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«I migranti cercano cibo e non vogliono integrarsi»

Per Ferdinando Camon la Francia è stata quasi una seconda patria. Fino a qualche anno fa la frequentava assiduamente. Andava a Parigi per presentare i suoi libri, sistematicamente tradotti dalla prestigiosa Gallimard. Il suo La malattia chiamata uomo è stato rappresentato per quattro anni in un teatro della Ville Lumière. Oggi che i lumi si spengono sotto la guerriglia delle terze e quarte generazioni d’immigrati, l’autore di Un altare per la madre, tutt’altro che un romantico dell’integrazione, è turbato dalle rivolte ma ribadisce la sua gratitudine al Paese che, forse, l’ha fatto più conoscere nel mondo: «Amo la Francia, la cultura, l’editoria, la vita francese. La considero una civiltà mondiale».

Il suo ultimo libro, Son tornate le volpi (Apogeo), indugia sulle difficoltà dell’integrazione e dei modelli multietnici perseguiti in Europa. Perché è scettico su questa possibilità?

«Le migrazioni che sono in atto in Italia e in Francia hanno un carattere più economico che culturale. Coloro che arrivano non vogliono integrarsi, vogliono mangiare, alimentarsi, avere cibo. Quindi, le integrazioni, in sostanza, non esistono».

Tutti i suoi libri sono stati tradotti in Francia dalla prestigiosa Gallimard, pensa che lo sarà anche questa raccolta di poesie?

«Lo vengo a sapere sempre dopo. La Gallimard è un’editrice molto stimata anche da me perché usa questo sistema: quando pensa di pubblicare un libro, francese o no, lo sottopone a tre consulenti, nessuno dei quali conosce gli altri due. Se tutti tre danno parere positivo viene pubblicato; se uno lo dà negativo e gli altri due positivo, lo prende in mano l’editore Antoine Gallimard, che ho avuto il piacere di conoscere».

Ma la pubblicazione?

«Non so se stiano esaminando questa raccolta. Finora hanno tradotto tutti i miei lavori, compreso Dal silenzio delle campagne, un’altra opera in versi. Sono molto grato a Gallimard non solo per le traduzioni puntuali, ma perché, nel mondo, un libro esiste quando viene pubblicato in Francia o in Gran Bretagna. In Canada o in Sudamerica mi leggono in francese, non accadrebbe lo stesso in italiano».

In una delle poesie intitolata Città multietnica tratteggia un capoluogo come potrebbe essere Padova, dove risiede, che si trasforma nelle 24 ore: «Di giorno la città è italiana… A mezzanotte si fa marocchina… Verso le 3 diventa albanese…».

«Con l’andare della notte escono persone che di giorno non si vedono».

Le varie etnie coesistono senza toccarsi?

«Sì, è così. Vedo davanti i supermercati sostare giovanotti accovacciati che non mi parlano e si parlano. Non so cosa facciano. La multietnicità ha a che fare con la separatezza».

Che cosa pensa della rivolta che si è scatenata in Francia a causa dell’uccisione di un ragazzo a Nanterre che non si è fermato a un posto di blocco della polizia?

«È una rivolta che stupisce il mondo, indizio chiaro di una non integrazione. Il problema è che la Francia chiama l’Algeria e la Tunisia “Territori d’oltremare” come fossero parte della nazione al di là del mare. In realtà non è così, algerini e tunisini non si sentono e non vogliono diventare francesi. Si considerano una società separata con proprie religioni, lingue e scuole. Dentro la società francese vogliono restare una società separata e ostile».

I francesi che spesso impartiscono lezioni sono ben disposti all’integrazione? Il loro modello di convivenza è fallito?

«La verità è che i francesi sentono queste persone come estranee. Penso che se dentro quell’auto ci fosse stata una persona bianca il poliziotto non avrebbe sparato. Ma io sono stato ufficiale degli alpini e so che se fai una professione che ti autorizza a portare una pistola 24 ore al giorno, il tuo cervello è catalizzato da quella pistola».

Questa volta gli scontri non si sono limitati alle banlieue, ma hanno invaso i centri delle grandi città.

«In Francia c’è il problema dei sobborghi, aree metropolitane abitate da immigrati che vivono per conto loro. In altri Paesi questa situazione non c’è e questo dà all’insurrezione francese un carattere nazionale, difficilmente comprensibile altrove».

Cosa pensa del fatto che in gran parte i rivoltosi siano ragazzi minorenni, figli e nipoti di immigrati?

«Indica la perpetuità di questa separatezza. Questi ragazzini quando saranno uomini saranno ancora separati e ostili».

Perché la sottoscrizione in favore della famiglia del poliziotto, ora in carcere, ha raccolto molti più fondi di quelli destinati alla famiglia della vittima?

«È un delitto molto grave. Gli immigrati hanno diritto di sentirsi traditi da uno Stato che li ammazza. Il poliziotto che ha sparato dev’essere giudicato. Ma bisognerebbe che la corte che lo processerà avesse componenti immigrati perché, diversamente, potrebbe giudicare in modo parziale».

L’entità della colletta a favore del poliziotto indica che i francesi non si fidano della giustizia?

«Significa che simpatizzano per il poliziotto e non per il migrante ammazzato».

Secondo alcuni autorevoli analisti le cause del malessere sono molteplici e non principalmente economiche e l’uccisione di Nahel è stata solo la miccia.

«Concorrono più cause. Fattori di natura economica, ma anche elementi religiosi, culturali e scolastici. Noi non abbiamo lo stesso problema in Italia, non sapremmo tollerarlo».

Che cosa pensa del fatto che il ministero degli Esteri algerino si è detto «preoccupato per la pace e la sicurezza di cui i nostri connazionali devono beneficiare nel Paese che li ospita»?

«In sostanza, chiedono che tra i giurati chiamati a decidere il destino dei poliziotti che hanno ucciso i migranti ci siano dei migranti. Questo perché Algeria o Tunisia non sono pezzi di Francia d’oltremare».

Prevale l’identità d’origine?

«Sì, non sono e non si considerano francesi, ma vogliono stare in Francia, dove mangiano, lavorano o studiano. E vogliono starci con tutta la loro civiltà, importata dal Paese madre. È questo il problema»

In Francia le diverse etnie vivono in enclave geograficamente separate più che da noi?

«Molto più che da noi. In Italia non abbiamo un problema analogo, gestito in modo analogo. Le banlieue erano posti dimenticati dallo Stato, dove entravano e vivevano i magrebini. Qualcosa di simile ho visto nei quartieri periferici di New York dove stanno i diseredati, i dimenticati. E dove, a una certa ora, è sconsigliato andare perché quei diseredati sono anche malavitosi. Quando esci dal metrò, sulle scale che portano in superficie sostano ragazzi che si alzano in piedi e ti impediscono di uscire ed entrare nei loro quartieri».

Però stavolta bersagli della guerriglia sono stati i municipi, i sindaci e i luoghi dei servizi ai cittadini.

«I rivoltosi vorrebbero che una porzione geografica del territorio fosse riservata a loro. Vivere nelle loro scuole, nelle loro moschee, nelle loro strutture. Questa non è integrazione, ma impianto di una civiltà separata e ostile in un altro territorio. Questo la Francia non lo vuole e da qui nasce lo scontro».

La Francia vuole assimilarli, ma loro non vogliono essere assimilati.

«Vogliono avere quello che hanno i francesi senza diventarlo».

Cosa pensa del fatto che Emmanuel Macron insiste ad accusare i social network?

«È un modo per dire che la protesta nasce dai social. Invece per me nasce dalla realtà».

Più che l’appartenenza all’islam la causa scatenante è l’identità geografica ed etnica delle seconde e terze generazioni?

«Io sono molto marxiano in questo. La causa scatenante è il malessere economico di questi sobborghi, la cui separatezza favorisce l’ostilità e la conflittualità».

Visitandoli durante le vacanze, questi ragazzi sono portati a idealizzare i Paesi di provenienza dei loro padri e nonni?

«Se ho capito bene, il periodo in cui avvengono gli scontri è al ritorno dalle vacanze perché il soggiorno nei Paesi d’origine aumenta la sensazione di diversità dal Paese ospitante».

Il loro legame con i Paesi d’origine è più fragile di quello dei padri e dei nonni, ma loro si sentono orgogliosamente algerini, marocchini e tunisini.

«Fino a qualche anno fa c’erano aree in cui le scuole erano regolate dalle norme del Paese d’origine, i programmi didattici arrivavano dal ministero dell’Istruzione dei Paesi d’origine».

Come giudica l’atto di bruciare pubblicamente il Corano come avvenuto qualche giorno fa in Svezia?

«È un atto incivile. Se entro in una moschea mi levo le scarpe perché rispetto la fede dei musulmani. Alcuni marine americani sono entrati con gli scarponi. Noi abbiamo un Dio incarnato, loro hanno un Dio incartato, che si è fatto carta. Il Corano è il loro Dio, non puoi sputacchiarlo o bruciarlo. Uno dei supplizi inflitti dai militari americani ai musulmani è pisciare sul Corano davanti a loro. Un islamico preferisce morire piuttosto che assistere a un atto del genere. Il loro Dio si è fatto carta, non puoi bruciarlo in segno di disprezzo. Non fa parte del consesso civile chi compie un gesto simile».

Che cosa mette al riparo l’Italia dalla possibilità che avvenga anche qui ciò che è accaduto in Francia?

«Il fatto che non abbiamo avuto un impero coloniale e quindi non abbiamo avuto lo stesso problema con Stati vasti numerosi e potenti che chiedono di proseguire questo rapporto. Con la Libia e la Somalia sono stati firmati dei trattati per i quali l’Italia manda insegnanti e docenti, per altro ben pagati, che seguono le norme ministeriali della Libia e della Somalia».

Con l’immigrazione clandestina in costante espansione non rischiamo niente?

«Certo che sì. I clandestini che arrivano oggi hanno bisogno di tutto e non possono dare nulla. Non vengono per una pacifica scelta o un capriccio. Vengono perché scelgono tra il vivere e il morie. Non sono favorevole all’immigrazione indistinta. È un problema che va affrontato, ma non lo affrontiamo. Va risolto, ma non lo risolviamo».

L’idea del ricollocamento in Europa sembra aver fallito, l’unica possibilità è realizzare accordi con i Paesi di provenienza?

«Nessuna parte dell’Europa vuole gli immigrati clandestini, anche perché non sanno fare niente. Ne ho parlato con un amico marocchino: se dai loro un martello e un chiodo ti chiedono che cosa sono. Se arrivassero sapendo fare i falegnami o i fabbri, mestieri che gli europei non fanno più, il problema sarebbe risolto. Ma non li sanno fare. C’è una fetta di umanità che sta male, il resto dell’umanità che sta meglio deve farsene carico. Usando la politica».

 

La Verità, 8 luglio 2023

Camon, lo straniero della globalizzazione

L’estate scorsa, quando andai a salutare Ferdinando Camon in un paesino della Val Zoldana dove ha una casa che guarda il Pelmo, lo trovai contrariato. Era il primo anno che non se la sentiva di guidare e, per andare a comprare i giornali, ricorreva all’autostop. Si metteva sul ciglio della strada e agitava la mano, gesto che i più scambiavano per un saluto, ma prima o poi qualcuno si fermava. Solo dopo qualche giorno di questa trafila si era rassegnato ai tempi della corriera. In questo buttarsi di slancio, quasi con la semplicità di un bambino anche a 87 anni, si origina molta della sua produzione letteraria. Per Camon il rapporto con la realtà è corpo a corpo, confronto senza mediazioni, non di rado conflittuale. Sempre, comunque, significativo. In quella casa di montagna l’autore padovano ritrova le condizioni propizie alla scrittura di cui il caldo della sua città lo priva. Poi c’è la sagoma del Pelmo: «Lei adesso mi vede vecchio e malandato», raccontò, «ma ho fatto il militare da ufficiale degli alpini su quella montagna. Per salire in vetta bisogna superare una cengia larga 35 centimetri, esposta su uno strapiombo. Si deve strisciare sulla pancia, perciò si chiama Passo del gatto. Si guarda la roccia che, fino a un paio d’anni fa, era tempestata di foto di ragazzini che non guardavano la parete ma l’abisso, e sono caduti. Passavi la cengia con il naso su quei volti…».

Da questo sguardo ravvicinato scaturisce il realismo di Camon, la sua tempra. Sia che si esprima in prosa, nella saggistica, sui giornali o in poesia. Come nell’ultimo Son tornate le volpi. Come muore la nostra civiltà, pubblicato dalla Apogeo di Paolo Spinello e Sandro Marchioro. È una raccolta di una cinquantina di liriche, altrettante visioni scabrose, spigoli della quotidianità, lacerazioni del vivere al tempo della globalizzazione. Lontano dalla poesia ombelicale, tuffata nelle grotte della psiche, come pure da quella civile che si auto-investe della riparazione del mondo, i versi di Camon guardano fuori, si misurano con le pareti scoscese senza risparmiarsi il rovello del dubbio. Anzi, accettando tutta la complessità di questa verifica, foriera di moti di ribellione all’indifferenza, alla rassegnazione… Autore pasoliniano, quale si definisce – Pasolini scrisse la prefazione a La vita eterna, il suo primo romanzo, scritto per vendicare il destino dei partigiani contadini delle sue terre, fatti uccidere dal capo delle SS, scoperto in Germania proprio grazie a quel libro, appena tradotto in tedesco – Camon ama intervenire sui fatti di cronaca, soprattutto là dove si palesa la contraddizione. Sempre con quel marchio dell’incontro-scontro, impresso nel carattere fin da bambino: «Sono figlio di contadini poveri. In casa, io e i miei tre fratelli, mio padre e mia madre camminavamo a piedi nudi sulla nuda terra». Questo universo di povertà e carne viva, di asperità e attriti, Camon l’ha raccontato in Un altare per la madre, la sua opera più famosa (premio Strega 1978), tradotta in venticinque Paesi. Era, quello stesso libro, un monumento alla famiglia, alla madre e al padre che, lottando contro la morte, le eresse quell’altare. Invece, per causa di quel racconto, suo padre decise di diseredarlo. Si presentò con suo fratello, il notaio e due testimoni. E Camon firmò l’atto: «Li ho capiti, li capisco. Per loro, scrivendo della nostra povertà ho disonorato la famiglia, il nostro sangue. C’è la famiglia e c’è il resto del mondo. La famiglia è più importante di un libro».

Oggi che cambia tutto, il capitalismo, il cristianesimo, la società, come si fa a non essere tormentati? Camon è orfano della civiltà contadina, la cui scomparsa, per Charles Péguy, «è il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo». L’altro lutto che si porta dentro è la morte del vecchio cattolicesimo. Perciò, come osserva Emilio Manco nella prefazione di Son tornate le volpi, «qualunque cosa giudichi… sotto-sotto si vendica sempre del suo lutto», di questa doppia condizione di orfano, facendola pagare ai lettori. «Prima di tutti la pago io», ribatte. «Sono stato formato da piccolo per vivere tutta la vita dentro una verità, ma così non è. Patisco molto la metamorfosi del sacro». In quel sistema di giornate e stagioni scandite dalla fede si componeva anche la povertà: sublimata, trasfigurata. Per uno così sarebbe finzione credere alle chimere del pensiero corrente. Dunque, svelarne vuoti e tradimenti non è vendicarsi di una doppia privazione, ma un desiderare schietto, senza infingimenti. «Sono un narratore della crisi», dice di sé. «Racconto il prezzo del progresso». Del capitalismo darwiniano, della globalizzazione selettiva, del mercatismo finanziario. Che vagheggiano integrazioni, sempre incompiute. Sostenibilità inseguite, quasi sempre a vantaggio delle élite. Democrazie digitali stratificate. Il risultato sono scarti, frange di sconfitti, escrescenze criminali, metastasi di scorie…

In Son tornate le volpi le stazioni ferroviarie diventano ricoveri di un’umanità perduta. Fuori da Roma Termini o da Torino Porta Nuova ci s’imbatte nei barboni a terra. Camon se li porta nei pensieri. «Di sera i barboni/ s’addormentano di botto/ tra due cartoni,/ uno sopra e uno sotto./ Li leccano i cani/ con la lingua rosetta,/ li scansano i cristiani/ che vanno di fretta…». I drogati finiscono la giornata dentro vagoni-ospedale. «Di notte sui binari/ morti vanno i treni fuori servizio:/ senza il permesso dei funzionari/ vi salgono giovani perduti nel vizio:/ Bevono intrugli/ di lattine,/ birra,/ coca,/ rimasugli/ lasciati dai viaggiatori…».

È poesia sociale e dell’irrisolto, del non sentirsi a posto. Solcando i margini della globalizzazione e scontornandone le contraddizioni, più che proporli, Camon allerta modi differenti di guardarle. E ci mostra scafisti albanesi che solcano il Mediterraneo con motori da 6.000 di cilindrata, suore arrestate per favoreggiamento della prostituzione, immigrate che spengono la cicca sul piede di un bimbo per farlo piangere quando si avvicina «un borghese dalla faccia cortese» che «ci casca e mette la mano in tasca». Accettare il cinismo, le derive e i soprusi per la sopravvivenza vuol dire razionalizzarli e perpetrarli? Ammettere la resa dei poveri e l’assenza di soluzioni dei ricchi vuol dire arrendersi alla sconfitta? Ci si dibatte tra pietà e giudizio, tra consolazione e accusa. Su tutto domina la paura: dell’estraneo, del diverso, dell’ignoto. Perché, finora, tra i bersagli mancati dal progresso c’è l’integrazione. La «città multietnica» di giorno «è italiana,/ operai, impiegati, studenti, donne./ Di sera diventa nigeriana,/ presidiata dai racket della prostituzione./ A mezzanotte si fa marocchina…». Alla lunga, osserva lo scrittore padovano, «questa integrazione sarà obbligata dal contatto e dalla convivenza». Ma non si dà pace che avvenga penalizzando la cultura di chi ospita: «Ormai negli ospedali/ ci son più mussulmani che cristiani,/ e l’associazione dei diritti umani/ alza la voce:/ via dalle stanze la croce». Così il paziente arabo s’inginocchia rivolto alla Mecca e invoca il suo Allah, mentre il paziente cristiano si volge alla parete vuota e vede la vernice più bianca dove manca il crocifisso: «Questo lo rende muto:/ è la prova che il suo Dio ha perduto».

Questa terza raccolta poetica, dopo Liberare l’animale (Premio Viareggio) e Dal silenzio delle campagne, entrambi con Garzanti, è stata presentata senza troppe illusioni alla prima edizione del Premio Strega Poesia. «Sono sempre andato allo sbaraglio, per di più non sono romano», dice. «E poi lo Strega l’ho già vinto. Quella volta con me c’era Piero Gelli, il direttore editoriale della Garzanti dell’epoca. Sapevo che Livio, che per me era quasi un fratello, era a Roma… Terminato lo spoglio, Gelli sparì cinque minuti e tornò con lui che se n’era rimasto nascosto in un bar poco distante. A mia moglie mostrò la prenotazione di due posti per una crociera ai Caraibi. Era il suo modo di compensare la probabile sconfitta. Invece… Indovini che cosa disse mia moglie, ridendo».

 

Poesia nuova serie n. 19, maggio/giugno 2023

I contrasti elementari nell’integrazione di Zero

Molta cura della confezione, una spruzzata di mistery, qualche luogo comune e tanta promozione: da un paio di giorni sono visibili su Netflix gli otto brevi episodi di Zero, la prima serie italiana con protagonisti giovani neri, italiani di seconda generazione, ispirata dal romanzo Non ho mai avuto la mia età (Mondadori) di Antonio Dikele Distefano. L’obiettivo dichiarato è raccontare «un futuro di inclusione e di valorizzazione della differenza». Zero è il soprannome di Omar (l’esordiente Giuseppe Dave Seke), preso dal numero sulla maglietta di basket che indossa quando inforca la bici da rider o gira con gli amici del «barrio», tra i quali la più tosta è Sara (Daniela Scattolin), casualmente l’unica ragazza del branco. Oltre a una certa timidezza, Omar ha il superpotere di diventare invisibile, soprattutto quando c’è da aiutare la gente che sta lì e non vuole andarsene nonostante i frequenti e misteriosi incidenti. Perché in quel quartiere, in fondo, hanno messo «radici», c’è solidarietà, ci sono le feste con il cous cous e i ragazzi, va detto, sono tutti di bell’aspetto, con occhi grandi, e le felpe, le t-shirt e i rasta giusti. Pure troppo, verrebbe da dire, considerato che, a parte lui, non si capisce bene gli altri come sbarchino il lunario. Le pizze di Sandokan invece devono essere superlative se, dalla periferia, Omar le consegna persino nell’attico con piscina di City Life dove vive Anna (Beatrice Grannò), aspirante architetto che ha appena rotto con il suo ganzo. Tra loro la scintilla scocca immediata e così la favola può cominciare, nonostante qualcuno abbia provveduto ad appiccare un incendio nella pizzeria e a sabotare la centralina elettrica del quartiere. E proprio mentre sui muri compaiono le affissioni dell’azienda immobiliare che promette di trasformare la zona nel nuovo Eden. Sta a vedere che i fatti sono collegati…

Prodotta da Fabula Pictures con Red Joint Film, creata da Menotti e diretta da quattro diversi registi, Zero è una favola sentimentale che vuole essere anche sociale, con una trama elementare e un filo prevedibile. Che mostra una Milano da cartolina, giocata sul contrasto tra il quartiere popolare e genuino e le avveniristiche location di party ed eventi snob, senza dimenticare i Navigli e la Galleria deserta di notte. Una storia con strani innesti animisti, nella quale i buoni sono tutti da una parte, certi poliziotti sono venati di razzismo e l’imprenditore è losco e corrotto. Tutto condito dal rap di tendenza, da Mahmood a Marracash, perfetto per accompagnare un’integrazione un tantino patinata.

 

La Verità, 23 aprile 2021

La Loren torna in un film sulle orme di Romain Gary

Ci voleva un’idea speciale per riportare Sophia Loren sul set alla bellezza, ancora riconoscibile, dei suoi 86 anni. La trasposizione cinematografica di La vita davanti a sé di Romain Gary (Neri Pozza) per la regia del figlio Edoardo Ponti lo era. Uscito nel 1975, questo straordinario romanzo ambienta nella banlieue parigina di Belleville la storia di Momò, bambino arabo adottato da Madame Rosa, ex prostituta ebrea che si prende cura, a pagamento, dei figli delle sue colleghe più giovani, impossibilitate ad accudirli. Nel 1978, interpretato da Simone Signoret e diretto da Moshé Mizrahi, il film conquistò l’Oscar come miglior opera straniera. Nell’adattamento di Ponti e Ugo Chiti, la storia (dal 13 novembre su Netflix) trasloca negli attuali sobborghi di Bari, dove Momò (il bravo esordiente Ibrahima Gueye), senegalese di religione islamica ha 12 anni, uno sguardo tagliente e quell’irrequietezza che costringe il medico che lo ha in affido (Renato Carpentieri) a rivolgersi all’ex prostituta (Loren) sfuggita all’Olocausto. Fare da madre ai «figli di puttane» è il nuovo modo di mantenersi di Madame Rosa, ma quel ragazzino già reclutato dal racket dello spaccio, le dà parecchio filo da torcere. Non resta che trovargli un lavoretto come aiutante di Hamil (Babak Karim), l’amico ebreo proprietario del bazar di tappeti e tabacchi. Così, poco alla volta, tra Momò e Madame Rosa s’instaura un rapporto di complicità che responsabilizza il ragazzino fino al capovolgimento dei ruoli, trasformandolo in colui che si prende cura della vecchia donna.

Sostenuto da una buona fotografia e dalla recitazione della Loren che appare la più convinta dell’operazione, per la quale, non a caso, c’è già chi parla di candidatura all’Oscar, il film ha il merito di narrare senza forzature ideologiche una storia d’integrazione multietnica tra un’ex prostituta ebrea e un bambino musulmano, sullo sfondo di un paese cattolico. Pur senza saperne riprodurre la freschezza, la mossa corretta degli autori è esser rimasti fedeli a quel romanzo, scritto in stato di grazia. All’epoca, quando uscì in ampio anticipo sull’opera di Daniel Pennac (residente a Belleville) e sugli scrittori dell’immigrazione araba, i problemi di convivenza e di gestione dei flussi migratori non erano così drammatici come sono poi diventati. E Gary riuscì con il suo talento a rendere lo sguardo stupito del bambino che si apriva a quella vita, brulicante di differenze e complicazioni, senza sconfinare in moralismi e sociologie. Che avrebbero inquinato l’innocenza del protagonista e ridimensionato l’originalità del romanzo.

 

La Verità, 15 novembre 2020

Skam racconta il difficile equilibrio dell’integrazione

Alla quarta stagione, finalmente Skam Italia ha trovato il suo equilibrio. Un equilibrio proiettato in avanti e che abbraccia anche i contenuti, aldilà del fatto che siano condivisibili o meno. Il teen drama rivelazione degli ultimi anni, accolto come il miglior remake dell’edizione norvegese, ha sempre avuto nella sceneggiatura, nella brevità degli episodi, che facilita la visione d’un fiato, e nella sensibilità con cui racconta l’universo dei liceali romani alle prese con amori, turbamenti e incertezze i suoi punti di forza. Merito di diversi fattori, dalla produzione alla libertà concessa da TimVision e Cross Productions. In particolare, merito del controllo di scrittura e cinepresa palesati dallo showrunner Ludovico Bessegato, sceneggiatore e regista delle prime due stagioni, e tornato, dopo la pausa nella terza, a condurre la quarta, disponibile dal 15 maggio sia su TimVision che su Netflix in forza della nuova collaborazione.

Dopo Eva (Ludovica Martino) nella prima, Martino (Federico Cesari) nella seconda ed Eleonora (Benedetta Gargari) nella terza, in questa stagione la storia è narrata con lo sguardo e i sentimenti di Sana (Beatrice Bruschi), una ragazza musulmana praticante, italiana di seconda generazione. Lo stile di vita del gruppo di amiche si rivela spesso incompatibile con le regole della sua religione. Conciliarle è tutt’altro che facile e in più di qualche occasione il prezzo che dovrà pagare Sana, raccontata intelligentemente non come la buona della situazione, sarà quello di una certa solitudine. A conferma della difficoltà di trovare l’equilibrio dell’integrazione ci sono anche le critiche piovute sulla serie per la piccola trasgressione in cui la ragazza accetta di mostrarsi senza l’hijab, atto proibito davanti a persone di sesso maschile, a due amici gay. Tematiche complesse, dunque. Per affrontare le quali Bessegato si è avvalso della consulenza alla sceneggiatura di una sociologa e scrittrice musulmana. Aldilà del merito, bisogna riconoscere il coraggio per il rischio, forse un po’ mancato nelle prime tre stagioni, lievemente claustrofobiche nel rappresentare amori (anche omosex), balli e sballi del gruppo di amici, tutto feste e Instagram. Una fotografia realistica della generazione zero, priva di punti di riferimento. Un universo sentimentale ben raccontato. Nel quale, curiosamente, gli adulti sono completamente irrilevanti. Non c’è traccia di sport e di politica. E i colpi di scena derivano dalle rivelazioni degli smartphone, scrigno inviolabile di segreti come in altre epoche erano i diari.

 

La Verità, 26 maggio 2020

«Imparare la lingua, via obbligata per integrarsi»

Antonia Arslan è una donna minuta con tanta storia sulle spalle. A ottant’anni è piena di energia. Viaggia molto. Incontra i giovani nelle scuole. Presiede un centro culturale. Nel suo libro più noto, La Masseria delle allodole (Rizzoli, 2004) – 38 edizioni, traduzioni in tutto il mondo e la trasposizione cinematografica di Paolo e Vittorio Taviani – ha raccontato le violenze subite dagli armeni durante lo sterminio del maggio 1915. Nell’ultimo, La bellezza sia con te, insiste sul «coraggio di vedere il bicchiere mezzo pieno». Il palazzo dove vive nel centro storico di Padova fu acquistato dal nonno nel 1930 ed è tuttora di proprietà della famiglia. Adiacente c’è la sede del centro culturale La casa di cristallo, dove ci incontriamo.

Il genocidio degli armeni ha un giorno della memoria?

«Il 24 aprile, il giorno prima della festa della Liberazione italiana. Si ricorda la notte in cui vennero prelevati i capi della comunità armena di Costantinopoli dai Giovani turchi».

È vero che la parola genocidio è bandita?

«In Turchia la parola soykirim (genocidio ndr) è bandita. Parlare di genocidio è un oltraggio allo Stato. Fino a qualche tempo fa era una sottigliezza mediorientale. Da quando è arrivato Recep Tayyp Erdogan, se ne parli offendi la Turchia. Ribattono: i tedeschi sì hanno attuato un genocidio, noi siamo un popolo corretto, come potremmo averlo commesso?».

Chi ne parla subisce sanzioni?

«In Turchia i giornalisti sono in prigione, le libertà sono soppresse. La politica dello Stato turco è improntata al negazionismo sebbene il genocidio sia provato al 95%».

Il popolo armeno è un popolo troppo docile?

«Se hai perso l’indipendenza da un millennio sopravvivi in base all’appartenenza religiosa che ti dà un’identità più mite, ma anche più veritiera. Ti devi piegare come cristiano all’interno dell’impero ottomano dove si professa la religione musulmana. All’inizio convivevano greci, bulgari, serbi e armeni. Poi i Giovani turchi decisero di sopprimere le minoranze, sfruttando la Guerra mondiale per mimetizzare le loro azioni».

Prima della Masseria delle allodole si era mai parlato del genocidio armeno?

«Franz Werfel, letterato austriaco ebreo, aveva scritto I quaranta giorni del Mussa Dagh».

Perché ha atteso tanto prima di scriverlo?

«Perché non mi sentivo matura per farlo. Non ci pensavo proprio. Avevo questa storia che mi aveva raccontato mio nonno Yerwant e ogni tanto ne parlavo con amici… Quando mi sono appassionata alle poesie di Daniel Varujan sono entrata nella realtà di questo popolo perduto».

È una cronistoria piena di particolari.

«È un romanzo, non la testimonianza di un sopravvissuto. La storia e i protagonisti sono veri. Sempad era il fratello minore di Yerwant, ma non aveva la sua energia. Mio nonno è arrivato qui a 15 anni, poi è andato in Francia ed è diventato chirurgo. È stato uno dei fondatori della scuola di otorinolaringoiatria italiana».

Come si colloca nella letteratura italiana d’inizio secolo?

«Tecnicamente è un romanzo storico, soprattutto se lo si vede insieme a La strada di Smirne che è la seconda parte di un’unica storia. Mi piacerebbe pubblicarli insieme».

Compongono un’epopea familiare.

«Di una famiglia armena quasi distrutta, ma nella quale qualcuno si salva. Nel personaggio di Nazim volevo rappresentare il fatto che non sempre siamo o buoni o cattivi. Più spesso adottiamo comportamenti ambigui».

Siamo più grigi che o bianchi o neri?

«C’è un modo manicheo di ragionare; anche nelle scuole. Per esempio, si celebra la Giornata della memoria, ma poi tutto finisce lì. Per due settimane parliamo della Shoah, i ragazzi vanno in gita ad Auschwitz, ma i comportamenti antisemiti continuano. Dachau era a venti chilometri da Monaco e i tedeschi sapevano che cosa accedeva. Nelle università italiane quanti professori hanno accettato senza batter ciglio le cattedre lasciate libere dagli ebrei perseguitati».

Essendo di origine armena ha insegnato a lungo Letteratura moderna e contemporanea all’Università di Padova. Che cos’è per lei l’integrazione?

«Sono italiana e non posso esprimermi che in italiano. L’integrazione la vedo di più in mio padre e in mio nonno. Per me la parte armena è stata una riconquista iniziata a una certa età».

Perché suo nonno fece modificare il cognome?

«Lo chiese al Regno d’Italia, nel 1923. Ho trovato il documento in cui viene concesso al professor Yerwant Arslanian di tagliare le ultime tre lettere. Era così angosciato da quello che era successo alla sua famiglia da chiedere di cambiarlo. Prima aveva dato ben quattro nomi armeni a ognuno dei suoi figli. In Veneto Arslan può risultare un cognome locale».

Oggi l’integrazione è possibile come allora?

«Ripeto spesso la frase di Charles Aznavour: “Io sono al 100% francese e al 100% armeno”. Una volta arrivati in un Paese gli armeni imparavano subito la lingua. Oggi non mi pare questo accada. Anzi, vedo gente per bene che non ritiene importante parlare la lingua del posto dove vive. Imparare bene la lingua è necessario per conoscere le leggi del Paese che ti ospita. Credo che questa dovrebbe essere una condizione necessaria».

Quanto conta l’identità nella formazione di uno scrittore?

«Conta la curiosità verso la propria storia. Si può cominciare da qualcosa di concreto, da un parente. Io avevo uno zio che veniva dalla Siria e ci raccontava le storie del suk di Aleppo. Così ho voluto approfondire la mentalità e la cultura di quel mondo. È necessario esercitare la curiosità dentro la cornice dalla quale si proviene».

La globalizzazione tende a stemperare queste appartenenze?

«Su certe cose sì. In California, a New York, a Chicago gli armeni costruiscono chiese e centri culturali e hanno i loro parroci. A volte tendono a chiudersi per difendere la loro identità, ma per fortuna mantengono anche relazioni esterne. Nelle piccole comunità i matrimoni misti stemperano tradizioni e costumi. La globalizzazione è una strana bestia. Tutti beviamo la Coca cola, ma poi cerchiamo il cibo di un posto preciso. A New York si beve il Pinot grigio e si mangia il formaggio Piave. Tante comunità perdono la lingua, ma conservano il cibo. Non so se è qualcosa di cui essere contenti».

Bisognerebbe conservare anche la lingua.

«Guardi l’inflazione in Italia di parole inglesi mal capite. Adesso ci sono i navigator: non c’era una parola italiana? Come jobs act, non si poteva dire azione lavoro? Oppure shopper, che si usa al posto di sacchetti della spesa, mentre significa cliente, acquirente».

Se si tiene all’identità si è gelosi anche della lingua e della letteratura?

«Mi chiedo come facciamo noi che siamo un popolo di 60 milioni di abitanti ad accettare tutti questi termini inglesi. Parole come sport e tennis sono indispensabili, ma tante altre no. Il fatto di non essere in tutto e per tutto italiana mi fa vedere bene l’esterofilia degli italiani».

Concorda con Cesare Cavalleri per cui l’ultimo grande romanzo italiano è Il Cavallo rosso di Eugenio Corti?

«Lo so che dice questo. Cavalleri è autorevole e Il cavallo rosso è un grande libro. Ma io aggiungerei anche Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il dialogo tra il cacciatore e il padrone sul voto fa capire un intero mondo. Oppure Una questione privata di Beppe Fenoglio. Poi ci sono certi romanzi rimossi, come Maria Zef della padovana Paola Drigo. Un testo al femminile, anticipatore di tante questioni».

Esiste una specificità della letteratura veneta e del Nordest?

«Ne ho scritto qualche anno fa. Molti veneti sono stati grandi viaggiatori perché erano giornalisti. Giovanni Comisso, Guido Piovene, Goffredo Parise, Antonio Barolini di Vicenza. Pensi a Il viaggio in Italia di Piovene, ai viaggi in Cina e in Asia di Comisso. Poi c’è sempre il ritorno al nido, il posto delle radici. Comisso si compra la casa a Zero Branco… Sono scrittori concreti, attenti al dettaglio, dotati di un’ironia cinica. Un altro tema è il rapporto con la montagna. Come in Dino Buzzati, anche lui giornalista».

Hanno anche una lingua comune?

«Hanno una scrittura molto chiara, forse derivata dalla Repubblica di Venezia. Una scrittura chiara non significa piatta, ma vivace. Pensi all’opera di Giuseppe Berto; a Pier Quarantotti Gambini, altro giornalista. Tra i più giovani c’è Matteo Righetto. Hanno curiosità verso ciò che è diverso da sé, la voglia di trovare gente, d’intraprendere un viaggio che comporta sempre il ritorno. Perché hanno un apparato di valori di riferimento».

Dallo sterminio della sua gente a oggi è stata testimone di tanti cambiamenti. Che cosa le dà la speranza di cui parla nell’ultimo libro?

«Intanto il fatto che l’Italia è in pace da settant’anni. Non ha mai avuto un periodo così lungo di pace, ma questo non lo sento dire mai. Il piagnisteo nazionale lo trovo eccessivo e inutile. Ha mai sentito un greco, con tutto quello che ha subito la Grecia, che non difende il suo Paese? La vita è piena di risorse, ma noi crediamo di sapere già tutto…».

Nell’ultimo anno però c’è stata una svolta abbastanza radicale, non crede?

«Molto è stato preparato prima, con la continua demolizione delle istituzioni. Ora mi sembra che i politici parlino troppo. Ma un elettore conquistato con una parola lo si può perdere con un’altra parola. Sento chiacchiere e contraddizioni anche nel corso della stessa giornata. Come per esempio abbiamo visto sulla vicenda del ponte di Genova. Autostrade aveva tante leggi e leggine che la difendevano. Era meglio studiare, capire e poi pronunciarsi per avviare i lavori con tutti i documenti in mano. Ci dimentichiamo che l’Italia è una grande potenza mondiale. Sì, lasciamo lavorare chi è arrivato. Però con un po’ di discrezione da parte di tutti».

La Verità, 27 gennaio 2019

La prima pietra infrange l’ardua integrazione

A un certo punto, dopo ore di inutili ed estenuanti trattative nelle quali ha dato fondo a tutte le sue notevoli risorse di pazienza e di mediazione, pure il preside Ottaviani (Corrado Guzzanti) sbotta: «Mi avete già fatto togliere tutti i crocifissi dalla scuola perché vi offendevano, cos’altro volete da me?». Raramente un film ha avuto una tempistica così felice. Essendo una commedia, La prima pietra di Rolando Ravello (prodotta da Domenico Procacci per Warner Bros. Entertainment Italia e Fandango) uscita giovedì nelle sale, dovrebbe farci ridere e sorridere sui tanti casi di integrazione etnica e religiosa mal riuscita di cui parla la cronaca di questi giorni. In realtà, dietro le situazioni grottesche e i dialoghi caustici al punto giusto, alla fine, si sorride amaro perché il film di Ravello ha il pregio di prendere sul serio la questione e di non sbrigarla con facili scorciatoie. Improponibili se si pensa ai conflitti quotidiani nelle nostre scuole causati da insegnanti particolarmente zelanti nel decidere la cancellazione di Gesù nelle canzoni delle recite prenatalizie. O se si pensa alla querelle moralistica suscitata dalla proposta dell’ultima star dell’autodafé cattolico, il padovano attivista di cooperative sociali don Luca Favarin, che ha esortato i cristiani a eliminare i presepi per coerenza con la mancata accoglienza di poveri e migranti. In sostanza, prima ci si proclama pro immigrati poi si può allestire la Natività di Gesù Bambino in tinello. È così, per certi preti moderni anche nella zazzera, la morale precede la fede. Dal canto suo, la commedia di Ravello ha la freschezza per bucare certe nebbie clericali e andare dritta al sodo. Mostrando che, pur con tutti i buoni propositi di accoglienza e tolleranza, mettere d’accordo le varie confessioni anche sotto Natale è tutt’altro che facile. E che, di conseguenza, l’anelata integrazione inclusiva è una chimera.

Mentre il preside si affanna ad allestire l’armoniosa recita che rappresenti leggende musulmane, parabole ebraiche, vangelo cattolico, credenze buddhiste e hindu, il piccolo musulmano Samir scaglia la prima pietra, di evangelica memoria, contro la finestra della scuola, mandando in frantumi oltre al vetro, l’idillio interreligioso di angeli, imam e cori celestiali. Non bastasse, il sasso carambola sulla coppia di bidelli (Valerio Aprea e Iaia Forte), costretti alle cure in Pronto soccorso. Privati dell’attenzione dell’appassionato regista distolto dall’increscioso episodio, le prove dello spettacolo procedono con rattoppi al copione e agli abiti di scena grazie agli straordinari della segretaria (Caterina Bertone), foraggiati di tasca propria dallo stesso Ottaviani. Il quale però ora, deve sciogliere il nodo del risarcimento dei danni provocati da Samir e mai intreccio si rivelerà più inestricabile. Nel suo ufficio si riuniscono l’altera madre del lanciatore (Kasia Smutniak, velata ma ben truccata), la caustica nonna (Serra Yilmaz, habitué dei film di Ferzan Ozpetek), i piagnucolosi bidelli che si scopriranno di origine ebraica, e la maestra di Samir buddhista e vegana (Lucia Mascino). Il tentativo di conciliazione va in frantumi come un bicchiere precipitato sul pavimento e relative schegge impazzite in tutte le direzioni.

Tratta da un testo teatrale di Stefano Massini, la storia – una versione scolastica del noto Carnage di Roman Polanski ambientato a Brooklyn – si sviluppa attraverso dialoghi veloci e battibecchi tra gli esponenti delle diverse fedi, rappresentati in modo credibile anche se al limite del grottesco, come il registro della commedia richiede. Inflessibile nel suo orgoglio, la componente islamica rifiuta di provvedere al risarcimento e anzi ottiene per Samir il ruolo centrale della recita, concessogli nella speranza, vana, di convincerli a pagare il danno. I lamentosi bidelli ebrei continuano a covare il loro rancore, aspettando l’occasione buona per la vendetta. La maestra vegana viaggia su nuvole di armonie inesistenti, vagheggiando karma positivi plasticamente illusori, salvo sclerare al momento sbagliato. Insomma, un perfetto dialogo impazzito e tra sordi. Al quale tenta invano di dare compiutezza il preside cattolico solo perché interessato alla riuscita della recita. Quanto possibile lo capiranno gli spettatori.

Alla terza prova da regista, oltre a quella da sceneggiatore dell’apprezzato Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, Ravello ha il merito di dirigere un film attualissimo e che riguarda la vita di tutti. Di farlo senza sconti e, soprattutto, senza appiattirsi sulla narrazione dominante o fornire risposte di comodo. Per trovare quelle c’è ancora un po’ di strada da fare.

 

La Verità, 8 dicembre 2018