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«Io, un attaccabrighe: più che scrivere amo litigare»

Fra le tante interviste ad Antonio Pennacchi riproposte in occasione della sua morte, mi permetto di aggiungere anche la mia, pubblicata dalla Verità nel marzo 2018, che contiene un’istruttiva e gradevole passeggiata per il centro di Latina, città dello scrittore.

Camicia nera e cravatta rossa, tifoso del Milan?

«No, tifo Roma. Nessuna simbologia».

Pensavo al Fasciocomunista

«Ma no, uno si mette la camicia e la cravatta che gli pare».

Sarà. Anche la sciarpa butta sul rossonero. La coppola, invece, Antonio Pennacchi non la toglie neanche a pranzo. «Andiamo al ristorante Impero, dove andava Mussolini», aveva proposto, «così facciamo un giro per Latina. Se non l’ha mai vista, vale la pena». Sull’architettura mussoliniana, Pennacchi ha scritto Fascio e martello. Viaggio nelle città del Duce (Laterza), e sa di cosa parla. Latina, ex Littoria, ha edifici squadrati e piazze ariose anche se insidiate dai palazzoni degli anni Sessanta. Piazza del Popolo, «da quel balcone si affacciò il Duce per l’inaugurazione. Il giorno prima i lavori non erano ancora finiti e diluviava. Usarono i trattori per trainare i camion di cemento, ma uno s’impantanò. Allora scavarono una buca e lo interrarono. È ancora lì sotto. Il giorno dopo, quando arrivò Mussolini, la piazza era finita e c’era il sole». Piazza della Libertà, sede della Banca d’Italia, «dove, tra la ritirata dei tedeschi e l’arrivo degli americani, Diomede Peruzzi e i suoi si calarono nel caveau e portarono via i lingotti con le carriole. L’ho raccontato in Canale Mussolini – parte seconda. Ci sono testimonianze, documenti…». Nato nel 1950, laurea in lettere da adulto, trent’anni di fabbrica – «ma adesso mi hanno tagliato la pensione perché si cumula con i diritti d’autore: solo per politici e magistrati il cumulo non vale» – esordio letterario dopo i 40, Premio Strega nel 2010 (Canale Mussolini), per alcuni critici il miglior scrittore italiano vivente, Pennacchi divenne popolare nel 2003 con Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi (Mondadori), che sarebbe lui. Daniele Luchetti ne trasse Mio fratello è figlio unico, incentrato sul rapporto conflittuale con Gianni, il fratello giornalista e notista politico al Giornale, anche lui con un passato nelle organizzazioni violente della sinistra. Ma a lui non piacque.

Elio Germano e Riccardo Scamarcio in «Mio fratello è figlio unico»

Elio Germano e Riccardo Scamarcio in «Mio fratello è figlio unico»

Siamo alla quarta edizione, non sta mai tranquillo questo Fasciocomunista?

«Mai. Però adesso basta».

Sono passati cinquant’anni dal Sessantotto e 25 dall’inizio della prima stesura. È cambiato lei o il libro è perfettibile?

«Entrambe le cose. Anche scrivere libri è un lavoro manuale, un testo s’impara a levigarlo. Da giovane hai l’intuizione. Poi il gusto si affina, cresce la capacità critica, lo scavo della parola si fa più preciso. Pensiero e parola vanno saldati e quindi è un lavoro lungo, almeno per me».

La forza della sua letteratura è la scrittura parlata, una lingua che si ascolta, febbrile, di tutti?

«È il volgare: una letterarizzazione del parlato, non proprio in presa diretta. Il mio referente sono i lettori, all’inizio i miei compagni di classe. Non scrivo per me stesso, mi considero ancora un intellettuale maoista al servizio del popolo».

Addirittura.

«Per la precisione un poeta narratore più che un intellettuale. Poiché credo nell’uguaglianza degli esseri umani e considero le differenze un prodotto della storia e non della nascita, le mie storie perseguono l’emancipazione di tutti gli esseri. Sono un cantastorie popolare, scrivo per essere capito. Scrivo chanson de geste in cui è fondamentale l’azione, non romanzi filosofici. Perciò uso la lingua delle masse che conosco io, la classe operaia, i parenti, gli amici della fabbrica, pur sapendo che non mi avrebbero letto, perché in fabbrica si leggono il Corriere dello Sport e i giornali porno. Glieli avrei letti io i miei libri. Il mio serbatoio sono il bar, il barbiere, i modi di dire. Questo non significa che sia naif, sto dentro la tradizione letteraria italiana. Da una parte c’è Francesco Petrarca che scrive per non far capire alla gente, dall’altra Dante Alighieri che usa il volgare fiorentino per le masse».

Nella sua postfazione si legge: «Penso che certe cose mi accadessero perché dopo le scrivessi». La letteratura nasce dal bisogno di scrivere o dall’intensità di ciò che si vive?

«Se non scrivessi mi sentirei in colpa rispetto alla mission. Scrivo per senso del dovere, non per piacere. Io, mio fratello, mia sorella, eravamo i primi laureati e qui ci sono solo operai, contadini poveri, servi della gleba che si sono fatti il mazzo».

Una missione senza piacere?

«Il piacere lo provo quando ho finito ed è venuto bene. Prima è fatica, beato chi non ne fa. Nella famiglia contadina quando venivi al mondo ti veniva assegnato un ruolo, un mestiere».

A lei che mestiere toccò?

«Essendo nato nei giorni di lutto per la morte dei nonni, uno a distanza di 20 giorni dall’altro, è come se mia nonna mi avesse detto: “Ti te ghe da racontar ’a nostra storia”, la storia del nostro podere, della nostra famiglia. Come Il mulino del Po. A lungo mi sono sottratto a questo compito perché a me piace leggere, studiare e andare in giro a litigare per Latina. Raramente le mie storie sono frutto d’invenzione. Se lo sono, partono sempre da vicende reali».

Come l’adesione al fascismo da ragazzo, che per lei era un movimento di sinistra.

«Alle origini certamente. Nel ventennio si combattono il fascismo bianco e il fascismo rosso. Alla fine quello di sinistra perde, purtroppo».

Era un estremista, un attaccabrighe sempre pronto a fare a botte?

«Mia madre diceva che più che un attaccabrighe, ero un cacabrighe, uno che le trovava».

Secondo me le attaccava pure: alle assemblee del Pci finiva gli interventi con «Viva il Duce».

«Rifiuto le verità preconfezionate. Alle pentole del diavolo mancano sempre i coperchi. Questo spirito di contraddizione muove tuttora la mia scrittura, difficile che racconti storie già raccontate. Ai convegni dei partiti e dei sindacati si alzavano e dicevano: “Concordo con la relazione di Tizio e Caio”, poi parlavo io e si alzava la canizza. Mi hanno espulso dal Msi perché sono andato alla manifestazione pro Vietnam. Ancora adesso molti intellettuali della sinistra radical chic mi considerano un revisionista, ma non sono mai stato politicamente corretto, né da una parte né dall’altra».

Simpatizzava per Stefano Delle Chiaie, poi negli anni Settanta per la lotta armata.

«No. Ho sempre cercato la falla delle verità precostituite».

Cosa pensa del protagonismo sui media degli ex brigatisti? Barbara Balzerani ha detto che quello della vittima è un mestiere.

«Certe esternazioni sono sgradevoli. Io nelle Br non ci sono entrato solo perché sono stato fortunato e ho perso l’attimo, non perché ero contrario. Ma i miei amici ci erano andati e non li ho più trovati. Quando Moro fu ucciso, mi sono definitivamente allontanato. Uccidere è sbagliato e chi l’ha fatto deve fare autocritica, non certi discorsi ambigui. Però non va dimenticato che il male e le colpe non stanno solo da una parte. La lotta armata non spuntò dal nulla. Prima c’erano state le bombe alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. La stagione degli anni di piombo è figlia delle bombe messe da manovalanza nera, ma decise dai servizi segreti».

Pennacchi: «Dopo l'uccisione di Moro mi allontanai da quegli ambienti»

Pennacchi: «Dopo l’uccisione di Moro mi allontanai da quegli ambienti»

Il Novecento è andato avanti con i conflitti tra destra e sinistra. Adesso?

«Dei battutisti sostenevano che fosse un secolo breve pensando fosse finito con la caduta del muro di Berlino. In Italia il Novecento si è chiuso il 4 marzo 2018».

Quindi è contento dell’esito delle elezioni?

«Prendo atto che i partiti come li avevamo conosciuti nel Novecento sono finiti. Matteo Salvini ha svuotato il vecchio Msi, i 5 stelle hanno svuotato il Pd».

Per chi ha votato?

«Per Liberi e uguali, ma senza entusiasmo. Non ci fosse stato l’ex magistrato sarei stato più convinto».

Pensavo le piacesse il M5s, attento ai poveri, che manda in archivio le vecchie categorie.

«Non manda in archivio niente. Non è che il declino dei partiti tradizionali ha annullato la distinzione tra destra e sinistra. La storia rimane un pendolo tra chi mette al primo posto l’individuo e chi sta con la collettività. Le ragioni della sinistra restano vive, perché nel pianeta ci sono più sfruttati che sfruttatori. Ma un conto è la realtà un altro la percezione e la propaganda. I 5 stelle dicono di non essere né di destra né di sinistra, ma di fatto occupano uno spazio a sinistra. Renzi si dice di sinistra, ma ne ha causato il harakiri e prende i voti ai Parioli».

Quindi i grillini non le piacciono.

«Decide tutto Casaleggio. Dove hanno governato si sono dimostrati improvvidi. E non mi convince la democrazia virtuale e i social. La gente preferisco guardarla in faccia e litigarci al bar».

Pensa che Lega e M5s dureranno? Potrebbero dar vita a un unico movimento di destra sociale?

«La destra sociale è un ossimoro. Fino a ieri la Lega ha predicato la secessione, trattandoci come idioti. Se continui a investire al Nord, qui non porti mai lavoro. Anche il Pd facesse come gli pare. Sarebbe naturale che andasse appresso al nostro popolo, tra la gente, nelle periferie. Ma ci vorrebbe una consapevolezza dei problemi che non mostrano di avere. Una cosa positiva però c’è».

Almeno una, sentiamo.

«Le aperture dei nuovi arrivati verso la Russia di Putin. Nel mondo persiste l’imperialismo: ci sono le sanzioni contro la Russia, ma i nostri soldati sono in giro a fare le guerre degli americani. Per fortuna s’inizia a guardare con più attenzione a Putin».

Si torna. Ecco il Palazzo Emme, «l’iniziale di Mussolini», imponente. Mi parla dell’intellettuale maoista a servizio delle masse, ma poi si emoziona per queste costruzioni, butto lì. «Ma che sta a di’ Caverzan? Quand’ero bambino ci venivo a scuola, è la mia infanzia, la mia gioventù… Quella, invece è la Questura». Dove lei era di casa. Sorride, crollando la testa nella coppola.

 

La Verità, 25 marzo 2018

 

Aiuto! Siamo precipitati nella rivoluzione francese

Con colpevole ritardo, qualche sera fa vedendo in un talk show le facce a tutto schermo di Andrea Crisanti e Massimo Galli, mi si è accesa la lampadina: aiuto! È tornata la Rivoluzione francese. Con i suoi annessi e connessi. Con i suoi organismi repressivi, il controllo sociale e l’apparato linguistico di riferimento. Improvvisamente, la scintilla ha collegato tutti i cavi. I due professori citati sono tra gli oracoli anti-Covid più ascoltati dell’etere e non solo. Ma la suggestione sarebbe stata identica se al loro posto fossero comparsi Walter Ricciardi e Silvio Brusaferro o Ilaria Capua e Fabrizio Pregliasco. Non è un fatto di nomi o di preferenze tra virologi, di cariche ufficiali dei singoli, o di schieramento tra allarmisti e minimalisti. No, è il sentimento percepito dal semplice cittadino e telespettatore, quello che all’epoca era il Terzo stato. Ora comanda il Comitato tecnico scientifico, ma lo potremmo tranquillamente ribattezzare Comitato di salute pubblica. Anzi, l’espressione sarebbe più calzante, più rispondente alla realtà. Che cos’è infatti se non un Comitato di salute pubblica un organismo di scienziati e politici che arriva a controllare i nostri comportamenti fin dentro le sale da pranzo e le camere da letto?

Lentamente, attraverso slittamenti differiti e graduali, scopiazzature e scelte linguistiche siamo finiti dentro una macchina del tempo che ci sta riportando a 230 anni fa. Se la situazione non fosse tragica per le morti che ci stanno devastando, o drammatica per la comicità nella quale ci catapulta il tenero dilettantismo di buona parte della compagine governativa, sembrerebbe di essere precipitati in un videogame, un gioco di società, una distopia storico-politica nella quale orientarsi con apposita segnaletica, bonus e upgrade. Magari compulsando nervosamente la miracolosa piattaforma Rousseau, tanto per rimanere al secolo dei Lumi.

Purtroppo non è così. Durante la Rivoluzione, il Comitato di salute pubblica creato dalla Convenzione nazionale affiancò il Comitato esecutivo provvisorio per ribaltare le sconfitte militari, domare la rivolta vandeana e le altre insurrezioni antirivoluzionarie. Oggi il nemico non è politico – meglio: non è, in primo luogo, politico – ma sanitario. Un subdolo virus che sta mietendo vittime e mettendo in ginocchio l’intero pianeta, non solo l’Italia (il fatto è inconfutabile, qui si riflette sulle modalità di contrasto).

Per trasformarsi in Comitato di salute pubblica, il nostro Cts viene affiancato dal ministro della Sanità, dal titolare degli Affari regionali, dal capo dell’Economia e dal premier, il quale legifera attraverso i famigerati Decreti del presidente del consiglio dei ministri. Il potere legislativo è accentrato in poche mani ed esercitato con motuproprio dal sovrano senza che, in buona sostanza, le assemblee parlamentari possano intervenire, dialettizzare, contribuire. C’è lo stato di emergenza a sostenere la presunta necessità di poteri speciali, usati per prescrivere comportamenti virtuosi ai cittadini (Massimo Cacciari: «Serve lo stato di emergenza per dire alla gente di indossare la mascherina?»). Ma non per attrezzare strutture e infrastrutture a fronteggiare la crisi (ritardi sui tamponi, sui vaccini antinfluenzali, sull’adeguamento dei trasporti, sui servizi alla scuola). Si può interrogarsi a lungo se si tratti di uno stato d’eccezione giustificato. Fatto sta che negli altri Paesi europei, che versano in condizioni peggiori dell’Italia, non vige, a eccezione della Francia.

Il filosofo Giorgio Agamben ha più volte osservato che il ricorso alla legislazione di emergenza trova nella Rivoluzione del 1789 la sua origine storico-giuridica. Ma se dal presente andiamo a ritroso di qualche anno ci imbattiamo in altre non vaghissime assonanze che, dall’epoca immediatamente prerivoluzionaria, arrivano al presente. Il governo attuale è sbocciato facendo a meno del suffragio dei cittadini, grazie a una spregiudicata manovra di palazzo appoggiata da Beppe Grillo, novello Robespierre, fondatore di un movimento dalle forti nervature giacobine, nato a sua volta nelle piazze con i Vaffa urlati contro l’Ancien régime. Ovvero la famosa casta alla quale era già stato assestato il primo colpo dalla «rivoluzione dei magistrati» chiamata Tangentopoli. Dopo aver preso il potere, il movimento dell’antipolitica ha cominciato a epurare i dissidenti. Ora, in assenza di un leader riconosciuto, il M5s è guidato da un reggente e da un Direttorio, anch’esso di rivoluzionaria memoria. Come lo sono pure gli Stati generali che, essendosi a sua volta trasformato in casta, il movimento è costretto a convocare alla ricerca dell’identità perduta.

Corsi e ricorsi non solo linguistici, nei quali è rinvenibile il ruolo, defilato ma determinante, di Marco Travaglio, Jean Jacques Rousseau de noantri. All’epoca, gli Stati generali furono l’ultima spiaggia dell’aristocrazia monarchica per tentare di evitare la presa della Bastiglia da parte dei rivoltosi. Quelli indetti nel giugno scorso dal governo Conte avrebbero dovuto fornire le risposte per uscire dalla crisi sanitaria ed economica. In realtà, osservando le code per i tamponi e l’introvabilità dei vaccini antinfluenzali, si sono rivelati per quello che erano: una passerella in favore di telecamera, una fiera degli annunci. Ciò che conta è la nuova mappa ideologica da applicare sulla realtà, con le sue formule e i suoi slogan. Se poi, con la nuova enciclica sulla fraternité, ci si mette anche papa Francesco, allora siamo davvero spacciati. Così, mentre tra il Vaticano e l’M5s, oltre alle simpatie per l’Illuminismo, si registrano convergenze anche sulla nuova geopolitica filocinese, i soliti complottisti parlano di Terrore, proprio così; diffuso dai virologi oltranzisti, alleati del ministro Roberto Speranza, perfetto, nonostante l’aria spaesata,  nel ruolo dell’intransigente capo della polizia Joseph Fouché, pronto a far controllare dagli agenti in quanti sediamo a tavola.

C’è da augurarsi che il finale sia diverso da quello di oltre due secoli fa. Forse no, forse stavolta non rotoleranno teste sotto sanguinose ghigliottine. Ma di questo passo, nell’ultimo stadio del game distopico nel quale siamo precipitati, rischiamo di vedere decapitati interi settori economici, dalla ristorazione al turismo, dal mondo dello spettacolo allo sport, per stare ai primi che sovvengono.

Forse no, forse non moriremo di Covid. Ma abbiamo molte probabilità di morire di fame.

 

La Verità, 16 ottobre 2020

«Senza una scossa si va dal lockdown allo showdown»

Professor Massimo Cacciari, l’ho visto più rilassato di altre volte qualche sera fa a Otto e mezzo: soddisfatto dell’esito delle elezioni?

«Soddisfatto… Sono state elezioni di conservazione».

In che senso?

«Nel senso che hanno mostrato che la maggioranza degli elettori teme il futuro e tende a non agitare ulteriormente la situazione. Conte e il governo ne sono usciti consolidati. Segni di mutamenti sostanziali non ne ho visti».

E il trionfo di Nicola Zingaretti?

«Macché trionfo. Zingaretti ha scongiurato il pericolo che, cadendo la Toscana, sarebbe caduto pure lui. Dopo di che in Campania e in Puglia hanno vinto due capibastone. Oso sperare che il Pd non sia modellato su Michele Emiliano e Vincenzo De Luca».

Il Pd chiederà di cambiare i decreti sicurezza e di introdurre lo ius soli?

«Non so quanto voglia mettere alla prova il governo o consolidarlo. Nel Pd c’è un problema colossale: nessuno del gruppo dirigente ha una vera legittimazione dalla base. E non l’avrà fin tanto che non si farà un congresso e si creerà una vera maggioranza. Zingaretti continua a essere un uomo sospeso».

I successi di Luca Zaia, Giovanni Toti, Stefano Bonaccini e De Luca dimostrano che gli uomini nuovi vengono dal territorio perché gli elettori si fidano degli amministratori più che dei dichiaratori da talk show?

«È un discorso fatto altre volte. Alle amministrative di Venezia nel 1997 presi il 65%. A Roma tutto cambia: spesso comandano quelli massacrati a casa loro, come Dario Franceschini. La politica di oggi è talmente centralistica e burocratica da cancellare qualsiasi illusione federalistica. Non vedremo mai i De Luca e gli Emiliano presidenti del Consiglio».

Per il M5s, referendum a parte, è stata una débâcle.

«Ed era prevedibilissimo. In queste elezioni era tutto prevedibilissimo, fuorché Zaia».

Ci arriviamo. Perché si aspettava un risultato negativo dei grillini?

«Se si chiede agli elettori di eliminare un po’ di poltrone o di dimezzare gli stipendi dei parlamentari, come vuole che rispondano? Come si fa a parlare di vittoria storica… Ha ragione Alessandro Di Battista: non si può nascondere la totale mancanza di radicamento territoriale e di competenza amministrativa del M5s dietro il risultato del referendum. I 5 stelle devono decidere se restare un movimento di opinione che campa con referendum demagogici o se cominciare davvero a fare politica».

Gli altri sconfitti sono la Lega di Salvini e Matteo Renzi?

«Renzi è andato straordinariamente male anche nella sua Toscana. Ha sbagliato tutte le mosse, come Salvini. Sono due persone che pagano la loro megalomania».

Quali errori ha commesso Salvini?

«Il primo è stato l’atto autolesionistico di un anno fa. Poi in queste elezioni ha spostato l’asticella in cielo, illudendosi di conquistare l’Emilia Romagna, con quella candidata, e la Toscana idem. La stessa cosa che aveva fatto Renzi con il referendum: o me o morte. Sono persone divorate dalla loro megalomania. Salvini adesso ha anche il problema di Giorgia Meloni».

Che però lei non vede leader del centrodestra.

«Pesa ancora troppo il suo passato. Poi, visto l’arretramento di Forza Italia, dobbiamo ridiscutere il concetto di centrodestra, chiedendoci di quale destra parliamo. E qui diventa interessante il caso Zaia».

Eccoci al punto. In questi giorni Cacciari ha rivelato che alcuni suoi amici di centrosinistra hanno votato per il governatore del Veneto. Lui no, è rimasto fedele alla linea… Ma rimane il fatto che la parabola di Zaia lo stimola.

Perché incarna una destra più presentabile?

«Non è solo un fatto d’immagine. Zaia rappresenta una destra diversa, che non vive di comizi, che non fa il karaoke, che non si limita agli slogan. Ma una destra che amministra, radicata nel territorio, che interpretando gli interessi dell’imprenditoria, dell’agricoltura, delle reti commerciali e artigianali ha saputo modificare la struttura di una regione».

Altra cosa rispetto alla Lega salviniana.

«È una destra borghese anche in senso culturale. Salvini ha fatto la cosa giusta quando ha superato la Lega secessionista di Bossi. Ma ora c’è un altro cambiamento all’orizzonte. La Lega di Zaia è affidabile, non populista, antieuropeista e lepenista».

Si parla di nuova segreteria. Il leader nazionale potrebbe essere Giancarlo Giorgetti?

«Giorgetti e Zaia potrebbero essere i padroni del Nord e Salvini il leader nazionale».

In una fase transitoria?

«Una fase nella quale convicono la Lega populista e quella moderata, fin quando si sceglierà una linea o l’altra».

Un altro tema discriminante è l’immigrazione?

«Nel Veneto ci sono esperienze interessanti d’integrazione. Chi produce sa bene che una certa quota di immigrati è necessaria. Questo senza dimenticare le esigenze di sicurezza, ma anche senza sceneggiate e isterie».

E la Meloni che ruolo avrebbe?

«Intanto erode consensi a Salvini. Poi potrebbe essere l’ala nazionalista con cui allearsi per governare».

Conte continua a galleggiare sulle debolezze altrui?

«Sul piano politico i 5 stelle non esistono. Sono un movimento di opinione, flatus vocis. Il Pd tiene il suo 20% e vince con i capibastone, altrimenti sparisce come in Veneto, Liguria e nelle Marche. Resiste il Granducato di Toscana e l’Emilia. Guardando le mappe di vent’anni fa è evidente che l’eredità si sta consumando. Mi verrebbe da scuoterli: come fate a raccontare che avete vinto? Che congresso potrete mai fare senza una diagnosi realistica?».

E Conte?

«Approfitta del fatto che queste debolezze sono costrette a sorreggerlo. I 5 stelle non andrebbero a elezioni nemmeno con le cannonate e neanche il Pd smania per andarci. Spero che non si limiti a sopravvivere».

Intanto ha detto no al rimpasto. Ci terremo i ministri Azzolina, Bonafede, De Micheli…

«Che cambino un ministro o due significa poco. Quello che conta è decidere se i 200 miliardi del Recovery fund saranno debito in più o verranno investiti nella ricerca, nella scuola, nella formazione».

Il premier ha promesso un cambio di marcia: già sentito?

«Tutti i governi l’hanno promesso. Nei documenti dei famosi Stati generali c’era qualcosa di non già sentito negli ultimi trent’anni?».

Il cambio di marcia è rifare la legge elettorale?

«Devono farlo, altrimenti lo sconquasso sarà totale».

È il momento giusto?

«Tra un mese, quando finirà la cassa integrazione e vedremo fallimenti in serie, gli italiani dovrebbero appassionarsi alla riforma elettorale».

Di Ilva e Alitalia non si parla più…

«Come di scuola e di ricerca. Nel mondo, mentre negli ultimi sei mesi si è registrato un crollo del 10% della produzione, le 90 aziende top dell’informatica hanno aumentato il fatturato di 800 miliardi rispetto al 2019. I big del capitalismo finanziario moltiplicano i profitti, non pagano le tasse e noi parliamo di Emiliano e De Luca. Siamo fuori fase noi italiani, noi europei, noi occidentali».

Consigli?

«La politica dopo la Seconda guerra mondiale costringeva i grandi capitalisti a pagare le tasse e inventava forme di previdenza risolutive per i ceti più sfortunati. Questa urgenza dovrebbe accomunare le forze politiche, al di là di destra e sinistra, invece…».

Si pensa a prorogare lo stato di emergenza.

«Mi auguro che non avremo più lockdown generalizzati. Non possiamo guarire dal Covid crepando. La morte è la migliore medicina, ma se vogliono far guarire il Paese uccidendolo ce lo dicano. Dopo di che, bisogna avere grande attenzione alle regole».

Per esempio?

«Evitando gli eccessi visti in Sardegna. Evitando certi negazionismi. L’epidemia c’è e non è ancora stata sconfitta. Servono indicazioni precise, istruzioni chiare ai medici di base, potenziamento delle strutture sanitarie, delle terapie intensive, le zone rosse tempestive, non come a Bergamo. Ma, detto questo, tutto deve pian piano ripartire».

Beppe Grillo parla di reddito universale e il M5s continua a proporre bonus.

«La società contemporanea va verso una riduzione drastica del lavoro. Questo problema va affrontato con competenza e responsabilità. Doti che al M5s mancano, come si è visto dalla distribuzione a capocchia del reddito di cittadinanza. Ci vogliono criteri e controlli precisi. Altrimenti si creano nuovi ghetti di precari e sottoccupati».

Il pericolo è la società parassitaria di massa?

«Il reddito di cittadinanza non può autorizzare a stare a casa a grattarsi la pancia. Se il lavoro non ce l’hai ti industri per trovartelo o inventartelo. Servono strutture e meccanismi di formazione permanente. Se si continua con la mentalità del lavoro fisso e dello stipendio al 27 del mese, il risultato sarà la nascita di ghetti di poveri e ricchi sempre più distanti tra loro, mentre il ceto medio andrà in malora».

In occasione del caso Palamara si aspettava un’iniziativa maggiore del capo dello Stato, presidente del Csm?

«Il caso Palamara è molto grave, ma anche prevedibile. La crisi dei partiti si è allargata alle altre istituzioni e ai gruppi dirigenti. Una certa prudenza del capo dello Stato è comprensibile, qualsiasi suo intervento avrebbe acuito questa crisi. Il picconatore Cossiga poteva esternare perché c’era ancora la Prima repubblica».

Dove ci porterà una politica fatta di piattaforme, monopattini e banchi a rotelle?

«Dove già siamo. A una politica priva di professionalità e responsabilità. D’altra parte, chi è causa del suo mal pianga sé stesso. Alla fine della Prima repubblica c’erano giornali o tv che non alimentavano la retorica anticasta e sottolineavano l’importanza della competenza e della responsabilità?».

Che cosa ci aspetta nei prossimi mesi?

«Mi auguro di vedere un governo che, sulla base di un’analisi realistica, sappia gestire i soldi del Recovery fund».

Che però arriveranno a giungo 2021.

«Ma già ora bisogna decidere. Se si sceglierà una prospettiva di sviluppo, bene. Se invece prevarrà la logica assistenzialistica vista finora, si passerà direttamente dal lockdown allo showdown. E quando saremo obbligati a rientrare nei parametri, qualcuno metterà le mani nei nostri conti correnti come fece il governo Amato a inizio anni Novanta».

 

La Verità, 26 settembre 2020

«Vi spiego perché Casalino va sostituito subito»

Uomo di pensiero, uomo di sinistra, uomo di giornali e riviste colte. Del resto, nella sua Bari, Giuseppe «Peppino» Caldarola è cresciuto nelle sale felpate della Editori Laterza. 73 anni, a lungo vicedirettore di Rinascita, mensile comunista fondato da Palmiro Togliatti, una breve direzione dell’Unità, una più lunga di ItalianiEuropei, la fondazione di Massimo D’Alema, ora a capo di Civiltà delle macchine, il trimestrale della fondazione Leonardo, Caldarola ha l’onestà dell’osservazione ponderata e di posizioni mai settarie. Qualche giorno fa ha scritto che per costruire il dopo pandemia bisogna ripartire da «scienza e umanesimo», stelle polari della rivista. Personalmente, penso che non basti.

Qual è la sua valutazione dell’operato del governo Conte nella crisi determinata dal coronavirus?

«Ci siamo trovati davanti a un problema inedito con un governo altrettanto inedito. Inevitabilmente, si è avuta un’azione a più facce. All’inizio una risposta titubante, poi una comunicazione incerta. Quando si è capito che le piccole misure erano insufficienti e, anche su stimolo dell’opposizione, si sono introdotte norme più rigide, il governo ha acquisito maggiore autorevolezza. Rimane il problema della comunicazione, ma sembra irrisolvibile».

Secondo lei Rocco Casalino va sostituito?

«Certamente sì. Non ho nulla da dire sulla persona. Ma a mio avviso siamo in presenza di una metodologia sbagliata, una scelta di spettacolarizzazione del premier che non gli giova. Credo servirebbe una figura più professionale, che sappia stare nell’ombra».

È solo un vizio di comunicazione quello che il 27 gennaio a Otto e mezzo ha fatto dire a Conte «siamo prontissimi» ad affrontare l’epidemia?

«Nell’epoca moderna si comunica in ore prestabilite e a quell’ora, caschi il mondo, l’uomo di governo parla. Il prolungarsi dell’attesa fa crescere i seguaci sui social ma anche l’inquietudine dei cittadini. La comunicazione rassicurante di Conte ha pagato il prezzo di centellinare la strategia della chiusura che, invece, andava decisa e comunicata subito».

Insisto: Conte diceva che il governo era «prontissimo».

«Si pensava di avere di fronte un virus curabile con la tachipirina e qualche posto letto. Sarebbe stato un linguaggio più veritiero dire: “Non siamo pronti, ma saremo pronti”».

Inseguivamo primati in Europa.

«La sottovalutazione ha coinvolto dal premier a Nicola Zingaretti a Matteo Salvini. Tutti pensavamo si trattasse di un’influenza un po’ più aggressiva. Solo i virologi più competenti hanno avuto l’esatta percezione del pericolo. Il mondo politico ha cominciato a capire quando si è visto che il contagio attaccava le zone forti del Paese».

Parlando di Europa, questa tragedia sancisce anche la fine della cosiddetta Unione?

«Sono stato europeista tutta una vita, l’ho difesa anche quando non lo meritava. Oggi quell’idea si è in poche settimane bruciata. È una sconfitta per la mia generazione, dobbiamo ripensare e trovare nuovi amici, nuove solidarietà nel mondo».

Che responsabilità ha chi ripeteva di essere in possesso delle contromisure?

«I componenti di tutta la classe politica attuale non hanno vissuto la guerra e il dopoguerra, non hanno visto il colera a Napoli e Bari, erano bambini durante il sequestro Moro, ragazzi durante il terremoto dell’Aquila. È una classe dirigente che, non per colpa sua, non si è confrontata con nessuno dei drammi italiani contemporanei».

È culturalmente impreparata a fronteggiare le emergenze?

«Lo è anche psicologicamente».

Questo deficit che forma prende nell’azione di governo?

«Prende la forma del giudizio ondivago. Si passa rapidamente da <non è niente> a <è gravissimo>».

E questo trasmette insicurezza?

«Una classe dirigente forte trasmette certezza di giudizio. Se lo sbaglia, lo corregge e trova quello giusto. Invece siamo appesi alle valutazioni di giornata di Roberto Burioni, di Ilaria Capua, di Massimo Galli».

Approva la cabina di regia aperta all’opposizione?

«Certo, a condizione che ci si entri disarmati».

Senza secondi fini politici?

«Questa battaglia si vince insieme o non la si vince. La guerra per decidere chi è stato più bravo comincia un minuto dopo la sconfitta del Covid-19. Fino a quel momento siamo tutti corresponsabili».

Le norme adottate contemplano limitazioni eccezionali della vita dei cittadini: può stabilirle un governo con un premier non eletto?

«Il governo ha una maggioranza parlamentare. Negli anni del terrorismo uno schieramento che faceva capo agli Stati uniti e l’altro all’Unione sovietica hanno introdotto e osservato norme molto borderline che violavano alcune regole costituzionali. Oggi si potrebbe firmare un patto che metta insieme maggioranza e opposizione. E venti giorni dopo l’ultimo contagio si potrebbe andare a votare».

L’attuale premier è in grado di guidare un governo del genere?

«Credo di sì. Un patto è un patto, ci dev’essere disarmo non solo dell’opposizione, ma anche della maggioranza. La solidità del patto deriva proprio dal fatto che è stipulato tra forze opposte e reciprocamente antipatizzanti. Non che arriva un terzo personaggio…».

Mario Draghi.

«Draghi può servire ad altro, se lo faccia dire da un comunista. Potrebbe essere il De Gasperi della situazione che arriva nel dopoguerra, si fa dare gli aiuti e tira in piedi l’Italia».

In questa situazione sarebbe servito un sistema operativo più snello e decisionista?

«Avrei preferito da subito la nomina di un commissario. Una figura che, su delega del governo, si assumesse tutta la responsabilità operativa necessaria. In Italia, oltre a quello di Guido Bertolaso, al quale vanno i miei auguri, abbiamo avuto l’esempio di Giuseppe Zamberletti che, con determinazione e violando all’occorrenza le regole, ricostruì il Friuli in tempi record. E, in anni più recenti, l’esempio di Gianni De Gennaro che, dopo il fallimento di altri commissari, risolse l’emergenza rifiuti a Napoli».

Conte ha temuto che un supercommissario gli facesse ombra?

«Tenere la prima linea è stato il secondo errore di Conte. In queste situazioni serve una figura che in nome del governo possa ordinare a una fabbrica di riconvertire la produzione, vigilando che lo faccia. O ritirare l’ambasciatore se un Paese rifiuta di venderci le mascherine. Ho massima fiducia in Domenico Arcuri, ma temo sia arrivato tardi».

C’è chi guarda alla Cina e alla Corea invidiando la tracciabilità dei cittadini tipica dei sistemi dittatoriali. Non le pare che anche le nostre norme abbiano caratteristiche da regime?

«Noi stiamo applicando norme borderline, manca poco che siamo fuori dalla Costituzione. Inoltre stiamo gestendo l’emergenza con la logica dell’apparato di forza. Io rovescio la prospettiva: ai cittadini va dato un servizio».

Esemplifichiamo?

«Invece di essere usato solo per controlli e sanzioni, l’esercito potrebbe diventare tramite fra i cittadini anziani o malati e la distribuzione alimentare. Si firma un’intesa tra il ministero della Difesa e i grandi distributori. Si studia il sistema di pagamento, i cittadini ordinano la spesa, i militari caricano i camion e le consegnano. Si fa la selezione dei nuclei familiari idonei al servizio: anziani soli, famiglie con ammalati, con disabili eccetera. Secondo esempio. Dove ci sono zone di resistenza alle regole si controlla il territorio con l’aiuto dell’esercito».

Non crede che si parli molto del «dopo» e che si tenda a sfuggire al «durante»?

«Parlare del dopo è un esercizio intellettuale di consolazione. Non credo alle teorie catastrofiche. Mi auguro che si cominci ad apprezzare l’obbligo dell’interscambio».

Cioè?

«La possibilità che rinasca un’idea popolare di coesistenza pacifica anche tra schieramenti opposti e tuttavia consapevoli di aver bisogno, da avversari, l’uno dell’altro. Questo non è buonismo, ma coscienza della necessità di una reciproca collaborazione».

Paradossalmente con questa situazione abbiamo risolto il problema dell’inquinamento, del traffico, dello spreco di cibo, stiamo recuperando la solidarietà, imparando le risorse della digitalizzazione… Ci servono decine di migliaia di morti per apprendere il senso del limite? L’esito finale sarà la decrescita felice?

«La decrescita non è mai felice. A quelli della mia parte politica dico di non illudersi che sia finita l’epoca del turbocapitalismo. Dobbiamo confrontarci con tutto quello che sta accadendo sapendo che non c’è nessuna teoria di destra o di sinistra che ci dà la ricetta del futuro. In quello che lei chiama durante vedo un conflitto aperto di soluzioni».

Si spieghi.

«Credo che il segreto del dopo sarà la collaborazione interculturale. Questa forma di guerra che è la pandemia ha messo in mora due figure. La prima è il cretino, ovvero colui che parla senza sapere, derivata dalla convinzione populistica del M5s che un click vale decenni di studi. La seconda bocciatura è della figura dell’egomostro. Questa battaglia non la vincono i superuomini, ma le reti di collaborazione».

Che garanzie abbiamo che scienza e umanesimo basteranno in futuro?

«Non bastano perché a entrambe manca ciò che i cattolici chiamano fede e per i credenti di altre religioni è una dimensione meno elitaria dell’umanità. Capace di più interrogativi e di più voglia di affidarsi».

Anche perché scienza e umanesimo, pilastri del Nuovo ordine mondiale, hanno prodotto prima la crisi di Wall Street e ora questa di Wuhan. Basterà registrare meglio la macchina per ripartire?

«Non basterà. La globalizzazione è diventata una forma di ubriachezza molesta. C’è la necessità di una interdipendenza, di una nuova concordia nelle decisioni da parte dei veri poteri mondiali che non sono necessariamente quelli politici».

Sta dicendo che Trump non va bene?

«Esatto. Quello che posso sperare è che ci sia una presa di coscienza basata sul primato del vero, e quindi della scienza, dell’umanità, e quindi della relazione, della persona, e quindi dell’umiltà».

 

La Verità, 29 marzo 2020

A Sono le venti striscia l’intesa M5s-Sardine-Pd

Una striscia quotidiana, un veloce talk show, un tg con approfondimenti. Sono le venti, il nuovo programma di e con Peter Gomez, dal lunedì al venerdì alle 20 sul canale Nove, è un po’ tutto questo. Un programma contaminato, come si dice in gergo, share all’1% nei primi due episodi. Comunque, anche se non è un vero tg perché fa vacanza nel fine settimana, mezz’ora d’informazione che vorrebbe essere di contro-informazione, alternativa ai telegiornali classici. In realtà, la nuova creatura ideata e condotta dal direttore del Fattoquotidiano.it si presenta come un tg di opinione e opinioni. Nel senso che, sebbene gli ospiti interpellati in qualità di competenti delle varie tematiche siano numerosi, alla fine, risultano piuttosto allineati al mood del conduttore. Che poi è 5 stelle e dintorni perché, sia la scelta dei temi che le inchieste, battono i temi cari al movimento e al governo. Lunedì, a tagliare il nastro dell’esordio, è intervenuto il premier Giuseppe Conte, per dire che no, non ha invitato le Sardine, ma sarebbe contento di riceverle. Però.

In piedi in camicia bianca e munito di tablet, seduto alla scrivania solo per le interviste agli ospiti, in uno studio con grandi pannelli interattivi dominato dall’affresco della Painted Hall di James Thornhill, Gomez snocciola titoli telegrafici, l’esatto opposto di quelli del tg di La7. Si parte dall’agenda politica di giornata, illustrata dai collegamenti di Francesca Martelli che sottolineano l’ostruzionismo di Italia viva alla legge sulla prescrizione, la cui abolizione viene sostenuta dalla testimonianza successiva. Poi si va a Bibbiano con un servizio firmato ancora da Martelli, e si torna in studio interpellando una giornalista che ha seguito il caso dalla parte delle Sardine. Si prosegue con le inchieste originali. La prima, sullo sfruttamento delle cameriere negli hotel di lusso milanesi, è conclusa dal sociologo Domenico De Masi che esalta il reddito di cittadinanza e la necessità del salario minimo per combattere la povertà; la seconda, su un’opera incompiuta e l’inquinamento a Porto Marghera, è commentata dal ministro per l’Ambiente Sergio Costa. In chiusura «la playlist delle notizie di giornata». Chi lamentava l’assenza di un altro programma sostenitore dell’intesa 5 stelle-Sardine-Pd l’ha trovato.

Realizzato da Loft produzioni, Sono le venti è firmato da Duccio Forzano, già regista del Festival di Sanremo e dei programmi di Fabio Fazio e qui direttore artistico, Marco Posani (Quelli che il calcio e Vieni via con me) e Luca Sommi (autore e conduttore di Accordi & disaccordi).

 

La Verità, 23 gennaio 2020

«Vi racconto la vera storia della crisi di mezza estate»

Ladri di democrazia. S’intitola così, senza tanti giri di parole, il pamphlet nel quale Paolo Becchi, con Giuseppe Palma, racconta la vera storia della «crisi di governo più pazza del mondo» (Historica editore). Il professore di filosofia del diritto, già considerato l’ideologo del M5s per la vicinanza a Gianroberto Casaleggio, segue dalla sua casa di Genova i mutamenti della politica e l’evoluzione dei pentastellati, destinati, a suo avviso, a diventare «una piccola formazione di sinistra ecologista». Tutt’altro che periferico, Becchi è stato protagonista del disperato tentativo di mediazione agostano tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio che, per un attimo, aveva riaperto lo spiraglio per una riedizione del governo gialloblù con il capo grillino premier. «Doveva andare così, invece ora penso che il presidente Mattarella sarà pentito delle scelte che ha fatto quest’estate». Insomma, il professore la sa lunga e perciò conviene andare con ordine.

Cominciamo dalla fine, quella dei 5 stelle: davvero Grillo scioglierà il movimento come si sussurra?

«Mmmh… non credo. Secondo me lo lascerà così. Nemmeno lui ha la forza di scioglierlo. Lo renderà biodegradabile… O biodegradato».

In che senso?

«Diventerà una formazione marginale, un partitino di ecologisti di sinistra».

Il giocattolo è rotto e non si può aggiustare?

«Non vedo nessuno in grado di farlo. Il movimento aveva il suo Garibaldi, Grillo, che guidava le cariche, e il suo Giuseppe Mazzini, Casaleggio, il visionario che ci metteva il pensiero. Serviva un Cavour, ma non l’hanno mai avuto. Nel frattempo è morto proprio Mazzini».

Di Maio doveva essere il Cavour del M5s?

«Forse, ma ci voleva tempo per farne un grande pragmatico capace di gestire il potere».

La crisi attuale dipende dal personale politico, dai rapporti con la Casaleggio associati o da alleanze sbagliate?

«È venuto meno il principio unitario che teneva insieme l’organismo. L’originalità del movimento derivava dalla visione di Casaleggio che immaginava una società senza partiti, nella quale il cittadino avrebbe fatto politica senza intermediazioni, attraverso la Rete».

Utopia, sogno

«Non bisognava abbandonarlo, bensì integrarlo nella democrazia rappresentativa. Ora che si è perso l’elemento identitario qualificante è difficile trovarne un altro. La Lega nord si è trasformata in partito nazionale, ma l’idea autonomista è rimasta come elemento di fondo. Il M5s voleva abolire le poltrone e ora, per non sparire, i suoi uomini si attaccano proprio alle poltrone. Sono diventati il tonno dentro la scatoletta. Tra il 2013 e il 2018 hanno perso un’occasione storica. Dovevano cambiare la politica invece sono diventati un asse della partitocrazia. E poi c’è un altro fatto…».

Dica.

«I grillini rivendicano di aver riportato i cittadini alla politica. In realtà, se si guardano i numeri, nel lungo periodo l’astensionismo è aumentato».

Brusco risveglio in Umbria?

«Quando un partito ottiene un buon risultato alle politiche, poi lo dimezza alle europee e lo dimezza ancora alle regionali prendendo meno voti di Fratelli d’Italia, come si fa a non trarre le conseguenze. Quelle dell’Umbria sono state le prime elezioni dopo la nuova alleanza voluta da Grillo. Se si fosse andati a votare prima dell’accordo col Pd, il M5s poteva presentarsi ancora come forza antisistema. Ora ne è pienamente parte e la corrente di protesta si è spostata tutta sulla Lega. La verità è che la crisi di agosto non doveva finire così».

E come?

«Di Maio non voleva la rottura. E Salvini, quando ha visto l’uscita di Matteo Renzi, ha tentato in tutti i modi di fermare l’alleanza tra Pd e 5 stelle. Fino a telefonare al presidente Mattarella, proponendo Di Maio premier con un programma più articolato e una compagine diversa».

Tipo?

«Senza Danilo Toninelli e Giovanni Tria e con Conte commissario a Bruxelles. Glielo dico perché la mediazione l’ho fatta io, giorno per giorno».

Qualcosa ho letto in Ladri di democrazia

«Non ho potuto scrivere tutto… Quando ho capito che la faccenda si metteva male li ho chiamati. Io ero un sostenitore del governo gialloblù… Certo, mancava la sintesi, i leghisti ottenevano un risultato e i grillini un altro. Poi è cresciuto il ruolo di Giuseppe Conte».

Torniamo ad agosto.

«Dopo l’intervista di Renzi che seguiva le dichiarazioni di Grillo era chiaro che si sarebbe andati all’accordo col Pd. Di Maio non ne era per niente convinto, ma per fermare il treno ha posto come condizione di fare il premier».

Quindi non è stata un’idea solo di Salvini?

«Per garantirsi, Di Maio ha chiesto che fosse Salvini a parlarne a Mattarella. Domenica 25 agosto Salvini chiama il Quirinale, ma il presidente è fuori per impegni istituzionali. Quando nel pomeriggio Mattarella richiama e Salvini gli prospetta il governo con Di Maio premier, il presidente non si sbilancia. Non so se informi Di Maio o se avverta Zingaretti, fatto sta che il giorno dopo Zingaretti, fino a quel momento fermo sulla discontinuità, accetta Conte premier. Questa è la pura cronaca. Ora penso che Mattarella cominci a pentirsi delle scelte che ha fatto».

Prima c’era stata la conversione di Grillo che aveva deciso che il Pd non era più il nemico numero uno. Che cosa gli aveva fatto cambiare idea?

«Non so. So solo che in quei giorni viene informato del fatto che suo figlio è indagato per stupro».

Che cosa c’entra con il ribaltone sul Pd?

«Magari nulla, non so cosa sia avvenuto nella sua testa. Però c’è la contemporaneità, il giro sulla moto d’acqua del figlio di Salvini ha occupato le prime pagine per settimane, dell’accusa di stupro a suo figlio si è parlato mezza giornata. Fino a quel momento il Pd era il partito di Bibbiano. Poi, improvvisamente, Grillo dice che bisogna finirla con i barbari e allearsi con il Pd».

Tutto si è messo in moto da lì.

«Grillo ha sempre disprezzato Salvini, mentre considera Conte un elevato, lo ha anche scritto. Forse pensa che a lungo andare potrà sostituire Di Maio. Ma quel cambio di rotta è inspiegabile, anche perché c’era un accordo…».

Cioè?

«Una spartizione di ruoli: l’associazione Rousseau paga tutti i processi di quelli cacciati dal movimento e Grillo si ritira nel ruolo di padre nobile. Non a caso crea il suo blog mentre Di Maio, appoggiato da Davide Casaleggio, diventa il capo politico. Fino ad agosto, quando cambia tutto».

Il ritiro di Grillo non era causato dalla stanchezza…

«C’era un accordo, ricordiamoci sempre che è genovese… Di Maio è rimasto spiazzato perché non si aspettava che intervenisse in prima persona. Per far passare l’accordo, Grillo non voleva specificare il nome del Pd nel quesito sulla piattaforma. Adesso aspettiamo di vedere che cosa dirà sulle regionali in Emilia Romagna. Sappiamo solo che è contrario alla posizione di Di Maio».

Tornando a oggi, come hanno fatto a non prevedere il disorientamento degli elettori dopo un cambiamento così radicale?

«Non hanno più il contatto con la popolazione, vivono nel palazzo. Pensi alla trasformazione di una come Paola Taverna che non dava neanche la mano e adesso cerca benevolenza… Non spariranno del tutto, resteranno un partitino votato dagli elettori del Sud che hanno avuto il reddito di cittadinanza».

Previsione troppo nera?

«Non credo. Con Gianroberto Casaleggio c’era un’idea di futuro, c’erano i meet up e gli streaming. Casaleggio aveva detto che se ci si fosse alleati con il Pd sarebbe uscito dal movimento e invece sono gli italiani che hanno lasciato il M5s. Sono divisi su tutto, non riescono nemmeno a nominare i capi dei gruppi parlamentari».

Perché ha lasciato il movimento?

«Per dissensi sulla linea. Mi chiesero di scrivere un atto di accusa di Napolitano, ma poi cambiarono idea e il mio documento finì nel cassetto. Per le europee del 2014 avevo proposto di fare la campagna contro l’euro, allora non era come adesso. Dissi a Casaleggio che stava sbagliando e che Renzi avrebbe stravinto, sappiamo tutti come andò».

Una volta arrivati al governo era troppo difficile gestire l’ideologia della decrescita?

«Il governo gialloblù non ha saputo fare la sintesi tra sovranismo identitario leghista e sovranismo sociale dei 5 stelle. Ma l’Italia ha bisogno di questa sintesi».

C’erano i no alla Tav, all’Ilva, alla Gronda…

«È il motivo per cui Salvini ha staccato la spina. I poteri forti non aspettavano altro e appena si è aperto lo spiraglio si sono infilati per riprendersi tutto. Il M5s non ha saputo mantenere la carica ecologista adattando il messaggio a una strategia di sviluppo sostenibile».

Il futuro del M5s è quello di un partito verde e digitale su modello nordeuropeo?

«Trascuriamo gli eccessi alla Greta Thunberg, ma l’emergenza ecologica è reale. Non vedo altri approdi che quello di una sinistra ecologista, tipo i Grunen tedeschi. Ma in Italia non hanno mai attecchito, è un destino di marginalità».

Destino irreversibile? E Di Maio?

«Destino molto probabile. Di Maio non ha il carisma di Salvini o dello stesso Grillo che entusiasmano le folle. E prima o poi si andrà a votare».

Tra un paio d’anni?

«Non credo, si voterà già nel 2020. Alla fine capiranno che è meglio una morte rapida e dolce rispetto a un’agonia prolungata. Dopo l’Umbria ci saranno l’Emilia Romagna, la Calabria, la Puglia, il Veneto… Se Zingaretti avesse intelligenza politica sarebbe lui a voler votare. Certo, vincerebbe Salvini, ma si libererebbe di Renzi, metterebbe in Parlamento i suoi uomini e potrebbe dar vita a un’opposizione credibile».

Adesso però è al governo.

«In un governo che sta mettendo le tasse sulle cartine per le sigarette. Ma è una gag di Maurizio Crozza o una cosa vera? Un Paese come l’Italia, già settima potenza mondiale, sta decidendo di tassare le cartine per le sigarette: non ci si crede. Una manovra così dà ancora più potere a Salvini. Di Maio l’ha capito, Zingaretti ancora no».

Ha visto Di Maio cantare Pino Daniele al Costanzo show?

«No, come già Gianroberto Casaleggio, non guardo la televisione».

 

La Verità, 3 novembre 2019

«La Boldrini va al governo e noi cincischiamo»

Buongiorno Francesco Storace, è contento del governo che sta nascendo?

«Credo sia uno dei peggiori esempi di trasformismo della storia della Repubblica. Non ricordo un Presidente del consiglio di una maggioranza che lo rimane con quella opposta».

È scandalizzato?

«Sono colpito. Secondo me in politica le parole sono importanti. Si chiama Parlamento non Zittamento. Vuol dire che c’è il primato della parola. Invece, da una parte abbiamo Luigi Di Maio che fino a un mese fa parlava del “partito di Bibbiano”, dall’altra è facile rintracciare in rete un video in cui Nicola Zingaretti ribadiva “mai con i 5 stelle”».

Parlando di piroette c’è stata anche quella di Matteo Renzi.

«Renzi è quello che ha scardinato i giochi. Ci sta che chi è in minoranza in un partito scateni il casino. Ma chi li guida dovrebbe mantenere un senso di coerenza e affidabilità. Di Maio e Zingaretti mi hanno ricordato Gianfranco Fini quando disse: “Con Bossi mai più in caffè”. E poi invece tornarono insieme al governo».

Sessant’anni e una lunga militanza nella destra, dall’Msi fino a Fratelli d’Italia passando per An, già Presidente della regione Lazio e ministro della Salute nel terzo governo Berlusconi, Francesco Storace non è uomo da eufemismi. Da Capo d’Orlando, Sicilia, dove sta trascorrendo le ultime ore di riposo prima del rientro a Roma, scrive editoriali per Il Secolo d’Italia, il sito che dirige, vicino a Fratelli d’Italia e posta sui social anche foto un tantino hard. Come un dito medio indirizzato al governo nascente.

Conte ha detto che il suo sarà un governo «non contro, ma per»: che significa?

«Sono sciocchezze a uso dell’opinione pubblica e dei giornali. Conte e un concentrato di banalità. Purtroppo sono pochi i giornali che lo notano, l’inondazione di saliva prevale».

Un governo per i porti aperti, nuove tasse, il via libera alla magistratura e alle adozioni ai gay?

«E per gli inchini all’Europa».

Il governo stesso è partito da un inchino all’Europa?

«Potremmo chiamarlo governo Schettino, dal nome dell’ex capitano che fece naufragare la Concordia per fare l’inchino all’Isola del Giglio».

Ha ragione Matteo Salvini quando dice che il Conte bis è nato a Bruxelles?

«È nato fuori d’Italia. Abbiamo saputo che è stato Emmanuel Macron a suggerire il tweet di Trump in favore di “Giuseppi”. Il capo dei sovranisti mondiali sponsorizza un premier che si scopre antisovranista. È evidente che c’è un gioco globale: le fauci dei potenti della terra si aprono sull’Italia. Su questo Salvini ha sbagliato a giocare su due tavoli».

Russia e America. Infatti ora Conte parla di «multilateralismo che non rinneghi l’euroatlantismo».

«L’intervista la sta facendo a me o a Conte? Il suo peccato originale è che è un signore pescato dal nulla e portato a Palazzo Chigi senza aver mai preso un voto. Poi è diventato leader della coalizione opposta, sempre evitando elezioni. Se non è un oltraggio alla democrazia…».

È un premier doubleface?

«Non sappiamo che faccia ha e addirittura gliene diamo due. No, è semplicemente uno spregiudicato amante del potere».

Dirà che è lì per spirito di servizio.

(Silenzio).

Com’è stato possibile che Zingaretti abbia ceduto su tutta la linea, dall’andare al voto alla discontinuità?

«Per una volta nella vita gli avevo dato fiducia. Credevo volesse davvero andare a votare. Poi gli è esplosa la bomba Renzi tra i piedi che è riuscito a recuperare un ruolo nel partito. Il secondo errore che imputo a Zingaretti è non aver avuto il coraggio di entrare personalmente nel governo. Si vede per lui conta di più la guida della regione Lazio. Ma se voleva davvero puntellare il governo, avrebbe dovuto esporsi, magari come vicepremier. Nessuno potrebbe giocare con il segretario in prima linea. La scelta di restare in regione fa sospettare che non creda pienamente in questa avventura».

Forse teme che entrando nel governo gli sfilino del tutto partito?

«Da vicepremier sarebbe più difficile disarcionarlo. Non vorrei che oltre a non far votare gli italiani non si vogliano far votare nemmeno i cittadini del Lazio».

Anche Zingaretti ha subito pressioni per cambiare le sue posizioni?

«Tutti hanno detto dei no che sono diventati dei sì. Voglio vedere come finisce il film per capire quanto ha perso. Per come lo conosco, Zingaretti non è uno che molla facile. Ho la certezza che ci siano state pressioni, sia interne che esterne. La stessa nomina di Ursula von der Leyen è stata chiara in questa direzione. E il sorprendente ritorno in campo di Romano Prodi? In questa crisi se ne sono viste di tutti i colori…».

Sbagliando i tempi Salvini ha fatto un favore a Di Maio e Conte?

«Salvini ha ragione quando dice che tutti gli chiedevano di staccare la spina. Il problema è che se stacchi e non c’è la corrente alternativa si resta al buio. La corrente alternativa c’era la settimana dopo le europee, invece lui ripeteva che avrebbero governato insieme per cinque anni».

Voleva dimostrarsi un socio leale?

«Non mi permetto di giudicare il tasso di lealtà, ma mi pare abbia fatto male i conti. Personalmente non ci parlo da mesi… Dirigo un giornale online che per numero di visualizzazioni ha superato il Blog delle Stelle. In agosto siamo arrivati a 10milioni di pagine visualizzate. Eppure lui si ostina a non rilasciarci un’intervista, non riesco a capire perché».

Doveva darsi un profilo più istituzionale invece di stare al Papeete?

«Questo mi sembra un ritornello infantile. Tutti andiamo al mare, non può andarci un ministro?».

Magari non nei giorni in cui sta per aprire la crisi di governo.

«Lo aveva preannunciato a Conte che gli ha chiesto di aspettare. Comunque, questi sono formalismi che mi interessano poco. M’interessa di più la sostanza che ora la sinistra è al governo».

Anche la richiesta di pieni poteri è stato un errore: dopo le parabole di Berlusconi e di Renzi non s’impara che l’uomo solo al comando non dura?

«Sarebbe bastato dire che voleva usare pienamente le possibilità di potere che la Costituzione attribuisce a chi governa».

La richiesta di pieni poteri può spaventare l’opinione pubblica?

«Se sono quelli garantiti dalla Costituzione ai governanti non vedo che cosa ci sia da temere. C’è anche molto guasconismo in certe espressioni. Siamo figli di Twitter più che di Facebook».

Per l’area di centrodestra la prospettiva è di un lungo periodo di opposizione?

«Dipende da quanto durerà Conte. Ma un governo che nasce sul terrore di andare al voto, a naso non mi pare un modello di stabilità. Con dentro Liberi e uguali manca solo Roberto Saviano ministro».

La stabilità del governo la darà chi l’ha voluto, oltre all’Europa, la Cei, la Cgil, i gesuiti?

«Che la Cei possa accettare un governo con Monica Cirinnà mi pare complicato».

Il direttore di Civiltà cattolica Antonio Spadaro e il presidente della Cei Gualtiero Bassetti si sono pronunciati.

«E la cosa mi dispiace. Lo dico da credente e praticante: trovo indigesto che personalità rilevanti della Chiesa si siano schierate in questo modo».

Il centrodestra andrà in piazza in ordine sparso?

«Purtroppo sì. Fosse stato per me, i tre leader avrebbero dovuto salire insieme al Quirinale. Avrebbero mostrato chi rappresenta la maggioranza del popolo italiano. E sarebbe stato plasticamente visibile il fatto che si vuole far governare quelli che il centrodestra batte ogni giorno».

Berlusconi vuole tornare a essere il perno della coalizione?

«È una gara a chi ce l’ha più lungo, diciamo la verità».

Troveranno una sintesi?

«Metto la clessidra nell’attesa che comincino a riflettere. Ero dubbioso come Giorgia Meloni sull’alleanza con Forza Italia. Ma nel momento in cui Zingaretti e Di Maio prefigurano un’intesa di sistema, il centrodestra non può cincischiare. Loro portano Laura Boldrini al governo e noi ci mettiamo a misurare il tasso di rivoluzione dell’alleato?».

Berlusconi ha detto che il centrodestra dev’essere una coalizione moderata depurata dal sovranismo.

«Berlusconi preferisce il sovrano al sovranismo, a condizione che sia lui. Se si vuole escludere dalla coalizione è un conto, ma se si vuole farne a meno, rischia di essere controproducente. Io sono dell’idea di fare ogni sforzo per tenere unito il centrodestra affinché Zingaretti e Di Maio non vincano anche in futuro».

Per Forza Italia questa crisi dimostra che il sovranismo è perdente.

«Finora mi pare che il centrodestra a trazione sovranista abbia vinto in tutte le competizioni degli ultimi anni».

Se è stata Bruxelles a decidere questo governo come dice Salvini non conveniva una diplomazia diversa? Per esempio sul voto a Ursula von der Leyen?

«Per me hanno fatto bene a non votarla. Anche la discussione su chi dev’essere il nostro commissario europeo è incredibile. Se si dice che è legittima una nuova maggioranza in base agli equilibri usciti dalle elezioni del 2018, come si fa a sostenere il contrario a proposito del commissario europeo? Le elezioni del 26 maggio le hanno vinte la Lega e Fdi. Il commissario non è una casella da spartire tra Pd e M5s, non è un rappresentante del governo, ma di tutta l’Italia che ha votato alle europee».

Che cosa dovrebbe fare ora Salvini?

«Lo rivaluterei se chiamasse la Meloni e le chiedesse di aggregarsi alla manifestazione nel giorno della fiducia a Conte. Giorgia ha indetto una protesta senza simboli di partito, ma solo con il tricolore. La coalizione viene prima dei partiti. Mi pare che da qualche tempo il tricolore abbia cominciato a piacere anche alla Lega».

Come andranno le prossime elezioni regionali?

«Credo e spero che vincerà il centrodestra. Sarebbe un bel segnale dopo lo scandalo sulla sanità che ha colpito l’amministrazione di sinistra in Umbria».

Quanto durerà il Conte bis?

«Credo che a primavera la commedia finirà. A meno che non riescano a stringere alleanze sul territorio. Dobbiamo augurarci che Goffredo Bettini, il gran tessitore del Pd romano, torni in letargo».

 

La Verità, 1 settembre 2019

Lilli e il nuovo mondo. Da demolire a tutti i costi

«Vi ricordo che domani sarà in edicola il nuovo Sette con un’intervista a Maria Elena Boschi, quindi non perdetevelo». Ha chiuso così, Lilli Gruber, la puntata dell’altra sera di Otto e mezzo su La7. Oltre all’intervista all’ex ministro per le Riforme costituzionali, il magazine del Corriere della Sera diretto da Beppe Severgnini, abitualmente in studio, contiene l’abituale rubrica nella quale la stessa Gruber, sempre abitualmente, randella i populisti («Tutti i populisti mentono. Sono pericolosi e opportunisti», «La collettivizzazione del dolore conduce al peggior populismo», per citare le ultime puntate).

La nuova stagione di Otto e mezzo si è inaugurata appunto nel segno dell’abitudine e della continuità. Solito studio, solito Punto di Paolo Pagliaro, solita corte degli oracoli. Del resto, squadra che vince non si cambia. Tuttavia, c’è un però: la concorrenza di Barbara Palombelli su Rete 4 che, sebbene non la spunti in termini di share, rappresenta un’alternativa che le contende ospiti e temi. Così, intanto, nel calcolo degli ascolti Otto e mezzo ha deciso di scorporare l’anteprima dal programma. La novità principale però è il tenore della conduzione. Fin dalla puntata d’esordio, con l’intervista esclusiva a Alessandro Di Battista, la Gruber ha scelto una linea spiccatamente antigovernativa. I tasti suonati sono la subalternità del M5s alla Lega, le differenti posizioni in varie materie, l’impossibilità di realizzare le riforme economiche promesse, lo sforamento della legge di stabilità che produrrà un’apocalisse, e poi quanto mai potrà durare un governo così, l’avvento del razzismo in Italia, la crescita dei piccoli Mussolini, l’alleanza della Lega con l’estrema destra europea… Qualche giorno fa Marco Travaglio le ha risposto che di subalternità non si può parlare perché, anche se Salvini va sui giornali, alla fine i provvedimenti concreti portano la firma dei ministri grillini: il decreto dignità, la vertenza Ilva, la legge anticorruzione… In una puntata successiva anche Paolo Mieli ha detto che questo è un governo del M5s perché Giuseppe Conte è stato voluto da Luigi Di Maio, che peraltro si è tenuto le deleghe di spesa più importanti. Niente da fare, anche se gli oracoli la smentiscono, lei procede inscalfibile. E al sottosegretario alla Presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti ha chiesto a raffica: «Lei si sente di destra? Le piace stare insieme a Casa Pound? Le piacciono gli ungheresi di Orbàn? In Italia c’è un allarme razzismo?».

Il ruolo di paladina della narrazione antigovernativa bisogna sudarselo…

La Verità, 21 settembre 2018

Nomine Rai, grave errore non puntare su Freccero

C’è qualcosa che sfugge nella faccenda delle nomine Rai in corso di definizione nei palazzi romani. Come tutti i precedenti governi, anche quello gialloblù, capeggiato da Giuseppe Conte e orientato da Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ha annunciato innovazione, cambiamenti e divaricazione tra politica e servizio pubblico radiotelevisivo. Insomma, la solita raffica degli annunci. Se, infatti, subito dopo si vanno a leggere i nomi dei consiglieri scaturiti dalla selezione dei curriculum e successivamente entrati in gioco per i posti apicali, non si ha esattamente la percezione di una netta e inconfutabile inversione di tendenza. La nomina alla presidenza «che spetta alla Lega» di Giovanna Bianchi Clerici, già consigliera di amministrazione, ha il sapore di una riproposizione delle solite liturgie. Forse meno scontata è l’indicazione per il ruolo di amministratore delegato di Fabrizio Salini, già ad dei canali Fox, direttore di La7 e ora dirigente della società di produzione «Stand by me».

Tutto, in fondo, dipende dalla mission dei nuovi vertici. Tre anni fa Antonio Campo Dall’Orto aveva l’obiettivo di trasformare un’azienda matura e sostanzialmente analogica in una media company moderna al passo con la rivoluzione digitale. Si è visto com’è finita quando ha provato a tenere i partiti lontani dalla Rai. Le sue stesse dimissioni, precedute da quelle di Carlo Verdelli, e le uscite di Massimo Giannini, Massimo Giletti e il semaforo rosso alzato davanti al portale diretto da Milena Gabanelli nonché alla sua proposta di una striscia quotidiana, sono lì a documentare il rifiuto della politica a farsi da parte. Con tante promesse disattese gravanti sul cavallo morente di Viale Mazzini è inevitabile che scetticismo e rassegnazione accompagnino ogni cambio di governance. Qualcuno dice che «ci sono nomi nascosti che non vogliamo bruciare». Salvini annuncia di voler incontrare «personalmente tutti i candidati ai vertici». Intanto si continuano a leggere rose di nomi dalle quali è sorprendentemente sparito quello di un professionista autorevole e carismatico come Carlo Freccero. Chi, parlando di televisione, ha un curriculum più credibile dell’ex direttore di Rai 2, ispiratore di mille, pur controversi, successi? Freccero è competente, colto, trasversale, imprevedibile e slegato da consorterie di partito: una figura sulla quale nessuno potrebbe eccepire. Lega e M5s potrebbero affidare al presidente la delega editoriale sul prodotto, lasciando al direttore generale funzioni aziendali e d’innovazione tecnologica. Lasciare in panchina un fuoriclasse con la sua storia e il suo know how sarebbe un errore di cui ci si potrebbe pentire.

 

La Verità, 24 luglio 2018

 

«Ciò che Matteo R. può imparare da Matteo S.»

Ha avuto un infarto che, dice, «mi ha cambiato la vita e mi ha fatto ricalcolare le priorità». Da quando, settembre 2017, si è ritrovato una notte in terapia intensiva, Claudio Amendola, 55 anni, figlio d’arte e marito di Francesca Neri, prova a dosarsi. Ma essendo persona generosa, non sempre riesce a frenarsi, anche quando si tratta di pronunciarsi sulle cose della politica. Così succede che una volta gli diano del leghista, un’altra uno come Paolo Mieli lo invita a presentare il suo libro (La storia del comunismo in 50 ritratti) con questa motivazione: «Ho sfogliato i giornali dell’ultimo anno e le uniche due persone che abbiano parlato di comunismo e di valori con intelligenza, tenendo presente i sentimenti, sono state Claudio Amendola e Moni Ovadia». Amendola è di estrema sinistra e ha lavorato molto a Mediaset, apprezza l’abilità di Matteo Salvini, fa il testimonial di un marchio di scommesse sportive. Qui però partiamo da Hotel Gagarin, il film opera prima di Simone Spada, con Luca Argentero, Giuseppe Battiston e un poetico Phlippe Leroy. Una sorta di apologo lieve e incantato che mette di buonumore.

 La frase chiave è una citazione di Lev Tolstoi fatta dal personaggio di Battiston: «Se vuoi essere felice, comincia». A lei cosa dice questa frase?

«È una nota di positività, nel film come nella vita. Se non ci si alza dal divano e si apre la finestra, la felicità non entrerà mai. È un invito a riconoscere che dipende in gran parte da noi».

Di solito la colpa della nostra infelicità è della società, della politica. Viviamo di alibi?

«Continuamente. Per fortuna ci sono anche esempi di responsabilità. Io ho tre figli: la primogenita Alessia, mamma e doppiatrice affermata, e Rocco, il terzo, che studia all’università. In mezzo c’è Giulia, che ha 28 anni, ha fatto l’Accademia di moda e costume e, lavorando con me, avrebbe avuto la strada spianata. Ma siccome è un po’ hippie, preferisce girare l’Italia in camper e vendere sulle bancarelle i prodotti che confeziona con la macchina per cucire. Non mi ha chiesto niente, ora sta diventando un’imprenditrice online. E si ribella quando le sue amiche lamentano che non c’è futuro. Lo racconto senza sminuire la situazione del nostro Paese; solo per chiedermi: cos’è la felicità?».

Hotel Gagarin è una favola sognante: cosa le è piaciuto della sceneggiatura?

«Sapevo dall’inizio che avrei fatto questo film perché conosco e stimo Simone Spada. Ma leggendo il copione mi sono commosso e divertito. C’è la commedia, mai volgare. C’è il bonario rimprovero di Battiston davanti ai poveri veri… C’è l’incontro tra due popoli diversi. Se avessimo girato sulle montagne d’Abruzzo non avremmo trovato quei volti simili a quelli dei nostri contadini del dopoguerra. Abbiamo imparato la storia del popolo armeno, un mondo parallelo vittima di genocidi e dell’influenza sovietica».

Cosa c’è di vero nel fatto che è stanco di recitare e che preferisce dirigere?

«Non sono stanco a prescindere, dipende dai ruoli. Trovo che la regia mi completi e mi dia grande soddisfazione perché mi piace dirigere gli attori, conoscendo bene ciò che passa nella loro testa. A volte i registi non comprendono come siamo fatti, un mix di orgoglio e presunzione che spesso cozza con limiti e vergogne».

Madre attrice e padre doppiatore, il cinema è un sogno o una questione di famiglia?

«Tutt’e due. Ci sono sia il mondo dorato che la tradizione di famiglia. Ma è soprattutto un mestiere, qualcosa di artigianale, un lavoro di squadra».

Un ricordo di suo padre?

«Quando recitavamo insieme temeva non ricordassi le battute e non riusciva a non ripeterle sottovoce. In quel labiale c’era tutta la sua protezione e il suo incoraggiamento».

A quale ruolo è più affezionato?

«Ho interpretato tanti personaggi, il Samurai di Suburra, ho recitato ne La regina Margot, in Ultrà e La scorta di Ricky Tognazzi, in Mery per sempre di Marco Risi… Ma forse i ruoli che mi sono più rimasti sono il terrorista di La mia generazione e l’ispettore di Domenica, due film di Wilma Labate. Mi trovo a mio agio nelle figure dolenti e sconfitte più che con gli eroi vittoriosi».

È stato tra i primi a passare dalla tv al cinema e dal cinema alla tv smontando lo snobismo di coloro che dividevano la recitazione in serie A e serie B.

«Mi faceva ridere lo snobismo di qualche anno fa, quando mi rimproveravano I Cesaroni. E mi fa sorridere ora la corsa per entrare nei cast delle serie giuste. Ho fatto tante ore di volo in tv, imparando dai macchinisti e dai tecnici. Se dopo quasi 40 anni ancora lavoro vuol dire che la scuola è stata buona».

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