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Il diario un filo troppo apocalittico di Verdelli

Detta in modo brutale, la questione sollevata dal libro di Carlo Verdelli Roma non perdona – Come la politica si è ripresa la Rai (Feltrinelli) è la seguente: il cambiamento della Rai può essere realizzato solo da dirigenti e manager esterni o potrebbero farcela anche capi allevati nella pancia del pachiderma? Lo scaravoltamento, come lo chiamava entusiasticamente la presidente Monica Maggioni, può essere opera solo di alieni, qualcuno catapultato da fuori, o possono riuscire nell’impresa anche coloro che ci sono nati dentro e conoscono corridoi e sottoscala come le loro tasche? Scremata dal risentimento, da una certa dose d’incazzatura che pervade il racconto di Verdelli, ridotta al nocciolo, la questione è, in fondo, questa. Messa così, d’istinto, vien da dire che probabilmente è più libero, svincolato da legami pregressi e debiti di riconoscenza chi viene da lontano. Gli «interni» difettano inevitabilmente della distanza indispensabile per possedere una visione disincantata e operare senza cedimenti e partigianerie. È un fatto oggettivo, strutturale, verrebbe da dire. Chi viene da dentro è troppo dentro: per ragioni fisiologiche e filosofiche.

Carlo Verdelli è stato direttore editoriale per l’Offerta informativa della Rai dal 26 novembre 2015 al 3 gennaio 2017, quando si è dimesso dopo la bocciatura, senza voto, del Consiglio d’amministrazione del suo Piano di riforma dell’informazione realizzato in cinque mesi (quello di Luigi Gubitosi, altrettanto abortito, aveva richiesto due anni). Niente Tg2 a Milano, creazione delle macro aree al posto dei tg regionali, TgSud, fusione di RaiNews24 e TgR, redattore multisuo e mobile journalism. Niente di niente. Solo promesse e dimissioni. Come Verdelli, con motivazioni diverse e diverse modalità, uno dopo l’altro si sono dimessi quasi tutti i dirigenti di quella stagione: Antonio Campo Dall’Orto, sei mesi dopo, Daria Bignardi che era direttrice di Rai 3, Ilaria Dallatana di Rai 2, per ultimo Gabriele Romagnoli, capo di Rai Sport.

A Roma li chiamavano «i milanesi», anche se Campo Dall’Orto è veneto e Romagnoli bolognese. Il corpaccione li ha rigettati, come tanti pezzettini sputati da Polifemo, racconta l’autore. Verdelli è finora l’unico che si è espresso pubblicamente su quell’esperienza, probabilmente perché il suo divorzio è stato il più brutale ed è arrivato dopo una nomina a sorpresa che aveva suscitato non poche aspettative. Io stesso ne nutrivo alcune. Va detto che, aldilà della sua vicenda personale, la stagione di Campo Dall’Orto era parsa inaugurare effettivamente un nuovo corso. La media company, l’ingresso nell’era digitale, la razionalizzazione delle testate giornalistiche, il gioco di squadra, un diverso dinamismo nell’intrattenimento e nella fiction. In sintesi, il trasloco del servizio pubblico televisivo dal Novecento al Terzo millennio.

Tuttavia, personalmente, avendo seguito numerosi tentativi poi abortiti, sono molto scettico sulla possibilità di rinnovarsi della Rai. Ci sarà un motivo se, come scrive Verdelli, nella morìa delle tante madri italiche, la lira, la Fiat, la naia, la Dc, Mamma Rai, insieme a mamma Roma, è l’unica sopravvissuta.

A farla breve, sempre in quel modo brutale, il motivo è che la politica non taglia il ramo su cui sta seduta. «La Rai è la torta nuziale di chi vince le elezioni». È un bottino, la prateria nella quale i partiti piazzano amici, parenti, amanti, politici trombati. Sebbene, puntualmente, contestualmente al suo insediamento, ogni nuovo governo dispieghi come un manifesto la volontà di tenere la politica fuori dalla Rai.

Anche la mission consegnata da Matteo Renzi al nuovo amministratore delegato suonava allo stesso modo. Vai, cambia la Rai e fregatene dei partiti. Poco alla volta però le cose sono cambiate. E la marcatura dei suoi uomini si è fatta soffocante. Prima sono scesi in campo gli «organismi dissuasori», l’Usigrai, la Commissione di Vigilanza, il Cda. Dopo breve monitoraggio degli innovatori, è toccato ai ventriloqui del capo. È «“la peggiore gestione nella storia della Rai” (copyright di Maurizio Gasparri, pasdaran della destra che fu berlusconiana?», si chiede Verdelli. «Macché, di Michele Anzaldi, diversamente allegro deputato Pd e portavoce dell’ultimo Renzi)». «Questi non hanno capito chi ha vinto», ribadì sempre Anzaldi per coloro che non avevano afferrato il concetto. I tre consiglieri di minoranza, Giancarlo Mazzuca, Carlo Freccero e Arturo Diaconale «hanno fatto meno danni alla Rai di Campo Dall’Orto di quelli inviati per sostenerla», annota l’attuale direttore di Repubblica. Insomma, il delitto del fuoco amico è il dato più evidente di quella stagione.

Risulta perciò piuttosto pretestuosa la scelta di Verdelli di apporre come post-scriptum di ogni capitolo dei flash «dal paese dei balocchi», mostrando incongruenze e volgarità dei nuovi politici e del governo gialloverde, smanioso di occupare l’azienda radiotelevisiva. Milena Gabanelli, Massimo Giannini, Massimo Giletti e Nicola Porro sono stati accompagnati alla porta in epoca renziana. Mentre il simpatico Fabio Fazio è ancora al suo posto a quasi un anno dalle nomine di Fabrizio Salini e Marcello Foa. Quel post scriptum è un attacco a un post nemico che arriva dopo il the end sulla stagione di Campo Dall’Orto e Verdelli. In mezzo c’è stato anche il film di Mario Orfeo, con Monica Maggioni sempre presidente. Il che dà a tutto il diario – privo di ammissioni di colpe, tipo una certa sindrome da bunker della struttura creata ad hoc – un tono da dopo di noi il diluvio. Quella stagione è stata, sì, un’occasione persa per la Rai, l’ennesima, triste dimostrazione della sua irriformabilità. Ma non sarà un filo troppo apocalittico far intendere che, con il successivo arrivo dei barbari, sia stata anche l’ultima spiaggia della politica, del Paese e dell’Italia tutta?

 

La smemoria di Anzaldi sulle epurazioni

Strappato al suo habitat naturale, l’ossessione antifaziana, Michele Anzaldi si aggira spaesato e smemorato dalle parti dell’editto renziano. La faccenda è esilarante dato il fatto che il protagonista della sua applicazione è stato proprio lui con il suo diuturno interventismo, superiore persino a quello di qualsiasi direttore generale. Ma tant’è. Ci sono vari modi per promulgare e applicare un editto. Quello frontale e impulsivo di Sofia che tutti ricordiamo, e quello più scientifico e protratto nel tempo che è sotto gli occhi degli osservatori più indipendenti tra i quali non si annovera il segretario della Commissione di Vigilanza che, in un lungo post sulla sua bacheca Facebook rilanciato dal sito Dagospia, mischia le carte e mimetizza le responsabilità. Facendola breve, il risultato è la Rai del pensiero unico renziano di oggi, l’azzeramento delle voci indipendenti messo in atto dagli zelanti esecutori del capo e del suo fedele successore. L’inopinata cancellazione di Virus di Nicola Porro fu l’atto d’esordio di Ilaria Dallatana alla direzione di Rai 2. Tanto che, come chiunque ricorderà, anche la presidente Monica Maggioni chiese in Vigilanza il ripristino del pluralismo. Fino a ieri, persino in epoche di strapotere governativo, una rete e un tg erano riservati all’opposizione, oggi il Tg3 è diretto da Luca Mazzà, ex vicedirettore di Rai 3 premiato dopo aver lasciato la responsabilità di Ballarò in polemica con Massimo Giannini (successore di Giovanni Floris, già accasato a La7 per scansare la collisione inevitabile) considerato troppo antirenziano. A sua volta, sempre come chiunque ricorderà, Giannini era settimanalmente attaccato dall’allora premier per i suoi ascolti inferiori a quelli dei film di Rete 4. Fino al previsto epilogo al quale proprio Anzaldi non fu estraneo dopo che il conduttore aveva parlato di «rapporto incestuoso» del ministro Maria Elena Boschi con la Banca Etruria dove il padre occupava un ruolo dirigenziale. Giannini fu rimosso e sostituito da Gianluca Semprini. Avvicendata da Mazzà, a sua volta era stata rimossa dal Tg3 Bianca Berlinguer, alla quale è stata concessa, per disperazione, #cartabianca dopo il flop di Politics (pochi mesi dopo il direttore di Rai 3 Daria Bignardi si è dimessa). Al troppo anarchico Massimo Giletti è stato tolto il format di successo che aveva creato e conduceva da 13 anni, quell’Arena che aveva 4 milioni di telespettatori (oltre il doppio di quelli che seguono le sorelle Parodi) per offrirgli in cambio la conduzione di alcune serate musicali. Per il finale di stagione della serie Strane dimissioni in Viale Mazzini bastano le parole di Milena Gabanelli: «In campagna elettorale mi volevano defilata». Dunque, prima no alla direzione del portale delle news online, poi no alla striscia dopo il Tg1. Nel suo spaesamento forse Anzaldi non s’è avveduto che tutto questo è accaduto mentre si preparava un referendum che il suo capo aveva reso epocale e ora si approssimano le elezioni di primavera, altro appuntamento che molti considerano di un certo rilievo. Per dire, è un caso che gli uomini del capo propendessero per la Rai come sede del confronto tra Renzi e Di Maio? E sarà il calendario elettorale il motivo per cui non si hanno più notizie del Piano dell’informazione, quella bizzarra fissa su cui sono inciampati Carlo Verdelli e Antonio Campo Dall’Orto? O forse tutto tace perché, in fondo, il Piano è già operante e si chiama normalizzazione?

La Verità, 4 novembre 2017

Riusciranno mai i politici a riformare la Rai?

Eh sì, bisognerebbe riformare la Rai. Mettere fine allo scempio, allo spreco. Bisognerebbe modernizzare la tv di Stato, residuato della Prima Repubblica, pagata con i nostri soldi che finiscono nelle tasche delle star viziate che hanno bottega su Rai 1 e Rai 3, 4 e 5. Bisognerebbe farlo, una volta per tutte. Per sanare l’anomalia di un servizio pubblico che vive per un terzo di pubblicità. Per risolvere la contraddizione della «prima azienda culturale italiana» che compete sul mercato. Ovvero nella gara degli ascolti e, di conseguenza, nella contesa a suon di milioni degli artisti più popolari. Bisognerebbe riformarla questa Rai. Per sanare il vulnus di un’azienda il cui non più direttore generale ma amministratore delegato, alla maniera delle grandi imprese private, è nominato dal ministero dell’Economia, cioè dal governo. Il quale, amministratore delegato, nomina a sua volta i direttori delle reti e dei telegiornali, della fiction, del cinema, della radio, dello sport e della pubblicità-tà-tà-tà. Indi per cui si sospetta, ma è solo un sospetto, che anche l’informazione, i mezzibusti, i conduttori dei talk show, le ospitate nei salotti di approfondimento (o sprofondamento?), i tenutari di rubriche di viaggi e salute, i metereologi e i presentatori e direttori artistici dei Festival della canzone siano, come dire, determinati dalla politica.

Detto banalmente, da buon ligure Fabio Fazio se n’è accorto ora che il tetto di 240.000 euro l’anno ha rischiato di planare anche sulla sua dichiarazione dei redditi. Non fosse stato per il parere dell’Avvocatura di Stato… Anzi, la Rai bisognerebbe riformarla per passare la spugna pure sui pareri degli avvocati dello Stato, che poi devono tornare in Cda, per poi essere rilanciati in Parlamento, per poi… Già che ci siamo la spugna andrebbe passata sui contratti di convenzione di servizio pubblico, da rinnovare ogni tot anni, previo psicodramma nelle aule di Palazzo San Macuto. E ancora, per abolire il canone di abbonamento e la sua evasione, nonostante il pagamento nella bolletta elettrica.

Riformerò la Rai, aveva annunciato Matteo Renzi contestualmente alla salita a Palazzo Chigi. S’è visto com’è andata. Non è detto sia cattiveria, ma un fatto strutturale, di com’è fatto il nostro sistema istituzionale e di divisione dei poteri. La riprova: l’avevano promesso i governi di tutte le repubbliche, seconda, prima e prima della prima. Risultato identico. Il fatto è che la Rai è la riserva di caccia della politica, la prateria dove far pascolare portaborse, onorevoli, gregari di palazzo, ministri e sottosegretari mancanti, garantendo loro un po’ del potere che non riescono a esercitare in prima linea. Per tenerli buoni. Privatizzarla sarebbe come segare il ramo su cui la politica sta seduta. Ricordate Francesco Storace, Michele Bonatesta, e venendo più vicini al presente, Maurizio Gasparri e Renato Brunetta? Ministri delle Telecomunicazioni, riformatori, vigilanti di Stato. Privatizzare la Rai servirebbe pure a spianare la Commissione di Vigilanza. Basterebbe da solo, come motivo. Pensate che vita, senza le invettive quotidiane di Michele Anzaldi. Solo che a lui e a quelli come lui bisognerebbe trovare un altro lavoro.

10 cose da ricordare (e 3 conclusioni) sullo scazzo politici-Rai

Era ora. Giornalisti e opinionisti cominciano a svegliarsi. Meglio tardi che mai, si sono accorti che, detta in soldoni, la politica vuol riprendersi la Rai. Più nello specifico, è una parte della politica, una parte del Pd in particolare, a voler dettare regole, influenzare nomine, scelte, epurazioni e promozioni. La campagna contro i nuovi vertici di Viale Mazzini, nominati dal premier Renzi a inizio agosto, in verità è cominciata già da qualche mese. Ma ora siamo al culmine. La posta in gioco è alta. E allora le parti che si sentono escluse alzano la voce. Nel mio piccolo, su questo blog ne scrivo da diversi giorni (http://bit.ly/20KDNDA). L’ultimo casus belli è stato il “veto” imposto agli esponenti del Pd a Ballarò di Massimo Giannini, dato da molti come già giubilato dalla “Rai renziana”, e quindi propenso a vendicarsi. In realtà, si è presto capito che era necessario un riequilibrio delle presenze nel talk show, troppo sbilanciate proprio a favore dei dem.

Massimo Giannini e, sullo sfondo, Antonio Campo Dall'Orto

Massimo Giannini e, sullo sfondo, Antonio Campo Dall’Orto

Per comprendere meglio lo scazzo in atto tra alcuni politici e i vertici Rai, prima di tentare qualche considerazione, può servire mettere in fila i fatti dell’ultima, ottima annata.

  1. Dopo lunga ricerca, tra qualche diniego e autocandidati non convincenti, il 6 agosto Renzi sceglie Antonio Campo Dall’Orto come direttore generale della Rai. Monica Maggioni è la presidente.
  2. A fine novembre Campo Dall’Orto nomina Carlo Verdelli direttore editoriale dell’informazione. Va in soffitta la riforma dei tg incentrata sulle newsroom, voluta da Gubitosi e studiata da Nino Rizzo Nervo (ex Margherita) e Valerio Fiorespino.
  3. Il 22 dicembre il Senato riforma la governance trasformando il dg in amministratore delegato. Lo scopo è concentrare le decisioni, snellire le burocrazie e frenare le interferenze. Il superdg ha mano libera nella nomina dei “dirigenti apicali” e potere di spesa fino a 10 milioni.
  4. Il 9 febbraio Michele Anzaldi, commissario di Vigilanza (ex portavoce di Rutelli) rilascia un’intervista al Corriere della Sera: “Sui nuovi vertici Rai ci siamo sbagliati. Arroganti, sono peggio dei predecessori”. Ma lo sanno “come sono arrivati lì? Ce li abbiamo messi noi della Vigilanza, con una serie di votazioni a catena complicatissime… E adesso non vedono, non sentono, non parlano”. Cioè, non ci consultano per le nomine.
  5. Il 17 febbraio vengono annunciati i nuovi direttori di rete: Andrea Fabiano a Raiuno, Ilaria Dallatana a Raidue, Daria Bignardi a Raitre, Gabriele Romagnoli a RaiSport. Mentana sottolinea il ruolo di suggeritore dietro le quinte di Giorgio Gori.
  6. Intanto prosegue l’infornata di esterni. Da Guido Rossi, capo-staff del dg, a Gian Paolo Tagliavia, responsabile creativo, da Massimo Coppola, consulente editoriale a Giovanni Parapini, comunicazione istituzionale. Anche Verdelli chiede uno staff: Francesco Merlo (da Repubblica), Pino Corrias (interno), Diego Antonelli (ex Gazzetta) e quattro persone scelte con il job posting aziendale.
  7. Il 6 aprile Porta a Porta manda in onda l’intervista a Salvo Riina, figlio del boss mafioso Totò, a sua volta condannato a 8 anni e 10 mesi per reati mafiosi. Un obiettivo colpo giornalistico, mal gestito perché Bruno Vespa fa firmare la liberatoria solo al termine dell’intervista.
  8. In Commissione di Vigilanza Verdelli si assume la responsabilità della messa in onda e dice: “Non censuro un’intervista per le dichiarazioni di cinque, dieci politici”.
  9. Da inizio maggio si susseguono le audizioni di Campo Dall’Orto sul Piano industriale. Il 25 maggio, il sottosegretario alle Telecomunicazioni Antonello Giacomelli (area Margherita) dice che quello del dg “è più un’indicazione di obiettivi che un piano industriale”. Suona come una sconfessione.
  10. Il 31 maggio esplode il caso del mancato invito di esponenti pd a Ballarò nella settimana pre-elettorale. Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini annunciano un esposto all’Agcom. Conteggi alla mano, proprio l’Agcom ha chiesto di riequilibrare l’eccesso di presenze dem. Dal canto suo Roberto Fico M5S, presidente della Vigilanza, contesta lo sbilanciamento del Tg1 in favore del sì al referendum di ottobre.
Mattero Renzi ospite di Nicola Porro nell'ultima puntata di Virus (foto LaPresse)

Mattero Renzi ospite di Nicola Porro nell’ultima puntata di Virus (foto LaPresse)

Finalmente, dicevo, alcuni commentatori, da Paolo Conti sul Corriere (http://bit.ly/20Vx9KR) a Michele Serra su Repubblica (http://bit.ly/1VzqRRm) si stanno accorgendo del paradosso. La politica, Renzi in prima fila, annuncia di voler uscire dalla Rai e predispone una riforma che rafforza i poteri per tutelare l’autonomia degli amministratori interni. Ma appena vede che certi desiderata non sono assolti, si pente. Soprattutto si pentono i mediatori, che basano la loro stessa esistenza sul potere di condizionamento.

Conclusioni. Con l’eccezione dell’ultima iniziativa di Serracchiani e Guerini, forse mal informati, l’attacco sistematico ai vertici Rai, cavalcato da alcuni siti molto seguiti in Viale Mazzini, è portato in prevalenza da esponenti della ex Margherita, contrariati, in parte per l’archiviazione della riforma delle newsroom e l’esclusione dalle nomine sui direttori di rete e, in parte, frementi nel voler condizionare le prossime scelte sui telegiornali e sulle conduzioni.

Carlo Verdelli, direttore editoriale dell'informazione

Carlo Verdelli, direttore editoriale dell’informazione

La manovra s’incaglia sulla presenza di Verdelli, poco sensibile alle logiche lottizzatorie. Le sue parole in Vigilanza contro la censura all’intervista a Riina gli hanno attirato l’ostilità matematica e permanente dell’arco costituzionale. Non a caso un giorno sì e l’altro pure filtrano indiscrezioni che lo danno in uscita.

Chi s’illude che il luogo di composizione dello scazzo sia la Commissione di Vigilanza forse non ha presente di quale inutile e ipocrita rito bizantino si tratti. La telenovela continua.

Sette cose non vere scritte sulla Rai

Cresce il nervosismo dei politici che seguono i movimenti dentro la Rai. I nuovi dirigenti non soddisfano, sono ritenuti lenti, timidi. Si sbrighino, dopo le amministrative c’è il referendum. Sottosegretari e commissari vigilanti rumoreggiano, vogliono contare e influenzare le scelte. Basta seguire le audizioni della Commissione di Vigilanza per rendersene conto (http://bit.ly/1VmfGeI). L’altro giorno il sottosegretario alle Telecomunicazioni Antonello Giacomelli ha criticato la nuova dirigenza della tv pubblica, espressa non più tardi di nove mesi fa dal governo di cui è autorevole rappresentante. Il piano industriale di Campo Dall’Orto? Non c’è… “C’è solo un’indicazione di obiettivi”. Si sa, i politici non amano parlare di media company. Vogliono nomi e caselle. Chi dirigerà il Tg3 e chi condurrà Ballarò. Siamo tutti Ct della Nazionale e direttori di Raiuno. Stando invece al piano industriale gli obiettivi primari sono cambiare filosofia, migliorare contenuti, modernizzare l’informazione, aggiornare linguaggi. Teoricamente, se si riuscissero a quadrare i contenuti con questi direttori dei tg, potrebbero persino rimanere. L’obiettivo è creare un’azienda dell’immaginario in grado di stare al passo con la rivoluzione tecnologica.

Michele Anzaldi, commissario di vigilanza Rai

Michele Anzaldi, commissario di vigilanza Rai

Per fare il confronto tra questa mission e la realtà quotidiana, l’altro giorno la Rai di Firenze ha dovuto acquistare da un service esterno le immagini della voragine sul Lungarno. All’ora in cui si è verificato il disastro non c’erano troupe in servizio e le norme sindacali impediscono di usare un telefonino o un tablet per girare anche un video d’emergenza. Modernità… Altro esempio: in Rai esistono ben 250 siti che ne riportano il marchio (tutti ovviamente con un traffico modesto per non dire irrisorio), ma non esiste una divisione digitale che li gestisca. Tutto questo non preoccupa né Michele AnzaldiSalvatore Margiotta, per citare due vigilanti a caso in quota Pd. Margiotta è invece preoccupato che esista uno “scollamento” tra il governo e i vertici di Viale Mazzini. Magari. Non s’era detto che lo scopo della nuova governance e del dg trasformato in amministratore delegato doveva fungere da scudo contro le ingerenze dei partiti? Chiacchiere, loro vorrebbero tutto, come dire, più incollato. E se non lo è abbastanza, scalpitano. Vogliono le nomine giuste e i conduttori giusti. E bisogna farla pagare a Verdelli che, parlando dell’intervista a Riina, disse “non censuro per le dichiarazioni di cinque o dieci politici”. Nel frattempo, chissà come e chissà perché, continuano a uscire indiscrezioni molto ipotetiche e nomi improbabili.

Ecco una lista di notizie infondate.

Massimo Giannini, conduttore di Ballarò, non ancora giubilato

Massimo Giannini, conduttore di Ballarò, non ancora giubilato

  1. Fabrizio Ferragni, attuale vicedirettore del Tg1, nominato direttore di RaiParlamento al posto di Gianni Scipione Rossi.
  2. Carlo Verdelli pronto a mollare perché non tocca palla, inascoltato dagli altri dirigenti.
  3. I talk show che, escluso Porta a Porta, sono due (Ballarò e Virus), trasformati in programmi di infotainment.
  4. Massimo Giannini già fuori dalla Rai e in cerca di un altro posto.
  5. Pif conduttore di Ballarò.
  6. Francesco Merlo silurato come collaboratore di Verdelli (inizierà il primo giugno come consulente).
  7. La triade femminile di direttori dei telegiornali composta da Sarah Varetto, Lilli Gruber e Lucia Annunziata.

Come Anzaldi è diventato Michele Anzaldi

Un vero duro. Tosto. Ombroso e solitario. Lo descrivono così, quelli che lo conoscono e ci hanno avuto a che fare per motivi di lavoro. “Un ottimo capo ufficio stampa”, versione simpatizzante. “Uno che non scuciva una notizia”, velenosa. “Era più facile trattare direttamente con Rutelli che con lui”, ostile. “Se ti prendeva in antipatia eri completamente tagliato fuori”, distaccata. Perché, da siciliano, anzi, da palermitano, ha un forte senso degli amici (pochi, pochissimi) e dei nemici (la maggioranza). Tra i primi ci sono il portavoce di Renzi, Filippo Sensi, che lo considera suo maestro, e Paolo Gentiloni, il ministro. Tra i secondi, il resto del mondo; con l’eccezione di alcuni animali, i cavalli che ama montare, e i suoi cani, che gli scandiscono la giornata con le loro esigenze… È a loro che, da animalista convinto, riserva qualche tenerezza.

Michele Anzaldi è l’uomo del momento. Non solo per le cose che dice e gli anatemi che scaglia contro giornalisti e conduttori tv quasi come un Brunetta di sinistra. Ma per le domande che il suo comportamento pone all’intero circuito politico-mediatico. In fondo è il continuatore di una lunga tradizione di censori che hanno perlopiù trovato il loro habitat nella Commissione di Vigilanza, istituto dell’ancien régime, da Ugo Intini a Francesco Storace, da Michele Bonatesta appunto a Renato Brunetta. Solo che questi erano tutti di destra. Invece, qui comincia il caso, siamo di fronte a un “epuratore renziano” (Travaglio), un “Torquemada” (Prima comunicazione) che milita nel centrosinistra e si è formato nelle stanze di Legambiente, con Francesco Rutelli e nella Margherita.

Dunque, prima domanda: con quei toni ultimativi, Anzaldi esprime opinioni personali o interpreta il pensiero del premier? “Fifty fifty”, versione disincantata. “È un gioco delle parti, lui poliziotto cattivo, Sensi quello buono”, versione cinematografica. “Fa di testa sua, Renzi non lo smentisce, in privato smorza. Intanto tiene sulla corda chi vuol fare l’indipendente”, versione realistica. Seconda domanda: perché Renzi non lo smentisce? Ci arrivo tra un po’. Terza domanda: chi era prima di diventare Michele Anzaldi? Cioè, colui che, senza andare indietro al caso Giletti e all’imitazione della Raffaele della Boschi considerata irrispettosa, ha chiesto in un paio di settimane il licenziamento di Massimo Giannini per lesa maestà della solita Boschi (”rapporti incestuosi” a proposito di Banca Etruria); di Bianca Berlinguer perché dà troppo spazio ai grillini e ha dimenticato le foibe; di Franca Leosini per l’intervista a Luca Varani, lo stalker sfregiatore di Lucia Annibali; di Andrea Vianello direttore di Raitre, per svariati motivi. Non bastasse, pochi giorni fa ha alzato il tiro esternando sul Corriere il pentimento per aver fatto nominare “noi della Vigilanza, con una serie di votazioni a catena complicatissime, con uno straordinario lavoro di mediazione politica” il direttore generale Campo Dall’Orto e la presidente Maggioni. “Da quando ci sono loro la Rai è peggiorata tantissimo”. Putiferio. Presa di distanza del vicesegretario dem Lorenzo Guerini: “A un politico spetta prendere i voti, non darli”. Conferma della fiducia ai vertici Rai con comunicato dei capigruppo di Camera e Senato, Rosato e Zanda. “Matteo” non l’ha smentito nemmeno stavolta e Anzaldi continua a rimarcarlo.

A metà degli anni ’80, quando è da poco arrivato a Roma, Michele ha in mano solo la maturità liceale. Ma il ragazzo è intraprendente e fonda, prima il Telefono verde, poi l’Osservatorio parlamentare di Legambiente che mette i parlamentari ecologisti in rapporto con gli elettori. Nel ’90 inizia a collaborare con La Nuova Ecologia, diretta da Paolo Gentiloni. Ma è l’amico Gianni Riotta, conterraneo di sei anni più vecchio, a fargli fare il salto, chiamandolo nella redazione di Milano, Italia. È il ’93. Il rapporto tra Gianni e Michele è solido e complice, sono pure imparentati, cognati per l’esattezza, avendo sposato due sorelle, la scienziata Maria Laura Gennaro, Riotta, e Daniela, Anzaldi, dalla quale ha due figli. Con Gentiloni e Riotta la carriera di Michele decolla (per la verità decolla anche la vita privata, perché dopo la separazione da Daniela, Anzaldi sta con Flaminia Lais, portavoce del ministro degli Esteri).

Sempre nel ’93, dicembre, Rutelli diventa primo cittadino di Roma e di lì a poco ha bisogno di un capo ufficio stampa. Anzaldi è perfetto. Il sindaco se lo prende e lo tiene come portavoce anche nei successivi incarichi, da vicepremier del governo Prodi e ministro dei Beni culturali. Michele lo protegge con massima dedizione, se serve anche litigando con Barbara Palombelli che, stando a lui, gli fa frequentare troppi salotti radical chic. Lui no, non si distrae. Tolta quella per i cavalli, non gli si conoscono passioni particolari. È tenace, puntiglioso, ispido. “Quando scrivevi qualcosa che non gradiva, complice l’accento, la minaccia sapeva di lupara”, versione immaginifica. “È l’ufficio stampa che ha il record mondiale di smentite, tanto era poco accomodante. Chiedere ai colleghi delle agenzie”, antipatizzante.

Rutelli declina, nel 2007 la Margherita si scioglie nel Pd, ma Europa, organo ufficiale, resta in vita fino al 2014 (lo è tuttora online). È lì che Anzaldi conosce Nino Rizzo Nervo, Stefano Menichini, Filippo Sensi, geniale autore di Nomfup. Il Pd è in mano a Bersani, e Michele e Filippo cominciano a seguire il giovane Renzi che passa da presidente della Provincia a sindaco di Firenze. Pian piano ne diventano l’ufficio stampa ombra, promuovendo l’immagine del giovane politico dalle idee innovative, fino ad attirare l’attenzione del New York Times che, a inizio 2012, grazie allo sforzo del sindaco di “costruire una città vivibile e viva”, inserisce il capoluogo toscano in uno dei 45 luoghi assolutamente da visitare nel corso dell’anno.

Tredici mesi dopo, alle politiche del 2013, Anzaldi è candidato alla Camera, in posizione blindata, in una circoscrizione dell’Emilia Romagna. A sorpresa, per molti. Non per gli osservatori più attenti della galassia renziana. Impegno e zelo sono ripagati. E “Matteo” non lo smentisce. Per ora…