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«Le chiese in lockdown mi hanno spinto in Africa»

Il 27 aprile 2020, piena era Covid, con un video di quattro minuti contestò la decisione dell’allora governo Conte di mantenere le chiese chiuse. Poi, nell’ottobre successivo, si dimise da vescovo di Ascoli Piceno e si ritirò in un monastero in Marocco: «In un momento difficile come questo in cui regna confusione e nella società c’è tanta paura, sento profondamente il bisogno di dedicarmi alla preghiera». Giovanni D’Ercole, già vescovo ausiliare a L’Aquila e poi pastore ad Ascoli Piceno, è un volto familiare non solo per i cattolici, ma per tanti altri essendo stato per 24 anni conduttore del programma di Rai 2 Prossimo tuo diventato poi Sulla via di Damasco. A tre anni da quella scelta ha accettato di rispondere alle domande della Verità.

Qual è il motivo del suo trasferimento nel monastero Nôtre Dame de l’Atlas a Midelt?

«Con la pandemia del Covid-19 perdurava la chiusura delle chiese senza la possibilità dei sacramenti. Come pastore non accettavo che si considerassero le chiese luogo del contagio più dei supermercati. Da qui quel video».

Come venne accolto?

«Mi dissero che rompevo la comunione tra noi vescovi non seguendo le indicazioni del governo».

Da chi le fu fatto osservare?

«Alcuni lasciarono capire che anche il Papa lo pensava. Così, per coerenza e per non creare inutili dissidi, decisi di dimettermi e il 29 ottobre 2020 lo feci».

Vedeva una gerarchia troppo acquiescente allo Stato?

«Si erano accettate le direttive del governo e, non volendo fare polemiche, ho scelto di ritirarmi in monastero. Tanta gente si sentiva abbandonata e l’ho portata in preghiera con me. Poi ho cominciato a sostenere spiritualmente diversi sacerdoti, ed è nato il gruppo “Verità e riconciliazione” il cui scopo è dalla sofferenza del Covid far nascere la speranza. Recentemente molti di “Verità e riconciliazione” hanno inviato una lettera ai giornali cattolici perché si faccia verità sui vaccini per cui tante persone si sono allontanate dalla Chiesa. Anche voi della Verità ne avete parlato».

Ha visto che in Italia la Commissione d’inchiesta sulla pandemia stenta a decollare?

«Ricercare la verità fa bene a tutti, anche perché c’è gente che soffre le conseguenze dei vaccini. Il comitato “Ascoltami” raccoglie più di 4.000 persone con gravi postumi dal siero e chiede aiuto. Al loro grido ha risposto un gruppetto di sacerdoti denominatosi “Chiesa in ascolto” per dare a chi soffre un segno di vicinanza della Chiesa. Anch’io ho aderito: parlando con malati a distanza avverto tanta paura e bisogno di ascolto».

Che risposte avete avuto?

«Ho visto tanta rabbia calmarsi quando ci si rende conto che qualcuno ascolta, almeno nella Chiesa».

Tre anni fa divenne in anticipo vescovo emerito di Ascoli Piceno: una scelta che poteva ricordare le dimissioni di Benedetto XVI nel 2013?

«Ho scelto di ritirarmi in preghiera; stando in monastero mi è stato proposto di restare in Marocco a sostegno dei sacerdoti e ringrazio l’arcivescovo di Rabat, il cardinale Cristóbal López Romero, che mi ha accolto. Da quasi tre anni sono al servizio della comunità cristiana composta da 40.000 fedeli in un popolo di 35 milioni di abitanti. Una Chiesa, secondo le parole del cardinale, “insignificante ma significativa”, in gran parte composta da giovani subsahariani».

Come si svolge la vita di preghiera?

«Dalle 3,45 alle 20,30 la giornata scorre tra silenzio, preghiera, lavoro, studio, con la Messa cuore di tutto. Spesso i tempi delle nostre preghiere coincidono con quelli delle preghiere islamiche, annunciate dal muezzin e quasi ogni giorno, al mattino, gli operai tutti musulmani preparano una colazione che chiamiamo “la seconda eucaristia”, un segno che unisce i monaci alla gente».

Il suo monastero ha accolto i superstiti dei trappisti di Tibhirine uccisi in Algeria nel 1996. In che modo ne proseguite l’eredità?

«Padre Jean Pierre Shoumacher, l’ultimo sopravvissuto, è morto il 21 novembre 2021 a Midelt dove si vive il carisma di Tibhirine che unisce alla vita dei trappisti il dialogo con l’islam».

Dopo quel martirio com’è possibile il dialogo in un Paese quasi totalmente musulmano?

«Non si meravigli se le dico che è possibile e anzi persino fruttuoso: è l’incontro di gente che prega e quindi tra credenti. A contatto con quest’islam ho riscoperto la mia fede cristiana, seguendo le orme di Charles de Foucauld e del suo discepolo padre Albert Peyriguère, sepolto in questo monastero».

Ammette che si tratta di un’esperienza singolare, considerato tutto quello che accade in Israele e la sequela di morti di innocenti in Europa?

«Tutto si complica quando si alimentano preconcetti e pregiudizi: il dialogo è invece possibile e papa Francesco sta facendo di tutto per implementarlo. Il dialogo è rispettare e accettare le differenze in cerca di ciò che ci unisce senza accentuare i contrasti. Il vero atout è conservare la propria identità e viverla in modo serio e visibile. Mi permetta di dirle che ascolto spesso musulmani affermare che noi cristiani europei ci vergogniamo della nostra fede. Ed io non so come fare per aiutare a capire che svendere la nostra fede per andare incontro ai musulmani è un grosso errore. Non bisogna aver paura, la violenza, quando c’è, è al di fuori della religione».

C’è chi dice che invece la violenza sia insita nel Corano. Lei non crede che l’islam abbia ambizioni di conquista del mondo occidentale?

«Che i musulmani possano avere questa intenzione è possibile, è il proselitismo, ma il problema è che noi europei abbiamo abdicato alla nostra fede, diventando non più credenti e quindi assai fragili».

La nostra arrendevolezza facilita l’espansione dell’islam?

«Sicuramente, soprattutto se non viviamo più da cristiani perché il confronto deve essere tra “credenti”».

La invito a riflettere su alcuni fatti che sfuggono a questa lettura. In Francia nel 2016 padre Jacques Hamel è stato sgozzato a Rouen da due estremisti islamici, nell’agosto del 2021 padre Olivier Maire è stato ucciso in Vandea dall’uomo che un anno prima aveva appiccato l’incendio nella cattedrale di Nantes.

«Stiamo parlando dell’estremismo. È vero: esiste e le prime vittime sono gli stessi musulmani moderati. L’estremismo è una mina vagante, che riguarda una minima parte dell’islam. Per combatterlo si vive la fede cristiana “senza se e senza ma” e ci si allea strategicamente con quei musulmani che come noi credono in un Dio misericordioso. Ma una domanda va fatta: come si stanno accogliendo gli immigrati in gran parte islamici? La violenza potrebbe nascere proprio da come li trattiamo».

Molti segnali indicano che le seconde e le terze generazioni non vogliono integrarsi e vivono in zone metropolitane dove vigono leggi alternative a quelle dei Paesi ospitanti.

«È tutto vero: paghiamo il prezzo della politica dell’immigrazione che non ha puntato seriamente all’integrazione. Come cristiani poi non siamo spesso un esempio di Chiesa viva, e allora molti giovani musulmani sono sedotti dalla laicizzazione dilagante e dalla violenza come conseguenza di tanti fattori».

In Europa ammette che l’integrazione è fallita anche chi, come Angela Merkel, ci ha provato e creduto a lungo.

«Può essere, ma mi permetta di aggiungere che nessuno finora ha preso sul serio l’integrazione come valorizzazione delle differenze. Domina sempre la paura e la disistima verso il “diverso”.  Don Tonino Bello sognava la “convivialità” e non lo scontro fra le culture».

Da lì come vede l’ondata migratoria verso l’Europa?

«È un’invasione inarrestabile di popoli sfruttati nell’epoca coloniale e oggi con il miraggio dell’eden europeo».

Miraggio è la parola corretta perché indica una realtà che appare, ma non si realizza.

«Si realizza nel senso che chi arriva in Europa è disposto a tutto perché ha capito, a differenza di molti giovani italiani, che bisogna faticare per costruirsi una situazione dignitosa. E ci riescono perché ne sono certi».

Per ora le conseguenze sono soprattutto delinquenza e criminalità.

«Il fenomeno della delinquenza non potrebbe essere utile politicamente a qualcuno?».

Che ruolo ha la Chiesa cattolica nella convivenza tra le diverse religioni?

«Papa Francesco invita al dialogo senza abdicare alla propria identità. Guai a diluire il vangelo perché chi debole si fa, finirà per perdere nel confronto«.

Perché le esortazioni alla pace di papa Francesco sono poco considerate?

«Molti ammirano papa Francesco per il suo desiderio di includere, ma mi capita di sentire gente che non lo vuole ascoltare. Allora dico loro: leggete quel che Francesco scrive nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: “La gioia del vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”. La pace, diceva Giovanni Paolo II, nasce solo da cuori pacificati e Cristo è la nostra pace».

Lei è anche un uomo di comunicazione: papa Francesco è ascoltato quanto merita o il moltiplicarsi degli interventi sull’attualità rischia di ridurne l’autorevolezza?

«Una regola basilare della comunicazione è che quanto più si parla, meno si è ascoltati. E questo riguarda tutti».

Ha apprezzato l’esortazione apostolica Laudate Deum?

« A mio avviso tutto è utile e interessante, ma oggi si deve andare all’essenziale perché nello sconquasso generale si ha urgente sete di verità: di Dio, come Francesco aveva annunciato attraverso il Giubileo straordinario della misericordia del 2015-2016».

Ha visto nella Laudate Deum un appiattimento sui temi dell’ambientalismo? 

«Conservo sempre nel cuore quello che Francesco ha più volte ripetuto e cioè che la Chiesa non è una Ong che fa solo promozione umana».

Come ha vissuto il Sinodo sulla sinodalità?

«Il cardinale arcivescovo di Rabat è tornato entusiasta soprattutto per il clima di preghiera che l’ha guidato, mentre un vescovo africano era perplesso per le aperture che si stanno facendo».

Che cosa pensa della decisione di papa Francesco di sollevare dall’incarico il vescovo americano Joseph Strickland a causa delle sue posizioni tradizionaliste?

«Il Papa è il Papa e quello che fa ho imparato a non giudicarlo».

Da decenni c’è il calo di partecipazione ai sacramenti e la crisi delle vocazioni. Perché i giovani di oggi dovrebbero essere attratti dalla Chiesa se propone le stesse cose che propone il mondo?

«Ha ragione, ma c’è una grande novità all’orizzonte: è Gesù e i giovani oggi ne hanno sete. Non tradiamo le loro attese».

Le manca la vita attiva di pastore e pensa di tornare in Italia?

«Vivo intensamente la giornata con ampi spazi di preghiera e di ascolto della gente. Ringrazio Dio per tutto e farò in futuro quello che Lui vuole».

 

La Verità, 25 novembre 2023

 

«L’islam conquista l’Europa con migranti e natalità»

Giornalista del Foglio, già collaboratore del Jerusalem Post e del Wall Street Journal, autore di saggi sulle religioni del Medio Oriente, Israele e mondo arabo, Giulio Meotti è uno dei maggiori esperti italiani di islam.

Il suo ultimo libro pubblicato da Cantagalli s’intitola La dolce conquista, sottotitolo: l’Europa si arrende all’islam. Perché sarebbe dolce questa conquista?

«Perché è più pericolosa delle bombe e delle uccisioni, ce ne sono state tante con centinaia di morti».

Sembra un controsenso.

«È più pericolosa perché non provoca una reazione dell’opinione pubblica e di coloro che dovrebbero proteggerci».

La dolcezza risalta a confronto con i precedenti tentativi di conquiste, quella dei Mori della Spagna, e quella dei Turchi passando dai Balcani?

«In parte sì. Il grande islamologo e arabista Bernard Lewis diceva che questa è la “terza conquista”, dopo che i musulmani sono stati fermati a Poitiers e alle porte di Vienna».

Di quali mezzi si serve?

«Della demografia perché il tasso di fertilità è di gran lunga superiore al nostro, dell’immigrazione e della dawa, che è la predicazione attraverso le moschee e la proliferazione dei simboli islamici».

È più l’Europa che si arrende o la religione islamica che è aggressiva?

«Un mix delle due cose. Da un lato c’è l’arrendevolezza dei politici europei e dall’altra la volontà di espansione che appartiene all’islam che, ricordiamolo, si distingue tra il dar al-islam, la terra dell’islam, e il dar al-harb, che è la terra della conquista, tutto ciò che non è islamico ma lo dovrà diventare».

Premesso che Francesco sottolinea che la missione si esprime attraverso il contagio, il proselitismo appartiene a tutte le religioni.

«Con la differenza che il cristianesimo nella vecchia Europa è in ritirata mentre l’islam è in una fase di grande avanzata. Il mix letale è scristianizzazione più islamizzazione».

Un travaso fra vasi comunicanti?

«A suo tempo il cardinal Giacomo Biffi disse che “l’Europa o ridiventerà cristiana o diventerà islamica”».

Sono proselitismi paragonabili?

«Non c’è nella storia dell’islam un Paese che si islamizza e preserva comunità religiose alternative. Nel più laico tra i paesi musulmani, la Turchia, gli ebrei sono una manciata e i cristiani stanno scomparendo».

Non ammettono la convivenza con altre confessioni?

«Boualem Sansal, autore di 2084. La fine del mondo, ha paragonato l’islamismo a un gas, “nel lungo periodo occupa tutto lo spazio”».

È corretto definire l’islam religione?

«Non è solo una religione, è un’ideologia e un modo legislativo di vivere: non bere alcolici, fai crescere la barba ma non i baffi, vela le donne. L’islam non ha capacità di separare il privato dal pubblico».

Prevede anche la poligamia, la guerra santa contro gli infedeli, l’assassinio degli apostati, la sottomissione delle donne?

«Nel Corano si può trovare tutto e il contrario di tutto. Ma per come si è impostato nei secoli, l’islam è diventato una straordinaria macchina di conquista per cui, oggi, gli stessi musulmani sono oggetto di conquista. Lo vediamo in Europa dove le seconde e le terze generazioni sono più religiose dei loro padri».

In che senso?

«I padri sono venuti qui per lavorare alla Renault e alla Fiat e si sono laicizzati a contatto con le libertà e i diritti occidentali. Ora i figli si sono reislamizzati. Con l’affermazione degli ayatollah e dei Fratelli musulmani i giovani sono diventati oggetto di una nuova campagna di indottrinamento. Altrimenti come spiegarsi il fatto che, pur essendo in Occidente da decenni, ancora pensano al Profeta, al califfato, alla sharia?».

La jihad è solo un movimento religioso?

«Jihad significa sforzo quindi è anche militare ed economica. Lo si vede dall’esplosione del mercato halal, i ristoranti, i menù nelle mense, le catene alimentari, i pellegrinaggi organizzati dall’Europa verso La Mecca. E poi dalla quantità di denaro spaventoso che Qatar, Arabia saudita e Turchia investono in Europa».

Però esiste anche un islam moderato.

«Esistono i musulmani moderati, persone che vogliono vivere la loro vita in mezzo a noi, che non hanno in testa la guerra santa o la sottomissione. Ma guardando ai grandi poli dell’islam mondiale, cioè l’Arabia saudita, l’Iran, il Qatar, il Pakistan, la Turchia e i Fratelli musulmani non esiste una corrente che abbia fatto la riforma. Cioè, reinterpretato il Corano nel presente. Anche perché, per loro, il Corano è stato dettato da Allah e quindi va applicato letteralmente».

L’islam moderato conta poco?

«Il grande studioso Rémi Brague ha detto: “L’islamismo è un islam che ha fretta”. I musulmani moderati sono singole persone».

Tra queste Pietrangelo Buttafuoco, appena designato alla presidenza della Biennale di Venezia.

«È una persona che stimo, con cui ho lavorato per tanti anni al Foglio. La sua non è una conversione militante».

Ci sono margini per una convivenza armonica?

«Sì, se l’Occidente si fa rispettare e pone delle condizioni. La prima è che l’Europa è giudaico-cristiana. La seconda è che gli islamici accettino che la libertà di pensiero e di parola è un diritto sacrosanto. E la terza che la donna e l’uomo sono uguali».

Pensa che integrazione e multiculturalismo siano utopie?

«Lo ha detto Angela Merkel: “Il multiculturalismo è fallito”».

In cifre come si può quantificare questa espansione?

«Bruxelles, la capitale dell’Unione europea, è per il 30% islamica, con vere e proprie enclavi dove si arriva al 50%. Birmingham, la seconda città britannica, ha il 30% di cittadini musulmani. Le grandi città francesi, da Marsiglia a Lione, hanno comunità dal 30 al 40% di cittadini islamici. È possibile che nel giro di una generazione i musulmani saranno la maggioranza».

Cosa significa che in Gran Bretagna città come Londra, Birmingham, Leeds, Sheffield, Oxford e altre hanno sindaci musulmani nonostante la Brexit?

«Significa che hanno rinunciato all’operaio polacco per avere quello pakistano. Con la Brexit si sono sparati sui piedi, fermando i flussi dall’Est Europa e aumentando quelli dall’Asia. Gli unici Paesi che sono riusciti a fermare un po’ questa conquista, un po’ perché sono meno attraenti e un po’ perché hanno un’identità più forte, sono i Paesi dell’Est europeo».

Quanto concorre l’arrendevolezza della nostra civiltà a questa espansione?

«Per una buona parte, ma dobbiamo distinguere due categorie. I fifoni, che sono atterriti e intimoriti, ma sanno cosa c’è dietro questa strategia. E i collaborazionisti. Coloro che si sono prestati in cambio di voti a fare il gioco del cavallo di Troia dell’islam politico. Il partito socialista belga non esisterebbe oggi senza il voto degli immigrati».

Esempi di collaborazionismo italiani?

«Se fossi un esponente della sinistra, farei mio il progetto vincente del voto di scambio del partito socialista belga. In Francia Jean-Luc Mélenchon per non alienarsi l’80% del voto islamico difende i veli e non critica l’attacco di Hamas».

Prima accennava all’influenza dell’Arabia saudita e del Qatar.

«L’Arabia saudita è stata decisiva dagli anni Sessanta ai primi anni Duemila e le grandi moschee di Roma, Bruxelles e Madrid sono tutte saudite. Dopo sono arrivati il Qatar e la Turchia, che oggi sono i costruttori delle moschee con i minareti in tutta Europa».

Con la forza del denaro.

«In Francia, dove ogni due settimane circa apre una nuova moschea, arrivano i soldi del Qatar attraverso le sue ong. Ma avviene così anche in Italia».

L’islam politico si è alleato con la cultura di sinistra attraverso l’ideologia green e Lgbtq?

«È riuscito a fare sue le parole d’ordine del progressismo: diversità, antirazzismo e lotta alla cosiddetta islamofobia».

Ma il movimento arcobaleno è agli antipodi dell’islam.

«Gli attivisti arcobaleno sono come i tacchini che festeggiano il giorno del ringraziamento. Infatti, siamo alla resa dei conti. In Belgio la sinistra ha portato il gender in tutte le scuole e i fondamentalisti islamici sono scesi in piazza a protestare anche con metodi aggressivi».

La cancel culture favorisce questa conquista?

«Prepara il terreno creando una società gelatinosa, senza storia e identità, perfetta per realizzare la sostituzione di civiltà. In Gran Bretagna, hanno abbattuto decine di statue di personaggi storici e a Birmingham hanno appena eretto una grande statua di una donna velata».

Perché ogni anno di questi tempi spunta qualche ente che vuole obliterare il Natale cristiano?

«Quest’anno tocca all’Istituto europeo di Fiesole. L’Europa è una società in metastasi, quasi masochista nell’automutilazione: non ho mai sentito i musulmani lamentarsi per il Natale».

Come valuta il magistero di Francesco?

«È il grande Papa post europeo. Dopo Benedetto XVI che ha provato a salvare l’Europa da sé stessa, è arrivato il Papa che dice che l’Occidente è fili spinati e schiavitù. Quindi è come se per lui l’Europa continente cristiano non fosse da preservare».

Come incidono in questo scenario i movimenti migratori?

«Persino Jacques Attali che è il grande intellettuale globalista di Emmanuel Macron ha detto che l’Europa è un colabrodo. Che altro vogliamo aggiungere».

Ora la guerra in Israele renderà tutto tremendamente più complicato.

«Favorisce il grande risveglio della coscienza islamica che, ricordiamo, è una umma, una comunità di 1,5 miliardi di fedeli che non sono divisi in Stati-nazione. La causa palestinese è il grande afrodisiaco dell’islam».

Si risveglia anche l’alleanza con la sinistra?

«La sinistra alimenta manifestazioni all’insegna di “Allah akbar”, “morte agli ebrei” e “Palestina libera”. La più grande strage di ebrei dopo la Seconda guerra mondiale ha dato vita alla più grande esplosione di antisemitismo in Europa».

Senza dimenticare le responsabilità di Israele.

«Ci sono in tutti i conflitti. Non vedo armeni accoltellare azeri, o ciprioti del sud accoltellare ciprioti del nord».

Il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres ha detto che gli attacchi di Hamas non sono nati dal nulla.

«L’Onu è diventato il teatro dell’assurdo di Ionesco per cui i grandi regimi della terra lo usano in nome dei diritti umani per imporre la loro visione del mondo».

Perché grande sostituzione e sostituzione etnica sono espressioni tabù?

«Perché sembrano preconizzare un complotto, mentre indicano un fatto della vita dei popoli europei di oggi. E perché siamo degli struzzi che non vogliono capire che se cambia la popolazione di un Paese cambia anche la sua cultura. Per quanto abbiano tutti gli stessi diritti, gli esseri umani non sono intercambiabili».

 

La Verità, 28 ottobre 2023

«I migranti cercano cibo e non vogliono integrarsi»

Per Ferdinando Camon la Francia è stata quasi una seconda patria. Fino a qualche anno fa la frequentava assiduamente. Andava a Parigi per presentare i suoi libri, sistematicamente tradotti dalla prestigiosa Gallimard. Il suo La malattia chiamata uomo è stato rappresentato per quattro anni in un teatro della Ville Lumière. Oggi che i lumi si spengono sotto la guerriglia delle terze e quarte generazioni d’immigrati, l’autore di Un altare per la madre, tutt’altro che un romantico dell’integrazione, è turbato dalle rivolte ma ribadisce la sua gratitudine al Paese che, forse, l’ha fatto più conoscere nel mondo: «Amo la Francia, la cultura, l’editoria, la vita francese. La considero una civiltà mondiale».

Il suo ultimo libro, Son tornate le volpi (Apogeo), indugia sulle difficoltà dell’integrazione e dei modelli multietnici perseguiti in Europa. Perché è scettico su questa possibilità?

«Le migrazioni che sono in atto in Italia e in Francia hanno un carattere più economico che culturale. Coloro che arrivano non vogliono integrarsi, vogliono mangiare, alimentarsi, avere cibo. Quindi, le integrazioni, in sostanza, non esistono».

Tutti i suoi libri sono stati tradotti in Francia dalla prestigiosa Gallimard, pensa che lo sarà anche questa raccolta di poesie?

«Lo vengo a sapere sempre dopo. La Gallimard è un’editrice molto stimata anche da me perché usa questo sistema: quando pensa di pubblicare un libro, francese o no, lo sottopone a tre consulenti, nessuno dei quali conosce gli altri due. Se tutti tre danno parere positivo viene pubblicato; se uno lo dà negativo e gli altri due positivo, lo prende in mano l’editore Antoine Gallimard, che ho avuto il piacere di conoscere».

Ma la pubblicazione?

«Non so se stiano esaminando questa raccolta. Finora hanno tradotto tutti i miei lavori, compreso Dal silenzio delle campagne, un’altra opera in versi. Sono molto grato a Gallimard non solo per le traduzioni puntuali, ma perché, nel mondo, un libro esiste quando viene pubblicato in Francia o in Gran Bretagna. In Canada o in Sudamerica mi leggono in francese, non accadrebbe lo stesso in italiano».

In una delle poesie intitolata Città multietnica tratteggia un capoluogo come potrebbe essere Padova, dove risiede, che si trasforma nelle 24 ore: «Di giorno la città è italiana… A mezzanotte si fa marocchina… Verso le 3 diventa albanese…».

«Con l’andare della notte escono persone che di giorno non si vedono».

Le varie etnie coesistono senza toccarsi?

«Sì, è così. Vedo davanti i supermercati sostare giovanotti accovacciati che non mi parlano e si parlano. Non so cosa facciano. La multietnicità ha a che fare con la separatezza».

Che cosa pensa della rivolta che si è scatenata in Francia a causa dell’uccisione di un ragazzo a Nanterre che non si è fermato a un posto di blocco della polizia?

«È una rivolta che stupisce il mondo, indizio chiaro di una non integrazione. Il problema è che la Francia chiama l’Algeria e la Tunisia “Territori d’oltremare” come fossero parte della nazione al di là del mare. In realtà non è così, algerini e tunisini non si sentono e non vogliono diventare francesi. Si considerano una società separata con proprie religioni, lingue e scuole. Dentro la società francese vogliono restare una società separata e ostile».

I francesi che spesso impartiscono lezioni sono ben disposti all’integrazione? Il loro modello di convivenza è fallito?

«La verità è che i francesi sentono queste persone come estranee. Penso che se dentro quell’auto ci fosse stata una persona bianca il poliziotto non avrebbe sparato. Ma io sono stato ufficiale degli alpini e so che se fai una professione che ti autorizza a portare una pistola 24 ore al giorno, il tuo cervello è catalizzato da quella pistola».

Questa volta gli scontri non si sono limitati alle banlieue, ma hanno invaso i centri delle grandi città.

«In Francia c’è il problema dei sobborghi, aree metropolitane abitate da immigrati che vivono per conto loro. In altri Paesi questa situazione non c’è e questo dà all’insurrezione francese un carattere nazionale, difficilmente comprensibile altrove».

Cosa pensa del fatto che in gran parte i rivoltosi siano ragazzi minorenni, figli e nipoti di immigrati?

«Indica la perpetuità di questa separatezza. Questi ragazzini quando saranno uomini saranno ancora separati e ostili».

Perché la sottoscrizione in favore della famiglia del poliziotto, ora in carcere, ha raccolto molti più fondi di quelli destinati alla famiglia della vittima?

«È un delitto molto grave. Gli immigrati hanno diritto di sentirsi traditi da uno Stato che li ammazza. Il poliziotto che ha sparato dev’essere giudicato. Ma bisognerebbe che la corte che lo processerà avesse componenti immigrati perché, diversamente, potrebbe giudicare in modo parziale».

L’entità della colletta a favore del poliziotto indica che i francesi non si fidano della giustizia?

«Significa che simpatizzano per il poliziotto e non per il migrante ammazzato».

Secondo alcuni autorevoli analisti le cause del malessere sono molteplici e non principalmente economiche e l’uccisione di Nahel è stata solo la miccia.

«Concorrono più cause. Fattori di natura economica, ma anche elementi religiosi, culturali e scolastici. Noi non abbiamo lo stesso problema in Italia, non sapremmo tollerarlo».

Che cosa pensa del fatto che il ministero degli Esteri algerino si è detto «preoccupato per la pace e la sicurezza di cui i nostri connazionali devono beneficiare nel Paese che li ospita»?

«In sostanza, chiedono che tra i giurati chiamati a decidere il destino dei poliziotti che hanno ucciso i migranti ci siano dei migranti. Questo perché Algeria o Tunisia non sono pezzi di Francia d’oltremare».

Prevale l’identità d’origine?

«Sì, non sono e non si considerano francesi, ma vogliono stare in Francia, dove mangiano, lavorano o studiano. E vogliono starci con tutta la loro civiltà, importata dal Paese madre. È questo il problema»

In Francia le diverse etnie vivono in enclave geograficamente separate più che da noi?

«Molto più che da noi. In Italia non abbiamo un problema analogo, gestito in modo analogo. Le banlieue erano posti dimenticati dallo Stato, dove entravano e vivevano i magrebini. Qualcosa di simile ho visto nei quartieri periferici di New York dove stanno i diseredati, i dimenticati. E dove, a una certa ora, è sconsigliato andare perché quei diseredati sono anche malavitosi. Quando esci dal metrò, sulle scale che portano in superficie sostano ragazzi che si alzano in piedi e ti impediscono di uscire ed entrare nei loro quartieri».

Però stavolta bersagli della guerriglia sono stati i municipi, i sindaci e i luoghi dei servizi ai cittadini.

«I rivoltosi vorrebbero che una porzione geografica del territorio fosse riservata a loro. Vivere nelle loro scuole, nelle loro moschee, nelle loro strutture. Questa non è integrazione, ma impianto di una civiltà separata e ostile in un altro territorio. Questo la Francia non lo vuole e da qui nasce lo scontro».

La Francia vuole assimilarli, ma loro non vogliono essere assimilati.

«Vogliono avere quello che hanno i francesi senza diventarlo».

Cosa pensa del fatto che Emmanuel Macron insiste ad accusare i social network?

«È un modo per dire che la protesta nasce dai social. Invece per me nasce dalla realtà».

Più che l’appartenenza all’islam la causa scatenante è l’identità geografica ed etnica delle seconde e terze generazioni?

«Io sono molto marxiano in questo. La causa scatenante è il malessere economico di questi sobborghi, la cui separatezza favorisce l’ostilità e la conflittualità».

Visitandoli durante le vacanze, questi ragazzi sono portati a idealizzare i Paesi di provenienza dei loro padri e nonni?

«Se ho capito bene, il periodo in cui avvengono gli scontri è al ritorno dalle vacanze perché il soggiorno nei Paesi d’origine aumenta la sensazione di diversità dal Paese ospitante».

Il loro legame con i Paesi d’origine è più fragile di quello dei padri e dei nonni, ma loro si sentono orgogliosamente algerini, marocchini e tunisini.

«Fino a qualche anno fa c’erano aree in cui le scuole erano regolate dalle norme del Paese d’origine, i programmi didattici arrivavano dal ministero dell’Istruzione dei Paesi d’origine».

Come giudica l’atto di bruciare pubblicamente il Corano come avvenuto qualche giorno fa in Svezia?

«È un atto incivile. Se entro in una moschea mi levo le scarpe perché rispetto la fede dei musulmani. Alcuni marine americani sono entrati con gli scarponi. Noi abbiamo un Dio incarnato, loro hanno un Dio incartato, che si è fatto carta. Il Corano è il loro Dio, non puoi sputacchiarlo o bruciarlo. Uno dei supplizi inflitti dai militari americani ai musulmani è pisciare sul Corano davanti a loro. Un islamico preferisce morire piuttosto che assistere a un atto del genere. Il loro Dio si è fatto carta, non puoi bruciarlo in segno di disprezzo. Non fa parte del consesso civile chi compie un gesto simile».

Che cosa mette al riparo l’Italia dalla possibilità che avvenga anche qui ciò che è accaduto in Francia?

«Il fatto che non abbiamo avuto un impero coloniale e quindi non abbiamo avuto lo stesso problema con Stati vasti numerosi e potenti che chiedono di proseguire questo rapporto. Con la Libia e la Somalia sono stati firmati dei trattati per i quali l’Italia manda insegnanti e docenti, per altro ben pagati, che seguono le norme ministeriali della Libia e della Somalia».

Con l’immigrazione clandestina in costante espansione non rischiamo niente?

«Certo che sì. I clandestini che arrivano oggi hanno bisogno di tutto e non possono dare nulla. Non vengono per una pacifica scelta o un capriccio. Vengono perché scelgono tra il vivere e il morie. Non sono favorevole all’immigrazione indistinta. È un problema che va affrontato, ma non lo affrontiamo. Va risolto, ma non lo risolviamo».

L’idea del ricollocamento in Europa sembra aver fallito, l’unica possibilità è realizzare accordi con i Paesi di provenienza?

«Nessuna parte dell’Europa vuole gli immigrati clandestini, anche perché non sanno fare niente. Ne ho parlato con un amico marocchino: se dai loro un martello e un chiodo ti chiedono che cosa sono. Se arrivassero sapendo fare i falegnami o i fabbri, mestieri che gli europei non fanno più, il problema sarebbe risolto. Ma non li sanno fare. C’è una fetta di umanità che sta male, il resto dell’umanità che sta meglio deve farsene carico. Usando la politica».

 

La Verità, 8 luglio 2023

«Fuori da un incubo, per fortuna ho un’altra vita»

Della serie, donne toste. Ancora ben lontana dai cinquanta, Nunzia De Girolamo ha già preso d’infilata un paio di vite. Avvocato, parlamentare di Forza Italia, ministro dell’Agricoltura nel governo Letta, incarico dal quale si dimise per l’accusa di concussione e voto di scambio dalla quale è stata assolta anche in appello, ha saputo reinventarsi come conduttrice e opinionista televisiva (ora a Piazzapulita su La7). Con Francesco Boccia, già ministro Pd nel secondo governo Conte, compone la coppia più bipartisan della politica italiana.

Signora De Girolamo, come ci si sente ora che dopo nove anni è stata scagionata perché «il fatto non sussiste»?

«Mi sento finalmente liberata da un incubo. Una persona abituata a delinquere contempla i rischi del mestiere, ma chi non ha fatto nulla, quando viene indagato, sente crollargli il mondo addosso. Trascorso qualche giorno dall’assoluzione mi è montata dentro una strana rabbia…».

Come si convive con un’accusa così per tanti anni?

«Si impara a fingere con le persone che si amano per non farle soffrire. Si dorme poco la notte e ci si sforza di pensare che non si è la protagonista di quel film horror».

Auspica che una delle prime riforme sia quella del sistema giudiziario?

«Una delle prime, forse non la prima. Questa giustizia ci rende poco attrattivi come Paese perché i cittadini, intimoriti dalla magistratura, non riescono a essere intraprendenti».

Per quell’inchiesta lei si dimise da ministro dell’Agricoltura del governo Letta?

«In realtà, mi dimisi prima di essere indagata, a causa della campagna mediatica, perché avevo capito che Letta non mi avrebbe difesa. Decisi di tutelare la mia persona, così esposta, senza avvisare nessuno, a eccezione del presidente Giorgio Napolitano».

È da quell’inchiesta rivelatasi inconsistente che è iniziato il suo ritiro dalla politica?

«Da quel momento mi sono autolimitata, ma il distacco definitivo è stato favorito da Forza Italia e dalla manina notturna che ha deciso di non candidarmi nel mio collegio tradizionale, bensì in extremis a Bologna, dove avevo poche chance e non sono stata eletta per pochi voti».

A quel punto ha pensato d’iniziare una carriera televisiva?

«Quando, anche per volontà di Silvio Berlusconi, rappresentavo il mio partito in televisione, alcuni addetti ai lavori dicevano che ero molto portata. Quando la vita e Forza Italia hanno deciso per me, ho provato a sperimentare quello che tutti mi suggerivano».

È stato Massimo Giletti il primo a chiamarla?

«Sì, in contemporanea con Mediaset. Ma ho scelto Giletti perché non volevo che la nuova opportunità fosse un contentino per la mancata candidatura. Volevo farmi strada da sola…».

Nel 2019 ha partecipato anche a Ballando con le stelle: che voto darebbe a quell’esperienza?

«Undici. Quando me l’hanno proposta mi è sembrata una follia perché non avevo mai visto Ballando. Una mia amica autrice televisiva mi ha convinto dicendomi che se volevo fare televisione dovevo costruirmi una nuova immagine. Così, ho accettato di indossare abiti corti e trasparenti, cimentandomi in un programma nel quale ho coinvolto anche la mia famiglia e che si è rivelato salutare per me».

Perché battibeccava spesso con Selvaggia Lucarelli?

«Battibeccavo con tutti. Anzi, erano loro a battibeccare con me perché ero il primo politico a partecipare a Ballando… Tolta Carolyn Smith, avevo tutti contro, a cominciare da Selvaggia Lucarelli, una donna intelligente che gioca a fare la cattiva».

Crede nella sorellanza? Prima ancora, le piace la parola?

«Mi piace di più fratellanza, perché mi sembra una parola più neutra».

Le donne sono solidali tra loro o sono le prime nemiche di una donna di successo?

«Preferisco fratellanza perché, per me, il merito viene prima del genere cui si appartiene. Con le donne ho sempre fatto squadra. Con le mie sorelle siamo un gruppo molto coeso, perciò si può parlare di sorellanza. Inoltre, so che il modello femminile che incarno in tv piace alle donne. Detto questo, nella mia vita politica ho subito molte cattiverie dalle donne».

Me ne dica una.

«La mia eliminazione dalle liste di Forza Italia è opera femminile».

Di Mara Carfagna?

«Niente nomi, ho già fatto troppe transazioni. Non era una sola donna».

A metà gennaio partirà su Rai 1 la terza stagione di Ciao maschio. Di chi è stata l’idea?

«Mia, di Annalisa Montaldo e di Stefano Coletta, allora direttore di Rai 1».

Nell’ultima puntata della scorsa stagione ha ospitato Ignazio La Russa che si è definito autoironico e irritabile: queste caratteristiche lo aiuteranno nel ruolo di presidente del Senato?

«Conosco La Russa da tanti anni e so che si muove bene in ruoli istituzionali e di confronto con le altre parti politiche. In certe occasioni l’ironia può aiutare a gestire l’irascibilità».

Il primo anno il verdetto finale lo dava Drusilla Foer, il secondo le Karma B: in un programma di maschi è necessario che l’arbitro siano delle drag queen?

«Non lo è, ma noi abbiamo fatto la scelta, mi passi il termine, del terzo sesso».

Mmmh…

«Il patto era che in quello studio l’unica donna fossi io».

Il centrodestra ha vinto per meriti suoi o per demeriti dell’avversario?

«Innanzitutto, Giorgia Meloni e il suo partito hanno incarnato una grande speranza per gli italiani. Poi c’è stato l’autolesionismo del Pd che, dopo aver investito nell’alleanza con il M5s, non ha capito che la legge elettorale li obbligava a mantenerla. Il centrosinistra, unito nel governo Draghi, si è diviso davanti alle elezioni, il centrodestra ha fatto il percorso inverso».

Fa bene Giorgia Meloni a farsi chiamare il presidente del consiglio?

«Assolutamente sì, nella Costituzione si fa riferimento al ruolo e non al genere».

Potrebbe invitarla a Ciao maschio?

«No perché non lo è. Non sono le declinazioni che stabiliscono il genere. Quando venne Guido Crosetto, lei telefonò. Quindi, in qualche modo, ci è già stata».

Ha conosciuto molti dei nuovi ministri: è un governo di alto profilo?

«È un governo con un importante profilo politico e con dei tecnici in ruoli dove serve una competenza specifica. Poi tutto è migliorabile».

Anche la squadra dei sottosegretari?

«Forse sì. Qualcuno più discusso o discutibile si poteva evitare. Ma contano i ministri di riferimento e il premier».

Rave party, tetto al contante, gestione degli sbarchi: c’è un po’ d’inesperienza?

«Ritengo il provvedimento sui rave party giusto come idea, ma sbagliato nella formulazione. Quando lo si correggerà in Parlamento vedremo cosa farà chi si è stracciato le vesti sui giornali».

L’aumento del tetto al contante?

«Lo condivido. In questi giorni la Bce ha chiesto di evitare che altri Paesi facciano come in Grecia e Spagna dov’è a 500 e 1.000 euro».

Lo scontro con la Francia?

«Non mi è piaciuto il comportamento della Francia, perché a ogni azione deve corrispondere una reazione proporzionata. Abbiamo l’obbligo di trovare un’intesa in Europa, ma i numeri che ha dato il ministro Piantedosi sulla redistribuzione dei migranti sono inquietanti. Che questa strategia sia fallita lo dice anche Marco Minniti. L’Italia non può solo subire».

Matteo Salvini vuole oscurare Giorgia Meloni?

«Contano i voti e la Meloni ha preso tre volte quelli di Salvini».

Se si anticipano i temi in agenda poi bisogna correggerli, precisarli…

«Penso che Giorgia sia una purosangue. Ricordo quando è partita dal 2%… Chi pensa di ledere politicamente Giorgia Meloni non ha fatto i conti con Giorgia Meloni».

Questo governo durerà a lungo?

«Sì e credo che lo aiuteranno queste opposizioni sgarrupate».

Che rapporto ha con Silvio Berlusconi?

«Il ricordo di un affetto».

Un sentimento del passato?

«È una persona a cui sono grata per le opportunità che mi ha dato e alla quale ho voluto molto bene. Ma politicamente oggi non lo riconosco».

Subisce l’influenza del cerchio magico?

«Pur composto da persone diverse, ne ha sempre avuto intorno uno. Se il cerchio magico ti fa compiere un errore politico come lasciare l’aula al momento della votazione di La Russa, dovresti prendere una decisione. Se Berlusconi non l’ha presa vuol dire che è il capo del cerchio magico».

All’indomani delle elezioni ha dovuto consolare suo marito?

«In realtà, l’ho preso in giro».

Cantandogli Bella ciao?

«Esatto. Ci siamo conosciuti in Parlamento quando eravamo già su posizioni diverse. Diciamo che non si aspetta di essere consolato da me».

Suo marito appartiene all’ala filo 5 stelle del Pd, lei cosa pensa del campo largo?

«Fino a qualche tempo fa il Pd era attrattivo anche per il M5s tant’è vero che hanno votato insieme Ursula von der Leyen e fatto nominare David Sassoli e Paolo Gentiloni. Ultimamente, mi sembra destinato al campo isolato, con il risultato che si parla di Giuseppe Conte come potenziale leader della sinistra».

Come si gestisce una coppia con una moglie di centrodestra e un marito di sinistra?

«Il nostro rapporto ci ha insegnato ad avere rispetto delle diversità. Furbamente, Francesco evita di entrare in discussione con me. Ma se capita, per esempio a cena con amici, è molto divertente: siamo Sandra e Raimondo in salsa politica».

Evita di entrare in discussione perché lei è tosta?

«Per quieto vivere. Francesco è un moderato e su molte cose, come il tema dei diritti, non siamo distanti, mentre su altre ci dividiamo. Quando parla con persone del suo partito, si sposta sul terrazzo così io non m’intrometto. Il nostro è una specie di compromesso storico».

Le litigate sono furiose, rispettose o a lieto fine?

«Rispettose e a lieto fine. In una prima fase erano veementi, ora ho imparato a limitare la mia furia».

La più furiosa?

«A causa della mia gelosia, c’è stato un periodo in cui non mi fidavo molto. Oggi non è più così».

Il suo ritiro dalla politica ha giovato al matrimonio?

«Sì, ha giovato alla serenità del nucleo familiare. Ho potuto essere più presente nel periodo dell’inizio della scuola di mia figlia e supplire alle assenze di Francesco quand’era ministro».

Lei è una conferma che la destra vuole tenere le donne un passo dietro gli uomini?

«Il ritiro dalla politica non è ritiro dalla vita professionale. E, soprattutto, non l’ha deciso mio marito. Anzi, lui sarebbe felicissimo se tornassi in politica, perché tra noi c’è grande complicità. Infine, su questo, dalle donne di sinistra non accetto lezioni perché la sfida femminile noi del centrodestra l’abbiamo già vinta con Giorgia Meloni».

I suoi amici sono dentro o fuori dalla politica?

«Quelli che si contano sulle dita di una mano sono fuori».

 

La Verità, 12 novembre 2022

«Le battaglie della sinistra ora le fa la destra»

Ogni suo libro è una piccola «bibbia». Un testo definitivo della materia di cui si occupa. Presidente e responsabile scientifico della Fondazione Hume, Luca Ricolfi è docente di Analisi dei dati all’università di Torino. Probabilmente proprio il fatto che il suo punto di vista siano i dati – i numeri, i fatti – e non l’ideologia, ne fanno uno degli intellettuali più indipendenti e autorevoli del panorama scientifico italiano. Leggere La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, appena uscito da Rizzoli e già tra i più venduti su Amazon, è come puntare il phon contro uno specchio appannato.

Professore, il vizio della sinistra ufficiale sta nell’ambizione originale del partito democratico di «rappresentare la parte migliore dell’Italia»?

Sì, anche se non è l’unico. C’è anche, fin dai tempi del partito comunista, l’incapacità di analizzare la realtà in modo scientifico, e quindi spregiudicato. Di qui la tendenza a chiedersi, di qualsiasi proposizione empirica, non se sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa alla causa. La conseguenza è stata una sorta di cecità progressiva, nel doppio senso della parola: crescente e progressista. Con un esito finale: la totale incapacità di guardare la realtà con lenti non ideologiche.

Cosa nasconde la convinzione che la destra parli alla pancia del Paese?

Uno strano modo di pensare: se abbiamo ragione, e il popolo non ci capisce, allora vuol dire che il popolo non usa la ragione.

Spesso i politici progressisti denunciano la crescita del populismo: come va interpretato l’uso di questo termine?

Le rispondo con la definizione della parola «populista» proposta da Jean Michel Naulot: «Populista: aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle». Una definizione interessante anche perché risale al 1996, quando pochi vedevano il problema del divorzio fra la sinistra ufficiale e i ceti popolari.

La sinistra ufficiale si accorgeva dello scambio delle basi sociali in atto fra i due schieramenti?

Alcuni studiosi avevano segnalato il problema all’inizio degli anni Novanta, quando in fabbrica fece la sua prima comparsa la doppia tessera: operai iscritti alla Cgil & militanti della Lega. Poi ci sono stati diversi studi che hanno mostrato che la base del Pci-Pds-Ds stava diventando sempre più borghese. Infine, le analisi dei flussi elettorali hanno evidenziato il paradosso della Ztl che vota a sinistra e delle periferie che votano a destra.

A quel punto la sinistra ha scelto consapevolmente l’establishment?

Ha preferito non vedere. Sapevano, ma non volevano prendere atto. Sempre per il motivo che dicevo poco fa: l’incapacità di guardare la realtà con un atteggiamento scientifico, ossia il primato dell’utile sul vero.

Il fatto che Giorgia Meloni nel primo discorso in Parlamento si sia presentata come underdog che rappresenta gli sfavoriti è la certificazione di questo scambio?

In un certo senso sì, anche se il termine underdog, di solito, designa gli sfavoriti in una competizione elettorale, cosa che Giorgia Meloni e il suo partito sono stati in passato, non certo nell’ultimo anno. Io piuttosto noterei una cosa: la novità di Giorgia Meloni non è solo che è la prima donna premier, ma che è il primo premier di umili origini. Tutti i premier della seconda Repubblica, oltre a essere maschi, erano di origine sociale elevata, talora elevatissima o nobiliare. Per trovare un premier di origini modeste dobbiamo risalire al 1988, quando venne eletto Ciriaco De Mita, nato a Nusco, un piccolo comune montano dell’avellinese, con un padre sarto e portalettere, e una madre casalinga. Credo che il carisma di Giorgia Meloni – oltre che alla sua bravura, alla sua integrità e alla sua passione – sia dovuto all’ampiezza dei segmenti sociali per i quali può risultare naturale specchiarsi in lei.

Quali segmenti ha in mente?

Le donne, ovviamente, ma anche gli strati popolari, ossia le persone che non possono contare su una famiglia di origine ricca, benestante, protettiva.

Persa la rappresentanza dei deboli, la sinistra si è concentrata sui diritti delle minoranze Lgbt+ che coinvolgono i ceti medio alti. Perché, al contempo, è così intransigente nella difesa degli immigrati?

Proprio perché ha abbandonato i ceti popolari. La difesa degli immigrati è una sorta di polizza di assicurazione contro la perdita della propria identità. Grazie agli immigrati, la sinistra può ancora pensare sé stessa come paladina degli ultimi. E grazie alla difesa delle rivendicazioni Lgbt+ può pensarsi come campionessa di inclusione.

Perché la sinistra liberal appare tendenzialmente individualista, mentre la destra mantiene una tiepida dimensione comunitaria?

Perché la sinistra liberal, ovvero la sinistra ufficiale, crede che l’aumento senza limiti dei diritti individuali sia l’essenza del progresso, mentre la destra – e una parte del mondo femminile – vede il lato oscuro del progresso, a partire dalla distruzione dei legami comunitari e familiari.

Perché oggi la sinistra ufficiale parla più di inclusione che di eguaglianza?

Lo spiegò Alessandro Pizzorno una trentina di anni fa: parlare di inclusione rende più facile conferire un valore morale alla scelta di essere di sinistra, e assegnare un disvalore all’essere di destra: noi buoni vogliamo includere, voi cattivi volete escludere…

Il giudizio di Enrico Letta sul risultato elettorale del Pd è che «non è riuscito a connettersi con chi non ce la fa»: quanto tempo gli servirà per tornare a farlo?

Non è un problema di connessione con chi non ce la fa, è un problema di comprensione della realtà.

Prima che completi il processo di revisione, può perdere ancora consensi? E a vantaggio del Terzo polo o del M5s?

I consensi li sta già perdendo. Secondo i dati che ho potuto analizzare, l’emorragia è bilaterale, ma un po’ più grave verso i 5 stelle che verso il Terzo polo.

Il catechismo politicamente corretto rende la nostra società più illiberale?

Sì, nella nostra società vengono predicate tolleranza e inclusione, ma il dissenso verso il politicamente corretto non è tollerato.

Come mai gli intellettuali, che fino agli anni Settanta erano contro la censura e per la libertà di espressione, oggi sono in gran parte schierati a difesa dell’establishment?

Perché ne fanno parte, specie nelle istituzioni culturali e nel mondo dei media. Difendendo l’establishment difendono sé stessi.

In Italia la battaglia sul politicamente corretto si è applicata al ddl Zan: perché nonostante il parere contrario di giuristi, femministe e intellettuali progressisti il Pd ne ha fatto un simbolo intoccabile?

Per il solito motivo, l’incapacità di accettare la realtà quando va contro l’utile di partito. In questo caso: l’incapacità di ammettere il fatto che il ddl Zan limita la libertà di espressione.

Perché l’introduzione del merito tra le competenze del ministero della Pubblica istruzione ha destato scandalo?

Un po’ per il mero fatto che ne ha parlato la destra, un po’ perché nella mentalità della sinistra c’è l’idea che premiare il merito di qualcuno significa umiliare il non-merito di qualcun altro. È questa mentalità che, negli ultimi 50 anni, ha distrutto la scuola e l’università.

Nel Novecento l’istruzione era considerata uno strumento di elevazione sociale, oggi non è più così?

No, la trasmissione del patrimonio culturale, cara ad Antonio Gramsci e a Palmiro Togliatti, non interessa più.

Sta passando a destra anche l’idea di emancipazione dei deboli attraverso la cultura?

Più che a destra, sta passando nel partito di Giorgia Meloni, secondo cui «eguaglianza e merito sono fratelli».

In questo contesto, che cosa può significare la nascita del primo governo di destra in Italia?

La fine dell’egemonia culturale assoluta della sinistra.

Se dovesse dare un solo consiglio non richiesto alla premier cosa le suggerirebbe?

Dica che vuole, finalmente, che venga applicato l’articolo 34 della Costituzione, e vari un grande piano di borse di studio per «i capaci e meritevoli» privi di mezzi.

 

Panorama, 9 novembre 2022

 

 

Francesco è «scomodo» e la sinistra lo silenzia

Francesco, papa «scomodo». «Francescomodo», si potrebbe dire fondendo il concetto in una crasi. Il succo è che papa Bergoglio non va più bene, non è più amato, non è più mainstream. Figuriamoci: ora che manifesta rispettosa attenzione verso il nuovo governo… C’è stato un tempo in cui era la stella polare, il leader mondiale, l’autorità universalmente riconosciuta. Soprattutto nei grandi media e presso gli esponenti politici della gauche. Senza dimenticare i vescovi e la stampa cattolica di osservanza Sant’Egidio. C’è stato un tempo in cui era studiato, imparato e mandato a memoria dall’intellighenzia. Un tempo in cui lui stesso citava Fabio Fazio su Repubblica: 18 marzo 2020, dopo un suo fervorino sulla quarantena da coronavirus. Invece qualche sera fa, mentre fior di giornalisti discutevano di accoglienza, e dopo che nello stesso giorno lui aveva parlato a lungo dell’argomento, zero: nessun riferimento, nessuna citazione. Storia finita, amore tramontato, Francesco lo si ascolta solo per dovere. Ma poi, anche nelle gerarchie, si tira dritto per schierarsi e colpire l’avversario, il solito.

Domenica nello studio di Che tempo che fa si erano dati convegno Roberto Saviano, Marco Damilano, Massimo Giannini, Claudio Cerasa e Fiorenza Sarzanini. Una grande rimpatriata, uno sfogatoio contro il governo delle destre. Durante il quale si è a lungo parlato delle quattro navi delle Ong ormeggiate nei porti italiani che, assicurava il conduttore, «sarà l’apertura dei giornali di domani». Purtroppo, essendoci stati anche l’annuncio della candidatura di Letizia Moratti alla regione Lombardia con il terzo polo e l’intervista rilasciata da Francesco sull’aereo di ritorno dal Bahrein, l’indomani solo La Stampa confermava la previsione di Fazio. Del resto, nel corso della serata Giannini era riuscito a dire che gli sbarchi selettivi – ovvero di donne, bambini e malati – gli ricordavano la selezione nazista dei deportati ebrei. Ora, come accennato, si dà il caso che proprio nel pomeriggio Bergoglio aveva buttato lì un paio di cosette sul tema dei migranti. Per esempio, dopo aver detto che vanno «accolti, accompagnati, promossi e integrati» e che «la vita va salvata in mare, perché il Mediterraneo è diventato un cimitero, forse il più grande del mondo», il Pontefice aveva caldeggiato l’attiva partecipazione dell’Unione europea. «Ogni governo della Ue deve mettersi d’accordo su quanti migranti può ricevere. Al momento sono quattro i Paesi che li accolgono: Cipro, Grecia, Italia e Spagna. Ma la politica va concordata tra i Paesi e l’Unione. Non si può lasciare a Cipro, Grecia, Italia e Spagna l’accoglienza di tutti i migranti che arrivano sulle spiagge». E ancora: «Ho sentito che hanno fatto sbarcare bambini e donne. Ma l’Italia e questo governo, o anche un governo di sinistra, non possono fare nulla senza l’accordo a livello europeo e la responsabilità europea». In conclusione aveva citato Angela Merkel: «Se vogliamo risolvere i problemi dei migranti, risolviamo i problemi dell’Africa con un piano di aiuti». Di tutto questo, nessun accenno. Zero citazioni per lo stesso identico Papa che il 6 febbraio scorso Fazio aveva ospitato, collegato dalla casa Santa Marta. Quella sera, insieme al conduttore, il parterre di giornalisti quasi identico a quello di domenica, aveva introdotto l’intervista con una raffica di enfatiche definizioni del capo di santa romana Chiesa: «Un intellettuale di cuore» (Fazio), «il Papa vicino alla gente, inviso alle gerarchie» (Giannini), «uno straordinario rivoluzionario» (Sarzanini), «l’ultimo socialista» (Saviano), «un grande uomo solo» (Carlo Verdelli).

Insomma, la figurina da aggiungere all’album della «Chiesa che va da Madre Teresa di Calcutta a Che Guevara». E che sembra ancora piacere alla Cei presieduta da Matteo Zuppi, come dimostra la linea dettata da Avvenire che ieri, dopo aver dedicato mezza riga del catenaccio al pensiero papale, ha sparato un lapidario: «È crisi disumanitaria». Perfettamente allineato è l’appello della Fondazione Cei Migrantes di monsignor Giampaolo Perego firmato da 24 organizzazioni di volontariato, nel quale si afferma che gli sbarchi selettivi «sono incostituzionali». Sordità verso le parole di Bergoglio a proposito della responsabilità dell’Europa trapelavano invece nell’intervista a Repubblica dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice («Il governo discute inutilmente sul fatto che le imbarcazioni battano questa o quell’altra bandiera…»). Il quale, ospite ieri di Agorà, ha fatto dire a Gesù «ero profugo e mi avete accolto» invece dell’originale «ero forestiero…».

Forzature bibliche a parte, il magistero bergogliano amplificato fino a qualche mese fa dai giornaloni che se ne contendevano le interviste e i testi, oggi è accolto con sufficienza quando non ignorato. Lo si è visto anche sulla guerra in Ucraina. L’invito alle autorità coinvolte nel conflitto a far tacere le armi per avviare una trattativa che risparmi le vite umane è regolarmente sottaciuto. Gli interessi atlantici pulsano altrimenti. Così, è stata rimossa la denuncia che in alcuni momenti «la Nato ha abbaiato alle porte della Russia». E lo sono stati il riconoscimento che «difendersi è non solo lecito, ma anche un’espressione di amore alla patria», e la riflessione che «io non escludo il dialogo anche con l’aggressore… Alle volte il dialogo si deve fare così. Puzza, ma si deve fare». Parole cadute nel vuoto (pronunciate il 22 settembre, tornando dal Kazakistan). Come quelle sul bisogno di sostenere la natalità e contrastare la crisi demografica: «È urgente sostenere nei fatti le famiglie e la natalità», disse Bergoglio agli imprenditori di Confindustria, in udienza nell’Aula Paolo VI (13 settembre). «Su questo dobbiamo lavorare, per uscire il più presto possibile dall’inverno demografico nel quale vive l’Italia e anche altri Paesi. È un brutto inverno demografico, che va contro di noi e ci impedisce questa capacità di crescere. Oggi fare figli è una questione, io direi, patriottica, anche per portare il Paese avanti».

Disse proprio così, «patriottica». No, decisamente: Francesco non è più di moda.

 

La Verità, 9 novembre 2022

A «Tolo Tolo» manca l’irriverenza di Zalone

È vero, la risata non ha colore politico. Ma in Tolo Tolo le risate scarseggiano, purtroppo. Mentre la politica…

Furbo, ruffiano, arrotondato e senza spigoli, insomma: paraculo. Si può dire? Il nuovo blockbuster di Luca Medici, nome d’arte Checco Zalone, re Mida del cinema italiano, colui che da solo salva le stagioni, non a caso bis-primatista assoluto d’incassi (primi due posti al botteghino per introiti nel giorno d’esordio in sala), segna un cambio di rotta nella produzione del comico barese rivelandosi piuttosto deludente. Addio sfregio cafone e dell’irriverenza, volgare ma sana, che in passato aveva sdoganato il sentimento maggioritario dell’Italia imbonita dal manierismo dominante.

Certo, parliamo pur sempre di un lungometraggio sfaccettato e pieno di cose, anche se un tantino affastellate e in difetto di regia e scrittura. C’è l’idea del migrante bianco che fugge in Africa dallo Stato esattore e fa il percorso contrario di quello dei poveri cristi di cui parliamo tutti i dì. C’è la varietà dei generi e del linguaggio, dall’animazione al musical, dal movie on the road alla commedia sordiana sul solito italiano furbo e cialtrone. Ci sono gli scenari del Kenya e del Sahara, i camei prestigiosi (Barbara Bouchet, Nicola Di Bari, Nichi Vendola) e una buona colonna sonora con citazioni e novità. C’è tutto questo, ma parlando di Checco Zalone ben di più e d’altro ci si aspettava. Perché, purtroppo, ciò che manca ai novanta minuti di Tolo Tolo è proprio il suo quid, la beata tamarraggine, il graffio scorretto, la battuta ignorante e vincente proprio perché (fintamente) inconsapevole. Quando si va a vedere un film di Zalone ci si aspettano le vetrine in frantumi del correttismo e lo sberleffo al benpensantismo. Invece, salvo una battuta antisaviano («Sei pronto a fare la brava risorsa» al bimbo che finalmente approda in Italia) e il sorteggio finale per l’assegnazione ai Paesi europei dei gruppi di migranti, ci troviamo dentro una commedia terzomondista con capovolgimento di prospettiva. Un film che si snoda geograficamente e socialmente al contrario, per finire in braccio al più composto e sentimentale veltronismo.

All’inizio della storia, dopo l’arrancante prologo, l’imprenditore in fuga dall’Agenzia delle entrate Pierfrancesco Zalone accusa d’ignoranza l’amico nero Oumar perché non sa pronunciare «ialuronico»: «Io voglio fare il cinema, mica l’estetista», è l’acrobatica risposta che apre la strada al ribaltamento della vicenda. Gli europei si sono venduti l’anima per l’effimero, gli africani sono sani, colti e si battono per l’umanità. Nel tempo libero, tra un’incursione delle milizie e un bombardamento, Oumar guarda i film di Pier Paolo Pasolini e la dolce Idjaba si rassegna a prostituirsi pur di mantenere la promessa di accompagnare verso un futuro migliore il bambino che le è stato affidato. E gli italiani? Cialtroni, si diceva, e cinici. Nell’amico senz’arte né parte che si arrampica dalla disoccupazione fino a palazzo Chigi è facilmente riconoscibile Luigi Di Maio (con tratti di Giuseppe Conte), mentre nella speranza dei famigliari di Zalone che lui sia morto per poter estinguere i debiti con il fisco, è resa plasticamente la preferenza del portafoglio sugli affetti. Un film al contrario, che sovverte le attese alimentate dal video di Immigrato, sapiente depistaggio rispetto alla sceneggiatura, dove la mano di Paolo Virzì è facilmente individuabile.

Proprio il trailer eccentrico, che ha fatto sclerare i sacerdoti del Bene, e la campagna promozionale sono state le mosse più indovinate di tutta l’operazione. Forse sarebbe stato ancora meglio ridurre la comunicazione, limitandosi al promo e alla conferenza stampa, godendosi lo spettacolo di noi giornalisti che ci scervelliamo su destra e sinistra. Giornali e sale piene, per una volta. Vittoria su tutti i fronti, tranne che sulla qualità del prodotto cui avrebbe giovato una regia più distaccata.

Rileggere ora l’intervista concessa ante-visione ad Aldo Cazzullo può essere istruttivo: «Purtroppo non si può dire più nulla», ammette Zalone. «Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa… mi arresterebbero… L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto». Parole autogiustificatorie? Non sarà che pure l’amato Checco vi ha ceduto senza riuscire a scavalcare quel «purtroppo», come ha sempre fatto in passato? Il dubbio c’è ed è suffragato dal fatto che ora lo troviamo coccolato dal salotto sgravacoscienze de sinistra, amministrato da Paolo Mereghetti che ha scomodato Primo Levi, da Natalia Aspesi, che ha provato «la stessa emozione» di quando «piccina mi portarono a vedere Biancaneve e i sette nani» e da Andrea Salerno, per il quale Tolo Tolo è «un film decisamente di sinistra». Ha ragione il direttore di La7 che, con Massimo Giletti ed Enrico Mentana, ha «dato una mano» e lui se n’è compiaciuto. Un film di sinistra: a confermarlo arrivano anche Cazzullo, che lo ama perdutamente, ma lo descrive «palesemente antisalviniano», e Fulvio Abbate su Dagospia, il più fulminante: «Un patetico calendario missionario… tra le cose da tenere in cucina».

 

La Verità, 6 gennaio 2020

Camilleri militante danneggia Montalbano

A un certo punto l’altra sera sono finito su Che tempo che fa proprio quando Fabio Fazio chiedeva a Andrea Camilleri, in collegamento: «Che cosa la preoccupa oggi?». Risposta: «Non solo l’Italia… Mi preoccupa il mondo. Forse qualche studioso potrebbe dirci perché il mondo sta ruotando a rovescio. Io ho questa impressione, che stiamo tornando indietro. Ancora qualche anno e si rischia di tornare all’età della pietra». Fazio annuiva: «C’è qualcosa che la consola, invece?». «L’uomo. Io ho una fiducia sconfinata nell’uomo… e nella donna, s’intende. Nell’umanità… Io credo che l’umanità riuscirà a uscire bene da qualsiasi situazione. Questa fiducia mi dà fiducia e speranza». Insomma, una rivelazione clamorosa, forse un filo contraddittoria. L’umanità in cui nutre fiducia Camilleri non dev’essere quella che sta spingendo il mondo verso l’età della pietra, ma un’altra. Per capirne di più ho premuto il tasto «rewind» (Rai 1, domenica ore 20,35, share del 14.74%). Dopo il saluto a Gabriella Nobile, presidente dell’associazione Mamme per la pelle, era entrato in scena Roberto Saviano, con una delle sue esortazioni pro migranti che mixavano fatti di cronaca, elogi del sindaco inquisito Domenico Lucano, attacchi al governo, citazioni evangeliche «da non credente». Introdotto Francesco Scianna, protagonista del film di ieri La stagione della caccia, tratto da un romanzo storico di Camilleri, è partito il collegamento con lo scrittore e la promozione è virata in serata militante al miele. Fazio: «Buonasera Camilleri… lei riesce a essere l’unico elemento unificante del nostro Paese (pausa) e la colonna portante della televisione». Allorché, persino Camilleri era stato costretto a indietreggiare: «Lei mi atterrisce, non mi lasci in questa solitudine. Ci sono migliaia di persone come me…». Dopo un paio di aneddoti Fazio gli aveva chiesto di replicare alle critiche all’episodio in cui Montalbano recuperava i migranti. L’altro capo del filo è stato scritto nel 2016: «Allora era possibile accogliere migliaia di migranti… Avevamo più cuore di oggi. Vigata rappresenta Porto Empedocle… che era un porto aperto». Le critiche a L’altro capo del filo erano di stretta natura narrativa. In primo luogo, il Montalbano accogliente aveva nessi posticci con il Montalbano investigatore. In altri termini, la parte politica non c’entrava con la storia e il giallo. Secondariamente, l’irruzione della drammatica attualità toglieva a Vigata la sua inimitabile caratteristica di luogo sospeso nel tempo. Nessun’altra critica. Non sarà che l’umanità che suscita tanta fiducia in Camilleri sia soprattutto quella che lo adora come Fazio?

 

La Verità, 26 febbraio 2019

 

Montalbano batte Sanremo ma non convince

Gli ascolti sono sempre da record: 11,1 milioni di telespettatori battono in termini assoluti anche le serate del Festival di Sanremo appena concluso. Andrea Camilleri è sempre un mostro sacro e Il Commissario Montalbano un architrave della televisione degli ultimi vent’anni, tanto è longeva la serie con Luca Zingaretti (Rai 1, lunedì, ore 21.35, il primo di due episodi inediti). Ma forse, ahinoi, qualche crepa si comincia a intravedere. E forse, se non proprio toccare, gli intoccabili si possono almeno cominciare a sfiorare.

Anche a Vigata arrivano dunque i migranti e Montalbano è chiamato a collaborare ai soccorsi e all’accoglienza. Si vedono un flautista tunisino scappato dal Maggio fiorentino, una ragazza violentata sul barcone da due scafisti, un migrante morto in mare, portato dalla risacca davanti alla casa di Salvo. C’è, infine, una nave della Guardia costiera attraccata a un porto di cui finora non si aveva contezza. Ma non è questa l’unica sorpresa della Vigata di L’altro capo del filo, l’episodio tratto dal romanzo scritto nel 2016, quando non si profilavano né il governo gialloblù né i porti chiusi. L’altra stranezza è che nel paesino senza semafori né auto e dove il commissario si sposta sempre con una Fiat Tipo, c’è anche una maison sartoriale con boiserie e scaffali pieni di stoffe pregiate che dà lavoro a 5/6 persone, tra cui un giovane impiegato che s’innamora inspiegabilmente della sarta ben più vecchia di lui. La quale, ancor più inspiegabilmente, viene brutalmente assassinata. Addio abito su misura con il quale Montalbano avrebbe dovuto presenziare a un 25º di matrimonio in Friuli con la compagna Livia (Sonia Bergamasco). Nella regione del Nordest, tuttavia, andrà ugualmente perché colà si sciolgono i nodi delle indagini.

Già al momento della messa in onda, sui social si è scatenata la bagarre per la comparsa dei migranti nel giallo tv più amato dagli italiani. Tuttavia, dopo l’estenuante querelle festivaliera, Matteo Salvini ha subito provveduto a raffreddare il tentativo di bis twittando un inequivocabile «Io adoro Montalbano». Continuando a parlare di fiction – nave della Guardia costiera e grande sartoria a parte – vanno però rilevate altre incongruenze. In particolare, l’assenza di nesso tra la parte umanitaria e le indagini, anch’esse con qualche incertezza (la dinamica dell’omicidio del marito della sarta). Ma soprattutto, ciò che più dispiace, con l’irruzione dell’attualità la perdita dell’a-storicità di Vigata, quella sua dimensione di luogo sospeso nel tempo, e perciò rassicurante. Nonostante crimini e delitti.

 

La Verità, 13 febbraio 2019

«I grandi media non capiscono il governo»

La generosità non è la prima dote che viene in mente quando si pensa a un grande giornalista. Invece, Enrico Mentana è uno generoso. Non solo perché non si risparmia nelle lunghe maratone televisive, ma perché ora si è messo in testa di restituire «almeno in parte la fortuna che ho avuto nel fare questo mestiere», creando un giornale online di giovani e per giovani (ma non solo). Poi è generoso anche nelle interviste.

Essere multitasking va bene, ma oltre al tg, le maratone, Bersaglio mobile, le ospitate, Facebook e la radio, ti mancava anche un giornale online?

«Personalmente non mi manca, ma penso che il giornale online diventerà come il film che si vede in casa. Fin quando esisteranno giornali, il futuro sarà questo».

A che punto è la selezione?

«Finora sono arrivati circa 8.000 profili».

Dirai stop a?

«10.000. L’idea è del 7 luglio, la pubblicazione dell’indirizzo mail del 17, ai primi di agosto chiudo. Una quindicina di giorni sono sufficienti per inviare un curriculum».

Ne resteranno?

«Vorrei fare 20 praticanti. Stiamo parlando di un prodotto no profit. Se dovesse produrre utili verrebbero reinvestiti nell’assunzione di nuovi giovani».

La raccolta pubblicitaria la farà la società di Cairo?

«Questa è l’unica parte che risponderà alla logica del profitto. Se sarà Cairo sarò contento perché ha le strutture per farlo bene. Però si sono fatti avanti anche altri».

Nome della testata?

«Quando l’avrò lo scriverò su Facebook, dopo averlo depositato».

Tempi di lancio?

«Al momento opportuno i tecnici detteranno tempi e modi. Io sono solo il give back della situazione, colui che vuole restituire almeno in parte la fortuna che ha avuto nel fare questo mestiere».

Di sicuro c’è solo che si fa?

«Cosa lo potrebbe impedire? Nell’era del mobile, questa dovrebbe essere la prima testata digitale rivolta ai giovani. Finora ci si è impegnati in varie direzioni per far assumere i figli, propri».

Tempo d’impegno personale?

«Non potrò essere il direttore, a meno che Cairo non me lo conceda. Ne sarò l’editore, ma non mi posso certo sdoppiare».

Qualcuno ipotizza che vuoi fare il direttore editoriale di La7.

«Che vantaggio ne trarrei? Per certi colleghi la strada rettilinea non è mai quella giusta».

Cairo come la sta prendendo?

«Presidia le sue Colonne d’Ercole e il rapporto con i dipendenti. Io stesso lo sono a tempo indeterminato».

L’ha precisato anche lui.

«So bene che non posso fare come mi pare. C’incontreremo per definire le modalità di nascita e sviluppo di questa creatura, per evitare che finisca per ledere i legittimi interessi dell’editore».

Farai concorrenza al Corriere.it e le energie spese per questo progetto potevano concentrarsi nello sviluppo di La7.it.

«Non sono convinto che lo spin off sul Web di un prodotto giornalistico che sta su altri media possa alzare l’asticella all’infinito. Per i contenuti forti il sito di un giornale deve aspettare l’uscita in edicola, una testata nativa digitale no. Se improvvisamente l’editore di Repubblica decidesse di assumere 30 ragazzi per il sito potrei illudermi di aver sollecitato un mercato che invece mi sembra statico e privo d’iniziative».

Come valuti il comportamento dei grandi media verso il nuovo governo?

 

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