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«Il fascismo? Roba passata, basta chiedere abiure»

Un pensiero terzo nell’epoca della polarizzazione. Un pensiero laterale rispetto al pensiero unico, pigro e conforme. È quello che sgorga da Controstoria dell’Italia (Bompiani editore) di Giampiero Mughini, sottotitolo: Dalla morte di Mussolini all’era Berlusconi. Mughini attinge al Muggheneim (il titolo del penultimo saggio) di libri, riviste e arredi di design della casa-museo, e alla memoria di una vita vissuta senza adagiarsi in luoghi comuni. Lo scopo è «mettere una targa di carta a rammemorare quella storia (della guerra civile ndr), nonché quella successiva della Repubblica italiana, in tutte le loro complessità e ambivalenze».
Mughini, conosciamo la controinformazione, perché c’è bisogno di una controstoria d’Italia?
«Perché le nuvole di banalità che ci avvolgono vanno alla grande. Banalità che convincono i beoti di assurdità scambiate per senso comune. Invece, abbiamo bisogno di cercare verità nuove, inedite, anche aspre, se occorre. Ritrovare vicende e situazioni che ci erano passate di mente e non contentarci delle certezze in cui credevamo 20 o 30 anni fa».
Che cosa non ti piace dell’ufficialità e del conformismo odierni?
«C’è un nuovo conformismo che è più duro di quello vecchio. Mentre abbiamo bisogno di entrare nell’universo del Terzo millennio. Un’epoca diversa da quelle che abbiamo vissuto finora e che e ci impegnerà non poco per campare».
Controstoria dell’Italia lo definiresti un libro montanelliano?
«Indro mi perdoni, ma è un riferimento che accolgo con onore».
In una controstoria serve la giusta distanza anche riguardo ai fascisti, raccontati senza risparmiare critiche, ma con il rispetto che si deve all’avversario politico?
«La giusta distanza serve sempre. Il rispetto dell’avversario fa parte del mestiere di vivere. Egli non è un tipetto che fa schifo dall’inizio alla fine e da dover distruggere. La pensa diversamente da te. Ha dei meriti che tu non gli riconosci e tu hai dei meriti che lui non ti riconosce. La vita è imparare, con il senso dell’ironia».
È il rispetto che avevi nei confronti di tuo padre?
«Mio padre mi avrà detto venti frasi in tutta la sua vita e ogni volta ha lasciato il segno. Era una brava persona e questo è ciò che più conta. Quando, poco più che ventenne, dirigevo Giovane critica a Catania e non avevo i soldi per stamparla, ci mise i suoi. E quando poi ci fu da dividere l’eredità con i miei fratelli, tolse la quota che aveva anticipato».
Contesti che il fascismo non abbia prodotto una cultura.
«Basta citare il Futurismo. La cultura non è un cumulo di truppe armate contro altre truppe armate, è l’intelligenza delle sfumature».
Farne tabula rasa dipende dal complesso di superiorità di coloro che stanno seduti sempre dalla parte giusta della storia?
«Si sta dalla parte giusta della storia come se fosse sempre quella. E come se invece non cambiasse continuamente. I fascisti avevano ragione quando replicavano a coloro che sputavano per strada contro i reduci delle trincee. Mica si erano divertiti quelli che erano stati nelle trincee».
Rivisiti la figura di Alessandro Pavolini, addirittura capo del Partito fascista repubblicano e fondatore delle Brigate nere. È il paradigma di coloro «che ci credono fino in fondo»?

«Di coloro che si giocano tutto nel crederci fino in fondo. Ciò nonostante, Pavolini non era un mostro, bensì un italiano del suo tempo, un fascista convinto, protagonista di un tempo atroce. Amico fraterno di Galeazzo Ciano, dopo il tradimento del 25 luglio 1943 è colui che ne pretende la fucilazione. Chi scrive la storia per bene, Pavolini lo deve mettere in piedi. Così come chi scrive la storia per bene, dei 15 fucilati a Dongo deve dire che un regolare processo ne avrebbe condannato uno solo. L’Italia deve riconoscere che le cose sono andate così e soprattutto non avere la libidine di rinfocolare fascismo e antifascismo. Che non esistono più. Sono quattro ragazzotti per strada, ma noi sappiamo cos’è stato dei ragazzotti per strada».
Pavolini è l’emblema del fanatismo ideologico, primo nemico anche oggi?
«Certamente. Quel fanatismo che alimenta i terroristi islamici delle Torri gemelle. E di tutti quelli che non riescono a immaginare se non la distruzione degli avversari ideologici. Come accaduto anche nella stagione del terrorismo italiano».
Scrivi che il cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra, dove Mussolini e Claretta Petacci furono uccisi da Walter Audisio, il partigiano «Valerio», è «il luogo fisico più carico di tragedia che io abbia mai tastato in vita mia».
«Su quel cancello si chiude una storia tragica. Quattro colpi di fucile contro un uomo anziano e una donna. L’Italia di quell’epoca finisce nel modo peggiore».
Altri posti tragici dove sei stato?
«A Piazzale Loreto, dove qualche giorno prima erano stati massacrati dei partigiani. E dove, per vendetta, appiccano quelli per le gambe… ivi compresa una donna. Un atto spaventoso».
Sei mai stato a vedere un campo di concentramento nazista?
«No. E ho l’impressione che non ne caverei il tutto, che non si possa attingere completamente a quell’orrore. Veramente spaventoso».
Parlando criticamente anche di te stesso e di un tuo intervento in occasione di un 25 aprile di molti anni fa usi il vocabolo «incultura» a riguardo della faciloneria con cui si argomenta di fascismo e antifascismo. Che cosa pensi della polemica per il mancato intervento a Rai 3 di Antonio Scurati?
«Lì non ci sono parole, in effetti. Era stato chiamato a fare un discorso, che per altro non aveva niente di speciale o originale, ma che non mi pare si potesse censurare. Era un discorso sacrosanto. Certo, un governo che ha quel colore lì non ama sentirselo dire in faccia. È stata una pagina micragnosa».
Sebbene sia documentato che i biglietti del treno e dell’hotel per la trasferta di Scurati fossero già stati pagati?
«Forse c’è stata una retromarcia voluta da qualcuno. Ho l’impressione che nel gruppo al potere ci sia una differenza notevole tra il capo del governo e i suoi attendenti».
Cosa pensi dell’insistenza con cui si richiedono abiure al premier?
«È semplicemente ridicolo. Quelli hanno avuto una loro storia. Giorgia Meloni ha avuto una sua giovinezza, in cui si diceva fascista. Ma è del tutto evidente che con la storia di un secolo fa non ha niente a che fare. Cosa stai a chiedere?».
Perché non avviene altrettanto quando a Palazzo Chigi si trova o si trovasse un post-comunista?
«Onestamente, ora la cosa è impossibile. Ma probabilmente avremmo la stessa tiritera».
Dici?
«
Penso di sì. La gente è abbarbicata alle cose in cui ha creduto e non fa un passetto per mutare la sua camminata».
Il tuo amore per il design e il desiderio di possederne i pezzi più succulenti e quello per i libri e le loro prime edizioni è una debolezza che fa prevalere l’avere sull’essere? Voglio dire, il capitolo sulla guerra civile riguarda l’identità della persona, quello sulla bellezza italiana sembra riguardare il possesso.
«Assolutamente no. Tra avere e essere non c’è differenza. Avere un libro e leggersi proprio quel particolare libro, in quella edizione, è un’esperienza che riguarda pienamente l’essere».
Perché quello su Silvio Berlusconi è stato il capitolo più faticoso da scrivere?
«E di gran lunga. Perché nutrivo una simpatia personale in quanto lui era di una squisitezza umana straordinaria. Tuttavia, certo, ne ha combinate tante, tantissime. Come si fa a dare un giudizio univoco su un tale personaggio. Anche in questo caso, l’odio contro di lui è stato di un’intensità pazzesca. Ora, io non sono stato berlusconiano un solo giorno della mia vita. Però non potevo non ammirare il costruttore, l’imprenditore che aveva delle squisitezze umane. Vicino a dove abitavo a Roma, c’era una famosa sezione del Partito comunista che poi cadde in disgrazia. Bene, lui volle venire a vederla, ci volle entrare, rendersi conto… L’uomo era questo».
Invece il capitolo più macerante è stato quello sugli anni di piombo?
«Direi quello degli italiani che si ammazzavano negli ultimi mesi della guerra civile. Non c’è cosa più brutta. Ci si ammazzava fra italiani. Sono cose spaventose rispetto alle quali, oggi, l’Italia, anziché ricucire, intinge la conflittualità e spasima di riproporre quelle zuffe».
È la perenne contrapposizione dell’antifascismo.
«Sì, lasciamola nel passato».
In un documentario sulla storia di Lotta continua in cui eri intervistato anche tu, Erri De Luca dice che gli Anni di piombo sono stati anche anni di rame.
«Non ho nostalgia per quel decennio, quando anche i ragazzi si ammazzavano per strada. Parlo di quei tre ammazzati dinanzi alla sezione fascista. E tutta la discussione su Acca Larenzia vien fatta sul braccio alzato e non sui morti ammazzati in quel modo».
Scrivi che avresti detto «presente» anche tu.
«Non col braccio teso, s’intende. Dinanzi a quei tre ventenni stroncati, dentro di me l’avrei detto».
C’è troppa indulgenza verso i giovani che manifestano per la Palestina?

«I giovani raramente hanno avuto ragione. In questo caso non mi pare ne abbiano molta. Il loro atteggiamento nei confronti di questa tragedia è molto modesto. Non hanno battuto ciglio per bambini e donne morte il 7 ottobre. Io invece, naturalmente figurati se non ho tenerezza per i bambini palestinesi che crollano a mucchi, il 7 ottobre non riesco a dimenticarlo».
Se ti si chiedesse di scrivere un nuovo capitolo della controstoria a cosa lo dedicheresti?
«Alle fesserie che si raccontano. La lotta politica in Italia si fa su un uomo del potere ha fatto fermare un treno perché aveva premura. Queste sarebbero le battaglie… Penso che raramente l’Italia sia giunta a un tale livello di bassezza».
Per chiudere, Giampiero, un tuo pensiero su Massimiliano Allegri.
«L’idea di 100.000 tifosi che vogliono dare lezione di calcio a uno che ha vinto e stravinto con la Juventus mi suona come una buffonata. Capisco che, dopo una vittoria meritata, alla fine di un’annata così, abbia avuto questo scatto di nervi. Sono totalmente dalla sua parte. Questo è stato il suo ultimo anno alla Juventus, ma vorrei conoscere un altro allenatore che abbia portato a casa un bottino di questa fatta tra scudetti e coppe varie».

 

La Verità, 18 maggio 2024

Con Mughini al Gieffe va in onda la post-tv

Finalmente Giampiero Mughini ha varcato la porta rossa della casa di Cinecittà: durerà come un gatto in tangenziale? Sembra di no e lo sperano produttori e autori, al netto di qualche scapigliatura e di qualche fuori onda malandrino. È entrato a notte fonda, terzo di tre nuovi innesti, Bruno Montecchi e Jill Cooper gli altri due, e tutti si augurano che il suo ingresso riesca a rivitalizzare un’edizione del Grande fratello che vivacchia sul carisma di Beatrice Luzzi, l’avvenenza di Samira Lui e la storia di Alex Schwazer (Canale 5, lunedì, ore 21,25, share del 17,9%, 2,5 milioni di spettatori). Mughini si è portato un pugno di libri ed è una novità per un concorrente del Gieffe. Concorrente Mughini? Più corretto guest star, il partecipante che nobilita il contesto.

«È stato molto difficile averlo, ma non difficilissimo perché lui è uomo di mondo ed è curiosissimo di conoscere una realtà come il Grande fratello», lo ha annunciato con una certa enfasi Alfonso Signorini, subito gratificato di «orrido», per via del gusto horror che arreda parti della casa. «Ho la bellezza di 82 anni che credo di non aver sprecato. Sono uno che chiacchiera del più e del meno per iscritto e per orale», si è presentato lui, scarpe rosse e occhialino giallo futurista. Il più rock della compagnia. «Esser lontano dalla mia casa, dalla mia compagna, con la quale l’intesa è tale che non cambia nulla, soprattutto dalla lettura dei giornali al mattino… non so se ve lo perdonerò mai».

Mughini ha salutato carinamente uno a uno gli inquilini, subito fraternizzando con Alex Schwazer vedendolo commosso davanti al filmato del compleanno del figlioletto. La serata era già stata costellata dai pianti di Heidi Baci per i contrasti con Massimiliano Varrese, accusato dal padre di lei di essere troppo invadente e oppressivo. Un caso che ha fatto parlare di stalking e di patriarcato, e costretto Signorini nel delicato ruolo di confessore.

Riducendo le dosi di kitsch in favore dello storytelling era prevedibile che montasse l’onda psicologica e sentimentale. Ora con Mughini si prova a introdurre l’attualità, con qualche piccola provocazione politica. Come quella catturata dalla telecamera su Paola Egonu e Matteo Salvini. Vedremo se il nuovo spartito attecchirà. Mughini al Gieffe è un esperimento di post-televisione. Un intellettuale precipitato in un contesto ultra-pop. «Vedo che Mughini si è subito integrato, sembri un pascià», lo ha chiamato in causa l’orrido Signorini. E lui: «Io temevo il peggio, ma sono in compagnia di ragazze mirabili di simpatia e intelligenza».

 

La Verità, 18 ottobre 2023

«Lunga vita ai rompicazzi, da Pannella a… me»

Piantagrane, eretico, irregolare, attaccabrighe, bastian contrario, reazionario… Qualche sinonimo poteva esserci al posto del sostantivo scelto da Giampiero Mughini per titolare il nuovo saggio estratto dalla sua poliedrica esistenza: I rompicazzi del Novecento (Marsilio), sottotitolo: piccola guida eterodossa al pensiero pericoloso. Invece no, la parola era quella perché tutte le altre esprimono una caratteristica, un particolare dell’esemplare ritratto. Da Marco Pannella a Emil Cioran, da Mircea Eliade a Giuseppe Prezzolini, da Giaime Pintor a Marina Ripa di Meana, tanto per citarne alcuni, la galleria è densa e variopinta. Chissà se l’Accademia della Crusca aggiungerà il termine all’«elenco delle parole nuove». E chissà come l’ha spuntata Mughini sul suo editore che «era molto dubbioso, ma io sono stato perentorio».

Se non avesse superato la censura, il libro non si faceva o avevate ipotizzato dei sinonimi?

«Non ne esistono, la parola è quella».

Eretico?

«È un termine usato continuamente, io ne volevo uno nuovo. Peraltro da usare nell’accezione largamente positiva e stimolante che è in questo libro. Ricordo che il primo per cui l’ho adoperato è stato Marco Pannella».

Lei vorrebbe essere ricordato come un rompicazzo, dico bene?

«Assolutamente. Lo sono stato per tutta la vita e ne sono orgoglioso».

Chi è il rompicazzo?

«È un tizio che non sta tutta la vita sulla stessa casella della scacchiera. Anzi, cambia anche scacchiera, si corregge, si ravvede, si revisiona. Naturalmente prendo spunto dal mio essere stato tra i venti e i trent’anni un adepto dell’estrema sinistra. Non che sia passato alla destra, oggi queste categorie non significano più nulla. Ho fatto autocritica, ho esercitato una correzione. Come quella che ha compiuto Emil Cioran, vicino all’estrema destra negli anni Trenta e poi tutt’altro».

Il rompicazzo è uno che non s’acquieta sotto una bandiera?

«Farlo paralizza il cervello. Se scegli una casella e la difendi tutta la vita mentre il mondo cambia di continuo sei un cretino. Nel Novecento il crinale è stato fascismo-antifascismo: ora siamo nel 1922 o nel 2022?».

Se si è figli di un padre fascista e di una madre di osservanza berlingueriana, rompicazzi si nasce?

«Non credo sia la chiave giusta, perché poi ognuno ha il destino che si merita. Certo, in casa mia c’erano le due opzioni e capivo che nella storia italiana erano ben vive e presenti. Non invidio le famiglie dove su dieci persone sono tutte dieci nere o tutte dieci rosse. Una noia mortale. Naturalmente Giuseppe Prezzolini rompicazzo c’era nato».

A parte lui, lo si diventa più per irrequietezza esistenziale o intellettuale?

«Sarebbe strano che l’irrequietezza intellettuale non nascesse da quella esistenziale».

Che differenza c’è tra un grande irregolare e un rompicazzo?

«Poca, la genìa è quella. Quante ubbie per questo vocabolo».

Perché l’affascina la Francia di Vichy, sconfitta dai nazisti ma collaborazionista?

«Perché è una Francia in cui saltano le topografie morali e intellettuali consolidate. Ci sono figure qualsiasi che diventano eroiche e altre notevoli che si corrompono. Da grande scrittore Robert Brasillach prende a collaborare con i nazisti, mentre Pierre Brossolette diventa un eroe pazzesco. Gli anni di Vichy sono stati tra i più drammatici e suggestivi del Novecento».

Certi tornanti sono terreno propizio per l’affermarsi di figure controverse?

«Situazioni dove tutto si capovolge. Dove due più due non fa quattro. Per esempio, in Italia in questo momento due più due non fa quattro».

In che senso?

«Nel senso che, siccome ha vinto la destra, c’è  chi comincia a descriverla come se fosse composta da barbari assetati di sangue».

È la narrazione prevalente?

«Non tutti usano nei confronti della Meloni il termine bastardi».

Ogni riferimento è puramente casuale…

«Certo non lo usa Matteo Renzi, uno che a me piace molto. E che a suo modo è stato un rompicazzi».

Il rompicazzo è un «eretico di tutte le dottrine», come si autodefinisce Giovanni Ansaldo?

«Certamente, è uno che non si assiede su un credo e ci sta comodo. Lo vive con una tensione… Giaime Pintor, icona partigiana e santino dell’antifascismo, in realtà era un grande borghese, un grande talento che sarebbe stato leader della sua generazione. Anzi, lo era già, prima di saltare su una mina nazista a 24 anni».

Oggi dove si collocherebbe?

«Non abbiamo il diritto di iscriverlo di qua o di là. In cuor mio, spero che starebbe nell’area di cui faccio parte anch’io, quella dei non ideologici, dei non adepti».

A proposito di Ansaldo, L’antifascista riluttante è un suo titolo che sottoscriverebbe?

«È un titolo molto bello che sta a significare che era antifascista a modo suo. Le parole vanno riempite dalla realtà delle persone e dalla loro intelligenza. Non era antifascista al 100% perché era anche conservatore… Oggi con quel termine ti ci puoi pulire le scarpe… come anche col termine fascista».

C’è molto antifascismo in assenza di fascismo?

«I fratelli Rosselli ci sono morti. Ora lo spauracchio sarebbe Casa Pound?».

Eppure questa retorica ha innervato la campagna elettorale.

«Infatti, durante i talk show della campagna elettorale mi assopivo alle prime parole. Tranne quando parlavano Renzi e Calenda».

Si ritrova nella definizione che Gianni Celati dà della vita «come stato balzano della mente»?

«Totalmente».

Cosa le piace?

«Mi piace come ha vissuto. Prima in un villaggio francese, poi in Inghilterra separato da tutto, lontano anche dai suoi pochi lettori. Io stesso sapevo dei suoi scritti, ma mi sono scappati. È il primo a cui ho pensato dopo Prezzolini, un mio mito da quando avevo vent’anni e compravo sulle bancarelle i Quaderni della Voce. Celati non è uno che ti entra in casa e pianta grane, ma uno che si sottrae alle religioni e alle geometrie prevalenti».

Rifuggiva la letteratura militante.

«La considerava un’oscenità. La pretesa di certi autori di convincere i lettori che le idee sue sono migliori è ridicola. Celati l’ha rifiutata quando, tra i Cinquanta e i Settanta, era un’idea asfissiante».

Anche oggi con Roberto Saviano o Michela Murgia non si scherza.

«Penso che Celati non crederebbe ai suoi occhi davanti a un letterato che si fa sacerdote del Bene al 100%».

Cosa fa di Marco Pannella un rompicazzo?

«Il fatto che disse ai comunisti che se all’epoca avesse avuto vent’anni sarebbe stato tra i Gap comunisti, ovvero gli attentatori di Via Rasella, pur considerandola un’operazione politicamente suicidaria. Così fu, difatti, tanto da provocare la rappresaglia delle Fosse Ardeatine in cui furono trucidati 335 innocenti. Dirlo ai comunisti in pieni anni di piombo è un perfetto esempio di rompicazzismo, di un giudicare complesso e senza remore. Va notato che la rappresaglia era una legge della guerra ineluttabile e il comandante di quell’azione fu condannato non per l’atto in sé, ma per aver sbagliato i conti, avendo ucciso cinque persone in più, 335 anziché 330, di quelle previste. Aggiungo anche che ero amico di Rosario Bentivegna, il capo dei Gap, ma un conto è riconoscere il coraggio personale dell’atto, un altro approvarne la giustificazione ideologica che è carta straccia».

Chi sono i rompicazzo di quest’inizio secolo?

«Oggi è più difficile individuarli perché non c’è una convinzione centrale alla quale sottrarsi. Ci sono piccole tribù, piccoli condomini. La differenza non la fanno più gli scrittori e gli intellettuali, ma gli influencer che mettono le chiappe in mostra sui social e hanno 200.000 seguaci. C’è anche qualche genio come Chiara Ferragni, per esempio. Ma è il genio di un mondo che non mi appartiene».

Le faccio qualche nome: Vittorio Sgarbi?

«Sicuramente è un ragazzo che ha un’identità originale rispetto a quelle in voga. Personalmente ne apprezzo più l’indubbia intelligenza della retorica. Come Carlo Michelstaedter, prediligo l’arte della persuasione a quella della rettorica, come la chiama lui».

Giordano Bruno Guerri che lei avrebbe visto bene ministro della Cultura?

«Sicuro rompicazzo. Era il ministro adatto a questa situazione. Lo dico al di là del debito di riconoscenza che gli porto, perché se nel 1987 non ci fosse stato lui alla Mondadori, un libro come Compagni, addio non sarebbe stato pubblicato».

Parlando di prezzi da pagare come giudica il fatto che una persona della cultura e della scrittura di Pietrangelo Buttafuoco non riesca a fare il giornalista?

«Non sono convinto che la professione del giornalista sia così nobile. Siccome non lo è, non c’è niente di strano che uno come Buttafuoco non possa farlo. Spesso i giornali servono a convincere i lettori delle idee che essi hanno già. Una voce discordante è un problema. Non ho mai scritto perché il lettore si confermasse nelle sue stesse idee, ho sempre cercato di mettere del veleno nel caffè».

A sinistra chi sono i rompicazzo?

«Renzi lo è stato e lo ha pagato. L’odio che c’è verso di lui in gran parte della sinistra è patologico».

Lo si può definire di sinistra?

«È nato lì, è stato segretario del Pd».

A sinistra ce ne sono meno perché, come scrive Luca Ricolfi, si vive il complesso di superiorità dei migliori?

«Adesso non c’è più. Un tempo c’erano i ceti medi riflessivi e bisognava dire qualcosa di sinistra per essere alla moda. Infatti, oggi il Pd non sa più che cos’è. La qual cosa che non mi fa piacere e non lo fa nemmeno alla democrazia repubblicana».

Che idea si è fatto dei giornalisti tornati cani da guardia con Giorgia Meloni dopo esser stati cuccioli di Mario Draghi?

«Capisco cosa vuol dire, ma sarebbe un discorso troppo lungo».

Ha approvato l’esclusione di Enrico Montesano da Ballando con le stelle per aver indossato una maglietta che citava una frase di Gabriele D’Annunzio poi adottata dalla XMas?

«È fin troppo ovvio che dica di no».

Scrive che noi siamo fatti dai libri che abbiamo letto, ma pure da quelli che non abbiamo letto. Tre titoli che le mancano?

«Ho letto Friedrich Nietzsche meno di quanto avrei dovuto. E non ho letto Le confessioni di Sant’Agostino. In questo momento mi arrivano tre o quattro libri al giorno. Riceverne molti di più di quanti riesca a leggerne è una specie di incubo».

Il più tormentoso?

«Le rispondo così. Qualche giorno fa mi è arrivato Speranza contro speranza di Nadezda Mandel’stam, una poetessa internata nel gulag sovietico, libro pubblicato in una collana di Settecolori curata da Stenio Solinas. Bene, finché non l’avrò letto non sarò in pace. Lo devo alla sua prigionia… Perché sì, si parla molto di fascismo: ma il comunismo staliniano cos’è stato?».

 

La Verità, 26 novembre 2022

Mughini: «Il design? Meglio degli uomini»

Quante vite ha Giampiero Mughini. Scrittore, giornalista, commentatore televisivo, analista di costume, appassionato di sport, tifoso juventino. Meno noto è come cultore di design, collezionista, accumulatore di oggetti di pregio. Ecco, dunque, Il Muggenheim – Quel che resta di una vita (Bompiani). Godibilissimo vagabondaggio tra cultura dell’immagine, bibliofilia, riviste e rivolte giovanili, Quartiere Latino, arredi d’autore, fumetti, cesure generazionali, rock progressivo, prime edizioni prestigiose, fotografia e iconografia erotica, divorzi professionali. «È inaudito che in Italia non esista un museo dedicato ai Settanta e dintorni», si legge nell’introduzione. «O forse no, forse quel museo in Italia esiste. A casa mia. Scarno, povero, da riempire nove o dieci stanze in tutto. Ma c’è». Eppure, prosegue adagiato nella poltrona prediletta, opera di Gaetano Pesce, «Il Muggenheim è nient’altro che un libro».

Un’autobiografia artistico-esistenziale?

Assolutamente questo.

Com’è nata la passione per il design?

Al liceo o all’università nessun professore aveva mai pronunziato la parola design. Ventenne nei primi anni Sessanta, furibondi di creatività italiana, ho iniziato a incuriosirmi delle cose che mi erano vicine. Il cinema, il fumetto, il rock, le avanguardie culturali… Quanto al design ho imparato a preferire una lampada a un’altra, una sedia a un’altra.

Poi vennero gli anni parigini?

Nelle vie del Quartiere Latino c’era una libreria una porta sì e una porta no. Lì è esploso l’amore per i libri come oggetto, la carta, la copertina, la grafica…

Il design è un’ossessione, una religione, una malattia?

Una religione no, perché gli dei non si vedono e non si toccato e invece la poltrona su cui sono seduto sì.

Si definisce «bibliofolle».

Sono pazzo dei libri. Soprattutto delle prime edizioni, perché quello è il momento in cui il libro sfida il mondo. E spesso quella prima sfida la perde. Talvolta vince le successive. Al momento della sua morte, nel 1928, Italo Svevo aveva venduto sì e no 300 copie. Oggi quando nel mondo si parla di letteratura del Novecento, Svevo compete con i grandi autori internazionali. Per me possedere una sua prima edizione è un’esperienza ai limiti dell’erotismo. Anzi, data la mia età, forse qualcosa di più.

Il gusto per l’estetica supera la passione per la politica?

Sì, se s’intende la competizione tra Pd e M5s o tra Lega e Fratelli d’Italia. Non quando si devono fare scelte decisive, come quelle guidate da Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, Ugo La Malfa, Bettino Craxi o suggerite da Matteo Renzi. Per il resto la politica la scruto da lontano. L’estetica la respiro a pieni polmoni tutti i giorni.

In quegli anni c’era una ricerca ideale diversa da quella che viene dalla politica?

Altroché. S’imparava dalle cose della vita, innanzitutto dalle sconfitte. A 17 anni, avendo vinto quelli siciliani, partecipai ai campionati italiani di ginnastica artistica a Novara e mi accorsi che i ragazzi che s’erano addestrati nelle palestre del Nord erano di tanto più forti di me. Dieci anni dopo scappai dal Mezzogiorno arretrato con seimila lire in tasca. Fu il mio primo gesto «rivoluzionario», senza protezioni di partiti o di logge di alcun tipo. L’altro grande evento della mia vita è stato uscire dall’extraparlamentarismo di sinistra. Raschiarne via la cultura mi costò altri anni, fino al Compagni, addio del 1987. Ecco perché oggi non concedo più nulla alle fesserie ideologiche.

Per esempio?

Sono allibito dinanzi al fatto che il populismo sia così duro a morire. In Francia il 21% ha votato per la sinistra di Jean-Luc Mélenchon. Incredibile.

Include Mélenchon tra i populisti?

Il socialismo di cui parla non significa nulla. Nelle democrazie industriali avanzate su 100 euro percepiti da ciascuno di noi 50 vanno allo Stato. Il socialismo esiste già. Le diseguaglianze? Sono inevitabili: uno non vale uno.

Gli anni Settanta sono generalmente disprezzati per il soffocamento ideologico, lei ne decanta la creatività e il fuoco artistico.

Nelle strade della Bologna del 1977 c’era il rock non la classe operaia. Non era vero che tutto nascesse nella fabbrica. I germi del cambiamento possono attecchire in un’industria come la Ferrari o in una band come gli Skiantos.

La stanza alla quale è più affezionato è quella dei Cinquanta?

Il design non è come la tua donna, si possono amare più epoche. I Cinquanta pulsano del rapporto con l’estetica di Ico Parisi che, quando lo conobbi, tutti lo avevano dimenticato. Ora i suoi mobili sono all’apice delle quotazioni internazionali.

Nel libro omette la vendita della collezione di libri futuristi: capitolo troppo privato o troppo doloroso?

Certamente un lutto. Era la seconda o terza collezione d’Italia. Erano libri che non leggevo più. Pur a malincuore, decisi di venderli per iniziare nuove avventure dell’anima.

Non l’avrà venduta perché una giornalista le disse che aveva una biblioteca di destra?

Quella giornalista sosteneva che fossi di destra perché possedevo un centinaio di volumi di Filippo Tommaso Marinetti e solo cinque o sei di Eugenio Scalfari. Le risposi che il numero di quelli di Scalfari era più che sufficiente

Scrive che gli arredi e i libri sono più affidabili degli esseri umani: bilancio amaro.

L’amarezza più dolorosa. A volte la solitudine l’ho cercata, difesa e proclamata orgogliosamente. Altre volte è stata eccessiva. In buona parte è derivata dall’andare  in contrasto con la mia generazione. Avevo fondato Il Manifesto e me n’ero andato pochi mesi dopo. Per due anni il telefono non ha squillato. Lunghi silenzi anche dopo che mi dimisi da Panorama nel 2005 perché non c’era sintonia con il nuovo gruppo dirigente del settimanale. E tanto più dopo gli anni trascorsi con un grandissimo direttore com’è stato Claudio Rinaldi. Non andavamo d’amore e d’accordo su tutto, ma avevo una stima totale per lui. Quando gli proponevo un pezzo su qualcosa che lui non conosceva di prima mano, mi rispondeva: «Di quante pagine hai bisogno?».

Si avverte una certa estraneità anche verso il presente.

Non penso sia colpa del presente. C’è che non sono adatto alla comunicazione via social e alla continua esibizione del proprio sé stesso da cui è dominata.

È un’estraneità colmata da pochi amici: Roberto D’Agostino, Francesco De Gregori, Oliviero Diliberto. Cosa glieli rende tali?

D’Agostino lo conosco da 40 anni e quando creò Dagospia, mentre molti alzavano il sopracciglio, il primo giorno gli mandai una lettera d’affettuoso incoraggiamento. Non è un amico, è un fratello.

De Gregori?

L’ho conosciuto nel momento giusto, una ventina d’anni fa. La nostra è un’empatia sentimentale e intellettuale.

Diliberto?

Condividiamo la bibliofollia, amicizia totale. Da capo di Rifondazione comunista non mi piaceva proprio, forse quello che frequento adesso è suo fratello gemello.

Antonio Ricci, invece, è un bibliofilo rivale?

E molto più potente di me, guadagna 20 volte quello che guadagno io. Credo sia il maggiore collezionista d’Europa della produzione lettrista e situazionista francese.

C’è un Mario Draghi prima e dopo le elezioni per il Quirinale?

Capisco il ragionamento, ma lo respingo. Più che altro la situazione del governo non induce all’ottimismo perché ciascuna delle sue componenti fa di tutto per farsi notare. Se uno vale uno, nutro crescenti riserve sulla democrazia di massa. Mi lascia esterrefatto che in Francia la distanza tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen sia solo di 4 punti.

Che cosa le fa pensare che mentre in tutti i sondaggi la maggioranza degli interpellati è contraria all’aumento della spesa per le armi, governo e grandi media marciano nella direzione opposta?

Nel rapporto tra Pil e spesa militare l’Italia è solo al 102esimo posto della classifica mondiale. Non possiamo essere i pezzenti dell’esercito europeo di cui tanto si parla. La Russia ha 10.000 carri armati, la Francia 400, noi 120. Non credo sia una buona idea aumentare la presenza di truppe della Nato a Est. Ma nel caso, l’Italia dovrebbe fare la sua parte. Detto questo, non voglio affatto una nuova guerra fredda.

Quella in corso è molto calda.

Lì è caldissima. Penso che Silvio Berlusconi faceva benissimo a dialogare con Vladimir Putin. La Russia ha accanto la Cina e l’India e andiamo verso un mondo in cui l’Occidente non sarà più maggioranza.

Sembra anche a lei che con la pandemia e la guerra nei media si è affermato un conformismo intollerante?

Sulla guerra sono in parte d’accordo. Seguo e rispetto le riflessioni del professor Alessandro Orsini o quello che scrive il generale Fabio Mini sul Fatto quotidiano. Sulla pandemia invece la questione è semplice: essere vaccinati è una condizione di gran lunga migliore che non esserlo.

Gli ospiti in Rai dovranno essere giustificati da comprovata competenza.

E chi la decide se non il conduttore? Il professor Orsini ha una competenza comprovatissima. Sono rimasto allibito quando ho saputo che è scattata la riprovazione nei confronti di una persona di assoluta levatura intellettuale e morale come Lucio Caracciolo.

 

Panorama, 20 aprile 2022

Mughini: «Che noia tutti questi sacerdoti del Bene»

Uffa, e basta la parola. Basta quell’esclamazione o quell’intercalare per figurarcelo subito, Giampiero Mughini: la postura, la chioma, l’occhio irrequieto, le giacche pittate e la parlata pittorica, la tonalità in levare, le mani roteanti per sostenere il ramificato argomentare. Presto Uffa campeggerà sulla copertina del libro in uscita da Marsilio (sottotitolo «Cartoline amare da un Paese in cui accadde di tutto»). Sarà un’antologia di corsivi pubblicati dal Foglio tra il 2005 e il 2006 – «anno fatale» – incorniciati da riflessioni sul presente per attualizzare polemiche mai sopite, anzi, ciclicamente risorgenti. La magistratura, Calciopoli, il terrorismo, l’Italia guelfa e ghibellina, divisa in fazioni pro e contro un leader più o meno divisivo, Silvio Berlusconi allora, Matteo Salvini oggi.

Mughini risponde tra un’ospitata televisiva, la parte minore e più redditizia del suo lavoro, e l’immersione nella poliedrica biblioteca, luogo dell’anima.

Perché nel libro Uffa è senza punto esclamativo a differenza del titolo della rubrica sul Foglio?

«Perché l’Uffa! originale era uno scatto nervoso, breve e tagliente nelle intenzioni, mentre chi leggerà adesso vi coglierà un ragionamento o lo spicchio narrativo di un pezzetto d’Italia. Sul giornale quei testi vivevano lo spazio di un mattino, in un libro hanno una responsabilità diversa alla quale il punto esclamativo non si confà».

È un’espressione che indica un certo snobismo o un moto di sufficienza. Oppure il retropensiero è che basterebbe un po’ di buon senso per smontare tante polemiche?

«La seconda che ha detto».

Retropensiero del retropensiero: viviamo in un’epoca autistica in cui ognuno segue i propri ragionamenti, incapace di ascoltare, dialogare, relazionarsi?

«È assolutamente così. Ognuno di noi insegue le proprie ossessioni, asserragliato in topografie dove dirimpetto c’è un nemico, sempre quello. Personalmente, quando inizio un ragionamento talvolta non so come lo finirò».

Perché non possiede certezze?

«Non possiedo verità ultimative. Più gli anni passano e meno ne so. Dare addosso a Salvini o esaltare le sardine 24 ore al dì è un pensiero che non si avvicina nemmeno all’anticamera del mio cervello».

Restando sull’incomunicabilità, quanto è lontana una pacificazione sugli anni del terrorismo?

«Non è lontanissima perché oggi non c’è un terrorista che si alzi a sostenere di aver avuto ragione. Erano delinquenti di strada e onestamente la più parte di loro lo ammette sia a sinistra che a destra, come mi testimoniano gli amici Valerio Morucci e Giusva Fioravanti».

Persiste qualche clamorosa eccezione, tipo Barbara Balzerani.

«Vero, Balzerani fu assai sgradevole quando parlò del mestiere della vittima. Detto questo, non sono sicuro che l’Italia abbia digerito bene quella stagione. Oggi nessuno estrae più una pistola, però tantissimi spasimano per fare a botte verbali. In tv, per esempio, se mi succede di essere coinvolto in un cosiddetto telescazzo me ne avvilisco».

Quelli che sono andati più vicini a una pacificazione sono la famiglia Calabresi e gli assassini del commissario Luigi, anche se di recente la vedova Pinelli ha ribadito le sue insinuazioni sulle circostanze della morte del marito?

«Penso che, se dopo aver abbracciato la vedova Gemma Calabresi, qualcuno ricomincia a dire di sapere come in realtà è andata o, più precisamente, pensa che nella stanzuccia della Questura di Milano qualche funzionario si sia avventato su Giuseppe Pinelli, la pacificazione non è possibile. Purtroppo, benché privi della pur minima prova, anche scritti recenti di autori di quella parte insistono sull’ipotesi del massacro».

Perché questa antologia di scritti riguarda l’annata 2005-2006?

«Perché il caso è divino. Nel luglio del 2005 mi chiamò il mio amico Giuliano Ferrara chiedendomi di iniziare quella rubrica due giorni dopo. Poi in quell’anno successe di tutto di più. Sia nella vita civile, per esempio con Calciopoli che, per milioni di italiani tifosi fu più importante di Tangentopoli, sia nella vita privata, perché i medici guardarono dentro e videro un tumore. Motivo per cui fu un anno molto particolare, al termine del quale capii che <prevenzione> è più importante di< rivoluzione>».

Woody Allen dice che l’espressione più desiderata al mondo non è sentirsi dire «ti amo», ma «è benigno».

(Risata). «Non sono Woody Allen e gli aforismi non mi vengono altrettanto bene».

Il suo aforisma ha risvolti culturali più significativi. L’amarezza citata nel sottotitolo del libro è aumentata o diminuita dal 2005?

«È aumentata esponenzialmente, innanzitutto per il fatto che data la mia età il compimento del mio destino personale si avvicina irreparabilmente. E poi a causa dello scombussolio e della degradazione della vita pubblica. Cito un fatto quasi banale. Ogni settimana vado per lavoro un paio di giorni a Milano, risiedo nel quartiere Isola dove la mia compagna possiede un piccolo appartamento. E ogni settimana ci trovo una novità, un’invenzione utile per la vita quotidiana. Quando ci si arriva provenendo da Roma, sembra di entrare in uno Stato progredito del Nord Europa. Pensare che Milano appartenga allo stesso Paese della Calabria, della Campania o della Sicilia è una balla che ci raccontiamo. Quand’ero ragazzo i giornalisti che venivano a Catania ne parlavano come della <Milano del sud>. Oggi a nessun emulo di Indro Montanelli o Luigi Barzini verrebbe in mente di usare un’espressione del genere per qualsiasi città meridionale».

Il lavoro cui fa riferimento è quello di opinionista televisivo che, da quanto si legge, sembra vivere con un certo disagio.

«Quello televisivo è solo una parte infinitesimale del mio lavoro, ma è la parte che vivo con maggior disagio nel timore che qualcuno mi fermi e mi dica che mi riconosce per gli occhiali che porto. Ringrazio la tv perché senza, con la crisi dei giornali cartacei, sarei in un ospizio. Assisto alla lenta scomparsa del mio mondo naturale e ho spesso la percezione che scrivere un libro significhi rivolgersi alla nicchia di una nicchia. A meno che non si scrivano libri contro Berlusconi o contro la camorra. Ma neppure se mi offrissero un milione mi conformerei a una tale banalità. Chi li scrive ha tutto il diritto di farlo, ma in genere i sacerdoti del bene mi annoiano».

Sono la categoria più popolare del momento.

«Con qualche risvolto grottesco, come quello che riguarda una simpatica ragazza sedicenne trasformata in una diva planetaria. Non c’è nulla di più lontano dalla mia idea di vita intellettuale: una terra nella quale il mondo diviso in bianco e nero non è previsto. Gli articoli dei sacerdoti e sacerdotesse del bene non li leggo, né seguo le loro prediche in tv».

La televisione non è adatta agli spiriti problematici e all’esercizio dei distinguo?

«Dipende da come la si usa. Ci sono anche cose buone… Una domenica sono stato ospite di Fabio Fazio per raccontare il primo romanzo di Italo Svevo e ho avuto la percezione della potenza della televisione, imparagonabile alla forza d’urto di un pur lucido e penetrante articolo di carta stampata. Milena Gabanelli, la miglior giornalista italiana, sintetizza in cinque minuti argomenti complessissimi rendendoli accessibili al grande pubblico».

Che cosa pensa del fatto che, secondo Worlds of journalism study i giornalisti italiani sono quelli più a sinistra d’Europa a fronte di una cittadinanza più moderata? Dipenderà anche da questo il calo delle vendite dei nostri giornali?

«Che i giornalisti volgano più spesso a sinistra è un fatto. Ma non dipende certo da quello che i ventenni e magari i trentenni non sappiano più che cos’è un giornale di carta».

In senso più lato, esiste una superficialità dei media e ancor più dei social media per cui i sentimenti più preziosi ne risultano distorti?

«Come si fa a frenare l’eruzione di esibizionismo e vacuità di quelle che chiamano influencer perché indirizzerebbero scelte e comportamenti dei seguaci in molti casi facendo sfoggio di culi e cosce?».

Secondo gli analisti gli influencer stanno rivoluzionando il concetto di lavoro e il rapporto tra tempo libero e occupato.

«Non sono iscritto a nessun social media, ma su whatsapp mi arrivano post di ragazzi che ridono, discettano e subissano i follower con messaggi autopromozionali. Sono nato in un’epoca nella quale ci avevano insegnato a dire sempre una cosa in meno piuttosto che una in più. Nei suoi ultimi venti o trent’anni, per suo stile di vita, mio padre mi avrà rivolto trenta frasi in tutto. Ma con ognuna di quelle parole mi ci nutrivo per dei mesi».

L’autorità esisteva.

«Mi ricordo che una volta, al ritorno da una manifestazione antifascista mi si avvicinò: “Tu sai che io stavo da quella parte…”. “Sì, papà”. Mi aspettavo una replica, qualcosa. Invece, non disse una parola al figlio che insultava la sua storia; nulla. Ancora oggi rabbrividisco al pensiero di quel suo silenzio».

Oggi l’esibizione del privato fa conquistare le copertine…

«Mi deprime l’esibizione sconcertante dello scorrazzamento da un letto all’altro pur di ottenere un numero maggiore di like».

È corretto se dico che il punto dove lei è meno problematico è la condanna di Matteo Salvini?

«Non troverà una mia parola offensiva nei suoi confronti neanche col microscopio. E dal momento in cui ha ipotizzato Mario Draghi capo del governo sono attento a certi percorsi zigzaganti che potrebbero portare delle sorprese. Giancarlo Giorgetti è una figura che arricchisce le posizioni di Salvini, destinate a galvanizzare l’elettorato. Penso che se andassi a cena con Giorgetti condividerei il 50 o 60% dei suoi argomenti».

Se la sovranità che appartiene al popolo è citata nel primo articolo della Costituzione non sarà un’idea tanto fascista, o sbaglio?

«La parola “sovranità” è una scodella che si può riempire di contenuti i più vari. Dipende da come viene esercitata nel rapporto con i paesi vicini. Senza dimenticare il fatto che abbiamo il terzo debito pubblico del mondo».

Le sardine la persuadono?

«Persuadermi no, mi sono simpatiche, ma credo saranno un fenomeno di breve durata. Ho visto spesso in tv Mattia Santori e l’ho ascoltato dire che non metterà mai piede a Rete 4. Siccome io vado spesso a Stasera Italia di Barbara Palombelli mi sono sentito offeso».

Approva un movimento che nasce solo anti qualcuno?

«Apprezzo il fatto che dimostrino che la piazza può essere occupata anche da gente con silhouette diverse da quella di Salvini».

Un movimento filo governativo e fiancheggiatore dell’establishment?

«No, perché oggi è tutto mescolato. Non è come al tempo in cui le schiere dell’eskimo stavano sulla sponda opposta rispetto alle schiere dei Ray-ban. Le ripartizioni novecentesche non aiutano a sezionare questo grande ceto medio che comprende quasi tutta la società, eccezion fatta per pochi poveri e ancor meno straricchi».

Ha anche lei la sensazione che, come i girotondi e il popolo viola, anche le sardine sembrano un movimento che presume di rappresentare la parte migliore dell’Italia?

«La presunzione è un peccato di gioventù. Da ragazzo pensavo di sapere tutto e le prime volte che parlavo in pubblico avevo un’insopportabile aria da guru. Mentre in realtà non sapevo un cazzo di niente».

È fuorviante coccolare questi giovani inesperti e proporli come modello?

«I mass media vivono di questo. Appena è comparsa Greta Thunberg sono esplosi i peana. Cosa può sapere una sedicenne della complessità dello sviluppo economico e dei cicli climatici? Eppure c’è chi l’ha proposta per il Nobel della pace. Succede. Ma di fronte allo spettacolo che offrono certi adulti che si azzuffano in Parlamento prima di rimproverare i giovani ci penso due volte. Avevo apprezzato l’apertura del loro leader romano che si era detto favorevole alla presenza di Casapound alla manifestazione in Piazza san Giovanni. Forse era eccessivo, ma era un bel segnale».

È un movimento contro l’odio, ma a volte, pensando di essere nel giusto, sembra che sia più violento l’odio degli altri.

«Questa è una buonissima riflessione sulla quale mi esercito da decenni. Mi vanto di essere uno che ha collaborato tante volte a placare gli animi. Nel 1981 realizzai per la Rai Nero è bello, un documentario in cui da sinistra raccontavo in modo civile e rispettoso i militanti della nuova destra. Vorrei che sulla mia tomba fosse scritto: “L’autore di Nero è bello”».

Quanto durerà questo governo? Ed è giusto che stia in piedi a ogni costo?

«Potrebbe durare tre ore o anche tre anni, ma penso che sarebbero anni di mediocrità. Io sono favorevole a una coalizione repubblicana perché ritengo che, in un momento di grave difficoltà come questo, possa aiutarci a superare la paralisi e a rispondere alla domanda relativa al fatto che, da 25 anni, l’economia italiana ha il peggiore indice di produttività di tutti i paesi moderni».

 

Panorama, 8 gennaio 2020

Sofia Viscardi, una teen ager che può far paura

Mi spiace, ma sto con Giampiero Mughini. E con le 80 copie di Porto sepolto di Giuseppe Ungaretti, piuttosto che con i 2 milioni e oltre di seguaci nei vari social di Sofia Viscardi, intervistata con grande risalto dal Corriere della Sera. Sto con Mughini non per un vezzo snobistico, per una vezzosa scelta in favore delle minoranze di qualità alla Nanni Moretti in Caro diario. È che le folle mi fanno paura. Anzi, non è neanche questo. Dipende dalla qualità delle folle, da che cosa le mette insieme e le fa essere. In realtà, non mi convince proprio il mondo che diffonde Sofia Viscardi. Non tanto i social e il web, tout court. Quanti vantaggi portano, quanta velocità ci regalano, quanto apprendimento, a volerli sfruttare con intelligenza. Non mi convincono la mentalità, la cultura, il mood della social star. Sofia Viscardi ha concesso un’intervista ad Aldo Cazzullo di una paginata, intitolata: «Vi spiego chi sono i vostri figli». I miei hanno qualche anno di più dei suoi 19, ma lo stesso il titolo mi ha attirato. Ho letto e mi son detto: boh? Cos’è questo mondo orizzontale? Questa massa di follower? Conquisto «la loro attenzione, mica la loro anima», si è difesa lei. E meno male.

Su Dagospia Giampiero Mughini ha criticato il dialogo Giorello-Viscardi

Su Dagospia Giampiero Mughini ha criticato il dialogo Giorello-Viscardi

Perché su questo io sto con lo psichiatra Eugenio Borgna che ritiene condivisione, connessione e community, simboli della rivoluzione digitale, «parole che restano in superficie, che non colgono comunità reali». Chissà quanto ne ha coscienza la social star che snocciola meet-up interrotti dai carabinieri per eccesso di assembramenti e visualizzazioni a milionate. Andando avanti a leggere si trova una lunga serie di esperienze accumulate, di citazioni virtuali, di teen-scrittori, youtuber, Chiara Ferragni (che è la fidanzata di Fedez, in caso sfuggisse, lanciata da sua madre), di posti visitati. A 19 anni non ancora compiuti è stata in Marocco a Essaouira e Marrakech, conosce le Cicladi maggiori, le «spiagge ventose della Spagna e del Portogallo per fare kitesurf», Amsterdam. Una volta, con espressione oggi desueta, si sarebbe detto: una ragazzina viziata. Che ha cambiato quattro o cinque scuole superiori perché «rispondevo; e questo ai professori non piace». Che con la sua famiglia, per la morte del nonno, anziché celebrare il funerale ha fatto «un aperitivo con un po’ di musica: lui aveva voluto così».

A parte immaginare il classico «aborro» di Mughini, non sono principalmente spaventato da tutto questo apparato, da tutta questa liturgia radical chic. Anche, s’intende, ma solo in parte. Di più mi spaventa l’assenza di una domanda, di un cruccio, di una ferita, qualcosa di mancante, un moto di rabbia. Nel mondo pieno di esperienze e di precocità ma ultimamente piatto che trasuda dall’intervista latitano verticalità e profondità. Non c’è una sofferenza, un dolore, qualcosa d’inspiegato. Una surfista della parola. Una surfista dei social. Non c’è nulla di quello che Alessandro D’Avenia, da mesi ai primissimi posti della top ten con il suo saggio-romanzo su Giacomo Leopardi, chiamerebbe fragilità. Non so voi, ma io a una diciannovenne senza fragilità stento a credere. A ben guardare non è colpa sua se a milioni la seguono. È la fotografia del nostro tempo. Ma dobbiamo farci spiegare da una ragazza così chi sono i nostri figli? Non scherziamo.

Alessandro D'Avenia alla Gran Guardia di Verona (Anto/Fotoland)

Alessandro D’Avenia alla Gran Guardia di Verona (Anto/Fotoland)

Sono andato a rileggermi altre cose di Sofia Viscardi, scoprendo che nel giugno scorso, in occasione dell’uscita di Succede, titolo vagamente saccente del suo primo romanzo, il Corriere della Sera ha dedicato una lunga conversazione sulla Lettura tra lei e Giulio Giorello, nientemeno. Ciò che suscitò la reazione di Mughini di cui sopra. E certo, a pensarci: quante domande sull’impiego delle nostre energie migliori e sulla consapevolezza del ruolo educativo di noi adulti.

C’è solo un punto dove Sofia Viscardi lascia trapelare qualcosa, ed è dove risponde alla domanda se «crede nella vita dopo la morte». «Credo che ci sono cose che non possiamo sapere», ammette. Ma è un punto che sfila via perché subito dopo dice di non essere religiosa. Invece, riconoscere che esistono cose che «non possiamo sapere» è l’atto più razionale della ragione: ammettere la possibilità di qualcosa che non si riesce a misurare e controllare. Proprio questa umiltà della ragione è l’inizio del senso religioso, del porsi le domande sul perché della vita e della morte… Ecco: che oltre due milioni di persone seguano una ragazza così, mi fa pensare. E preoccupa.

Sto con Mughini, Borgna e D’Avenia, gente più fragile di Sofia Viscardi. Alla quale, peraltro, auguro tutto il meglio possibile.

 

 

Mughini: «Aiuto! Il ‘900 è morto e io non mi sento bene»

Ride spesso Giampiero Mughini, ascoltando le domande che gli porgo. Ride sonoramente come gli abbiamo visto fare tante volte in televisione. Di più in passato, in verità: ché, nel presente, di motivi per ridere ce ne sono pochi. Eppure l’intervista gli piace, tra amarezza e disincanto, tra complicità e quel godere dello spirito libero di cui è incarnazione. Il suo La stanza dei libri edito da Bompiani è, però, una sorta di grido nostalgico del Novecento in lotta con il presunto Eldorado digitale e l’euforia dei Millennials. «Lo so di essere fuori dal mio tempo. Ne sono felice», recita. «Non sono iscritto a Facebook e non so neppure bene che cosa sia». E ancora: «Casa mia è stata pensata in buona parte come un museo della memoria dei sessanta-settanta».

La copertina dell'ultimo libro di Giampiero Mughini

La copertina del libro di Mughini

Il tuo libro rappresenta la resistenza della cultura cartacea contro quella digitale. Una resistenza fiera, malinconica o rassegnata?

«Ah ah ah ah… Fiera, senza alcun dubbio. Malinconica, anche. Rassegnata non è termine giusto, perché penso che la buona cultura moderna deve nutrirsi di tanta carta, che non morirà mai. Ma deve anche approfittare di quelle che io chiamo le autostrade sconfinate di internet».

Leggendoti, sembra di vedere un generale blindato nella «stanza dei libri», con l’esercito in ritirata.

(Ride ancora). «I miei anni crescono, i miei capelli sono bianchi, il mio tempo migliore è passato e il Novecento, prima stremato, ora è definitivamente morto. Tutto ciò che accade oggi appartiene a un pianeta inedito. L’avvento di Donald Trump, l’esito del referendum dell’altro giorno: tutto questo ha niente a che vedere con sinistra e destra o con la Costituzione più bella del mondo, ma con il ceto medio che impoverisce. Il mio esercito ideale e i duelli ai quali ero abituato – su tutti, quello con i delinquenti della mia generazione avvezzi a sparare alle spalle di avvocati, giornalisti e politici – sono scomparsi. Oggi gli unici duelli derivano dagli energumeni che, sotto mentite spoglie, replicano insultando a un qualsiasi tweet che non li soddisfa. Che tristezza!».

C’è un punto in cui ammetti che se uno parla di sé attraverso i libri è perché «di cose e di persone reali nella sua vita ne ha avute poche». Bilancio malinconico?

«Non lo so, è il mio. Del resto, non ho una famiglia in senso tecnico. Ho una compagna da 25 anni, che non è poco. E una cagna adorata, che non è poco. Non ho rapporti professionali né salottieri e non sono iscritto a un partito. Né ho avuto mai un giornale che sentissi come una casa, sono stato ospite e mi sono congedato o mi hanno congedato rapidamente. Perciò, di cose reali ne ho poche. La vita reale erano gli umori e le febbri del mio tempo».

Nella Meglio gioventù di Marco Tullio Giordana Maya Sansa dice al personaggio di Alessio Boni, poliziotto e gran lettore solitario, che i libri possono essere una forma di egoismo perché si possono chiudere quando si vuole, mentre con le persone è più difficile…

«Ma i libri sono più fedeli delle persone, più affidabili di quanto lo siano stati certi amici. Sono più fedeli anche di certe donne, pur importanti nella nostra vita. Le quali, nella nostra gioventù, passavano da un sì a un no in un arco di tempo tra i sei mesi e le poche ore».

Ovviamente non ti chiederò della direzione di Lotta continua che assumesti, in quanto iscritto all’albo, per cortesia verso Adriano Sofri…

«No, per cortesia verso la mia generazione di cui quel giornale era una voce autentica, anche quando scrissero: “Caro Luigi Calabresi i tuoi giorni sono contati”. E poi al processo, invece di assumersi le loro responsabilità, dissero: “No, per carità…”; dimostrandosi gente senza onore. Il mio libro sull’assassinio Calabresi, Gli anni della peggio gioventù, che ritengo bellissimo, ebbe un altrettanto bellissimo articolo di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera e niente più, come fosse un libro proibito. Non ebbe alcun’altra recensione, né un invito a un circolo culturale o una lettera di un militante di Lotta continua pentito, perché continuano a pensare come Dario Fo, che Leonardo Marino parlò solo per imbeccata dei carabinieri».

Il giornale «Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l'assassinio di Luigi Calabresi

«Lotta continua» del 18 maggio 1972, il giorno dopo l’assassinio di Luigi Calabresi

Dicevo, non ti chiederò della direzione di Lotta continua ma di quale esperienza culturale sei più orgoglioso: la fondazione di Giovane critica, il lavoro all’Europeo, la tua libreria?

«La direzione di Giovane critica, senza dubbio. Avevo 21 anni e stavo a Catania, che non era esattamente Parigi né Londra. Dunque, la nascita di quella rivista, diretta da un ragazzo che negli anni sessanta era di sinistra. E poi la sua chiusura, dopo la stagione del revisionismo e l’avere raschiato via quella pelle dogmatica».

La fatuità delle amicizie online e dei followers, la vanità e l’esibizionismo fratelli dell’ignoranza e dell’arroganza: c’è una terapia?

«Ognuno la deve trovare da se stesso, anche se non è facile. I ragazzi sostituiscono la solitudine con i click e i like, attraverso i quali, in realtà, si possono incontrare delle persone. Anche a me è capitato con una ragazza, Viviana, che mi aveva inviato delle sue foto su Instagram che esprimevano questo spaesamento. Mi è spiaciuto che, dopo averlo proposto, abbia rinunciato a realizzare un libro fotografico per il quale avrei scritto volentieri. Com’è sempre delle foto, gli autoritratti di Viviana avevano una profondità narrativa che a volte manca alle parole».

Come quella di Tano D’Amico che ritrae Antonio Lo Muscio e tieni in sala da pranzo?

«Esattamente. Lo Muscio disteso a terra con le braccia aperte come crocifisso sembra una vittima. E invece è un lercio assassino».

Sei un provocatore?

«Certo, ci sguazzo. Se una cosa non è provocatoria non ha alcun senso. Non dirò mai che i poveri stanno male. E come vuoi che stiano? O che le donne non si toccano se non con un petalo di rosa. Banalità».

I giornali sono in crisi per troppi costi o poche idee?

«È evidente che il Corriere della Sera ha una struttura pensata per quando vendeva 650.000 copie. Ora ha venduto la sede, ma continua ad avere redazioni e amministrazione non in armonia con le 190.000 copie attuali. Il Fatto quotidiano, che funziona bene e vende 35.000 copie, ha una redazione di 20 persone. I giornaloni fatti per quando erano il vangelo dell’uomo laico sono fuori dal tempo. È una considerazione triste per chi vuol fare il giornalista, ma se avessi un figlio con queste intenzioni lo farei arrestare. Nella mia ultima dichiarazione dei redditi i proventi derivanti da collaborazione con un giornale ammontavano a 500 euro. Scrivo gratis per Dagospia. Se volessi essere pagato, cosa improponibile, dovrei chiedere 70 – 80 euro ad articolo, metà dei quali li prenderebbe lo Stato. Quello che c’è da noi è il comunismo reale, altro che la Cuba di Fidel Castro dove c’è solo miseria invece della sbandierata uguaglianza sociale».

Anche qui però le cose non vanno benissimo.

«La notizia che in Italia ci sono 17 milioni di persone dentro il confine o sul confine della povertà è scioccante. Significa che una parte notevole del ceto medio è precipitata di due o tre gradini».

È qui l’origine di certe sorprese nelle urne?

«Certamente sì. La gente va a votare non per i motivi che crede Sandra Bonsanti, per salvare la Costituzione più bella del mondo. Ma perché non ha i soldi per mantenere i figli che studiano e arrivare a fine mese».

Mancano idee ai giornali?

«Io ne compro cinque e vorrei comprarne otto. Se leggessi tutto quello che vorrei ci passerei quattro ore al dì e non l’ora e un quarto abituale. D’Agostino è un genio perché ripubblica il meglio e i giornalisti sono felici di essere ripresi. Certo, uccide il diritto d’autore, un diritto scomparso nella civiltà del furto».

Ogni due o tre giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni 2 o 3 giorni leggiamo su «Dagospia» «La versione di Mughini», quasi un diario

Ogni due o tre giorni su Dagospia leggiamo «La versione di Mughini».

«Sì, una specie di diario. Quando mi accende qualcosa la scrivo rapidamente e breve per non abusare del tempo dei lettori, e dopo un’ora è online».

Perché c’è quella foto in posa militaresca?

(Risata). «La trovo bellissima. Me la fece il fotografo Pino Settanni che stava allestendo un calendario per l’esercito».

Giampiero Mughini in posa militaresca per il fotografo Pino Settanni

Giampiero Mughini «militaresco» per il fotografo Pino Settanni

La rottura della collaborazione con Panorama avvenne per incomprensione o per differenza generazionale?

«Non bisogna farla lunga: è come in una coppia, quando finisce la tensione da una parte e dall’altra. Io sono antipatico, è andata così».

Però è strano che Giampiero Mughini non firmi su qualche testata importante.

«Anch’io lo trovo strano. Ho lavorato con Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Guglielmo Zucconi, Vittorio Feltri, Claudio Rinaldi, Vittorio Nisticò. Oggi con nessuno».

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ernesto Galli Della Loggia, autore di «Credere, tradire, vivere» (Il Mulino)

Ho letto che ammiri il titolo dell’ultimo libro di Galli Della Loggia: Credere, tradire, vivere.

«Bellissimo. Io ed Ernesto abbiamo gli stessi anni. Abbiamo creduto nelle stesse cose, abbiamo vissuto conoscendo la complessità e il dolore. E abbiamo tradito, restando fedelissimi all’ispirazione di partenza che era avvicinarsi alla verità della complessità».

E per la felicità che posto c’è?

«Non esiste. Esistono quantità sopportabili di dolore».

Che cos’ha da rimproverarsi la tua generazione?

«Eravamo contemporanei, però ognuno risponda di se stesso. Dissento dal grandissimo Giorgio Gaber che cantava “La mia generazione ha perso”: lui di sicuro no. Il suo unico torto è quello di essere morto, ma su questo nessuno può nulla».

Stai correggendo le bozze di un altro libro: indizi?

«Segreto industriale».

Il referendum ti ha appassionato?

«Zero. Certe liti in taverna sono più pittoresche».

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

Clint Eastwood con Tom Hanks sul set di «Sully», suo ultimo film

C’è qualcuno, un autore, uno scrittore, che segui con più interesse e curiosità?

«Clint Eastwood. È difficile che veda un suo film senza che abbia l’impulso di piangere. È successo anche con l’ultimo, Sully, in cui c’è tutta la sua filosofia: ognuno risponda di se stesso e del proprio coraggio».

 

La Verità, 11 dicembre 2016