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«Assurda la cacciata di Spacey, reciterei con lui»

Buongiorno Carlo Verdone, cominciamo dalla buona notizia: come si sta con due anche nuove di titanio?

Mi sembra d’essere ringiovanito di trent’anni. Ricominciare a fare movimenti che avevi dimenticato è come guadagnare un pezzo di vita.

La notizia cattiva è che i cinema ancora non aprono.

E il fatto è fonte di grande apprensione e tristezza. Tutti noi del settore temiamo che il pubblico cambi atteggiamento. Le persone di mezza età che amavano la sala resteranno spettatori, ma i giovanissimi che già prima la frequentavano poco si abitueranno sempre più al display?

Si vive una volta sola, il suo ultimo film, aspetta da un anno.

Per amore della visione in sala io, il produttore e il distributore stiamo temporeggiando, ma è un ultimo tentativo. Se i cinema non riapriranno presto non potremo fermare l’uscita in piattaforma perché altrimenti il film invecchia.

Qualcuno ha già fatto questa scelta.

Lo credo bene, non tutti hanno la forza economica per resistere come Aurelio De Laurentiis e Vision distribution.

Lei accetta docile o un po’ s’incazza?

Credo che prima o poi arriverà il via libera degli esperti al 40% di spettatori. A meno che le nuove varianti del virus non complichino ancora la situazione.

Lei è un rigorista o un vitalista?

Una parte di me è rigorosa e molto ubbidiente. Un’altra parte vuole vivere, vedere, stupirsi, emozionarsi.

Con la sua esperienza in materia di salute, che cosa suggerirebbe per contrastare la pandemia?

Non ho idee in più, suggerirei di attenersi alle prescrizioni. Quest’anno ha visto traccia dell’influenza? No, perché abbiamo portato le mascherine. Nessuno tra le persone che conosco l’ha avuta, mentre cinque miei amici sono morti di Covid.

Il suggerimento è maggior disciplina e uso delle mascherine?

Appena viene proclamata la zona gialla le strade dello shopping si riempiono. Capisco la gioia dei negozianti, ma credo che ci vorrebbero più responsabilità e autocontrollo. Maggior disciplina significa meno morti. Ricordiamoci anche degli anziani, che sono una categoria fondamentale per la formazione dei giovani e per la memoria storica di una società.

Aspetta con ansia il vaccino?

Certo. Come arriva me lo faccio. Un’ora fa mi hanno avvertito della morte di un’altra mia amica.

Ha paura della morte?

No. Ho paura solo del dolore che posso lasciare nella mia famiglia e nelle persone alle quali voglio molto bene quando non ci sarò più.

I suoi figli?

Non ne parliamo, quando si affronta l’argomento si incupiscono e cambiano stanza. Il brutto della morte è vederla arrivare. Per noi è un interruttore che si spegne. Poi se uno è cattolico può trovare conforto e forza in qualche modo nella fede. Non ci sono alternative.

Lei è credente?

Certo. E lo sto diventando sempre di più negli anni. Non per paura, ma perché è un percorso lungo e complicato. La fede si trova, si perde, si ritrova. Mi ha dato ragione anche il Papa quando gli ho parlato.

Mi ha detto che i veri credenti sono quelli che la perdono, ma continuano a camminare in salita e poi magari la ritrovano con più forza. Mi ha detto di dubitare dei cattolici di professione.

Dopo La casa sopra i portici, dedicato all’abitazione paterna, Carlo Verdone torna in libreria con La carezza della memoria (Bompiani), sorta di viaggio nel passato sulla scorta del ricco baule di fotografie da riordinare che ci svela il lato malinconico del più poliedrico attore brillante italiano.

Perché l’ha intitolato La carezza della memoria?

Perché provo sollievo nel ricordo, pure in quelli dolenti. E anche nella nostalgia.

Cosa vuol dire quando scrive: «Sono un uomo che ha vissuto nello stupore continuo»?

Mio padre, grande educatore, mi ha educato allo stupore, al gusto del bello.

È questo stupore che le permette di raccontarsi liberamente?

Penso di sì, non ho ancora il cuore indurito. Spero di continuare a stupirmi come mio padre fino a 90 anni. Lo stupore deriva dalla curiosità, dalla voglia di stare con gli altri, di amare la gente.

Come mai uno che ha avuto il suo successo è ancora attraversato da trepidazioni e paure?

La cosa giusta l’ha detta mio fratello: «Hai scritto un libro di grande umiltà». Se si legge con attenzione ci si accorge che il protagonista non sono io, ma gli altri.

Cosa vuol dire essere un «pedinatore di italiani»?

Essere curioso delle persone. Riuscire a scovare, anche in quelle apparentemente più grigie, un dettaglio che le rende involontariamente comiche.

Il ritratto di Maria F. ha accenni poetici.

È stata una storia breve, struggente e impossibile. Era una prostituta. Nella mia vita non ho pianto molto e questo è un guaio. Quando ho scritto il suo capitolo ho dovuto nascondere la commozione anche a mio figlio.

La stupisce che Bruno Gambarotta, storico comico e dirigente Rai di Torino, e una terrorista abbiano indovinato il suo futuro di successo?

È una coincidenza sorprendente. Quella donna che incontrai sul treno e che mi fissava con occhi intelligenti raccontò pochissimo di lei. Io ero un perfetto sconosciuto. Quando scendemmo a Torino all’una e mezza di notte, mi disse: «Tu ce la farai». In seguito scoprii dai giornali che faceva parte di una banda armata. Chissà cosa aveva visto.

La stessa cosa che vide Gambarotta?

Avevo partecipato alla seconda stagione di Non stop, il programma fucina di comici del grande Enzo Trapani. Gambarotta mi convocò nel suo ufficio: «La prossima volta che verrai a Torino sarà in Mercedes». Non male come profezia.

Si è rivelata azzeccata.

Come mai, pur essendo popolato di gente coatta e bische, questo libro è venato di malinconia?

È la mia anima, c’è poco da fare. Qualcuno confonde la malinconia con la depressione, ma non c’entra niente. È una tonalità totalmente diversa, come si vede già in Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone. Meno male che ho questa malinconia, altrimenti farei film vuoti.

Un altro personaggio straordinario è Zdenek Digrin che, senza essere un fotografo, è stato suo maestro di fotografia?

Non direi.

Le disse di non fare fotografie «per soddisfare chi le vedrà. Sennò farà solo cartoline. Segua i suoi colori, le atmosfere della sua anima».

Era un grande intellettuale che incontrai nella Praga degli anni Settanta, un grande studioso di commedia dell’arte italiana e del teatro di Carlo Goldoni. Un uomo mite, di un candore assoluto, alto e con due occhiali da miope grossi così. Ma siccome aveva scritto qualcosa che non andava bene al regime, ha fatto tutta la vita il portiere di notte.

Qual è stato l’incontro che ha segnato maggiormente la sua carriera artistica?

Forse sono due. Il primo è stato Federico Fellini, che veniva spesso a cena a casa nostra. All’epoca seguivo le rassegne underground e le monografie dei cineclub. Quando lo ascoltavo dialogare con mio padre o rispondere a qualche mia timida domanda sui suoi primi film mi affascinava la mente del regista. Così continuai a frequentare assiduamente i cineclub.

Il secondo maestro?

È stato Sergio Leone. Fu lui a impormi di scrivere e dirigere Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone oltre a interpretarli. Sosteneva che nessun altro regista avrebbe potuto tradurre sullo schermo la mia comicità come avrei saputo farlo io. Leone fu più che un angelo custode, un demiurgo. Per sei mesi, prima di Un sacco bello mi teneva a casa sua dalle 10 di mattina alle 4 di notte per farmi lezioni di regia. Avevo pensato anche di trasferirmi in una delle sue dependance, non lo feci perché ero sposato da poco.

A parte Roma, dove le piacerebbe vivere?

A Torino. Negli anni Settanta era grigia, un posto di solitudini. Oggi ha un fermento e una grazia nuova. Anche Siena, la città di mio padre, mi piace. Una città medievale, con strade strette e angoli scuri. Sono città nelle quali mi trovo a mio agio, anche se non sono esattamente radiose.

Mi regala un pensiero sulla politica italiana?

Diversi anni fa a una cena da un amico chirurgo ebbi modo di conoscere Mario Draghi, allora al ministero del Tesoro. Mi fece subito l’impressione di una persona per bene. Una persona umile nonostante il curriculum. Quando mi capita di incontrarlo a Città della Pieve, constato che la semplicità si abbina alla preparazione. Non a caso ha frequentato la scuola dei gesuiti.

Ne parla come di un esempio assoluto.

Credo lo sia. Non ha interessi personali ed è colto. All’estero, durante la crisi, si mettevano le mani nei capelli. Lui è credibile. I politici italiani devono essere preparati, per questo bisogna amare gli studi. Vorrei una classe politica che non pensasse alle poltrone e fosse di esempio per la gente, che altrimenti può diventare indisciplinata, volgare, violenta.

L’ultimo libro che ha letto?

Conversazioni di Jorge Louis Borges. Sono lunghe interviste fatte per la radio argentina. Con Borges si spazia dalla letteratura antica a quella moderna alla poesia.

L’ultima scoperta musicale?

Ho scoperto Mark Lanegan, un cantante maledetto, un po’ funereo, ma con una bella energia e bei testi. E sto rivalutando Lana Del Rey, che ha un bravo arrangiatore e scrive testi complessi e intelligenti.

A che punto è la serie per Amazon prime?

Abbiamo finito la sceneggiatura e in maggio inizieremo a girare.

È una storia autobiografica?

Ci sono cose della mia vita quotidiana, qualche amicizia, qualche fisima. È una commedia brillante in dieci episodi.

Il nome di un attore con cui le piacerebbe lavorare?

Kevin Spacey. Trovo incredibile che un attore gigantesco come lui, a causa del bigottismo che l’ha colpito sia ai margini. Basterebbe leggere Hollywood babilonia per accorgersi che tanti hanno fatto le cose più turpi. Noi, che siamo un paese cattolico, abbiamo santificato Pasolini. Spacey faccia il suo percorso di pentimento e riabilitazione, ma non può finire nell’oblio.

Il politicamente corretto non ammette eccezioni.

E bisognerebbe piantarla. Le basi del politicamente corretto sono giuste. Ma non lo sono più quando diventano qualcosa di dogmatico, un’ipocrisia unica, un’aberrazione.

Che cosa fa ridere oggi Carlo Verdone?

Bella domanda. Non c’è molto da ridere… I mitomani, i megalomani sono sempre divertenti. L’altro giorno ero in fila con la mascherina in una di quelle drogherie chic… Spunta un tizio senza mascherina, salta la coda e inizia a sbraitare: «Credete ancora a ’ste cazzate… No ’o capite ch’è ’n complotto? Che ce stanno a perculà…». Risultato: ce ne siamo andati tutti, lui ha indossato la mascherina ed è entrato bello tranquillo. A volte genialità e cafoneria vanno in coppia.

 

Panorama, 17 febbraio 2021

 

 

Il cinema metallico e democratico di Eastwood

C’è del metallo nel cinema di Clint Eastwood. Non la colt nascosta sotto il poncho del cacciatore di taglie di Per un pungo di dollari. Un altro genere di metallo: un’anima misteriosa, una rettitudine solida. C’era in quello Straniero senza nome. C’era poi nel ruvido ispettore Callaghan. E c’è nel suo cinema di oggi, da regista con la cifra dell’identità e di una certa gerarchia. La cifra dell’America profonda ma non solo, in cui il senso di giustizia e il rispetto dei deboli hanno il ruolo da protagonista.

Per capire chi è veramente Clint Eastwood che il 31 maggio compirà novant’anni, bisogna ripartire dal divorzio da Sergio Leone, l’autore della Trilogia del dollaro alla quale deve l’improvvisa fama mondiale dopo un nugolo di ruoli irrilevanti. Leone non parlava bene dell’attore Eastwood e Eastwood non esaltava il cineasta Leone. «È un blocco di marmo», scrisse il regista in una rivista specializzata, un attore che aveva due espressioni, con e senza sigaro. Eastwood invece, che non era soddisfatto della valorizzazione delle sue interpretazioni, voleva contare nella confezione dei film. Suggeriva spunti, abbozzava inquadrature. Da subito, recitava pensandosi dietro la cinepresa, dirigendosi e dirigendo. Ma Leone, confidò l’attore allo scrittore Stuart Kaminsky, «non mi ha mai riconosciuto alcun contributo stilistico ai film realizzati insieme». Clint non capiva l’italiano, Sergio non sapeva l’inglese. Ma, seppure in quella situazione, il cow boy col poncho divenne subito un archetipo, un’icona flemmatica di giusto vincente e taciturno. Merito anche del doppiaggio di Enrico Maria Salerno che gli regalò quella parlata lenta e monocorde. Un modello di recitazione per sottrazione, si dice oggi. A metà degli anni Sessanta, tra la fine del boom economico dominato dalla leggerezza del beat, e i prodromi del Sessantotto, già intrisi di verbosità ideologica tutti volevamo essere quello Straniero senza nome. Controcorrente da subito, Eastwood non rideva mai e parlava poco.

Con quelle premesse il cineasta e il suo attore feticcio non potevano che separarsi. Clint rifiutò di recitare in C’era una volta il west la parte che divenne di Charles Bronson e declinò anche l’offerta di un ruolo minore in C’era una volta in America. Leone adoperava la sintassi dell’epica, della grande allegoria, sottolineata dalle colonne sonore di Ennio Morricone. Eastwood voleva raccontare piccole storie, uomini di tutti i giorni. Le strade biforcarono e la stagione dell’ispettore Callaghan, in qualche modo prosecuzione del bounty killer col sigaro, ne consolidò il tratto controcorrente in anni di ribellione incondizionata a qualsiasi accenno d’ordine.

Alla scuola di Don Siegel, che invece i crediti glieli concesse, il lungo apprendistato dell’Eastwood regista era però finito. Nella sua testa aveva germogliato un cinema trattenuto come la sua recitazione e asciutto come il metallo anche a causa dei budget per scelta contenuti. Un cinema che ha nello spettatore il suo principe e che sa stare alla larga da tentazioni esegetiche. Un cinema nel quale i vuoti del non detto sono riempiti dall’immaginazione di un pubblico adulto e rispettato. Un cinema poco amato da gran parte della critica intellettuale al di qua e al di là dell’Atlantico. Ma un cinema democratico e anticonformista, libero dai manierismi e dalle mode hollywoodiane o dal sussiego autoriale. Proprio «autore» è una definizione che non ha mai convinto Eastwood, preferendo egli considerarsi «forza trainante» della squadra. Al punto che in testa ai suoi film non compare mai il suo nome, ma quello della casa di produzione: «Un film della Malpaso company», «Una produzione Malpaso».

«A me piacciono le storie», ebbe a dire una volta conversando con il critico Christopher Frayling. E con quella sottolineatura aveva spiegato tutto. Se si eccettuano Bird, omaggio a Charlie Parker, leggendario jazzista che ha segnato la sua formazione, J. Edgar, sulla figura del controverso capo dell’Fbi Hoover, e Invictus su Nelson Mandela, una pellicola più di Morgan Freeman che di Eastwood, nella cinematografia post Callaghan c’è sempre l’uomo comune al centro. I tre ragazzi di Mystic River, la cameriera boxeur e lo scorbutico allenatore di Million Dollar Baby, il misantropo reduce di guerra di Gran Torino, il cecchino infallibile e tormentato di American sniper, il coscienzioso pilota di Sully che salvò miracolosamente i passeggeri ma fu processato perché distrusse l’aereo, l’anziano corriere della droga di The Mule: tutte storie di persone ordinarie, spesso tratte dalla cronaca. Come nel caso dell’ultimo, bellissimo, Richard Jewell, la storia del vigilante imbranato che, zelantissimo al punto da essere sempre snobbato dai colleghi, sventò un attentato alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, salvando un centinaio di persone. Un eroe presto tramutato in colpevole perché rispondente agli stereotipi degli inquirenti. Una storia reale, esemplare, significativa. Narrata senza sbavature, con quel metallo dentro, la materia semplice di un’etica non enfatica. Forse appena di una certa dirittura umana. Dove il quotidiano diventa eroico e l’eroico quotidiano.

 

La Verità, 28 maggio 2020

«Oggi pregare è diventato un gesto eversivo»

Una doppia provocazione. Una provocazione al quadrato. La prima è la trama del romanzo. Una storia quasi eversiva. Che cosa c’è di più scorretto, di più alieno, di un bambino che prega? Oggi, nell’era digitale. Oggi, ai tempi di Instagram. Leone di Paola Mastrocola, appena uscito da Einaudi, è la storia di un bambino di sei anni che di punto in bianco inizia a recitare Padre nostro, Ave Maria, Angelo di Dio per strada, a scuola, in salotto. Pregando, turba. La madre soprattutto, che non si capacita. E l’ambiente, la maestra, i compagni di classe, i vicini di casa. La seconda provocazione è la pubblicazione stessa del romanzo. Come sarà accolta una storia così dai lettori, dai media, dai circoli letterari? A me ha richiamato alla mente La strada di Cormac McCarthy, protagonisti un padre e un figlio in cerca di futuro dopo una catastrofe nucleare. Qui ci sono un figlio e una madre divisi da quella preghiera, prima di un evento meteorologico che cambierà la vita di tutti. Poi mi ha fatto ricordare L’ultima luna di Lucio Dalla.

Con Paola Mastrocola, torinese, autrice di fortunati romanzi e saggi sulla scuola, firma del Sole 24 ore, ci incontriamo negli uffici della Fondazione Hume diretta da Luca Ricolfi, suo marito. Alle pareti disegni, schizzi, studi a carboncino.

Di chi sono?

«Miei. Risalgono a quando avevo vent’anni e volevo fare la pittrice».

La pittrice?

«Certo, è tutto un fallimento la mia vita. Mai avrei pensato di scrivere romanzi».

Altri fallimenti?

«La poesia, il teatro, la critica letteraria, l’università. Strade bloccate e porte chiuse fino a 44 anni».

Le è andata meglio…

«Sì, adesso posso fare quel che mi piace davvero: scrivere. Ma fino a 44 anni è stata dura».

Il fallimento più doloroso?

«Forse, la carriera universitaria. Ho fatto un concorso a 42 anni e non l’ho superato. C’erano i baroni».

Ci sono ancora. E la poesia?

«Fino all’esordio come romanziera non ho mai trovato un editore se non a pagamento. Un libro pubblicato a pagamento nasce morto».

L’editore lo trovò per La gallina volante.

«E cambiò tutto. Le porte si aprirono. Avevo vinto il Premio Calvino per opere prime con lo pseudonimo Enrica Tolmer».

Con lo pseudonimo?

«Gliel’ho detto, il mio nome era segnato dai fallimenti. Volevo cambiare identità e vita. Mandai il manoscritto così, non pensavo di vincere. Quando Luigi Brioschi di Guanda mi chiese se volevo mantenerlo dissi di no. Sbagliando».

Perché?

«Perché mi avrebbe reso invisibile, una cosa che mi piace da pazzi. Oggi gli scrittori peccano di divismo. Pontificano in tv, alle presentazioni, nei salotti, mentre dovrebbero essere invisibili. Solo i libri devono esistere. La scrittura è segreta, riservata».

Invidia Elena Ferrante?

«Molto. Ha avuto il coraggio di fare quello che a me non è riuscito. E poi è bravissima, una tra le migliori».

Perciò, se Fabio Fazio la invitasse su Rai 1 lei non ci andrebbe?

«Ci sono andata, per altri libri, con gioia. Come vede, sono una peccatrice anch’io. Però mi piacerebbe lo stesso far sparire Paola Mastrocola e trovarmi un’altra identità per togliermi di dosso un bel po’ d’incrostazioni che mi hanno appiccicato».

Per esempio?

«Sono la vecchia nostalgica e reazionaria perché ho osato dire che mi piacciono lo studio, la serietà, il latino e il greco, la grammatica e la letteratura. In più ho qualche perplessità sul mondo digitale. Infine, ho combattuto la scuola voluta da Luigi Berlinguer che è stata ed è un disastro».

Altre etichette da cui fuggire?

«Quella dello scrittore-insegnante. Che abbia insegnato cosa significa? Esiste lo scrittore che fa il tranviere, il cacciatore di balene, l’impiegato di banca? No, esiste solo lo scrittore. Invece, appena esce un mio libro si crede già di sapere com’è. Ma se non lo so nemmeno io… C’è una certa inerzia mediatica… Siccome nel 2004 ho scritto dei libri sulla scuola sono sempre quella lì. Invece, vorrei potermi ancora stupire di me. Questo romanzo, per esempio, mi ha stupito moltissimo».

Spieghi.

«Ho voluto fare un esperimento scientifico, inventando un bambino che prega quando gli viene. Ovunque, in bagno, a scuola, fuori dal cinema. Mi sono detta: proviamo a metterlo nel nostro mondo di oggi e vediamo cosa succede».

È una favola, una parabola, una storia di fantascienza?

«Nei miei libri non descrivo la realtà, ma la esaspero senza però cadere nell’irrealistico. Negli ultimi capitoli piove a lungo, ma non è una situazione impossibile. In Non so niente di te un gregge di pecore irrompeva in una conferenza di economia a Oxford. Improbabile. Ma lì, poco distante, ci sono prati e pascoli e non si sa mai».

Come le è venuto questo bambino che manda tutti nel panico?

«Lo spunto me l’ha dato un’amica libraia. L’ho raccolto dopo aver maturato pensieri, sentimenti e la voglia di raccontare la bambina che sono stata. Quando i bambini normalmente pregavano, normalmente credevano in Gesù Bambino e non in Babbo Natale. La mia famiglia non era assiduamente praticante. Eravamo cattolici in quanto italiani, come tanti. Poco alla volta ho abbandonato tutto. Ma mi è rimasta una visione religiosa della vita».

Se oggi un figlio si mettesse a pregare cosa accadrebbe?

«Credo ciò che accade nel libro. Tutti sono imbarazzati, molti lo escludono, altri gli chiedono di pregare per loro. Questo bambino sconvolge. Noi non siamo pronti, prega chi va in chiesa. Chi non è cattolico o non appartiene a una religione specifica cosa se ne fa di quel sentimento naturale che è pregare? Per Leone è un gesto ingenuo. Si rivolge a qualcuno che è suo amico e che si chiama Gesù. Crede che lo possa aiutare. Tanto per cominciare lo ascolta, mentre i genitori hanno sempre da fare…».

Pregare è un atto eversivo?

«Oggi sì. Abbiamo abbracciato la scienza e la tecnologia come nume tutelare. Preferiamo essere positivisti e materialisti. Trionfano parole come utilità, tecnologia, carriera. Sono sparite le parole dell’interiorità: credere, dubitare, riflettere, coscienza».

Leone resuscita anche l’esame di coscienza.

«Quand’ero bambina lo facevamo. Niente di che, a fine giornata ognuno si prendeva un piccolo tempo per riflettere su ciò che aveva fatto o non fatto. Oggi ci corichiamo con il tablet. Non voglio dire che bisogna snocciolare il rosario, non siamo beghine. Ma stare un momento con sé stessi e pensare che non finisce tutto con noi può aiutare».

La madre turbata rappresenta il politicamente corretto? Uno che prega è «come un’auto che esce dalla coda e ti verrebbe da rimetterla in fila con le altre».

«Una madre è turbata dalla diversità di un figlio. Vorrebbe che fosse uguale agli altri, conforme. È tendenzialmente conformista. Perché la differenza la mette in crisi. Anche se quella di Leone è una diversità minima, non fa niente di male».

Illuminante l’ammonimento della maestra e della preside: «Suo figlio che prega esula».

«Esula deriva da esilio, essere fuori. A noi che piacciono tanto gli esuli, uno che prega non ci piace. Ci piacciono gli esuli esotici, non quelli nostrani».

Comunque, Leone un po’ strano lo è: mai una partita a pallone, un litigio…

«Gioca a minibasket. È un bambino timido, con un suo mondo immaginario in cui Gesù lo aspetta su una panchina invisibile. Non è un bambino di moda, estroverso e vincente».

È un libro di donne sole, la mamma, la nonna…

«Non ci avevo pensato».

Libro cripto femminista?

«Non pronuncerei quella parola».

In tutto ci sono due uomini.

«Avevo bisogno che la madre fosse da sola con suo figlio, altrimenti le dinamiche familiari mi avrebbero deviato dal cuore della storia. La nonna è sola perché il rapporto tra lei e Leone è il vero centro di tutto».

Un rapporto molto vissuto.

«Perché qui si è intrufolata la mia vita. Ho perso mia madre quando mio figlio aveva tre anni e non può ricordarsela. Io invece ricordo il rapporto d’amore tra loro: mai visto un amore così. Il motore affettivo del libro è il dolore di mio figlio che non ha potuto davvero conoscerlo, quell’amore. Tutto il resto è inventato, compresa la preghiera».

Che non è poco.

«Mi sono chiesta: c’è la preghiera nel nostro mondo? Ci rivolgiamo al cielo soprattutto nelle situazioni di pericolo, di precarietà. Ma a me quando c’è una bella giornata, come oggi, viene da dire: “Grazie Gesù”. Oppure, sotto le stelle… Altre volte mi vien da dire: “Gesù, fa che…”. Sono stupita: da dove mi arriva questa cosa? Ma se mi chiede se credo in Cristo rispondo di no».

Un libro così, calato nell’oggi, è un esperimento?

«Sono curiosa di vedere come verrà accolto. Piacerà al mondo cattolico, al mondo laico, a nessuno? Facendo due presentazioni ho avvertito un certo disagio quando pronuncio la parola Gesù, una perplessità strisciante. Ho voluto chiedere a me stessa e alla mia generazione cosa ne abbiamo fatto del cristianesimo. È una domanda che rivolgo ai miei contemporanei perché la risposta io non ce l’ho».

Nell’emergenza, quando salta l’elettricità e si spengono i cellulari, la comunità si ritrova attorno a quel bambino: dobbiamo tornare al poco ma fondamentale?

«È una forzatura narrativa. Ma penso che per andare al fondo dobbiamo sfrondare, tornare all’essenziale. È la spoliazione di San Francesco. Accantonato il superfluo emergono i rapporti e nasce la comunità».

Perché ha scelto come epigrafe una frase di Louis Aragon che parla di qualcuno che ha sollevato una tenda, rendendo nuovamente possibile ciò che fu?

«Leone pensa di vedere Gesù la notte di Natale dietro una tenda che si scosta. È un episodio della mia infanzia. Spesso nella nostra vita il miracolo ci passa accanto, si scorge qualcosa, s’intravede la divinità. Come dice Eugenio Montale nella poesia I limoni, intravisti nel loro giallo solare da “un malchiuso portone”».

La Verità, 28 ottobre 2018

La partita nel retropalco dell’Ariston

E se il  Festivalone di Conti finisse per salvare la poltrona di Giancarlo Leone? Difficile, difficilissimo: certo. Ma mica male come effetto collaterale. Dopo il successo dell’edizione dell’anno scorso, il direttore di Raiuno  ha fatto una corte spietata al presentatore fiorentino amico  di Renzi (senza certi impegni istituzionali il premier sarebbe stato padrino al battesimo del primogenito di nome Matteo) perché bissasse conduzione e direzione artistica della kermesse. Da quel che si è visto dopo le prime serate, bisogna riconoscere che ha avuto ragione lui. Sanremo funziona, si fa seguire, sta nei limiti. Magari non eccellerà in innovazione. Però è godibile.

Da settimane sui giornali è in corso il totonomine per la direzione di Raiuno (e non solo). Prima di sbarcare a Sanremo, l’unica certezza conclamata era che sarebbe stato l’ultimo Festival targato Leone. Difficilissimo se non impossibile metterla in discussione. Però il quasi cinquanta per cento della prima serata, persino incrementato nella seconda, è un risultato non facilmente ridimensionabile. Cambiare per fare peggio non è mai una bella idea. Hai visto mai che il concorso per la casella d Raiuno in atto in Viale Mazzini, retropalco dell’Ariston, si risolva in una conferma di @giankaleone? Missione pressoché impossibile. I nomi dei candidati girano vorticosamente, dopo il diniego di Paolo Ruffini, contattato già in dicembre da Campo Dall’Orto ma, come ha precisato al Corriere della Sera, dichiaratosi non disponibile perché non vuole “lasciare a metà” l’esperienza di Tv2000 da poco iniziata (figuratevi gli strepiti in caso contrario: la Cei si prende Raiuno…). Altri nomi: Ilaria Dallatana, già fondatrice e amministratore delegato di Magnolia, incarico da cui si è recentemente dimessa. Angelo Teodoli, promosso da Raidue, dove ha ottenuto buoni risultati. Eleonora Andreatta, spostata dalla direzione della Fiction. E poi, a prescindere di chi toccherà, Leone appare già destinato al coordinamento dei palinsesti al posto di Antonio Marano che ha chiesto di tornare a Milano.

In questa situazione e con tante pressioni, portare a casa un buon Festival è tutt’altro che scontato. Conti non ha certo la carica da showman di Fiorello, né l’ambizione chic di Fabio Fazio, doti che all’Ariston possono rivelarsi limiti (cfr. l’enfasi sulla bellezza che infiacchì l’ultima prova di FF, oppure il ripetuto diniego di Fiorello con la motivazione che presentare una gara canora è diverso dal fare un varietà). Conti è invece un professionista che, al timone dell’evento esibisce qualcosa di meglio e di più del suo standard abituale. Per esempio, un grado di scrittura e una “narrazione” apprezzabile, come dimostrano le storie italiane che contrappuntano lo show (lo sprinter centenario, la classe di due alunni, il commovente pianista Ezio Bosso). È un professionista che sa mettere a frutto la conoscenza della macchina Rai, senza la quale non si convocano e si gestiscono senza polemiche star come Elton John e Nicole Kidman. È uno che sa dirigere il copione: Virginia Raffaele promossa co-conduttrice pur in veste di spalla comica (strepitosa Carla Fracci più della Ferilli; farà o no la Boschi?), l’assegnazione dei ruoli di valletti agli ornamentali Gabriel Garko (occhio alla grammatica) e Madalina Ghenea. Certo, niente voli sperimentali. E una gara che, con i soliti habitué (Dolcenera, Neffa, Ruggeri) sembra il torneo finale di tutti i talent, con l’unica assenza di The Voice (copyright Carlo Freccero per davidemaggio.it). Infine, una quantità modica di contemporaneità. Ma comunque un buon Festival, ben confezionato e con tutto quello che ci si aspetta.

Praticamente impossibile che possa salvare Leone. Anche perché spuntano altri nomi, che rispettano i criteri adottati da Dall’Orto e Maggioni nella scelta dei nuovi dirigenti. Primo, pescare all’esterno per rompere consorterie e vincoli dettati dalla lunga militanza aziendale: in calo le quotazioni di Andreatta e Teodoli. Secondo, non pescare professionisti di area renziana, per evitare le accuse di lottizzazione governativa che già imperversano: improbabile la scelta di Simona Ercolani, deus ex machina della Stand by me ma anche regista via whatsapp dell’ultima Leopolda. E allora? Allora potrebbe essere il momento di Dallatana. Oppure di Francesca Canetta, che prima di passare a Discovery, ha lavorato a lungo al suo fianco in Mediaset e in Magnolia di cui, con Giorgio Gori, fu tra i fondatori.