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La serie su Avetrana specchio delle morbosità

È la piaga della morbosità quella da cui ramificano le aberrazioni narrate nella serie su Avetrana (anche se non si può dire). La morbosità nelle sue varie sfaccettature e declinazioni. Le più abiette, le più sottili e le più ipocrite. Non ci sono due linguaggi nella trama costruita dal regista (Pippo Mezzapesa) e dagli sceneggiatori (Antonella Gaeta, Carmine Gazzanni, Flavia Piccinni e Davide Serino) di Qui non è Hollywood, prodotta da Disney e Groenlandia di Matteo Rovere e visibile su Disney+. La miserrima gente del posto e i giornalisti e i turisti che vengono da fuori, e si presumono più distaccati, sono trattati con lo stesso metro. La morbosità tormenta gli autori della ferocia su Sarah Scazzi e serpeggia nei tinelli fatiscenti del paesino. Ma istiga anche gli operatori della comunicazione che ne assediano le viuzze scalcinate, e alimenta il voyeurismo dei turisti dell’orrore che, a frotte, visitano i luoghi del degrado quando ancora s’ignorano le sorti della vittima. Un senso di potente desolazione, di oscenità, di scandalo della meschinità fa da cornice a un delitto riproposto nella sua inenarrabilità e inespiabilità. Mezzapesa suddivide la storia in quattro episodi, uno per ogni protagonista, mettendo al centro la voglia d’amore di Sarah (Federica Pala), la gelosia cieca di Sabrina (Giulia Perulli), la fragilità del finto mostro Michele (Paolo De Vita) e il cinismo mammone e limaccioso di Cosima (Vanessa Scalera). Altrettanto solide sono le figure del maresciallo Persichella (Antonio Gerardi), del Pm Giove (Geno Diana) e della madre di Sarah (Imma Villa). No, non siamo a Hollywood. Ma quanto a interpretazione, forse in un posto migliore se gli attori sono così credibili da sembrare presi dalla strada, dando alla fiction, che tale resta, l’ambizione e la profondità del documento. La descrizione della piaga purulenta che genera l’atrocità e il racconto dell’ignoranza e della superstizione che gli fanno da cornice, al punto che i Testimoni di Geova della mamma di Sarah sembrano i più razionali, procedono in equilibrio, contrappuntati dagli zoom sul brulicare di enormi formiche nella terra secca.

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La serie Hanno ucciso l’uomo ragno di Sky Atlantic è la rivelazione della stagione oltre che per gli ascolti anche per la freschezza, dovuta dall’assenza d’infarinature ideologiche, e per la nostalgia degli anni Novanta, ultimo decennio senza Web, social e ansia relativa. Peccato solo per il ritratto ingeneroso di Claudio Cecchetto.

 

La Verità, 3 novembre 2024

«Le donne vere vittime del neofemminismo»

Irrequieta e dinamica, Annina Vallarino ha cambiato spesso città: Genova, Bologna e Milano, poi Londra, dove ha conseguito il master al London college of communication, e ora il sud della Francia. In mezzo a tanti spostamenti, il suo centro di gravità è il lavoro di editor e la scrittura con una predilezione per le questioni femminili. Ha appena pubblicato Drama (Neo edizioni), il suo primo romanzo e, subito dopo, il saggio Il femminismo inutile. Vittimismo, narcisismo e mezze verità: i nuovi nemici delle donne (Rubbettino editore).
Come mai un titolo così controcorrente?
È un titolo che, molto umilmente, si rifà a Il sesso inutile, scritto da Oriana Fallaci nel 1961. Esprime il mio pensiero sul neofemminismo odierno: dannoso e quindi inutile.
Che cosa le ha fatto fare una simile follia?
Ho vissuto a lungo a Londra e visto da vicino l’evoluzione del neofemminismo. Ho letto saggi critici inglesi, americani, francesi, ma nessuno osava proporne uno per il pubblico italiano. Così, l’ho visto come una necessità. Poi ho incontrato i dirigenti della casa editrice Rubbettino…
Le neofemministe sono il suo movente?
Il conformismo paralizza il pensiero. Se una donna dice qualcosa che non rientra nel canone prestabilito è considerata una traditrice. Da post-femminista ritengo necessario guardare avanti, mentre su molti fronti stiamo assistendo a una regressione culturale.
È per questo che alcune neofemministe sostengono che «non è un bel momento per essere donne»?
No. Lo dicono perché serve a creare l’«esercito di spaventate». Il catastrofismo rimpolpa le platee di lettrici e di seguaci. Questo non significa che non ci siano problemi reali, ma da qui a dire che siamo una classe di oppresse c’è un oceano.
L’arma principale di questo movimento è il vittimismo?
Essere vittime rende intoccabili e innocenti. Oggi è impossibile attribuire una pur minima corresponsabilità anche alla vittima. Una volta si diceva «se l’è cercata», oggi per fortuna non più. Ma siamo precipitati nell’atteggiamento opposto: se si danno consigli di prudenza alle ragazze scatta subito l’accusa di victim blaming. Niente discernimento, parlare di prudenza equivale a colpevolizzare le ragazze.
La vittima ha ragione a priori, se poi è donna ha un potere illimitato: perciò sembra che le donne abbiano solo diritti?
Si dà sempre ragione ai bambini capricciosi e ai matti. Le neofemministe sentenziano che una donna non può criticare un’altra donna. Ma è un approccio regressivo che nega alle donne lo status di persone e individui completi, prima che di donne.
La vittimizzazione è un metodo di affermazione: «soffro quindi esisto». Cosa pensa delle interviste con la rivelazione incorporata del trauma infantile o adolescenziale patito?
In inglese si chiama oversharing, eccesso di condivisione. Oggi l’eroe è chi condivide il trauma con il pubblico non colui che svela come l’ha superato. Per questo racconto la storia di Samantha Geimer, la ragazzina tredicenne violentata da Roman Polanski che si è stancata del ruolo di vittima nel quale i media l’hanno imprigionata. Dice: ok, mi è successo, ho sofferto, ma sono ripartita. Le neofemministe la considerano una «povera inconsapevole».
Oltre a quella rappresentata dalle tante donne al potere, anche questa è femminocrazia?
La soluzione alla maschiocrazia non è certo la femminocrazia. Abbiamo bisogno di politici bravi e capaci che parlino a tutti. Le donne devono entrare nell’agorà come individui.
Che ruolo hanno le star di Hollywood e le donne dell’upper class americana?
Sono state fondamentali per il Metoo, che negli ultimi tempi è diventato una sorta di marketing della sofferenza che premia le donne che si mostrano vulnerabili.
Come mai pur avendo successo ed essendo esaltate dai media sono così frustrate?

Lo sono davvero? Non essendoci più il rapporto verticale con il pubblico, la star vuol farci credere di essere come noi.
E noi ci cadiamo in pieno?
Anche perché il racconto del trauma diventa subito intrattenimento. Ci piace farci gli affari delle celebrity. Inoltre, parlando di molestie, il sesso vende.
Tutto questo cosa c’entra con l’emancipazione femminile?
Niente. È un femminismo elitario, di lusso, degli affari marginali. Settimane a parlare di Giorgia Meloni che vuole farsi chiamare premier con l’articolo maschile… Utilità per la vita quotidiana delle donne? Zero.
Ma si combatte il sessismo della grammatica italiana.
Altro tema molto middle class, come direbbero gli inglesi, il cui unico scopo è far vendere libri e aumentare i follower. Questo controllo del linguaggio mi ricorda le suore di una volta che pretendevano il parlare pulito.
Che cosa accomuna il neofemminismo propugnato da Michela Murgia, Laura Boldrini e Rula Jebreal?
Il fatto di essere maternaliste. Si propongono come fari della massa. Parlerei di influencer più che di intellettuali, perché tendono a dire quello che molte donne vogliono sentirsi dire. Invece, gli intellettuali sanno essere scomodi a costo di deludere la loro platea.
Il maternalismo gemello del paternalismo?
Condannano il paternalismo, ma lo sostituiscono rivolgendosi a delle bambine, non a persone adulte.
Il neofemminismo intersezionale è molto ambizioso perché allarga la sua sfera d’azione?
È un’espansione illusoria. L’intersezionalità trascura pilastri fondamentali come la laicità, baluardo dei diritti femminili, e la dimensione di classe. Non è in grado di parlare a tutte le donne, ma solo alle sue adepte che comunicano fra loro con un lessico cifrato. Le intenzioni sono nobili, la messa in pratica no. Il 7 ottobre le intersezionali hanno optato per il mutismo davanti alle donne ebree violentate. Nella loro mappa di oppressione non erano le vittime perfette.
Che cos’è la noia di essere libere?
Nel mondo odierno, dove la sopravvivenza non è più la nostra principale preoccupazione e il tempo libero abbonda, è quasi naturale, in assenza di nemici reali, crearne di immaginari. A me molte di queste accese discussioni su inezie sembrano il sintomo di donne fortunate, che hanno tanto tempo libero e nessun problema serio da affrontare.
Un’altra regola delle neofemministe è non pretendere da loro la coerenza, così possono avere ascelle non depilate per ribellarsi ai canoni occidentali e al contempo indossare abiti firmati.
Viviamo felicemente in un momento di libertà. Ma se ci si pone come guide del pensiero femminista bisogna accettare di rispondere a delle domande. Invece, si rifiuta il dibattito. No debate è uno slogan di questo movimento.
Messo in pratica anche impedendo al ministro Eugenia Roccella di parlare?
L’intolleranza non è un fenomeno solo italiano, basta guardare cos’è accaduto in Gran Bretagna a J. K. Rowling. Le femministe storiche sono tacciate come Terf (Femministe radicali trans escludenti ndr) perché pensano che l’identità sessuale non debba essere soppiantata da quella di genere.
«Cultura dello stupro», «mascolinità tossica», «patriarcato sistemico»: c’è anche una nuova lingua?
Sono espressioni di moda nate nei college americani, versioni pop del linguaggio accademico. Servono a far sentire esperti chi le usa. Per esempio, una locuzione come «cultura dello stupro», non è solo usata dalla ragazzina con le amiche o dall’influencer nelle slide, ma anche dai giornalisti e dai media. E spesso viene accettata senza capire bene cosa c’è dentro.
E cosa c’è?
È un termine bulldozer che descrive un generico ambiente culturale e ormai racchiude tutto il ventaglio di ciò che opprime le donne, dallo sguardo insinuante fino al femminicidio. Ma nella sua malleabilità dimostra la sua vaghezza.
Nel libro parla dello statistichese neofemminista.
Sono le mezze verità. Per esempio, la disparità salariale raccontata come un furto. Nessun economista ne parla così, ma come di un fenomeno complesso, legato alle scelte dei campi lavorativi, al fatto che molte donne optano per il part-time o che devono assentarsi per la maternità o la cura della famiglia.
Infine c’è l’antagonismo nei confronti degli uomini, dipinti a volte come ontologicamente colpevoli.
Siamo ancora in piena ideologia nordamericana. Queste accuse sono un boomerang perché alimentano gli influencer maschili che rispondono all’odio misandrico con l’odio misogino. Il risultato è la polarizzazione del dibattito, fino all’incomunicabilità.
Perché l’attore Timothee Chalamet è così idolatrato?
Perché, se il nuovo obiettivo è decostruire il maschio, lui è l’immagine dell’uomo riformato che deve somigliare alla donna.
È l’icona globale della fluidità del Terzo millennio?
Credo lo sia per un gruppo ristretto di donne. Nei sondaggi, la gentilezza e la vulnerabilità non svettano tra i motivi che presiedono alla scelta di un uomo, mentre lo sono la protezione e la ricerca di sicurezza. Perché poi, non di rado, nella vita reale, le donne si innamorano degli uomini che le infastidiscono.

 

Panorama, 10 luglio 2024

La più bella del mondo che ci fece fare il boom

Cinema, arte e piedi per terra. Parafrasando la triade del titolo del suo maggior successo, ci si approssima alla vera indole di Luigia Lollobrigida, ribattezzata Gina per motivi artistici e nata a Subiaco nel luglio del 1927. «La Bersagliera ci ha lasciato», hanno annunciato il figlio Milko Skofic e il nipote Dimitri. Una delle più grandi attrici del cinema italiano è morta ieri nella sua casa sull’Appia antica a Roma dopo che nel settembre scorso era stata operata per la frattura del femore.

A tutti nota come la Lollo, la «maggiorata fisica» che da sex symbol, strizzata in bustini che ne pronunciavano le forme, è divenuta una star internazionale, si è imposta nell’immaginario mondiale dopo una gavetta ben diversa da quelle della nostra èra digitale. Particine nei fotoromanzi con lo pseudonimo di Diana Loris, fumetti disegnati a carboncino e comparsate nella Cinecittà del dopoguerra sono state il viatico di una carriera nella quale ha recitato al fianco dei più grandi attori del Novecento, diretta dai migliori registi del cinema mondiale. Ha incarnato ragazze italiane come La romana di Luigi Zampa e La provinciale di Mario Soldati, e giovani di enorme fascino come l’Esmeralda del Gobbo di Notre Dame, fino alla Fata Turchina nel Pinocchio di Luigi Comencini, collezionando un Golden Globe, sette David di Donatello e due Nastri d’argento. Nel 1999 diventa Ambasciatrice di buona volontà dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura e nel 2018 conquista la stella sulla prestigiosa Walk of Fame di Hollywood. Eclettica, disincantata, mai prigioniera del proprio status, è meno ingombrante, non solo fisicamente, della rivale Sophia Loren che ieri, appresa la notizia della morte, si è detta «profondamente scossa e addolorata». Una carriera tumultuosa, la sua, ma gestita con misura, capacità di distanziarsi dal cinema e la sagacia di reinventarsi, dedicandosi alla scultura, alla fotografia e ai documentari. Volando a Cuba per intervistare Fidel Castro: «L’ho conosciuta bene. Siamo stati anche innamorati, però era un amore platonico», disse lui.

Con i piedi per terra, ma versatile e popolana. Come la bersagliera di Pane, amore e fantasia che teneva testa al maresciallo donnaiolo (Vittorio De Sica), e che la impose definitivamente. Erano gli anni della ricostruzione, dell’Italia che medicava le ferite della guerra, dei primi frigoriferi nelle case, mentre per le televisioni si sarebbe dovuto aspettare ancora. Lei, di anni ne aveva 26, ma nel suo album c’erano già lavori con Zampa, Carlo Lizzani (Achtung! Banditi!) e soprattutto Christian-Jaque che con Fanfan la Tulipe l’aveva consacrata diva in Francia. Nel 1950, prima dell’exploit di Pane amore e… era stata anche in America, alla corte del miliardario Howard Hughes, produttore e regista per hobby nonché scopritore di dive come Jane Russell. E si era anche già sposata con Milko Skofic, medico sloveno che curava i profughi alloggiati a Cinecittà. Matrimonio precoce, appena ventitreenne, che solo nel 2018 si scoprì esser seguito allo stupro subito a 18 anni, quand’era ancora vergine. Una circostanza che non aveva mai voluto rivelare – e nemmeno allora rivelò l’identità del violentatore. E che, tuttavia, non ne aveva frenato la volontà di affermarsi. Due anni dopo, infatti, s’era presentata a Miss Italia, giungendo terza dietro Lucia Bosè e Gianna Maria Canale, future attrici come lei. Nella scheda d’iscrizione al concorso alla voce «aspirazioni» aveva scritto: «Fare qualcosa di serio con le mia capacità». Una frase-manifesto: di modestia personale e dello spirito del tempo. Si avanza con le proprie forze, niente aiuti, niente divani del produttore. Nemmeno quello di Hughes, appunto, considerato che una volta scoperto che avrebbe dovuto starsene buona dedicandosi ad allietarne le serate, se ne tornò in Italia. E pazienza se il contratto di esclusiva che ormai aveva firmato le impedì di lavorare in America fino al 1959.

Le gabbie dorate non le sono mai piaciute. Neanche quella della sua stessa immagine e della fama di star internazionale. Lei che aveva recitato in grandi produzioni mondiali al fianco di attori come Vittorio Gassman (in La donna più bella del mondo, biopic della cantante lirica Lina Cavalieri), Humphrey Bogart, David Niven, Yul Brinner, Anthony Quinn, Rock Hudson, Tony Curtis, Sean Connery, Burt Lancaster e Frank Sinatra. Il quale sul set de Il sacro e il profano la irritava parecchio perché il primo ciak si batteva solo dopo che aveva smaltito la sbronza della sera prima. Neanche nel ruolo della bersagliera verace ma seducente che l’aveva consacrata si era adagiata. Tanto che, dopo il successo di Pane amore e gelosia, sempre con De Sica e Comencini alla regia, aveva rifiutato il terzo episodio della serie, rimpiazzata proprio da Sophia Loren.

Intanto, nel 1957, era nato il primo figlio Milko jr., ma nel 1971 era arrivato anche il divorzio da Skofic, dal quale ormai viveva separata. Nel 2006 annuncia a sorpresa alla rivista Hola! l’intenzione di sposare l’imprenditore spagnolo Javier Rigau, di 34 anni più giovane, dopo una relazione tenuta nascosta per più di vent’anni. Il matrimonio viene effettivamente celebrato, ma successivamente l’attrice denuncia di essere stata vittima di un raggiro, ottenendo l’annullamento dalla Sacra Rota.

Al cinema torna a lavorare per Comencini, dando voce e volto alla Fata dei sogni di Pinocchio. È quella l’ultima grande interpretazione per cui anche i meno giovani ancora la ricordano. Siamo nel 1972. Dopo di allora ha recitato molto meno per il grande schermo, trovando più soddisfazione in alcune serie televisive come Falcon crest e il remake della Romana, diretta da Giuseppe Patroni Griffi, nel ruolo della madre della protagonista, interpretata da Francesca Dellera, con la quale, però, i rapporti furono sempre tesissimi. Al cinema, fa sapere, potrebbe tornare solo se chiamasse Steven Spielberg. Ma le sue passioni ora sono altre. Anche Life e Time magazine ne scoprono il talento di fotografa. Gira l’Italia e il mondo camuffata da eccentrica turista per ritrarre indisturbata gli angoli del Belpaese, i volti dei bambini e dei vecchi dei nostri borghi. Poi arrivano l’amore per la scultura e l’impegno per i poveri che ha incontrato viaggiando come fotografa. Nel 2013 mette all’asta i suoi gioielli personali per raccogliere fondi. Nel 2016 Sergio Mattarella le consegna il David speciale alla carriera.

«Chi non fa niente invecchia prima», dice. E nel settembre scorso annuncia l’estemporanea candidatura nella lista Italia sovrana e popolare che riunisce varie sigle di sinistra tra cui Azione civile, guidata da Antonio Ingroia, suo avvocato. Il mancato raggiungimento della soglia di sbarramento della lista le nega l’elezione. Noi pensiamo che quello che l’ha capita meglio sia Luigi Comencini e preferiamo ricordarla nei panni della bersagliera bella e impertinente o, forse, in quelli della Fata dei sogni di Pinocchio.

 

«Io, Django, cambiato dall’incontro con un prete»

Franco Nero in persona?

«Francesco Clemente Giuseppe Sparanero».

Tre nomi di battesimo hanno un motivo preciso?

«Clemente è il santo del giorno in cui sono nato, Francesco si chiamava mio nonno materno, Giuseppe non lo so».

Per fortuna non è diventato Castel Romano.

«Sarebbe stato un dramma. Dino De Laurentiis aveva sentenziato sul set della Bibbia che si girava a Roma: “Debutti in via Castel Romano dove ci sono i nostri studi: ti chiamerai Castel Romano”. Mi salvò Luigi Luraschi, un suo assistente, che cominciò ad anagrammare nomi e cognome. Alla fine tagliammo Francesco e Sparanero e venne fuori Franco Nero».

Perché ha messo un proverbio africano come esergo del suo libro Django e gli altri (Rai Libri), scritto con Lorenzo De Luca?

«L’ho imparato molti anni fa, l’ho appeso anche sul muro in cucina».

«Puoi alzarti all’alba, ma il tuo destino si è svegliato prima di te».

«Ognuno ha un destino nella vita, ma bisogna anche saperselo costruire. Trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Il grande regista Joshua Logan cercava una faccia nuova per Lancillotto di Camelot e John Huston, che mi aveva fatto fare Abele nella Bibbia, mi segnalò. “Fisicamente sei perfetto, ma il tuo inglese è incerto e questo film è il più costoso della storia, non posso rischiare”, mi disse. Arrivato sulla porta mi voltai: “Ma io so recitare Shakespeare in inglese”».

Aveva imparato ascoltando i dischi in vinile che le aveva prestato Huston.

«Li avevo consumati a forza di ascoltarli e di ripetere la pronuncia dei più grandi attori del teatro inglese».

Voleva fare a tutti i costi l’attore?

«E il destino mi ha aiutato. Per Django Sergio Corbucci e i produttori litigavano sulla faccia giusta. C’erano altri due candidati oltre a me, così decisero di andare da Fulvio Frizzi, il papà di Fabrizio, che distribuiva il film. E lui puntò il dito sulla mia foto. Se quel fotografo non avesse insistito per farmi qualche primo piano che finì sulla scrivania di Huston la mia vita sarebbe stata diversa».

Il destino ci precede?

«Da bambino, a 5 o 6 anni, sognavo sempre un cavaliere su un cavallo bianco in cima a una montagna».

Un ragazzo nato a Parma, figlio di un maresciallo dei carabinieri pugliese che diventa una star del cinema non è male come sogno.

«Non mi posso lamentare. La mia vita è stata avventurosa perché sono sempre stato curioso. Ho lavorato molto all’estero. Sono stato in America e in Sudamerica, dovunque ho una storia bella. Sono un privilegiato. A questa mia giovane età sono appena tornato da Londra e sto per partire per Los Angeles».

Come si sta davanti alla cinepresa «nonostante la congenita timidezza»?

«Le ho sempre detto: “Cara cinepresa, io e te dobbiamo essere amici, farò di tutto per impressionarti”. Laurence Olivier, il più grande attore del mondo, una volta mi disse: “Con il tuo fisico puoi fare l’eroe un film all’anno, ma che monotonia. Oppure puoi cambiare e spaziare in tutti i generi”. Ho fatto tutti i ruoli, mi mancava quello del Papa».

Ma ora…

«Una compagnia spagnola mi ha proposto The men from Rome».

Il suo primo benefattore è stato John Huston o Sergio Corbucci?

«Tutti e due. Ho incontrato prima Huston e subito dopo Corbucci. Negli hotel in Sudamerica e in Giappone scrivevano Django, non Franco Nero».

Quindi Corbucci?

«Corbucci nel cinema mondiale, Huston in quello di lingua inglese. Huston fece il mio nome a Logan. Così entrai nella produzione di Camelot con Richard Harris e Vanessa Redgrave».

La sua Ginevra: come avvenne l’incontro lei?

«Non fu amore a prima vista. Mentre giravamo le battaglie dei cavalieri della Tavola rotonda, chiedevo a Logan chi avrebbe interpretato Ginevra? Finalmente, un giorno negli studi della Warner me la indicò. Avevo 24 anni e mi aspettavo una bellezza tipo Sophia Loren. Invece, mi vedo arrivare una ragazza con jeans strappati e occhiali da vista. Fui molto freddo. “Ma quella è un mostro”, dissi a Logan. Rientrato nel mio appartamento trovai un biglietto scritto in perfetto italiano in cui m’invitava a cena a casa sua. Decisi di andarci e, quando bussai, alla porta apparve una donna splendida. “Sono stato invitato da Vanessa Redgrave”. “Franco, Vanessa sono io”. Ero stupefatto».

Amore alla seconda vista?

«La nostra storia decollò un mese dopo, in America. Una sera, mentre andavo alla mia auto, lei mi chiese se potevo accompagnarla all’aeroporto insieme a Benjamin Spock che doveva partire. Quando rimanemmo soli scoprimmo che il giorno dopo entrambi non lavoravamo. “Perché non andiamo da qualche parte?”. Prendemmo un volo per San Francisco, dove noleggiai una macchina e andammo in giro tutta la notte finché, all’alba, affittammo una camera in un motel di quinta categoria».

Qual è il segreto della durata del vostro rapporto?

«La lontananza, non stare sempre assieme. Parlandoci molto al telefono, desideriamo sempre vederci».

Condividete la stessa visione politica?

«Ma… In gioventù lei era una troskista incredibile. Io la rispetto, ha sempre aiutato i più deboli come anch’io faccio da tutta la vita. No, in politica non la pensiamo allo stesso modo. Lei è una donna eccezionale, ha avuto vita dura anche in America per le sue idee. Furono Arthur Miller, Tennessee Williams e Sidney Lumet a difenderla e valorizzarla con ruoli importanti perché la stimavano molto».

È vero che una volta Clint Eastwood le manifestò la sua invidia?

«Ci eravamo conosciuti quando recitava per Sergio Leone. Una volta venne sul set americano di Camelot e commentò: “A Hollywood c’è un giovanissimo italiano che gira un grande musical, mentre io tornerò in Europa a girare un film italiano…”».

Perché dopo Camelot interruppe il contratto con la Warner?

«Gli amici storici con cui avevamo iniziato a girare i primi corti, Luigi e Camillo Bazzoni, Gianfranco Transunto e Vittorio Storaro, mi chiamavano per convincermi a tornare. La mia popolarità poteva aiutarci a girare i film che sognavamo da tempo. Anche Vanessa rientrava in Europa. Così andai da Jack Warner e gli dissi che mi mancava l’Italia. “Sei un pazzo, potresti diventare il nuovo Rodolfo Valentino, ho già due film pronti per te”. Alla fine cedette, anche lui stava per vendere la Warner».

Nella sua autobiografia Django è un uomo solo.

«Dev’esserlo, l’eroe del west non si sa da dove viene e dove va. Non per niente Quentin Tarantino ne ha fatto il remake».

Chi sono i suoi amici?

«Nel mondo del cinema non è facile averne, c’è l’invidia. In Inghilterra, in America, in Sudamerica ho più amicizie. In Italia frequento professori, medici e i contadini con cui gioco a briscola e tresette. Non faccio parte dei clan del cinema italiano».

Sono un po’ chiusi?

«E io sono un outlaw, un fuorilegge, non appartengo a nessun clan».

Ha conosciuto John Wayne, John Huston, Paul Newman, Anthony Quinn e tanti altri, ma scrive che l’incontro più importante della sua vita è stato con un  prete.

«Don Nello Del Raso. Avevo 23 anni e sbarcavo il lunario facendo l’aiuto fotografo e lavorando di notte da un panettiere che preparava i cornetti. Un giorno Luigi Bazzoni mi chiese di accompagnarlo a Tivoli. Al villaggio Don Bosco conobbi don Nello, un cappellano dell’esercito che aveva raccolto i bambini orfani della Seconda guerra mondiale. M’innamorai subito di questo piccolo grande uomo che insegnava loro un lavoro. Gli promisi che, sebbene squattrinato, gli sarei stato vicino. Da quando è morto e il suo posto è stato preso da don Benedetto Serafini, continuo ad aiutare il villaggio».

Perché nel suo ultimo film da regista, L’uomo che disegnò Dio, recita Kevin Spacey, incriminato per molestie sessuali?

«Conosco Spacey da quando dirigeva il teatro Old Vic di Londra. Qualche volta siamo anche andati a cena insieme con Vanessa. Un giorno il produttore Louis Nero (solo un omonimo ndr), mi disse che a Spacey sarebbe piaciuto essere diretto da me. Per il ruolo del commissario era perfetto. Perciò ho accettato, sapendo che è incriminato. Penso che nella vita bisogna saper perdonare e dare una chance a chi è in difficoltà. Lui mi ha detto che si è sempre dichiarato omosessuale e che molte cause le ha vinte. Si sa, i maschi eterosessuali ci provano con le donne, i maschi gay con gli uomini. Con me ha lavorato con grande umiltà».

È stato criticato per questa scelta?

«Ho avuto contro tutta la stampa americana e inglese. Spacey è stato sfortunato perché coinvolto nel momento del Metoo… A Hollywood, in passato, erano tanti i gay o i mezzi gay, ma tutto scorreva. Ora le accuse abbondano, a volte la ricerca della verità sembra anche una questione di soldi. Quando una persona è accusata 28 anni dopo i fatti qualcosa non va».

Un certo puritanesimo soffoca la creatività di sceneggiatori e registi?

«Assolutamente. Anni fa erano il produttore e il distributore a decidere. Oggi non si fa cinema senza i diritti televisivi. Se un film è un po’ spinto bisogna tagliare e l’autore non può scrivere ciò che vorrebbe. Per questo ho fatto poca tv».

Quando vedremo L’uomo che disegnò Dio?

«È ispirato alla storia vera di un cieco che, sentendo parlare le persone, riesce a riprodurne i tratti. Abbiamo finito di montarlo in marzo. Vorrei portarlo a un grande festival prima di farlo uscire, ma non dico niente per scaramanzia».

Nuovi progetti come attore?

«Ho letto diverse sceneggiature, l’unica che mi ha convinto è quella di Black beans and rice, un film che gireremo in America, ma ambientato a Cuba. È la storia on the road di un padre e un figlio che non si conoscono. Nel testamento la madre chiede che il ragazzo ritrovi il padre e, insieme, portino e disperdano le ceneri nel posto dov’è nata. Lo interpreteremo io e mio nipote, figlio di Liam Neeson e di Natasha, mia figlia morta 13 anni fa in un incidente stradale».

Negli ultimi anni ha lavorato meno?

«Anche a causa della pandemia. Però ho interpretato Il caso Collini, trasmesso in Italia da Rai 3, e The Match, visibile su Prime video».

La sorte delle sale cinematografiche è segnata?

«Lo temo, adesso ci sono queste piattaforme».

Si professa cattolico e scrive che gli italiani sono attenti a rispettare tutte le religioni fuorché la loro.

«Sono religioso, non praticante. Ogni tanto entro in una chiesa e sto lì a pensare. Non manco alla messa di Natale al villaggio Don Bosco. Anche a Pasqua».

Il cristianesimo ha lo stesso destino delle sale cinematografiche?

«Ah ah ah, speriamo di no».

 La Verità, 25 giugno 2022

Altro Oscar a Sorrentino? Magari anche no

Con tutto il rispetto, abbiamo già dato. Al cinema di Fellini, a Napule è di Pino Daniele, al calcio di Diego Armando Maradona. Con tutto il rispetto, Paolo Sorrentino ha già avuto: l’Oscar per il miglior film internazionale a La grande bellezza. Da allora abbiamo visto Youth, le serie sui papi, Loro in due parti. È stata la mano di Dio è un’opera più personale e intima, meno estetizzante e gigiona. Tra la «realtà scadente» di Fellini e la «creatività e la fantasia falsi miti» di Antonio Capuano, quale sia la scelta del regista partenopeo è chiaro dalla prima scena: una «giunonica» Luisa Ranieri sale sulla Rolls Royce di un distinto signore che si spaccia per San Gennaro. Stavolta però Sorrentino dosa i sogni perché c’è di mezzo la sua adolescenza, segnata dalla perdita dei genitori. Meglio sbizzarrirsi nel grottesco vesuviano, antipode immaginario di Gomorra. Se la realtà è scadente, meglio il cinema: così Fabietto diventa Fabio e vede pure ’o monaciello che porta bene.

È stata la mano di Dio rimarrà bello e riuscito anche senza Oscar. È entrato nella short list, può infilarsi nella cinquina. E, nonostante Scompartimento n. 6 e Il capo perfetto, può agguantare la statuetta, ribadendo il cliché dell’Italia «molto pittoresca» che piace non solo a Hollywood. Sorrentino sta nell’Olimpo, vicino a Roberto Mancini e Mario Draghi. Dissentire dal secondo Oscar è una sassata contro la vetrina. È non rassegnarsi all’ovvietà di Maradona miglior calciatore di sempre. Io gli ho sempre preferito Johan Cruijff. Portate pazienza.

 

Oggi, 30 dicembre 2021

Oggi mi ha chiesto di fare il controcanto a Paolo Mereghetti, critico cinematografico del Corriere della Sera, a proposito della candidatura di È stata la mano di Dio come miglior film internazionale.

 

«Se vince il politicamente corretto addio risate»

Ebbasta co’ sto politicamente coretto. Basta, ne abbiamo le palle piene, nun se ne pò più… Sta diventando ’na patologgìa». Era una tiepida sera di fine agosto e in piazza San Cosimato a Roma si parlava di Alberto Sordi e del suo cinema nel centenario della nascita. Dopo la proiezione de Lo scapolo (1955), il regista Francesco Zippel aveva chiesto a Carlo Verdone se secondo lui era più facile fare cinema negli anni Cinquanta e Sessanta o adesso.

E lei che cosa gli ha risposto?

«Che forse era più facile allora, per tanti motivi. Innanzitutto, perché il periodo storico offriva molti spunti. Uscivamo dal dopoguerra, iniziava il boom economico, poi ci fu l’avvento del terrorismo. Sordi era stato protagonista della rappresentazione del boom. Poi, con Un borghese piccolo piccolo, tratto da un romanzo di Vincenzo Cerami, lo diventava anche dei nuovi conflitti. Il cinema di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Nino Manfredi poteva attingere alla narrativa… Piero Chiara, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda… Noi questa letteratura non ce l’abbiamo. In compenso, abbiamo un altro problema…».

Ovvero?

«Sembriamo sceneggiatori liberi e indipendenti. Invece, se diamo retta alle regole del politicamente corretto, proprio tanto liberi non siamo».

Racconti.

«In questo periodo sto scrivendo la sceneggiatura di Vita da Carlo, una serie in parte autobiografica in dieci episodi per Amazon Prime. Bene, ogni giorno con i miei collaboratori dobbiamo fermarci per qualche parola impronunciabile o qualche tabù inviolabile. È uno stillicidio. Spesso si riesce ad aggirare l’ostacolo, salvando la battuta magari un filo scorretta, ma che fa scaturire la risata. Altre volte non ci riusciamo… Questa pressione è un errore micidiale perché con l’andar del tempo faremo sempre meno ridere. Questo non si può dire perché s’incazzano quelli, quest’altro nemmeno perché s’incazzano l’altri. Ci dobbiamo continuamente autocensurare. È un fenomeno che arriva al cinema, ma attraversa tutta la società. Non c’è giorno che non resti basito per la protesta di qualcuno».

L’ultimo caso?

«L’altro giorno ho letto quello che è capitato alla popstar Adele in occasione del carnevale di Notting Hill (una tradizione londinese nata da cittadini di origine caraibica che quest’anno non si è festeggiata causa Covid ndr). Ognuno dovrebbe potersi mascherare come gli pare… Adele, che è dimagrita, ha postato una foto in bikini con i colori giamaicani e si è acconciata con le treccine. Prima si è beccata le proteste degli obesi, tipo: hai voluto dire che noi grassi siamo schiavi, non tutti hanno i soldi per il dietologo come te… Poi si sono scatenati quelli che difendono l’appartenenza culturale: con quell’acconciatura ti sei burlata della nostra etnia, ma tu sei bianca…».

Ha definito il politicamente corretto è una patologia. A quando risalgono i primi sintomi?

«Credo che tutto sia iniziato da Woman is the nigger of the world, una canzone di John Lennon e Yoko Ono del 1972. All’epoca era giusto cominciare a difendere le donne e pure mettere i puntini sulle i sul modo di chiamare i negri. D’accordo, li chiameremo in un’altra maniera: neri, colored…».

Ricordandoci che esiste anche la negritudine.

«Esatto. Il problema è che quelle istanze in partenza giuste sono state esasperate fino ad assumere toni dittatoriali».

Una dittatura che pesa molto nel cinema?

«Il Festival di Berlino ha abolito l’Orso d’argento per le interpretazioni maschile e femminile, istituendo il premio neutro-gender. Un cedimento incredibile, inventato per non offendere chi non si sente maschio o femmina. Questa è una nuova frontiera. Una mia amica progressista si è presa un pistolotto da una persona che lei aveva chiamato con il pronome she. In quanto polisessuale, si rifiutava di essere catalogata al femminile e pretendeva di essere chiamata con they. Capisce?».

L’anno scorso alla Mostra di Venezia Lucrecia Martel, presidente della giuria, contestò la presenza in concorso di Roman Polanski: i festival del cinema un tempo laboratori anticonformisti si stanno trasformando in luoghi di omologazione?

«Fortunatamente Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, ha espresso molte perplessità nei confronti della decisione del Festival di Berlino. Mi sembra che tutto nasca da un atteggiamento post femminista estremo e non dialogante. Da un moralismo proveniente dall’America talmente radicale da paralizzare l’espressione creativa».

Restando in America, il cinema di Clint Eastwood meriterebbe più attenzioni?

«È un cinema che racconta un’anima autentica di quel paese. Eastwood sembrerebbe un conservatore, e sicuramente lo è, ma ben analizzati i suoi lavori mostrano più tolleranza di quelli di altri registi schierati. Credo che la stima nei suoi confronti sia unanime o quasi».

Perché questo moralismo trova terreno fertile nella critica cinematografica?

«Perché è una critica tendenzialmente radical chic, molto intellettuale, spesso espressa da donne con qualche frustrazione. Una conseguenza di ciò che è successo al povero George Floyd è stato censurare un film come Via col vento. Sono decisioni infantili, i film vanno contestualizzati. C’è la mamy di colore… Via col vento è una bandiera di Hollywood. Con questo criterio prendiamo le opere dei futuristi e le buttiamo al macero perché alcuni degli autori simpatizzavano per il fascismo. Oppure abbattiamo i monumenti fatti erigere da Diocleziano».

Da Un sacco bello a Benedetta follia: quali scene dei suoi film sono state contestate?

«Ricordo una volta, il trailer di Io e mia sorella. Io stavo sempre al telefono al posto di Ornella Muti. Nel trailer dicevo a un suo amante che lei non era in casa, ma quando usciva dalla vasca da bagno mi subissava: come parli? T’impappini che sembri un handicappato… o uno spastico; non ricordo bene. Fatto sta che arrivò la lettera di un’associazione di portatori di handicap che minacciava denuncia. Di notte, a tempo di record, prima che il film uscisse, cambiai la battuta e mi salvai».

Certi film oggi non riuscirebbe a farli?

«Forse Viaggi di nozze, di sicuro Gallo cedrone. Il rimorchiatore che guarda il culo di una ragazza e commenta “chi te l’ha scolpito quel fondoschiena, Michelangelo? Stava in forma quel giorno”, non passerebbe il vaglio di questi censori. Per il resto sono sempre stato rispettoso delle donne. Tutte le attrici che hanno recitato con me sono state valorizzate e hanno conquistato premi e riconoscimenti».

Il politicamente corretto è una questione che riguarda il linguaggio o il complesso di superiorità di certi ambienti?

«È un moralismo da salotto, un po’ costruito, frequente in ambienti alto borghesi. Invece di dire “cameriere” o “domestico”, dicono “l’indianinio” o “il filippinetto… te lo faccio portare dal filippinetto”».

Si teme di offendere certe minoranze?

«Una misura ci vuole, ci mancherebbe. Ma se iniziano a comandare certi ayatollah addio leggerezza. Oggi la scena di “lavoratori!” de I vitelloni non si potrebbe girare».

Quindi c’era molta più libertà creativa allora?

«Erano film al maschile, là sì la donna era l’oggetto del desiderio. Se si eccettuano Franca Valeri, Monica Vitti, Mariangela Melato e poche altre, in gran parte le attrici erano prese per quanto erano belle, e spesso cornificavano. Si rideva della nostra immoralità, del nostro sbracamento sentimentale».

Scoppiò una guerra di religione per La dolce vita che portò al licenziamento di suo padre da un giornale.

«Però fortunatamente intellettuali come Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Tullio Kezich si schierarono in difesa del film e un certo bigottismo democristiano polveroso non vinse. Tutti la vedevano Via Veneto, come si poteva definire pornografia pura La dolce vita? Anche nel mondo cattolico, padre Nazareno Taddei e il cardinale Giuseppe Siri lo difesero».

Che idea si è fatto del movimento #Metoo?

«È stata una goccia che ha riempito ancora di più il vaso. Una vicenda traumatizzante. Da una parte lo appoggio perché qualcuno si è comportato molto, molto male. Dall’altra, alcune ragazze non potevano non sapere che certi produttori avevano determinate riprovevoli abitudini. Dopo le denunce delle prime, altre si sono accodate per avere risarcimenti e notorietà. Ora stiamo scoprendo che Jeffrey Epstein era peggio di Harvey Weinstein. Un attore del carisma di Kevin Spacey non può più lavorare perché ha la sfortuna di essere americano e non si è salvato nemmeno con la residenza britannica. Noi che siamo un popolo cattolico e viviamo in un Paese nel quale il Papa è seguito, abbiamo quasi santificato Pasolini».

Lei riabiliterebbe Spacey?

«Mi chiedo se sia giusto cancellare definitivamente un attore così a causa di azioni che hanno compiuto tanti altri. Tanti registi si portavano i ragazzi nello yacht. Se si legge Hollywood Babilonia non si salva nessuno. Ma quegli attori, registi e attrici non sono stati toccati, forse perché il politicamente corretto non era ancora in voga».

Alberto Sordi è la figura che l’ha maggiormente influenzata?

«Più ancora mi hanno influenzato i primi film di Fellini: Lo sceicco bianco, Il bidone, La dolce vita, I vitelloni. La messa in scena della coralità, i personaggi minori, caratteristi come Leopoldo Trieste mi hanno fatto amare presto il cinema. Credo che Fellini sia stato il più grande psicologo che il cinema abbia avuto».

Quando si è scoperto fotografo delle nuvole?

«Sono vent’anni che fotografo il cielo e metto tutto in un hard disk. Era un hobby privato. Quando Elisabetta Sgarbi ne ha letto in un’intervista e mi ha detto che voleva vederle per la Milanesiana, mi sono messo a riguardarle e gliene ho mandate venti. Ha insistito per vederne altre, le ha mandate a dei critici e alla direttrice del Museo Madre di Napoli, dove ora sono esposte. È una passione che nasce come reazione a un lavoro nel quale sono sempre in rapporto con le persone e inquadro continuamente dei volti. Qui rivolgo l’obiettivo verso l’alto, nel silenzio assoluto, da solo. Se qualcuno mi chiede dov’è la mia anima, lo invito a guardare quelle fotografie. Ci sono il cielo, le nuvole, il vento, i colori, la ricerca di Dio. Non sono immagini malinconiche, ma preghiere senza parole. Carezze».

Ci rivela un tic, un segreto, qualcosa che fa incazzare Carlo Verdone?

«Mi fa incazzare l’omologazione che avvolge i giovani. Sono tutti uguali: nei capelli, nei tatuaggi, nel gergo. Nessuno riesce a distinguersi davvero. Se oggi qualcuno volesse raccontare la cafoneria come ho fatto in Grande grosso e Verdone o in Gallo cedrone non riuscirebbe a causa del piattume generale. Poi la realtà mi ha ampiamente superato».

In cosa, per esempio?

«Certi personaggi che sembravano estremi ora sono normalissimi. Una volta all’anteprima di Viaggi di nozze Lietta Tornabuoni (storica critica cinematografica della Stampa ndr) mi venne incontro: “Film bellissimo, Carlo. Ma che esagerazione il ristorante con tutti quei cellulari che squillano”. “Vedrai Lietta, vedrai”».

Il film più bello visto di recente?

«Green book, affettuoso e pieno di grazia, con un Viggo Mortensen strepitoso. E poi Joker, con Joaquim Phoenix: nessuno ha mai interpretato così la follia».

La serie prediletta?

«Braeking beads».

Il libro?

«Durante il lockdown ho riletto Viaggio in Italia di Montesquieu, ritrovandoci ancora cose nuove sul nostro paese».

Che cosa trattiene del periodo di clausura?

«Molti miei amici sono ricorsi agli antidepressivi o agli ansiolitici. Personalmente, ho imparato a bastare a me stesso. Ne ho approfittato per sistemare il soggetto del prossimo film, scrivere la serie e ultimare il mio terzo libro».

Che s’intitolerà?

«Non ha ancora un titolo. Prende spunto dal ritrovamento di uno scatolone sigillato dal mio compianto segretario. Aprendolo, racconto fotografie, oggetti, lettere, intraprendendo un viaggio nel passato intrecciato a racconti del presente. Uscirà nel 2021».

Come Si vive una volta sola, il film rinviato a causa del Covid?

«Esatto. L’abbiamo stoppato e con Aurelio De Laurentiis abbiamo deciso di aspettare la riapertura dei cinema. I film sono fatti per uscire in sala».

Si vive una volta sola vuol dire?

«Non posso anticipare nulla perché il titolo è legato a un colpo di scena finale».

Come vede l’Italia al tempo della pandemia?

«Mi preoccupano alcune persone di governo inadeguate. Una sorte che ci accomuna alla Gran Bretagna, la Spagna, la Francia… Noi, con tutti gli errori che sono stati fatti per esempio a Bergamo e Brescia, ci siamo arrangiati. L’altra cosa che mi preoccupa è il futuro delle giovani generazioni, l’assenza di lavoro. Mi piacerebbe molto poter allenare il talento dei ragazzi. Temo che tra poco si troveranno a pagare le conseguenze di una crisi spaventosa».

 

La Verità, 5 settembre 2020