Allevi con la sua testimonianza sulla malattia, giovedì Stefano Massini e Paolo Jannacci ci parleranno delle morti sul lavoro. L’Ariston non può essere un palco dove portare tante manifestazioni di protesta. I trattori sono un fenomeno europeo. Non ne faccio una questione politica, ma di persone. La politica poi sposa delle cause. Io ho fatto l’agrario, mi hanno detto di andare a zappare, lo so fare e so anche guidare il trattore. E so che si tratta di persone in difficoltà. Non sono contro qualcuno».

Insomma, respinti con perdite i tifosi dell’Ariston arcobaleno. Il fatto che quest’anno in gara ci sono trenta cantanti non andrebbe sottovalutato. Bisogna andare di corsa e già stanotte abbiamo avuto un assaggio dell’orario in cui cala il sipario. Non c’è spazio per prediche, invettive, moralismi e performance che non siano quelle canore, dei grandi ospiti o, al massimo, per i promo delle fiction della casa madre. Nemmeno, in assenza di Lucio Presta, l’agente da cui Amadeus ha divorziato che nel 2023 fu il regista della partecipazione di Sergio Mattarella e Roberto Benigni alla serata per i 75 anni della Costituzione, si prevedono altre ospitate politicamente orientate.

I nostalgici dei monologhi dovrebbero cominciare a rassegnarsi. È vero: vasto programma. «Senti, Marco, visto che nei tuoi concerti alle canzoni alterni spesso dei monologhi, non è che anche qui…», gli ha chiesto il giornalista musicale del Corriere della Sera. «Amadeus ha già detto che i monologhi non ci saranno…», ha risposto, paziente, Mengoni. «Ci sarà un po’ di tutto… seguiremo il flow della serata». Ecco.

 

La Verità, 7 febbraio 2024

«La Cappa dei media in tilt per una premier donna»

S’intitola It’s the ideology, stupid! la ricerca sul rapporto tra l’orientamento dei giornalisti e quello degli italiani realizzata dal professor Luigi Curini, politologo, analista dei media e docente di Scienza politica alla Statale di Milano. È una ricerca del 2019 che Curini aggiorna costantemente e che, come conferma il Reuters institute digital news report di quest’anno, attribuisce all’Italia il più basso livello di fiducia riposto dagli italiani nei giornali (35%) rispetto alla media europea (42%). Il titolo cita l’espressione di Bill Clinton «It’s the economy, stupid!» durante la campagna elettorale del 1992. Ma, trattandosi di giornali, fa venire alla mente anche «È la stampa, bellezza!» di Humphrey Bogart in L’Ultima minaccia (1952).

Professore, il varo del governo Meloni cambia il rapporto tra informazione e politica?

«Negli ultimi anni stampa e televisione sono state molto condiscendenti verso i governanti. Con l’arrivo di Giorgia Meloni questo allineamento è destinato a sparire, facendo tornare i giornalisti ciò che devono essere, “i cani da guardia del potere”. Ultimamente, più che cani erano cagnolini pronti a scodinzolare per le decisioni prese dai potenti».

In questi primi giorni a che tipo di narrazione assistiamo?

«Vediamo due tendenze. Rispetto all’atteggiamento non simpatetico durante la campagna elettorale verso il centrodestra e Giorgia Meloni in alcuni giornali è in atto un riposizionamento. Segnalo a titolo esemplificativo le aperture di credito di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa. Vanno registrate a prescindere che si tratti di aperture genuine o dettate da interessi. La seconda tendenza, invece, è la conferma di una chiusura dovuta soprattutto all’allarme su alcuni diritti cari alla sinistra».

Si riferisce a una possibile ridiscussione della legge 194?

«Per esempio. Su alcune tematiche identitarie questo governo potrebbe favorire una narrazione diversa da quella politicamente corretta finora in auge».

Restando all’atteggiamento di giornali e tv nota qualche eccezione al fuoco di sbarramento?

«Da anni nei media è in atto una polarizzazione affettiva che va oltre lo schieramento ideologico. È la logica dell’appartenenza tribale, dello schema amico contro nemico. Questa prospettiva non si modifica nel breve periodo. Non bastano ravvedimenti episodici per mutare lo scenario».

Pur dissentendo su gran parte dei contenuti, Concita De Gregorio ha scritto che «è nata una fuoriclasse» e Michele Serra ha parlato di «rispetto».

«Un aspetto dirompente è che Giorgia Meloni è donna. Dopo che per decenni si è denunciata la sottorappresentazione femminile, davanti a una premier donna sebbene di un altro schieramento, è impossibile rinnegare ciò che si è detto finora. Questo produce un drammatico corto circuito nei politici e nei media di sinistra. Non possono avere un approccio sprezzante come avrebbero di fronte a un uomo».

Se alcuni opinionisti si mettono in discussione anche la sua ricerca sottotitolata «Cittadini, giornalisti e il calo della fiducia nella stampa» necessita di un ricalcolo?

«La posizione dei giornalisti italiani è costante da trent’anni. Giornalisti politicamente orientati quando scrivono potrebbero essere oggettivi. Invece l’italiano medio continua a percepire una distanza tra il suo pensiero e il modo di esprimersi in tv o sui social degli operatori dell’informazione. Se ora lo faranno in modo meno partigiano questo potrebbe aumentare la fiducia verso i giornali. Vedremo».

Abbiamo citato Ferrara, De Gregorio, Serra: è troppo ottimistico dire che quella che Marcello Veneziani chiama la Cappa inizia a incrinarsi?

«Direi di sì. La densità della Cappa deriva da fattori prima internazionali che nazionali. Ora abbiamo un governo politico differente, con un mandato chiaro deciso dagli elettori. Osserviamo cosa farà nei primi 100 giorni e se questo potrà ridurre lo spessore della Cappa. La quale, però, non sarà di certo spazzata via perché gli elementi internazionali non muteranno fino alle elezioni americane del 2024».

Quelle imminenti di midterm non potranno modificare questo scenario, per esempio sulla guerra in Ucraina?

«La situazione in America riguardo all’invasione dell’Ucraina è particolarmente fluida. Ci sono posizioni eterogenee in entrambi gli schieramenti. Ma pur ipotizzando che i repubblicani ottengano una larga vittoria al Senato, e non è scontato, un cambiamento di linea potrebbe avvenire solo fra cinque o sei mesi».

Tornando in Italia, nei confronti di Giorgia Meloni si sta riproducendo lo schema visto con i governi di Silvio Berlusconi?

«La vera differenza è proprio la Meloni. Indipendentemente dalla statura politica, avere una donna premier cambia le carte in tavola. È triste dirlo: non possono attaccare Giorgia Meloni come facevano con Berlusconi proprio perché è donna. Questo mette in parte al riparo il governo stesso. Verosimilmente i media mainstream sarebbero altrettanto clementi davanti a un premier uomo, chiaramente gay. Mentre lo sarebbero di meno davanti a un cinquantenne eterosessuale, magari cattolico e con diversi figli».

Secondo l’ultima indagine di Worlds of journalism study in una scala sinistra-destra i giornalisti italiani sono quelli più a sinistra. Perché, secondo lei?

«Per un mix di due ragioni. La prima riguarda la caduta del Muro di Berlino, cioè la fine del comunismo inteso come minaccia alla libertà. Fino al 1989, l’esistenza del Muro creava una maggiore eterogeneità di posizioni perché anche coloro che avevano simpatie di sinistra erano comunque anticomunisti. Pensiamo, in Italia, alle differenze tra socialisti e comunisti. Caduto il Muro, ovunque cresce la tendenza a omogeneizzarsi. Su questo scenario si innesta in Italia la presenza del più grande partito comunista occidentale che, grazie alla strategia gramsciana dell’egemonia culturale, riesce a coinvolgere intellighenzia e mondo dell’informazione».

Negli altri Paesi occidentali il giornalismo è meno schierato?

«Se si confronta il giornalismo italiano con quello anglosassone si riscontrano due differenze. In primo luogo, una minor capacità d’interpretazione dei dati. In Italia il data journalism non si è ancora affermato e i giornalisti, in possesso di una formazione prevalentemente umanistica, sono meno efficaci nell’interpretare i dati. In secondo luogo, il giornalismo anglosassone ha una maggiore propensione investigativa, finalizzata alla costruzione del racconto e non legata allo sfruttamento immediato. Questo implica un impiego di risorse di cui i media italiani raramente dispongono».

I media sono prodotti o produttori di establishment?

«Entrambe le cose. Sono prodotti della narrazione dominante, univoca e omogenea, la varietà di opinioni è scomparsa. Una sola narrazione è legittima e i media, per isteresi organizzativa, ovvero la difficoltà di un’organizzazione complessa a modificarsi, continuano a riprodurla. Come una profezia che si auto-adempie e si auto-rafforza. Spiega bene questa situazione la parabola dei ciechi e dell’elefante».

In due parole?

«Un cieco tocca la proboscide, un altro tocca le zanne e ognuno di loro si fa un’idea parziale di come sia l’elefante. Quando ritrovano la vista, ovvero fuor di metafora, ci sono le elezioni, si scopre com’è davvero l’elefante e si resta spiazzati».

È ciò che è successo con l’elezione di Donald Trump nel 2016?

«E anche con la Brexit: questi due eventi hanno sconfitto la narrazione dominante. Altrimenti nella propria bolla si sentono ripetere solo gli argomenti in cui si crede. Tuttavia, quando il pensiero unico scopre che i cittadini votano diversamente non mette in dubbio la propria narrazione, ma dà la colpa agli elettori ignoranti».

Come considerare il fatto che l’informazione tv è in larga parte gestita da giornalisti di formazione progressista?

«È una questione di offerta: se la maggioranza delle palline dentro la boccia è rossa è probabile che quella estratta sarà rossa. Ma è anche un fattore di domanda. Siccome la narrazione ha propensione all’auto-affermazione, la richiesta dei produttori televisivi sarà in linea con il mainstream. Anche questo è un meccanismo destinato a riprodursi. Romperlo è costoso, rischioso e richiede molto coraggio»

Sulla pandemia chi dissentiva dalla linea ufficiale lockdown e vaccini è stato etichettato come i deplorable di Hillary Clinton?

«Siccome il mainstream è la verità, chiunque dissenta ha torto per definizione. E se continua a farlo è un analfabeta funzionale, un deplorevole. Se ha credenze forti invece è un complottista. È la teoria del capro espiatorio. Targarlo come complottista serve a escluderlo dall’arena della discussione».

Anche la maggioranza degli italiani contraria all’invio di armi all’Ucraina non è rappresentata nei telegiornali.

«La dinamica è la stessa. Chi ha una posizione critica sulla guerra frutto dell’aggressione della Russia o è escluso o viene rappresentato come una macchietta. Si concede spazio sempre alle stesse persone, delegittimate dal pensiero unico».

La frase di Humphrey Bogart «È la stampa, bellezza!» si concludeva con «E tu non ci puoi fare niente»: una sentenza. Dobbiamo rassegnarci a un’informazione partigiana?

«Nel breve periodo temo non si riesca a fare nulla. Gli incentivi a cambiare possono venire dal mercato editoriale. Se gli italiani che non comprano i giornali iniziassero a comprare quelli che rappresentano idee diverse sarebbe un segnale che qualcosa può cambiare».

È ancora attuale Bertolt Brecht del 1953: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo»?

«Chi è convinto della propria verità non ammette compromessi. E se il popolo non lo capisce peggio per lui: lo dovrà imparare perché le élite non cambiano idea».

Neanche con questo nuovo governo si smuoverà qualcosa?

«In un paio di legislature qualcosa potrebbe cambiare, magari per interessi. Ci sono i fondi pubblici per l’editoria e i posti da strappare in Rai… Si spera sempre in ravvedimenti sinceri, ma per cambiare il sistema possono andar bene anche quelli dettati dal tornaconto».

 

La Verità, 29 ottobre 2022

Il Tg1 spinge Fiorello su Rai 2. Ma è vera vittoria?

Mentre ci si chiede se sia prevalente la responsabilità aziendale di Fiorello e dell’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes che, dopo la vibrata protesta dei giornalisti del Tg1 capeggiati dall’iperpresenzialista Monica Maggioni, hanno deciso di traslocare il nuovo programma su Rai 2 o se, piuttosto, in questa scelta covi un sanissimo istinto di vendetta sul telegiornalone che ha opposto resistenza, una cosa è certa: i vertici Rai hanno dimostrato la solita mancanza di visione e, soprattutto, di polso. Come si fa a trasmettere un programma di punta affidato all’artista italiano più popolare in una rete secondaria? Come si fa a cedere alle rimostranze miopi e corporative dei sindacalisti del tg? Trovare una risposta minimamente soddisfacente è davvero difficile. Sta di fatto che, nello scontro tra la Maggioni e Fiorello, ha vinto la signora. Tuttavia, sarà il tempo a dire se di vera vittoria si tratta.

Dopo l’inusitato braccio di ferro innescato dal Cdr del Tg1 contro la rassegna stampa comica condotta dall’artista siciliano, ieri l’ad di Viale Mazzini ha annunciato al Consiglio d’amministrazione che il programma andrà in onda su Rai 2 nella fascia tra le 7 e le 8,30 e s’intitolerà, appunto, Viva Rai2. L’esordio avverrà il 7 novembre su RaiPlay, il 5 dicembre sbarcherà sulla seconda rete e proseguirà fino a giugno per un totale di 135 puntate. «Ringrazio la Rai, soprattutto l’amministratore delegato Carlo Fuortes e Stefano Coletta (direttore dell’Intrattenimento del prime time ndr), per avermi dato la possibilità di tornare in Rai e di farlo su Rai 2», ha affermato lo showman. «È una scelta che mi rende felice, io amo le prime volte, anche se in realtà si tratta di un ritorno. Approdo al mattino presto di Rai 2 con un progetto a cui tengo molto, e che come fu con Viva Radio 2 e Viva RaiPlay, ha quel sapore gioioso di un nuovo inizio».

Anche se chi gli sta vicino lo dava dispiaciuto e contrariato, Fiorello, uno che andrebbe tutelato come patrimonio del divertimento, non si è perso d’animo per l’ostracismo architettato dalla signora del tg, preoccupata che l’avvento del nuovo programma palesasse la differenza di audience con la sua creatura. Dovunque era stato accolto con stupore il comunicato vergato dai membri del Cdr Roberto Chinzari, Leonardo Metalli e Virginia Lozito (uno dei quali fino a poco prima corteggiava lo showman perché lo facesse collaborare) in cui si lamentava «lo sfregio al nostro impegno quotidiano». Il varo della rassegna stampa rompeva il giocattolo: «Noi come Cdr della redazione del Tg1 sottolineiamo la battaglia fatta per ottenere quegli spazi e lo sforzo enorme compiuto da tutti noi sul mattino, impegnandoci su un lavoro di ripensamento e valorizzazione di quella fascia», si leggeva nel comunicato. Peccato che lo «sforzo enorme» e il «lavoro di ripensamento» non stavano portando i risultati sperati, tanto che, proprio in quella fascia oraria, la concorrenza di Canale 5 si aggiudicava regolarmente la gara dell’audience. Chissà, dev’esser stato per questo che i vertici aziendali avevano pensato alla striscia quotidiana affidata alla verve del comico siciliano. Ma nella ridotta di Saxa Rubra i giornalisti del Tg1 reagivano come i cittadini di Piombino davanti al rigassificatore.

«Come si può pensare di interrompere il flusso informativo con un programma satirico, generando confusione nel pubblico a casa?». Già, visto comparire Fiorello al posto dei mezzibusti del Tg1-Mattina, i telespettatori si sarebbero subito lamentati per l’interruzione del «flusso informativo» e la «confusione» ingenerata. Dopo l’esecrazione universale prodotta dalle loro stesse parole, i sindacalisti avevano tentato un’imbarazzante retromarcia con una lettera all’artista autore dello «sfregio» nella quale, dopo un untuoso «Caro Fiore», assicuravano che il Tg1 «nutre grande stima per il tuo lavoro e si diverte come tutti, da sempre, con le tue invenzioni televisive». La colpa dello scontro, ovviamente, era di chi aveva riportato la notizia. «Il Tg1 non è in guerra con nessuno, come scrivono i giornali, tantomeno con un artista del quale continuamente racconta le mirabili imprese televisive». Insomma, tutto falso, tutto inventato. A sorpresa, dimostrando poca compattezza e molto autolesionismo, i vertici aziendali – non si afferra bene perché comprendano in questa vicenda anche il direttore dell’Intrattenimento prime time – avevano nel frattempo già deciso lo spostamento su Rai 2. E così, tutti contenti per la vittoria, i sindacalisti del tg ammiraglio avevano rinfoderato la protesta e cancellato l’assemblea di redazione. «Ringrazio i giornalisti del Tg1 per le parole di stima nei miei confronti, contenute nella lettera pubblicata ieri, e auguro loro di trovare le risposte e le soluzioni per lavorare al meglio», ha concluso Fiorello spruzzando un po’ di veleno nella coda.

Ora non resta che attendere la partenza della sua rassegna stampa. A quell’ora Rai 2 fa ascolti da monoscopio, mentre Rai 1 galleggia tra il 10 e il 13% di share, sempre inferiore a quella di Canale 5. Chissà se quando debutterà Viva Rai2, al Tg1 resterà ancora il buon umore.

 

La Verità, 21 ottobre 2022

«Con questa campagna elettorale, meglio ballare»

Cara Luisella Costamagna, ci presenta il suo curriculum da ballerina?
«Ho fatto danza classica da bambina, come tanti».
Tanti?
«A sei anni mi piaceva avere il tutù e le scarpette a punta. Non coltivavo particolari ambizioni. Adesso ballo quando mi capita».
Per esempio?
«In vacanza, a una festa, corsi veri non ne ho mai fatti. Appena un paio di lezioni di tango, qualcun’altra di danza afro, quando andava di moda».
In gioventù?
«Mi piacevano i musical, il tip tap, Ballando sotto la pioggia, Gene Kelly più di Fred Astaire. Anche Blues brothers».
Un ricordo di lei ballerina?
«Ero in vacanza con i miei genitori e il villaggio organizzò una serata di rock acrobatico, ma a me capitò un partner mingherlino. Così mi toccò fare l’uomo e reggere le sue capriole. Ridevano tutti».
Balere, sagre paesane, discoteche o night?
«Vivevo in un paesino della provincia torinese di 1.300 anime e al sabato sera o la domenica pomeriggio si andava in discoteca. Adesso, a una festa di amici o in un hotel se c’è musica mi viene spontaneo ballare».
È la prima volta che Milly Carlucci le chiede di partecipare a Ballando con le stelle su Rai 1?
«Me lo chiese già qualche anno fa, ma dissi di no perché i tempi non mi sembravano maturi».
Perché ora lo sono?
«Ci siamo risentite in primavera e considerando che il ballo mi diverte, non ho trovato un solo motivo per non partecipare. Peraltro, dopo Agorà, non avevo impegni…».
Suo marito cos’ha detto?
«All’inizio era perplesso, ma poi si è convinto».
Giornalista televisiva e della carta stampata, autrice di libri-inchiesta sul sesso visto dagli uomini, Luisella Costamagna si è affermata nei programmi di Michele Santoro a partire da Moby Dick su Italia 1, anno 1996. Dopo la collaborazione con Maurizio Costanzo, ha firmato come autrice Annozero e Servizio pubblico, sempre di Santoro, per poi approdare alla conduzione in proprio su Sky e La7, fino alle ultime due edizioni di Agorà su Rai 3. Mentre parliamo la si sente svapare.
Sta fumando?
«Sì, fumo le sigarette elettroniche, recuperare il fiato sarà faticoso. Due anni di Agorà fiaccano fisicamente, prima andavo a nuotare, ora ho smesso. Sono sempre stata sportiva, ho giocato a calcio da centravanti. Da diversi anni ho scoperto le immersioni e ho preso il brevetto».
Un maschiaccio.
«Avevo due fratelli maschi, ma ho sempre rivendicato la mia femminilità».
Parliamo di Ballando, cosa pensa delle polemiche per l’arruolamento di Enrico Montesano?
«Penso che abbia ragione Milly Carlucci, Montesano è un grande uomo di spettacolo. Non condivido una sola parola di quello che dice sul Covid, ma non se ne parlerà perché Ballando è un varietà e non un programma d’informazione».
Lorenzo Biagiarelli è fidanzato della giurata Selvaggia Lucarelli: conflitto d’interessi?
«Confesso la mia ignoranza sia su di lui che sulle polemiche collegate».
Alex Di Giorgio per la prima volta ballerà con un partner gay.
(Sospira) «E che problema c’è?».
Discorso lungo. L’Espresso ha scritto che, partecipando a Ballando, corrompe la missione del giornalismo duro e puro.
(Ride) «Ho scoperto di avere dei nuovi tutori. Se ballo, come se faccio le immersioni, sono meno credibile come giornalista? Penso che quelli che mi attaccano cerchino visibilità attraverso di me. L’Espresso ha scritto che sono “una giornalista di razza” che è stata “salutata con imbarazzante leggerezza” dopo due stagioni di Agorà. Mi domando perché non l’hanno scritto quando è successo e lo fanno solo adesso, attaccandomi in nome di una categoria che non difendo».
Il ballo corrompe il giornalismo?
«Appunto, no. Sono due mondi diversi. Faccio la giornalista da trent’anni, penso di aver già dimostrato se sono capace di farlo o no».
Non trova curioso che chi critica la sua partecipazione a Ballando difenda a spada tratta la premier finlandese?
«È un problema loro. Una donna premier è libera di ballare a una festa come io lo sono di partecipare a un talent in cui si balla».
Ma lei è in quota riciclati con Gabriel Garko, in quota giornalisti con Giampiero Mughini o nella rivincita delle bionde con Paola Barale e Marta Flavi?
«Nei cast di Ballando c’è sempre stata la quota giornalisti. È un programma nel quale si fa del ballo sportivo con dei maestri e mi fido della credibilità che Milly gli ha dato negli anni. Nel cast ci sono concorrenti noti e popolari come Iva Zanicchi e Gabriel Garko che è un attore, non un riciclato. Altri sono più smarcati come Ema Stokholma e Paola Barale. Quello che mi compete è come provare a fare bella figura».
E la rivincita delle bionde?
«Anche delle brune, degli uomini e delle donne… Il ballo è interprofessionale, intergenerazionale, internazionale…».
Adesso è chiaro perché, giubilata da Agorà, non ha posato da martire: aveva voglia di far tardi la sera per andare a ballare.
«Su Agorà non voglio fare polemica. Dopo due anni di sveglia alle 4 del mattino, di non vita, di 2 ore di diretta al giorno e risultati eccellenti, mi sarei aspettata qualcosa di più e di meglio di un gelido “si accomodi”. Non fare una terza stagione ci stava pure, ma il nulla mi è sembrato un po’ ingeneroso».
Non le hanno detto niente?
«Non mi hanno proposto un’alternativa. Sono in contatto con Antonio Di Bella, (nuovo responsabile del genere Approfondimenti ndr): fino a dicembre c’è Ballando, vediamo se poi maturerà qualcosa».
Come gliel’hanno spiegato?
«Mario Orfeo mi ha comunicato che non avrei più fatto Agorà poco prima di essere rimosso anche lui dalla direzione degli Approfondimenti. Che abbia fatto bene il mio lavoro è nei fatti».
Non sarà perché è considerata in quota 5 stelle?
«Sono in tv dal 1996, quando i 5 stelle nemmeno erano nell’anticamera del pensiero di Beppe Grillo. In quante quote dovrei essere stata da allora?».
Cartabianca Carlo Calenda l’ha accusata di essere aggressiva.
«Ho fatto solo delle domande. Visto che parlava dell’incoerenza di altri politici ho citato una sua frase in cui si esprimeva in termini non entusiastici su Matteo Renzi. Poi gli ho chiesto se Mario Draghi è d’accordo sull’idea del Terzo polo di mantenerlo a Palazzo Chigi oppure se è un’iniziativa a sua insaputa. Forse alcuni politici non sono più abituati a ricevere delle domande».
I giornalisti potrebbero fare qualcosa di più per elevare questa campagna elettorale?
«Secondo me, sì. Per esempio, fare le domande ai politici. Proprio quello di Calenda è un caso emblematico, anche di un giornalismo acquiescente. Un altro problema di questo Paese è la memoria. Certe dichiarazioni o certe posizioni assunte non vengono tenute a mente quanto dovrebbero».
Per esempio, bisognerebbe chiedere più conto della gestione della pandemia?
«Infatti, il Covid sembra debellato. È un errore non parlarne soprattutto in prospettiva, perché purtroppo non è finito e bisogna continuare con la campagna vaccinale. Ho un figlio che tra pochi giorni tornerà a scuola e vorrei sapere perché certi interventi sui trasporti o sui sistemi di areazione non sono stati fatti».
Sarebbero interessanti anche risposte sulla mancata adozione degli antinfiammatori di cui l’Istituto Mario Negri ha documentato l’efficacia?
«Di fronte a un virus sconosciuto si è proceduto politicamente e scientificamente per approssimazione. Inevitabile siano stati commessi errori perché si facevano i conti con un virus nuovo. Ciò che preoccupa è che non se ne parli».
Come giudica che non si parli delle scelte economiche del governo Draghi e dell’invio di armi all’Ucraina?
«Negli ultimi mesi della mia conduzione di Agorà era un tema cruciale, mentre in campagna elettorale è scomparso. Un altro tema rimosso che riguarda milioni di italiani è quello delle pensioni, a fine anno scadrà quota 102: come la sostituiamo? Con una campagna elettorale così, meglio ballare…».
È proprio convinta.
«C’è solo lo scontro tra rosso e nero. Non si parla dei temi cruciali, ma dell’allarme per la democrazia».
Lei non lo vede?
«Non vedo derive autoritarie alle porte. Penso che il vero pericolo per la democrazia siano i troppi governi non scelti dagli elettori. E questo a causa del fatto che da anni, prima il Porcellum ora il Rosatellum, abbiamo leggi fatte per non far vincere gli avversari più che per garantire una maggiore e migliore rappresentanza degli italiani».
Le piacciono di più i manifesti rossoneri di Letta o le barzellette su TikTok di Berlusconi?
«Né gli uni né le altre. Sono radicalizzazioni inevitabili nelle campagne elettorali. Preferirei che i giornalisti facessero le domande e si parlasse di temi concreti».
Anche a lei sembra che Giorgia Meloni abbia un problema con le donne?
«No, anzi».
Sono le donne che hanno un problema con lei?
«No, domanderei ai suoi colleghi perché lei sia l’unica donna leader di partito e candidata premier. Perché gli altri sono così in ritardo? Rinfacciare a lei un problema con le donne lo trovo surreale».
Elly Schlein ha detto che non se ne fa niente di una donna premier non femminista.
«Condivido quello che ha detto Hillary Clinton: “La prima donna premier è sempre una rottura col passato, ma sicuramente è una buona cosa. Dopodiché sarà giudicata per quello che fa”. Nel frattempo registro che nel Regno unito siamo alla terza premier donna».
Andrà a votare?
«Sono sempre andata, votare è un diritto-dovere. Mi preoccupa lo scollamento che percepiscono gli italiani, il 40% tra indecisi e astenuti è un campanello d’allarme su cui riflettere».
La causa è un difetto di rappresentanza o la nascita di troppi governi creativi?
«Vedo varie motivazioni di questa distanza. Siamo usciti da una fase di grave preoccupazione sanitaria e siamo piombati in un’emergenza economica ed energetica. Il costo delle bollette è un problema serio e stringente e gli italiani vorrebbero delle risposte sul gas, sulle pensioni e sulla pandemia, invece si parla di TikTok».
Tornerà a scrivere sui giornali, magari sul nascente Nuovo mondo di Michele Santoro?
«Anche se prenderò sul serio Ballando con le stelle, continuerò a fare la giornalista, partecipando ai talk show e scrivendo. Conducendo Agorà in Rai avevo interrotto le collaborazioni perché tenevo a presentarmi in modo imparziale. Ora le riprenderò. Santoro non lo sento da tanto; nelle posizioni che ha espresso ultimamente, dopo un periodo di smarrimento, ho ritrovato il Michele che conosco».

 

 La Verità, 10 settembre 2022 

 

«Perché i generali sono più realisti dei giornalisti»

Generale Fabio Mini sul nuovo numero di Limes lei ha scritto che l’espansione dell’Alleanza atlantica è la causa principale della guerra russo-ucraina. Che cosa glielo fa dire?

«Il fatto che dal 1997 con la Polonia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria, passando per l’Estonia, la Lettonia e la Lituania nel 2004, fino al 2018 con la Macedonia, la Nato ha invitato nell’alleanza una serie di Paesi dell’Est europeo. È stata una strategia precisa che aveva un unico scopo».

Quale?

«Circondare la Russia per neutralizzarne l’influenza nel Centro Europa. Non era un obiettivo segreto, ma dichiarato».

Molti analisti sottolineano che in quel periodo ci sono state offerte di collaborazione della Nato alla Russia tanto che, per esempio, il G7 è diventato G8.

«Non so chi lo dica, ma è antistorico. Il dialogo è limitato al periodo iniziale dell’allargamento, dal 1991 al 1996. C’era reciproca volontà di collaborare, pur in presenza di una certa diffidenza che emergeva, per esempio, nelle riunioni in cui si parlava dell’Armenia o della Georgia. Dopo il 1997 la disponibilità al dialogo della Nato è stata solo un’etichetta diplomatica. Mentre a livello operativo e militare si agiva per favorire l’inserimento dei Paesi baltici nello scacchiere, apparentemente difensivo, che la Russia percepiva come offensivo».

Se si digita su Google Fabio Mini, compare la qualifica «scrittore». In effetti, Mini ha pubblicato diversi saggi per importanti editori in materia bellica e di strategia militare, discipline nelle quali è molto autorevole essendo stato generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano, Capo di Stato maggiore del comando Nato del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo. Scrive per la rivista Limes e collabora con Il Fatto quotidiano.

Generale, come spiega che questa crisi prevista dall’intelligence americana e britannica non è stata scongiurata?

«Per fermarla bisognava assumere le posizioni esplicite che la politica stava dettando. Questa situazione era annunciata da quando è iniziata la crisi per la Georgia. Nel 2001 andai a Tbilisi per seguire le esercitazioni della Nato. Alloggiavo in un hotel in centro, al terzo piano; dal quarto al nono erano tutti occupati dai servizi segreti americani. Sette anni dopo è arrivata la crisi della Georgia».

Non ci si è fermati prima a causa della pandemia o di altri interessi?

«L’America voleva che si evitasse d’ingoiare il rospo passivamente, come avvenuto per la Georgia. La Russia non pensava che la Nato rimanesse unita e, a sua volta, la Nato non credeva che la Russia fosse davvero decisa a invadere. Fin dal primo giorno dell’amministrazione Biden la situazione si è aggravata. L’irrigidimento di una parte ha portato all’irrigidimento dell’altra».

A cosa mira l’aggressione di Putin all’Ucraina?

«Non a occupare tutta l’Ucraina».

Perché?

«Non è nelle condizioni di farlo. Lo scopo che ha scatenato l’invasione è tenere la Nato lontano dai propri confini. Perciò se occupa l’Ucraina la Nato ce l’ha in casa».

Vuole insediare un governo che gli obbedisca?

«L’occupazione militare è una cosa, insediare un governo fantoccio o a lui favorevole è un’altra. Forse ci ha già provato. Il vero obiettivo credo sia mettere in sicurezza un territorio che circonda l’Ucraina dal Donbass e Kharkiv, passando per la parte meridionale per arrivare possibilmente fino alla Moldavia, dove c’è una forte comunità russofona».

Il bombardamento dell’ospedale dei bambini di Mariupol segna una svolta nella strategia di Putin?

«No. Segna una svolta nella campagna d’informazione. Siamo di fronte a due propagande, una di fronte all’altra. Tre feriti dopo un bombardamento così come raccontato non l’ho mai visto».

Si parla di strage di bambini.

«Ho letto di tre feriti, altri dicono sei. Vedo un’intensificazione della guerra di propaganda e annunci. Se dietro ci sono la strage e un obiettivo intenzionale non lo so. Le immagini che ho visto mostrano un’esplosione in uno spiazzo, un grande cratere, molti vetri rotti e una barella davanti a una telecamera. Commento quello che vedo e da ciò che vedo, fortunatamente, questa strage non si è verificata».

Fino a qualche giorno fa si diceva che la colonna ferma di carri armati indicava l’attesa di nuovi eventi e lo spazio per un negoziato, ma al colloquio in Turchia il ministro degli Esteri russo Lavrov ha rigettato l’offerta di neutralità dell’Ucraina.

«Il colloquio in Turchia non erano negoziati. Lavrov era lì per parlare, non per negoziare. La novità di quel colloquio è che Lavrov ha legittimato i negoziati in Bielorussia, avallando una diplomazia militare che fino a quel momento non era scontata».

Perché su Limes sottolinea il ruolo del mondo liberal americano in questa crisi?

«Ci sono due politiche estere negli Stati Uniti che fanno capo a democratici e repubblicani. L’idealismo liberal, come lo chiama l’editorialista del Foreign Policy Stephen Walts, e il realismo repubblicano».

Perché l’idealismo liberal è così protagonista?

«È storia. Le guerre le hanno iniziate i presidenti democratici in nome di quel falso idealismo. Non c’è una guerra iniziata con un presidente realista».

Bush padre ha iniziato la guerra del Golfo.

«George Bush e il partito repubblicano furono influenzati dai neocon, speculari ai neodem. Fu un movimento molto ideologizzato sul piano culturale e religioso. La prima guerra del Golfo nacque in quel contesto».

La stima per Putin ribadita anche di recente da Donald Trump è una posizione indifendibile?

«Certo. Anche le azioni di Putin sono indifendibili. Tra mille opzioni ha scelto la peggiore. Ha visto la debolezza nell’amministrazione americana, nella Nato e nell’Unione europea e ha pensato di approfittarne. Parliamo di una guerra non iniziata il 24 febbraio. Agendo in modo provocatorio la Nato ha violato le norme stesse del Patto atlantico».

Qual è la violazione principale?

«Ha messo in pericolo la sicurezza dei Paesi aderenti. Spostare armi e dislocare truppe ai confini di un altro Paese è una provocazione che in altri tempi avrebbe portato alla guerra il giorno dopo. È proprio uno di quei casi che il Trattato atlantico e la Carta delle Nazioni unite volevano evitare».

Lo diceva anche Biden al Consiglio Atlantico del 1997: «Annettere alla Nato gli Stati baltici potrebbe provocare una risposta vigorosa e ostile da parte della Russia».

«Il Biden del 1997 non è il Biden di oggi».

Ora alimenta il conflitto per ragioni interne?

«Sì».

Cioè?

«Per gran parte della popolazione americana, Biden non sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale. Il contrasto alla disoccupazione, la lotta al Covid, la sanità, le norme sui rifugiati. Alle elezioni di metà mandato un successo internazionale può rianimarlo. Altrimenti la sua presidenza finirebbe dopo due anni. Senza la maggioranza al congresso non potrebbe più governare. In gergo sarebbe una lame duck, un’anatra zoppa».

Come si sta comportando l’Unione europea?

«In maniera abbastanza sibillina, perché non ha la forza per imporre la propria volontà. Tuttavia, esistono una serie di ragioni pratiche e razionali che sconsiglierebbero di seguire la posizione degli Stati Uniti, di Zelensky e della Gran Bretagna».

Le risorse energetiche?

«Esatto. Un problema che ha portato a sanzioni meno drastiche di quelle che Gran Bretagna e Stati Uniti avrebbero voluto. Con intelligenza Biden ha detto che introdurre la no-fly zone in Ucraina vuol dire scatenare una guerra diretta tra Russia e America. Lo stesso discorso può valere per l’inasprimento delle sanzioni».

Perché l’Italia è fuori dai tavoli che contano?

«L’Italia non è influente perché si sa da che parte sta. Non conta chi sta zitto, ma chi alza il dito. Noi non l’abbiamo mai alzato e così ci danno per scontati».

Come giudica la decisione d’inviare armi al popolo ucraino?

«Inviare armi al popolo ucraino che si difende va benissimo. È doveroso. Invece, non manderei armi senza sapere bene a chi vanno e dove andranno a guerra finita. Se si contribuisce a un’ulteriore provocazione non è solidarietà all’Ucraina, ma una manifestazione di ostilità verso la Russia che può inasprire la situazione».

Non si mandano derrate alimentari o medicine, le armi sparano ma noi non combattiamo.

«Sono d’accordo, è pura ipocrisia».

Che cosa le fa dire che un conflitto tra la Nato e la Russia è ancora evitabile?

«Non è in atto l’occupazione militare di tutta l’Ucraina. Possono verificarsi degli eventi: se il negoziato non salta si può rimediare. Se le forze davvero in campo – il governo russo, quello ucraino e quello americano – si siedono allo stesso tavolo c’è ancora margine. Niente Nato, però».

Perché lei e il generale Mario Bertolini siete più disposti alla trattativa?

«Perché siamo testimoni di quello che succede nei Paesi dopo che l’intervento delle Nazioni unite è terminato. Negli ultimi 30 anni alla vittoria sul campo della Nato non è seguito un successo politico e umanitario. I Paesi usciti da quegli interventi – Iraq, Libano, Somalia, Afghanistan, Kosovo, Libia – erano più martoriati di prima».

Perché mentre voi militari siete trattativisti molti giornalisti sono convinti della necessità della prova di forza?

«Perché i giornalisti partono dall’invasione e non vanno a vedere cosa c’era prima. Se si punta lo sguardo adesso c’è un aggressore e un aggredito. Invece l’aggressione segue azioni di provocazione. Chiediamoci chi ha addestrato e inserito nelle file delle forze armate regolari formazioni di ex banditi».

Che ruolo può avere il Vaticano in questo scenario?

«Un grande ruolo perché la comunità russa è molto sensibile al sentimento religioso».

Anche se l’uscita del patriarca di Mosca Kirill si è rivelata controproducente?

«La Chiesa ortodossa non è una Chiesa unita. Zelensky ha lavorato per separare la comunità ortodossa ucraina da quella di Mosca. Quello che ha detto Kirill esprime come vedono il decadimento morale dell’Occidente».

Tornando al Vaticano, che margini d’intervento ci sono?

«Il Vaticano mantiene contatti con Mosca. Il Papa ha manifestato comprensione verso Putin e Putin si sforza di capire ciò che la comunità cattolica nella persona del Papa cerca di dirgli. Credo che la Russia prenderebbe in seria considerazione le dichiarazioni di condanna del Vaticano».

 

La Verità, 12 marzo 2022

Il giornalismo fatto a pezzettini dal cinema

Piove, giornalisti ladri. Falsi, corrotti, figli di buona donna, fate voi. Imputare loro la colpa delle sciagure planetarie è uno sport nazionale. Anzi, mondiale. Fuori dalle narrazioni regine del momento – Covid e Quirinale – le domande sulle sorti del bel mestieraccio alimentate da due grandi film, immediatamente elevati a capolavori, stuzzicano le migliori penne del bigoncio. Il primo è Don’t look up, per alcuni addirittura il film dell’anno (il 2021 o il neonato 2022?). Prodotto da Netflix e diretto da Adam McKay, grande regista e vecchia volpe dei media, è ambientato alla vigilia della fine del mondo dopo la scoperta di una cometa gigantesca che sta per abbattersi sul globo terracqueo. L’altro, Illusioni perdute, in sala dal 30 dicembre, è una pellicola firmata da Xavier Giannoli, tratta dall’opera di Honoré de Balzac ambientata nella Francia del primo Ottocento che sembra scritta adesso.

Qui sì, ci si avvicina al capolavoro. C’è tutto, persino più di quello che vediamo nel giornalismo e nell’editoria attuali. Le fake news, per esempio. Simboleggiate dalle anatre, uccelli che vivono nell’acqua, ambigui come notizie un po’ vere e un po’ false. E ci sono pure i social, cui alludono i piccioni viaggiatori, opinioni volatili disancorate dalla realtà. Del resto, «la nostra linea editoriale è semplice. Il giornale prenderà per vero tutto ciò che è probabile», annuncia il patron del foglio d’opposizione liberale. E «nel nome della malafede, del pettegolezzo e degli annunci pubblicitari, io ti battezzo… giornalista». Che si tratti di espressioni originali di Balzac o create dagli sceneggiatori poco importa.

L’ambizioso tipografo di provincia e aspirante poeta, Lucien Chardon (Benjamin Voisin), arriva nella Parigi del 1821 sulla carrozza della malinconica baronessa, Louise de Bargeton (Cécile de France). L’eterogenea coppia, però, desta subito scandalo e, per non esser scaricata dai salotti che contano, la nobildonna è costretta ad allontanare il giovane amante di umili origini. Per farsi strada da solo e conquistare il proscenio, Chardon impara rapidamente a confezionare recensioni compiacenti, stroncature pilotate, killeraggi su commissione di avversari politici. Così fan tutti. La Ville Lumière è un sottobosco di traffici e tradimenti e ogni cosa ha un prezzo. Editori analfabeti. Capoclacque che mettono all’asta applausi e fischi alle attrici. Scimmie caporedattrici che decidono se stroncare Racine o Stendhal. Nessun travaglio anche per compiere il salto della quaglia – restando in tema – e passare al soldo dei monarchici. La fiera delle vanità usa e getta amplessi, amori e amicizie. I rapporti sono strumentali allo scopo. L’ultimo ostacolo alla consacrazione è il cognome senza quarti di nobiltà. Ma con i giusti uffici si può provvedere…

Meno centrale, ma altrettanto screditata è la categoria nella pellicola di McKay. Dopo l’uscita in sordina nei cinema americani il 10 dicembre, Don’t look up ha scalato le tendenze dei social una volta approdato allo streaming di Netflix. Una cometa grande come l’Everest è in rotta contro la terra, impatto previsto tra 6 mesi e 14 giorni. Ad accorgersene sono una zelante dottoranda (Jennifer Lawrence) e il suo capo, l’impacciato astronomo interpretato da Leonardo DiCaprio. Non c’è un attimo da perdere, avvertiamo immediatamente le massime autorità. Tuttavia, distratta da scandali sessuali ed elezioni di metà mandato, la presidente americana (la solita, superba, Meryl Streep) non li prende sul serio: sapete a quante fini del mondo incombenti ci siamo preparati negli ultimi anni? Non resta che rivolgersi ai media. Ma dopo attenta analisi delle reazioni sul web, anche l’autorevolissimo quotidiano lascia cadere la notizia troppo poco virale. Nel talk di massimo ascolto del mattino, dominato dalla riconciliazione fra un dj e una popstar pseudoecologista, le cose non vanno meglio. L’infotainment dev’essere leggerezza, evasione e ottimismo. Lo studioso dice che l’apocalisse è imminente? Se non fa audience è un allarme fasullo. Alla vacuità di fondo, nel boicottaggio della scienza si aggiunge il complottismo. E i turbamenti dello spaesato astronomo – il quale, per inciso, è l’unico a salvarsi dalla fatuità della politica e dei guru dell’high tech – si placano tra le lenzuola dell’avvenente conduttrice tv (Cate Blanchett).

Giornalisti narcisi, superficiali, vanitosi, immorali, schiavi dell’audience, pronti a vendersi per un pizzico di visibilità. Son passati due secoli, ma gli anchorman di oggi non sembrano molto diversi dai gazzettieri delle Illusioni perdute. A differenza che in Don’t look up, in due anni di pandemia abbiamo visto scienza e politica allearsi con la benedizione dei media. Nei quotidiani e nei talk show giornalisti e virostar cantano in coro, anche letteralmente. C’erano una volta «i cani da guardia del potere». Preistoria spruzzata d’ideologia. Ma ora, la sera, osserviamo posture altere e compiaciute o ascoltiamo toni assertivi di direttori e opinionisti accomodati nei salotti tv come novelli Lucien Chardon che ce l’hanno fatta. Per qualcuno già pluri-contrattualizzato è anche difficile resistere alle tentazioni della società dello spettacolo, cinema o teatro che sia. Chissà cosa ne scriverebbe Balzac.

«C’è stato un momento… nel quale i giornalisti italiani hanno creduto di essere del tutto liberi di informare e di poter offrire al pubblico giornali davvero indipendenti», ha scritto Giampaolo Pansa. «Sulle prime, il potere è stato a guardare, poi ha reagito e, infine, ha vinto. Questo libro è il racconto di quella grande illusione». Era la prefazione di Comprati e venduti (Bompiani, 1977). I giornalisti non sono programmaticamente né corrotti né missionari della verità. Sono uomini che fanno un mestiere come un altro. E a volte sbagliano.

 

La Verità, 4 gennaio 2021