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«Con questa campagna elettorale, meglio ballare»

Cara Luisella Costamagna, ci presenta il suo curriculum da ballerina?
«Ho fatto danza classica da bambina, come tanti».
Tanti?
«A sei anni mi piaceva avere il tutù e le scarpette a punta. Non coltivavo particolari ambizioni. Adesso ballo quando mi capita».
Per esempio?
«In vacanza, a una festa, corsi veri non ne ho mai fatti. Appena un paio di lezioni di tango, qualcun’altra di danza afro, quando andava di moda».
In gioventù?
«Mi piacevano i musical, il tip tap, Ballando sotto la pioggia, Gene Kelly più di Fred Astaire. Anche Blues brothers».
Un ricordo di lei ballerina?
«Ero in vacanza con i miei genitori e il villaggio organizzò una serata di rock acrobatico, ma a me capitò un partner mingherlino. Così mi toccò fare l’uomo e reggere le sue capriole. Ridevano tutti».
Balere, sagre paesane, discoteche o night?
«Vivevo in un paesino della provincia torinese di 1.300 anime e al sabato sera o la domenica pomeriggio si andava in discoteca. Adesso, a una festa di amici o in un hotel se c’è musica mi viene spontaneo ballare».
È la prima volta che Milly Carlucci le chiede di partecipare a Ballando con le stelle su Rai 1?
«Me lo chiese già qualche anno fa, ma dissi di no perché i tempi non mi sembravano maturi».
Perché ora lo sono?
«Ci siamo risentite in primavera e considerando che il ballo mi diverte, non ho trovato un solo motivo per non partecipare. Peraltro, dopo Agorà, non avevo impegni…».
Suo marito cos’ha detto?
«All’inizio era perplesso, ma poi si è convinto».
Giornalista televisiva e della carta stampata, autrice di libri-inchiesta sul sesso visto dagli uomini, Luisella Costamagna si è affermata nei programmi di Michele Santoro a partire da Moby Dick su Italia 1, anno 1996. Dopo la collaborazione con Maurizio Costanzo, ha firmato come autrice Annozero e Servizio pubblico, sempre di Santoro, per poi approdare alla conduzione in proprio su Sky e La7, fino alle ultime due edizioni di Agorà su Rai 3. Mentre parliamo la si sente svapare.
Sta fumando?
«Sì, fumo le sigarette elettroniche, recuperare il fiato sarà faticoso. Due anni di Agorà fiaccano fisicamente, prima andavo a nuotare, ora ho smesso. Sono sempre stata sportiva, ho giocato a calcio da centravanti. Da diversi anni ho scoperto le immersioni e ho preso il brevetto».
Un maschiaccio.
«Avevo due fratelli maschi, ma ho sempre rivendicato la mia femminilità».
Parliamo di Ballando, cosa pensa delle polemiche per l’arruolamento di Enrico Montesano?
«Penso che abbia ragione Milly Carlucci, Montesano è un grande uomo di spettacolo. Non condivido una sola parola di quello che dice sul Covid, ma non se ne parlerà perché Ballando è un varietà e non un programma d’informazione».
Lorenzo Biagiarelli è fidanzato della giurata Selvaggia Lucarelli: conflitto d’interessi?
«Confesso la mia ignoranza sia su di lui che sulle polemiche collegate».
Alex Di Giorgio per la prima volta ballerà con un partner gay.
(Sospira) «E che problema c’è?».
Discorso lungo. L’Espresso ha scritto che, partecipando a Ballando, corrompe la missione del giornalismo duro e puro.
(Ride) «Ho scoperto di avere dei nuovi tutori. Se ballo, come se faccio le immersioni, sono meno credibile come giornalista? Penso che quelli che mi attaccano cerchino visibilità attraverso di me. L’Espresso ha scritto che sono “una giornalista di razza” che è stata “salutata con imbarazzante leggerezza” dopo due stagioni di Agorà. Mi domando perché non l’hanno scritto quando è successo e lo fanno solo adesso, attaccandomi in nome di una categoria che non difendo».
Il ballo corrompe il giornalismo?
«Appunto, no. Sono due mondi diversi. Faccio la giornalista da trent’anni, penso di aver già dimostrato se sono capace di farlo o no».
Non trova curioso che chi critica la sua partecipazione a Ballando difenda a spada tratta la premier finlandese?
«È un problema loro. Una donna premier è libera di ballare a una festa come io lo sono di partecipare a un talent in cui si balla».
Ma lei è in quota riciclati con Gabriel Garko, in quota giornalisti con Giampiero Mughini o nella rivincita delle bionde con Paola Barale e Marta Flavi?
«Nei cast di Ballando c’è sempre stata la quota giornalisti. È un programma nel quale si fa del ballo sportivo con dei maestri e mi fido della credibilità che Milly gli ha dato negli anni. Nel cast ci sono concorrenti noti e popolari come Iva Zanicchi e Gabriel Garko che è un attore, non un riciclato. Altri sono più smarcati come Ema Stokholma e Paola Barale. Quello che mi compete è come provare a fare bella figura».
E la rivincita delle bionde?
«Anche delle brune, degli uomini e delle donne… Il ballo è interprofessionale, intergenerazionale, internazionale…».
Adesso è chiaro perché, giubilata da Agorà, non ha posato da martire: aveva voglia di far tardi la sera per andare a ballare.
«Su Agorà non voglio fare polemica. Dopo due anni di sveglia alle 4 del mattino, di non vita, di 2 ore di diretta al giorno e risultati eccellenti, mi sarei aspettata qualcosa di più e di meglio di un gelido “si accomodi”. Non fare una terza stagione ci stava pure, ma il nulla mi è sembrato un po’ ingeneroso».
Non le hanno detto niente?
«Non mi hanno proposto un’alternativa. Sono in contatto con Antonio Di Bella, (nuovo responsabile del genere Approfondimenti ndr): fino a dicembre c’è Ballando, vediamo se poi maturerà qualcosa».
Come gliel’hanno spiegato?
«Mario Orfeo mi ha comunicato che non avrei più fatto Agorà poco prima di essere rimosso anche lui dalla direzione degli Approfondimenti. Che abbia fatto bene il mio lavoro è nei fatti».
Non sarà perché è considerata in quota 5 stelle?
«Sono in tv dal 1996, quando i 5 stelle nemmeno erano nell’anticamera del pensiero di Beppe Grillo. In quante quote dovrei essere stata da allora?».
Cartabianca Carlo Calenda l’ha accusata di essere aggressiva.
«Ho fatto solo delle domande. Visto che parlava dell’incoerenza di altri politici ho citato una sua frase in cui si esprimeva in termini non entusiastici su Matteo Renzi. Poi gli ho chiesto se Mario Draghi è d’accordo sull’idea del Terzo polo di mantenerlo a Palazzo Chigi oppure se è un’iniziativa a sua insaputa. Forse alcuni politici non sono più abituati a ricevere delle domande».
I giornalisti potrebbero fare qualcosa di più per elevare questa campagna elettorale?
«Secondo me, sì. Per esempio, fare le domande ai politici. Proprio quello di Calenda è un caso emblematico, anche di un giornalismo acquiescente. Un altro problema di questo Paese è la memoria. Certe dichiarazioni o certe posizioni assunte non vengono tenute a mente quanto dovrebbero».
Per esempio, bisognerebbe chiedere più conto della gestione della pandemia?
«Infatti, il Covid sembra debellato. È un errore non parlarne soprattutto in prospettiva, perché purtroppo non è finito e bisogna continuare con la campagna vaccinale. Ho un figlio che tra pochi giorni tornerà a scuola e vorrei sapere perché certi interventi sui trasporti o sui sistemi di areazione non sono stati fatti».
Sarebbero interessanti anche risposte sulla mancata adozione degli antinfiammatori di cui l’Istituto Mario Negri ha documentato l’efficacia?
«Di fronte a un virus sconosciuto si è proceduto politicamente e scientificamente per approssimazione. Inevitabile siano stati commessi errori perché si facevano i conti con un virus nuovo. Ciò che preoccupa è che non se ne parli».
Come giudica che non si parli delle scelte economiche del governo Draghi e dell’invio di armi all’Ucraina?
«Negli ultimi mesi della mia conduzione di Agorà era un tema cruciale, mentre in campagna elettorale è scomparso. Un altro tema rimosso che riguarda milioni di italiani è quello delle pensioni, a fine anno scadrà quota 102: come la sostituiamo? Con una campagna elettorale così, meglio ballare…».
È proprio convinta.
«C’è solo lo scontro tra rosso e nero. Non si parla dei temi cruciali, ma dell’allarme per la democrazia».
Lei non lo vede?
«Non vedo derive autoritarie alle porte. Penso che il vero pericolo per la democrazia siano i troppi governi non scelti dagli elettori. E questo a causa del fatto che da anni, prima il Porcellum ora il Rosatellum, abbiamo leggi fatte per non far vincere gli avversari più che per garantire una maggiore e migliore rappresentanza degli italiani».
Le piacciono di più i manifesti rossoneri di Letta o le barzellette su TikTok di Berlusconi?
«Né gli uni né le altre. Sono radicalizzazioni inevitabili nelle campagne elettorali. Preferirei che i giornalisti facessero le domande e si parlasse di temi concreti».
Anche a lei sembra che Giorgia Meloni abbia un problema con le donne?
«No, anzi».
Sono le donne che hanno un problema con lei?
«No, domanderei ai suoi colleghi perché lei sia l’unica donna leader di partito e candidata premier. Perché gli altri sono così in ritardo? Rinfacciare a lei un problema con le donne lo trovo surreale».
Elly Schlein ha detto che non se ne fa niente di una donna premier non femminista.
«Condivido quello che ha detto Hillary Clinton: “La prima donna premier è sempre una rottura col passato, ma sicuramente è una buona cosa. Dopodiché sarà giudicata per quello che fa”. Nel frattempo registro che nel Regno unito siamo alla terza premier donna».
Andrà a votare?
«Sono sempre andata, votare è un diritto-dovere. Mi preoccupa lo scollamento che percepiscono gli italiani, il 40% tra indecisi e astenuti è un campanello d’allarme su cui riflettere».
La causa è un difetto di rappresentanza o la nascita di troppi governi creativi?
«Vedo varie motivazioni di questa distanza. Siamo usciti da una fase di grave preoccupazione sanitaria e siamo piombati in un’emergenza economica ed energetica. Il costo delle bollette è un problema serio e stringente e gli italiani vorrebbero delle risposte sul gas, sulle pensioni e sulla pandemia, invece si parla di TikTok».
Tornerà a scrivere sui giornali, magari sul nascente Nuovo mondo di Michele Santoro?
«Anche se prenderò sul serio Ballando con le stelle, continuerò a fare la giornalista, partecipando ai talk show e scrivendo. Conducendo Agorà in Rai avevo interrotto le collaborazioni perché tenevo a presentarmi in modo imparziale. Ora le riprenderò. Santoro non lo sento da tanto; nelle posizioni che ha espresso ultimamente, dopo un periodo di smarrimento, ho ritrovato il Michele che conosco».

 

 La Verità, 10 settembre 2022 

 

«Il Pd è una setta, pensa già al suo congresso»

Indisciplinato, ingenuo, inquieto. Si descrive così Tommaso Cerno, senatore uscente del Pd. Friulano, giornalista, già direttore dell’Espresso, presidenzialista convinto, è l’unico gay dichiarato in Parlamento. Ma al momento del voto di fiducia sul ddl Zan si è astenuto.

Come mai il suo nome non è comparso nella bagarre delle candidature?

«Tre mesi fa avevo chiesto a Enrico Letta di non considerarmi perché sapevo che non l’avrebbero fatto».

Motivo?

«Pago il mio quattro in condotta. Ciò che io chiamo libertà di pensiero per loro è incapacità di stare in comunità. Avrei potuto crederci se non avessero candidato Luigi Di Maio».

Con lui si sono smentiti?

«Era uno che diceva “mai con il partito di Bibbiano”.  Eliminata la condotta, potevano bocciarmi in filosofia, dove però ne so più di loro».

Come definirebbe il suo rapporto con il Pd ?

«Quello di un uomo ingenuo che credeva di essere saggio».

Spieghi.

«Pensavo di entrare in un luogo dove parlare della sinistra fosse la cosa più importante. Invece ho scoperto che si può parlare solo come vogliono loro. È così nelle sette».

Per lei è stata una prigione mentale?

«Più un deserto mentale. Mi sono sentito abbandonato mentre la carovana prendeva la sua direzione. Mesi senza ricevere una telefonata. Il senso di esclusione è ciò che mi ha fatto più male».

Pietra sopra definitiva?

«Certo. Ma continuerò a parlare più di prima della mia idea di sinistra con la scrittura e la voce di cittadino e giornalista».

Come giudica la composizione delle liste?

«È lo specchio dell’identità politica di Enrico Letta e della sua segreteria».

Ovvero?

«Ricordavo che il Pd era fatto di primarie, di gazebo, di dibattiti di piazza. Poi è arrivato Nicola Zingaretti che almeno si è portato dietro un congresso. Ora c’è il primo segretario eletto con un applauso, come al televoto. La selezione di queste elezioni si è svolta sul suo telefonino».

Letta ha ceduto alla voglia di vendetta contro i renziani?

«La cosa incredibile è che non se n’è reso conto. Letta è fuggito in Francia ed è tornato come se un congresso del Pd si fosse aperto nel 2014 e il suo compito fosse quello di chiuderlo. Peccato perché ha avuto l’occasione di rifondare la più grande e variegata sinistra che i cocci della Seconda Repubblica gli avevano messo davanti».

La vendetta è l’esclusione di Luca Lotti?

«Lotti è il diversivo. Serviva un nome forte da far sembrare il capro espiatorio. La realtà è che l’accordo con Carlo Calenda è saltato per il timore di avere uno sfidante moderato alle primarie che seguiranno il voto».

Al prossimo congresso?

«Certo. È lo stesso motivo per cui è saltato Giuseppe Conte. La prospettiva è interna al Pd perché sanno già che le elezioni sono perse. Ma questo è un tradimento delle famiglie italiane. Se togli Lotti, devi spiegarmi perché candidi Elly Schlein».

Perché?

«Per depotenziare Stefano Bonaccini, sempre in vista del congresso. L’altra donna che poteva guidare il Pd è Debora Serracchiani. Letta ha escluso Lotti e ha trasformato nel suo alter ego l’ex vicesegretaria di Matteo Renzi. Sono logiche politiche democristiane che ammiro, ma che umanamente non condivido».

Anche Monica Cirinnà è stata punita con un collegio a rischio.

«Più che Monica Cirinnà è stato punito il suo cane e mi spiace perché le bestie non hanno colpa. Le racconto un aneddoto».

Prego.

«Io sono l’unico gay dichiarato in Senato. Bene: non ho mai ricevuto una telefonata per chiedermi cosa pensassi del ddl Zan. Da finocchio in Parlamento…».

Già questo termine è un’autoesclusione.

«Lo uso perché non ho bisogno di nascondermi dietro alle parole per essere orgogliosamente me stesso».

Non si sarà astenuto sulla fiducia per ripicca?

«Il ddl Zan contiene l’85% di cose necessarie al Paese, a cominciare dalla parte contro l’odio. In Italia la legge Mancino tutela le minoranze, cita i mafiosi e le persone di colore, ma non i gay. È quasi un’istigazione di Stato a delinquere».

Insomma. Il restante 15%?

«Il 10% sono idee di sinistra culturalmente discutibili, che la destra non voleva. Infine, c’è un 5% di errore madornale sulla libertà di parola che un giornalista non avrebbe mai potuto approvare».

Infatti lei non l’ha fatto.

«Il Pd e Letta sapevano benissimo che con una piccola modifica sarebbe passato. Invece decisero che Zan era Mosè e che la legge che il Dio dei gay gli aveva consegnato era immodificabile. Il vero motivo era avere un’idea da spendere in campagna elettorale. Di fronte a questo gioco, ho provato a dire “ma” e sono subito diventato un conservatore di destra. Questi comportamenti sono delle sette, non dei partiti».

Cosa vuol dire candidare sia Andrea Crisanti che Roberto Speranza?

«Certificare due errori. Il primo è ammettere che sul Covid si è fatta una politica casuale. Se candidi il responsabile delle politiche del governo e l’uomo che lo ha più criticato vuoi la moglie ubriaca e la botte piena».

Oppure applichi il «ma anche» veltroniano?

«Io vedo il tentativo d’infondere nel corpo elettorale la sensazione di essere in pericolo, mentre pensavo che si volesse rassicurarlo».

Il secondo errore?

«Presentarsi guardando indietro, dicendo che il Covid può ancora cambiare la nostra vita».

Rimettere la pandemia al centro, vedi il «Destra no vax» di Repubblica, giova alla sinistra?

«Visto dal Nordest il titolo di Repubblica è un falso. In Friuli con Massimiliano Fedriga e in Veneto con Luca Zaia le zone gialle sono arrivate prima che altrove. La Lega di governo è stata più speranzosa di Speranza».

Come giudica la gestione della pandemia di Speranza?

«Per sistemare i guai di Speranza il prossimo governo avrà bisogno del ministro Carità. Speranza non ha capito che il diritto alla salute s’inserisce nel diritto alla vita. Non possono servire tre anni per trovare equilibrio tra salute ed economia. L’esasperazione del contrasto al virus me l’aspetto da un medico non da un politico».

Una volta il Pd candidava i magistrati oggi i virologi.

«Candidare Crisanti contro l’emergenza salute non è molto diverso da candidare Cicciolina per affermare l’autogestione del corpo. Anziché tracciare la sua strada, la politica ricorre agli specialisti. È l’ammizzione di un’inadeguatezza. Per risolvere la quadruplicazione della bolletta elettrica bisognerebbe candidare Elon Musk».

Perché firmò con Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, un ddl che introduceva il presidenzialismo?

«Perché la sinistra aveva perso le elezioni e si poteva davvero pensare di favorire un processo che permettesse ai cittadini di scegliere “tra noi e loro”, come dice ora Letta. I cittadini devono poter scegliere su tutto, non solo su un pezzetto. È quello che voleva fare Berlusconi quando mise il nome sul simbolo. Oggi se vince Salvini governa Conte, se Salvini si dimette governa ancora Conte, se cade Conte spunta Draghi».

Pur di attaccare Berlusconi, che forse è stato improvvido, il Pd nasconde quel progetto di legge?

«Berlusconi ha detto quello che ha sempre detto. Se un Paese sceglie il presidenzialismo l’eletto col sistema precedente decade. Se la riforma istituzionale diventa una trovata elettorale avremo sempre una legge fatta per sconfiggere qualcuno. Salvo poi essere smentiti come avvenne con il Rosatellum che doveva fermare i 5 stelle, che invece stravinsero. Democrazia è far decidere ai cittadini da chi vogliono essere governati».

Che cosa pensa degli accordi e disaccordi nel centrosinistra?

«Letta poteva andare da solo e provare a essere davvero il primo partito italiano. Avrebbe potuto dire ai cespugli: voi fate quello che volete, io faccio “la grande alleanza delle due P”, palazzo e piazza, con quello che resta del popolo viola, dei girotondi, del Vaffa di Grillo. Oppure poteva fare il contrario: mettere dentro tutti, da Conte a Calenda. Entrambe le strade avevano pro e contro. Il peggio è la via di mezzo, qualcuno sì e qualcuno no, perché il messaggio è confuso».

La comunicazione è efficace?

«Siamo passati da smacchiare il giaguaro ad avere gli occhi della tigre. Il fatto è che sono entrambi animali in via d’estinzione».

L’agenda Draghi è scomparsa?

«Non è mai esistita. Era la sintesi minima di un governo di emergenza nazionale nato per spendere dei soldi, quelli del Pnrr. In questo Draghi è bravo. Quando l’emergenza è diventata mondiale e i soldi bisognava trovarli, il governo è caduto».

I diritti civili, lo ius scholae, la dote per i diciottenni finanziata dalla patrimoniale sono idee vincenti?

«Sono temi su cui la sinistra dibatte da anni. Lo ius scholae è il minimo sindacale. Il ddl Zan andava bene vent’anni fa. Oggi ci sono necessità più avanzate del matrimonio egualitario. Sembrano gli esami di riparazione di una sinistra superata».

La sinistra avanzata non sarà quella del politically correct?

«La sinistra è morta allontanandosi dai poveri e dalle parolacce. Negli anni Settanta era la destra a indossare la cravatta e il doppiopetto. La sinistra era per la libertà d’espressione e chiamava la realtà col linguaggio del popolo. È la sinistra che ha sporcato i giornali, le vignette, il linguaggio… Pensare di parlare con stecca e squadra mi fa venire i brividi».

Francesco Piccolo su Repubblica ha scritto che il Pd è vittima del fuoco amico: perché secondo lei?

«Non esiste il fuoco amico, esiste la franchezza amica. Io non so se la destra stia decidendo le candidature col bastone o cantando. Credo che la sinistra abbia bisogno di qualcuno che le dice come stanno le cose. La capacità di autocritica è sempre stato un grande patrimonio della sinistra».

Chi crede davvero alle ingerenze di Medvedev sul voto italiano?

«Solo chi non capisce che la vera ingerenza arriva per posta e si chiama bolletta. Il resto sono tweet ininfluenti».

Come andrà a finire?

«Penso che gli italiani non abbiano ancora scelto. Che Giorgia Meloni sia l’unica realtà nuova è un fatto oggettivo. Tutti gli altri, da Berlusconi a Letta, da Salvini a Conte e perfino a Calenda, li abbiamo già visti governare. Gli italiani devono decidere se provarla o no, senza troppi fantasmi».

La sinistra come digerirebbe la Meloni prima donna premier?

«Con invidia. Ci riuscirebbe la destra senza quote multicolore».

Lei tornerà al giornalismo?

«Essere un libero pensatore in Parlamento non è gratificante. Ma i giornali e i libri sono anch’essi dei parlamenti dove continuerò a esprimermi con l’abituale franchezza. Sperando che i miei amici la prendano come un contributo costruttivo».

 

La Verità, 20 agosto 2022

 

 

 

 

 

 

 

«Porto su Netflix l’eroe della sensibilità»

Sarà visibile in ottobre su Netflix Tutto chiede salvezza, la serie tratta dal libro omonimo di Daniele Mencarelli che vinse il Premio Strega Giovani del 2020. Il romanzo racconta la settimana di ricovero in Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) nel reparto di psichiatria di un ospedale romano vissuta dall’autore nel 1994. Mencarelli sarà interpretato da Federico Cesari, i suoi cinque compagni di stanza saranno Andrea Pennacchi (Mario), Vincenzo Crea (Gianluca), Vincenzo Nemolato (Madonnina), Lorenzo Renzi (Giorgio), Alessandro Pacioni (Alessandro). Nel cast anche Ricky Memphis (l’infermiere Pino), Filippo Nigro (uno dei medici), Michele La Ginestra (il padre di Daniele), Fotinì Peluso (l’amica Nina) e Carolina Crescentini (sua madre). Regista della serie è Francesco Bruni, uno dei maggiori sceneggiatori del cinema italiano (ha scritto, fra gli altri, tutti i film di Paolo Virzì, oltre al Montalbano televisivo), qui alla sua quinta regia, la prima di un’opera a episodi per una piattaforma digitale.

Com’è nato questo progetto?

«Ho letto il romanzo nel 2020 e, arrivato a pagina 50, ho chiamato Mencarelli per esprimergli tutto il mio apprezzamento. Gli ho chiesto se i diritti cinematografici fossero ancora liberi, ma erano già di Roberto Sessa (produttore di Picomedia ndr) che li aveva acquistati per farne un film».

A quel punto?

«L’ho chiamato, proponendomi. Un mese dopo mi ha ritelefonato dicendo che aveva deciso di produrre una serie e che io potevo dirigerla in quanto mi ero già occupato di tematiche giovanili».

In effetti, da Scialla! Stai sereno in poi…

«Le ho frequentate spesso. Sia in Scialla! che in Tutto quello che vuoi, il film che ha rivelato Andrea Carpenzano, i protagonisti sono due ragazzi attratti dalla criminalità».

Tornando al romanzo di Mencarelli?

«Essendo il racconto di una settimana di Tso, ho proposto che la serie si sviluppasse in sette episodi, uno per ogni giorno di ricovero».

Alla pagina 50 aveva già visto l’opera?

«È una sorta di punto d’arrivo della mia produzione, che parte dalla leggerezza di Scialla!, passa attraverso Tutto quello che vuoi, con Giuliano Montaldo nella parte di un anziano affetto da Alzheimer, fino a questa storia di un ricovero psichiatrico. Nella quale, senza scomodare Qualcuno volò sul nido del cuculo, ci sono quei momenti leggeri, tipici della convivenza tra persone, diciamo così, eccentriche. Insomma, mi sentivo nel mio».

Lei ha sceneggiato i film di Paolo Virzì, di Mimmo Calopresti, di Roberto Faenza oltre al Commissario Montalbano, ma ne ha diretti solo quattro. Perché per questo progetto si è rimesso dietro la cinepresa?

«Ormai la mia strada è questa. Mi sto sempre più appassionando al set, alla situazione collettiva delle riprese. In passato, non ero visto come un competitor, mentre oggi, dopo quattro film, se suggerisco qualcosa ai registi, è un altro regista che parla. La regia è un’esperienza totalizzante. Se ci arrivi dalla scrittura padroneggi tutto il percorso. Come quando da piccolo fai il presepe a Natale e vai a comprare anche le statuine. Se sei sceneggiatore e regista crei un mondo dall’inizio alla fine».

Che cosa l’ha colpita di Tutto chiede salvezza, una storia ambientata dentro un reparto di psichiatria?

«L’idea che un ragazzo di vent’anni possa camminare su un crinale stretto tra sanità mentale e malattia psichiatrica. Leggiamo i giornali, seguiamo le cronache. A Trastevere, il quartiere dove vivo, ne vedo tanti. È un luogo di ritrovo giovanile, un osservatorio privilegiato dove tutte le sere si scatenano risse, crisi di panico, arrivano ambulanze. Si ha la percezione di un’emergenza. Dopo la pandemia, certi eccessi sono diminuiti. Ma basta leggere un giornale per vedere quanto questi due anni abbiano acuito una sensazione d’impotenza, di mancanza di prospettive tra i giovani, sempre più convinti che studiare sia inutile e che un titolo di studio sia carta straccia. Questa è la prima generazione che starà peggio dei suoi genitori».

Però il libro di Mencarelli è stato scritto prima della pandemia.

«La storia è ambientata nel 1994, ma l’abbiamo trasposta nel presente».

Quindi post pandemia?

«Nell’anno di uscita del libro, anche Daniele è stato d’accordo nell’attualizzarla. Ma non ci sono riferimenti temporali precisi e nemmeno alla pandemia. Se Mencarelli avesse raccontato la sua vicenda nel 1994, l’anno in cui l’ha vissuta, non avrebbe avuto l’impatto che ha avuto. Probabilmente questa eco è dovuta al fatto che ha intercettato una situazione attuale. I giovani si sono riconosciuti».

La tematica del disagio giovanile e dell’eccesso di sensibilità era già presente 30 anni fa?

«Nei primi anni Novanta mi sembrava che fossimo tutti un po’ più sereni. Forse perché ero ancora immerso in una realtà provinciale dove tutto era più tranquillo. Adesso sono arrivati i social media a complicare la situazione. In particolare aumentando la differenza tra il sé vero e autentico e la sua rappresentazione. Ci si vende sempre come persone che stanno bene, performanti e che fanno una bella vita. Prima e più ancora della diffusione dell’odio e dell’attività degli haters in rete, questa menzogna, portata avanti a dispetto della realtà, crea un disagio, una bipolarità, difficilmente gestibile. In più, i social hanno radicalizzato la percezione di essere delle pedine, persone seguite, teleguidate, influenzate nelle scelte di vita e commerciali».

Veniamo da anni di sofferenze e restrizioni, dal cinema e dalla tv ci si aspetta un po’ di spensieratezza, invece…

«Non faccio questo tipo di calcoli. Non guardo le indagini Istat prima di buttarmi in un’opera. Cosa sarà, il mio ultimo film con Kim Rossi Stuart, raccontava di una reclusione sanitaria a causa della leucemia ed è uscito durante la pandemia».

È la prima volta che dirige una serie tv.

«Avevo chiamato Sessa pensando a un film. Quando lui ha parlato di una serie ho accettato. Credo sia la prima volta che Netflix concede a un autore italiano di essere sia sceneggiatore che regista. Se mi avessero proposto di firmare solo alcuni degli episodi avrei declinato».

Come mai nel suo cinema il confronto con la sofferenza è così presente?

«Dall’Alzheimer alla leucemia al disagio psichico, ho fatto filotto. La cosa buffa è che in tutti tre i casi si tratta di commedie. Forse per questa serie il termine è un po’ forzato».

Viene definita un dramedy.

«È il termine corretto, commedia e dramma. Di solito, quando vedo nella narrazione la possibilità di un momento leggero mi viene istintivo coglierlo a patto che non infici la verosimiglianza del racconto».

Insiste su queste tematiche per una motivazione autobiografica?

«È un po’ come chiedere a un musicista perché suona così. Ho sempre frequentato la commedia con un sottofondo drammatico. Anche nei film di Virzì. Un film drammatico che si nega momenti umoristici si fa un torto. Ho una specie di campanello d’allarme: mi chiedo se sto facendo troppo il cretino o se sto appesantendo la gente. È una sorta di antifurto interno. Nella serie si ride, le due cose s’illuminano a vicenda: l’umorismo rende accettabile il dramma e il dramma nobilita l’umorismo».

In questi giorni, dopo due anni di restrizioni, si ripete che i giovani hanno il diritto di divertirsi e dimenticare: possiamo dire che è una storia coraggiosa?

«Sì, certo. Tuttavia, va anche detto che quando il desiderio di libertà e, usiamo la parola vera, di sballo, a lungo compresso, si libera, può accadere che si finisca per rovinarsi il divertimento. In molti casi vedo che la sfrenatezza del desiderio di vivere si trasforma in un boomerang che ritorna addosso con violenza. Lo dico avendone fatte di tutti i colori da ragazzo – mi divertivo parecchio, stavo in giro di notte – pur non essendo mai stato in un commissariato di polizia».

Come tratterà la parte del racconto che contiene critiche al personale medico e infermieristico?

«C’è una critica alla situazione del sistema sanitario. Soprattutto alla carenza di servizi, il condizionatore che non funziona, la carta igienica che manca, a una parte del personale che è poco motivata. I due medici sono antitetici, uno è empatico l’altro severo. Sono persone messe negli avamposti del malessere e lo fronteggiano con i mezzi che hanno a disposizione. In filigrana si può leggere la vecchia diatriba fra manicomi e non manicomi, contenzione e non contenzione, che sembrava superata con l’esperienza di Franco Basaglia e dei suoi epigoni e che invece adesso è rimessa in discussione».

La domanda di senso, la ricerca di felicità che anima il protagonista viene recepita quasi come un disturbo patologico?

«Non è una riflessione sulla ricerca della felicità, miraggio irraggiungibile. È un discorso sulla sensibilità di persone nate senza le difese nei confronti del dolore altrui, un sentimento che li attraversa e li fa stare male. Questo tipo di sensibilità può portare a una patologia psichiatrica. Ma in un certo senso è un superpotere, un superpotere della sensibilità. Daniele, che anche nella serie si chiama come l’autore del romanzo, è un supereroe della sensibilità. Solo che deve capire che la sua è una forza, una virtù, non una debolezza».

Però tutto chiede «salvezza»: che cosa può salvare oggi?

«La compassione. L’accettazione dei propri limiti. La comprensione nei confronti degli altri. Non posso spoilerare il finale. Cito Mencarelli: “Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato. È semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi. Salvezza è quindi lasciarsi attraversare dal dolore”. Rimanendo vivi, possibilmente».

 

La Verità, 4 agosto 2022

«Il dissidente singolo rafforza la propaganda»

La propaganda non tollera il contraddittorio. Se lo fa, lo tratta da eccezione che conferma e rafforza la regola. Ovvero il pensiero unico. In tempi di pandemia: vaccinazioni, lockdown e green pass. In tempi di guerra: campagna belligerante e invio delle armi all’Ucraina. È questo il pensiero di Carlo Freccero che, nell’ora più buia del libero confronto delle idee, torna a esporsi sulla Verità dopo un periodo di silenzio.
Che cosa l’ha colpita in questi giorni sul fronte dell’informazione?

«Tg1 e giornaloni hanno taciuto l’invettiva di papa Francesco contro l’aumento delle spese militari perché, in tempi di propaganda bellica, è molto difficile sostenere contemporaneamente il pacifismo e l’incremento delle spese militari».

Due opzioni che faticano a convivere.

«Il tentativo di mediazione tra pacifismo e bellicismo è più diffuso di quanto si creda. Il Papa stesso, come il vostro giornale ha riportato, pur dichiarandosi a favore della pace, sostiene il diritto all’autodifesa dell’Ucraina. E nelle manifestazioni di piazza molti sostengono contemporaneamente la pace e l’invio di armi all’Ucraina, senza rendersi conto che una scelta del genere può provocare una guerra mondiale».
Come si spiega questa contraddizione?

«Con la propaganda. La propaganda non è necessariamente logica e ci chiede ogni giorno di azzerare le opinioni del giorno precedente, per allinearsi ai nuovi diktat delle autorità. L’abbiamo già visto durante la pandemia».

Cioè?

«L’abbiamo visto con le mascherine. Quando non c’erano erano sconsigliate in quanto inutili e controproducenti. Quando è partito il business sono diventate indispensabili. Così, a giorni alterni accettiamo e respingiamo la guerra».

Principalmente la si accetta e nel caso di alcuni grandi media e alcuni grandi statisti la si vuole proprio.

«Desta sconcerto l’incremento delle spese militari sino al 2% del Pil in un momento in cui il nostro Paese soffre una crisi post-pandemica che ha portato alla chiusura di moltissime attività economiche. I toni belligeranti del discorso di Mario Draghi in risposta all’intervento in Parlamento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky hanno destato nuove preoccupazioni».

In tv alcuni opinionisti dicono di rappresentare la gente, ma i sondaggi mostrano un’opinione pubblica divisa in materia di invio delle armi all’Ucraina.

«Gli italiani vorrebbero aiutare l’Ucraina, ma nello stesso tempo tenersi fuori dalla guerra. La propaganda che ha funzionato così bene per la pandemia ora sembra funzionare meno bene. La chiave interpretativa giusta è il concetto di paura di cui la propaganda si nutre. La paura ci ha reso docili di fronte alla pandemia e alla minaccia della morte per infezione. Ma la guerra è essa stessa fonte di paura. Spingere sulla guerra può provocare forme di dissociazione psicologica».

Qual è la sua valutazione del trattamento riservato dalle tv e dai giornali mainstream al professor Alessandro Orsini?

«Per avere senso, i talk show devono contemplare lo scontro diretto tra opinioni divergenti, altrimenti diventano propaganda. In questo contesto un’unica voce dissenziente rischia di fare il gioco dell’avversario».

Perché?

«Con la tecnica del panino le conclusioni spettano sempre al conduttore e l’effetto che il pubblico ricava dallo spettacolo del dissenso è la convinzione che dissentire non va bene, non conviene, dato che il dissenziente è sempre minoritario e viene messo a tacere. C’è il rischio di rinforzare la tesi che si vorrebbe combattere».

Sta dicendo che alle voci dissonanti converrebbe una sorta di Aventino dei media?

«In un contesto così squilibrato, l’opposizione finisce per fare da spalla al discorso della propaganda, dandole la possibilità di reiterare all’infinito le tesi che deve inculcare. Prima la pandemia, oggi la reductio ad Hitlerum di Putin».

Il trattamento del professor Orsini è dentro questo schema? In fondo ha avuto molta pubblicità…

«La censura è sempre da condannare. In questo caso però il discorso non è tanto di libertà di espressione, ma proprio di propaganda che non ammette contraddizione. Sembra di vivere nel contesto americano del maccartismo».

Addirittura.

«Non mi risulta che Orsini sia un pericoloso estremista. Ho letto un intervento di Giovanni Fasanella, storico e documentarista, che gli attribuiva un atteggiamento piuttosto convenzionale sul terrorismo. Però Orsini è un insegnante universitario, quindi, necessariamente deve dare una spiegazione argomentata del suo pensiero, valutando gli eventi senza fanatismo. Nel contesto attuale non è ammesso: chi cerca di capire viene presentato come un disertore ed un nemico della patria».

Secondo lei lo scandalo è stato generato dalle sue tesi o dal fatto di percepire un compenso come ospite?

«Quasi nessuno partecipa gratis. Alcuni virologi ricevevano ingaggi di tutto rispetto per intervenire nei talk. I compensi vengono ritenuti leciti e addirittura meritori se chi li riceve alimenta il coro del pensiero dominante. Del resto sono stati pubblicati gli aiuti elargiti dal governo alle emittenti private locali e ai giornali disposti ad assecondare l’emergenza. Si trattava di finanziamenti considerevoli, mai visti prima d’ora. Il governo ha raddoppiato il sostegno ai giornali “collaborativi”».

Erano finanziamenti per spazi destinati ad annunci e bollettini sui comportamenti da tenere durante la crisi, non necessariamente hanno influenzato la linea editoriale dei media che li hanno accettati.

«In tempo di caduta libera e crisi generalizzata delle vendite, è comprensibile che quei media si allineino alla versione ufficiale. Senza contare che spesso i giornali sono di proprietà di gruppi che nella pandemia e nella guerra hanno i loro principali interessi».
È un’insinuazione molto forte. Le chiedevo di Orsini.

«Orsini ha scelto di parlare gratis per difendere la sua libertà di espressione. A questo punto dobbiamo chiederci: perché siamo disposti a contenderci un professore nei talk? Perché, come ho detto, il format del talk richiede un contraddittorio per esistere. Il monologo e il coro unanime fanno precipitare gli ascolti secondo lo stesso meccanismo per cui i giornali allineati alle tesi ufficiali continuano a diminuire le vendite  e a perdere autorevolezza».

 

La Verità, 18 marzo 2022

Storie e memoria dal gorgo della pandemia

Sotterrata dalla nuova infodemia bellica, giovedì 17 marzo è passata completamente sotto silenzio la Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid-19 istituita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A svegliarci dalla narcosi provvede ora Attraverso i muri: storie del tempo della pandemia, il docufilm realizzato da Andrea Broglia e Daniele Ferrero, e prodotto da Mneo – Archivio italiano della memoria e Puntodoc, in collaborazione con il dipartimento di storia dell’università di Bologna (master in comunicazione storica), lodevolmente trasmesso ieri in prima serata da Rete 4 e ora disponibile su Mediaset Infinity. Alcune parole chiave descrivono la notevole qualità di questo lavoro. Innanzitutto si tratta di storie, cioè di 190 testimonianze dirette, vissute in prima persona, di pazienti scampati alla morte, di figli o famigliari di persone decedute, di infermieri, medici, volontari, operatori delle onoranze funebri, sacerdoti… Niente virologi, con la puntuale eccezione di Andrea Crisanti, per la sperimentazione di Vo’ Euganeo. Tra i politici solo Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, e i sindaci di Vo’ e di Nembro. L’altra parola chiave di questo racconto è memoria. Non a caso a consegnarci questo documento di ciò che abbiamo vissuto è un’associazione culturale che «si fonda sul lavoro di produzione e archiviazione video». La dimenticanza è anch’essa un virus sempre in agguato. Nelle quasi due ore di racconto divise in quattro capitoli (Dispnea, Apnea, Comunità, Naufraghi) non c’è un briciolo di retorica, tipo quella dei medici «eroi», non ci sono eccessi sentimentali o insistenza su immagini abusate dell’iconografia pandemica. L’asciuttezza narrativa rende, appunto, memorabile la tragedia che ha colpito la popolazione e commuove chi ripensa a ciò che ha vissuto. I pazienti che hanno visto spegnersi un compagno di stanza e si sono risvegliati dopo due settimane di coma. I figli che, dopo aver accompagnato un padre o una madre in ospedale, per giorni non ne hanno avuto notizia. I medici che hanno dovuto decidere a chi dare e a chi togliere il casco ventilatorio polmonare o chi mandare in terapia intensiva e chi lasciare in pronto soccorso. I famigliari che non hanno potuto celebrare il lutto di un proprio caro. Gli infermieri che rientravano dopo turni interminabili con la paura di contagiare chi li aspettava a casa. La condivisione di chi ha saputo stringersi nel dramma, come accaduto in tante situazioni. Scrive Paul Claudel: «La sofferenza è un’aggressione che ci invita alla coscienza». Attraverso i muri è un documentario da vedere.

 

La Verità, 20 marzo 2022

«Sul vino si è vinto, ma la guerra del cibo è lunga»

Un visionario a capo del settore agroalimentare. È Luigi Scordamaglia, 56 anni, consigliere delegato di Filiera Italia. Da grande voleva fare il veterinario, fin quando Luigi Cremonini, grande produttore nel settore della carne, lo convince a mollare tutto per dedicarsi all’alimentazione. In pochi anni brucia le tappe, fino all’incarico attuale. Ultimamente lo hanno scoperto anche i conduttori televisivi più accorti. Impegnato in Europa in difesa del nostro vino e contro il Nutriscore, e in Italia a sostegno degli agricoltori in difficoltà per l’aumento dei prezzi causato dalla crisi energetica, per lui questi sono giorni caldi.

Ora che il bollino nero sul vino è stato scongiurato il pericolo è scampato per sempre?

«Doserei l’entusiasmo. Abbiamo vinto una battaglia non certo la guerra che è tutta da combattere. Abbiamo introdotto un po’ di buon senso nel testo sul consumo di alcol, ma la guerra tra opposte visioni prosegue».

Da chi è rappresentata quella che avversa il vino?

«Da una buona parte dei Paesi del Nord Europa e da poche, ben identificate, multinazionali che pensano che l’alimentazione del futuro debba essere omologata, non distintiva e sempre più composta da ingredienti sintetici e chimici a danno della qualità e dell’equilibrio dei cibi».

In che modo avete introdotto elementi di buon senso?

«Cancellando sugli alcolici l’etichettatura allarmistica, tipo quella in uso sui pacchetti di sigarette. È sufficiente consigliarne sempre un uso moderato e consapevole, come facciamo. Un’altra dose di buon senso è essere riusciti nelle scorse settimane a far eliminare sempre dal cancer plan (il piano europeo contro il cancro ndr) ogni riferimento esplicito al Nutriscore».

Quindi si può stare tranquilli?

«Mai. Abbiamo momentaneamente scampato il pericolo relativo al Piano anticancro, ma incombe sempre quello relativo all’obiettivo di armonizzare l’etichettatura nutrizionale con un unico sistema entro il 2022».

Cosa significa in concreto?

«La Commissione europea ha il compito d’identificare una sola grafica Fop (front of pay) che dia in maniera intuitiva le informazioni nutrizionali fondamentali. Al momento non esiste un unico sistema: si dovrà scegliere tra il Nutriscore e il Nutrinform, proposto dall’Italia».

In breve, cosa li diversifica?

«Il Nutriscore distingue tra alimenti buoni e cattivi, penalizzando prodotti come il parmigiano a vantaggio di formaggi di pessima qualità con ingredienti artificiali. Il Nutrinform, che sta sempre più convincendo i Paesi del Sud Europa, aiuta invece il consumatore a scegliere i singoli alimenti, meglio se di qualità per un apporto complessivo giornaliero equilibrato. Personalmente credo che, considerate le posizioni lontane tra i vari Paesi, la Commissione farebbe bene a prendersi un margine di riflessione ulteriore per definire un’indicazione unitaria».

A chi era venuto in mente di targare il vino come causa di malattie cancerogene?

«La commissione Beca del Parlamento europeo doveva scrivere il Piano anticancro. Ma casualmente, proprio nelle ultime settimane, anziché rilassarsi con un buon bicchiere di vino, Serge Hercberg, il professore francese inventore del Nutriscore, ha pensato di completare il suo già discutibile sistema con un bordo nero da apporre su tutti i prodotti contenenti oltre l’1% di gradazione alcolica».

Oltre l’1% chi si salva?

«Forse neanche le bevande analcoliche. Questi nostri interlocutori sembrano ignorare l’esistenza di testimonianze risalenti a 5 milioni di anni fa secondo le quali i primi ominidi mangiavano succhi da frutti fermentati con un certo livello alcolico».

Tuttavia, in Europa il consumo di alcol è superiore a quella degli altri continenti, perciò l’Oms chiede una riduzione del 10%.

«Chi ha una tradizione culturale e alimentare di millenni è abituato a distinguere tra uso e abuso. Imporre un bollino nero sulla bottiglia è una misura che può essere utile in molti Paesi del Nord Europa, dove molti giovani nel fine settimana sono abituati ad abusare spesso di mix di alcolici, non certo ai cittadini italiani che bevono un bicchiere di vino durante il pasto».

Dietro una problematica reale si nasconde qualcos’altro?

«Si strumentalizza una legittima preoccupazione per affermare interessi poco trasparenti. Se si promuove un prodotto trasformato con ingredienti sintetici e chimici di basso costo a scapito di quelli naturali si risparmia sulla produzione, si aumentano i margini di guadagno e, al contempo, si diventa salvatori del mondo».

Come in altri settori, si vuole applicare l’algoritmo anche in cucina?

«È la logica dell’omologazione. Si vuole applicare un algoritmo costruito a tavolino per favorire determinati prodotti e penalizzarne altri dimenticando che quello che ha fatto degli italiani uno dei popoli tra i più longevi al mondo è la dieta basata sull’equilibrio delle varie componenti alimentari di qualità».

Non bastano gli studi che mostrano che, dopo il Giappone, siamo il paese più longevo al mondo?

«Se prevalesse il buon senso dovrebbero bastare. Ma se dall’altra parte ci sono multinazionali globali o personalità come Bill Gates che investono risorse senza limiti nella fake meat e nel fake cheese il buon senso non è più sufficiente».

Perché dà fastidio il cibo made in Italy?

«Perché continua a crescere a due cifre all’anno sfondando l’obiettivo dei 50 miliardi di euro di esportazione come avvenuto nel 2021».

Nonostante la pandemia?

«Esatto. Anche nel 2020, anno in cui il commercio è crollato al livello dell’ultima guerra mondiale, l’export alimentare italiano è cresciuto con segno positivo: +1,5% contro -11% dell’intero manifatturiero italiano».

Una crescita imperdonabile?

«Per alcuni potenti interessi in particolare. Però, a mio avviso, non risulta imperdonabile solo la crescita del cibo italiano, ma anche la tenuta di tutte le culture alimentari distintive e non omologate».

È il conflitto tra globalizzazione e tradizione.

«Le multinazionali che producono cibo a bassissimo costo promosso come ecosostenibile vivono il successo del parmigiano reggiano o dell’olio d’oliva come un intralcio da eliminare».

A che punto è nel nostro Paese la risalita del comparto agroalimentare dopo la fase acuta della pandemia?

«Oggi l’agroalimentare è oggetto di una tempesta perfetta. L’esplosione dei costi delle risorse energetiche incide su tutta la filiera, dal campo agricolo alla trasformazione alla logistica distributiva, e mette in difficoltà soprattutto le piccole e medie imprese che non riescono a scaricare a valle questo aumento con il rischio che molte di queste debbano chiudere. Oggi oltre 40.000 dipendenti dell’industria alimentare sono a rischio disoccupazione».

Sono questi i motivi per cui in questi giorni gli agricoltori sono tornati a protestare in diverse piazze italiane?

«Certo senza agricoltura scomparirebbe una filiera di circa 550 miliardi di euro, il 25% del Pil italiano. Se gli agricoltori non hanno un reddito certo e adeguato, non gli si può chiedere di continuare a svolgere quel ruolo indispensabile non solo per garantire l’approvvigionamento alimentare del Paese, ma anche di tutela e presidio di paesaggi e territori e di difesa degli elevati standard di qualità e sicurezza che oggi la filiera agroalimentare italiana è in grado di garantire al consumatore. Da qui anche l’appello di questi giorni al presidente Draghi».

Cosa serve per tornare ai livelli precedenti l’avvento della pandemia?

«Non si può dipendere troppo dall’estero per beni di prima necessità. Nella malaugurata ipotesi di un’esasperazione della crisi tra Russia e Ucraina si sarebbero bloccati il primo e il terzo fornitore mondiale di grano, facendo esplodere i prezzi già alti di questa e di altre materie prime agricole. La soluzione è una sola: bisogna aumentare la produzione agricola nazionale attraverso contratti di lungo termine che valorizzino adeguatamente il nostro prodotto».

È ciò di cui si occupa Filiera Italia?

«È l’elemento ispiratore della sua stessa esistenza».

Che cosa significa il fatto che, nell’occasione dell’attacco al vino la nostra classe politica si è mostrata unita a prescindere dagli schieramenti?

«Su questi argomenti la classe politica si sta muovendo con un livello di unità difficile da vedere in altri campi. Forse perché il settore è così strategico per il Paese e così di buon senso sono le nostre richieste che non si poteva fare diversamente».

In passato lei ha detto che l’agricoltura è il nuovo petrolio: i nostri politici ne sono consapevoli?

«Finalmente cominciano a esserlo anche grazie alla fondamentale azione svolta da Coldiretti e Filiera Italia».

Perché a volte sembra che difendere categorie come i ristoratori sia un atto corporativo?

« L’agroalimentare non è più la Cenerentola dell’economia come si riteneva fino a poco tempo fa. Abbiamo una superficie di terra che è un fazzoletto rispetto ad altri Paesi del mondo, eppure riusciamo a ricavarci oltre 64 miliardi di euro, il più alto valore aggiunto in Europa».

Uno dei nemici da sconfiggere è l’Italian sounding, i prodotti che imitano il made in Italy?

«Gli effetti sono drammatici perché se è vero il nostro export cresce, l’Italian sounding aumenta in maniera molto più veloce».

Su questo fronte come state agendo?

«Attraverso strumenti giuridici sempre più efficaci, con accordi bilaterali sempre più mirati e con campagne di comunicazione sempre più specifiche nei principali mercati di esportazione».

Però intanto si valuta il Prosek croato.

«Ovviamente bisognerebbe evitare il fuoco amico, come l’atteggiamento della Commissione europea poco rispettoso del Prosecco doc. Ma ci auguriamo che tutto ciò finisca presto e la richiesta croata sia rigettata».

Cosa pensa del fatto che gli over 50 senza super green pass non possono recarsi al lavoro?

«I lavoratori del settore manifatturiero italiano hanno dato prova di grandissima responsabilità. Insieme ai sindacati abbiamo spiegato loro l’importanza della vaccinazione e abbiamo raggiunto lo straordinario risultato volontario di oltre il 99% dei vaccinati. A questo punto il sacrificio però dev’essere ripagato e, con la fine dell’emergenza, bisogna aprire tutto senza più limitazioni ai positivi  asintomatici e senza più ostacoli alla ripresa di tutte le attività, soprattutto di ristorazione e ospitalità».

 

La Verità, 19 febbraio 2022

Il 2022 sarà l’anno della fine dei cinema?

Anno 2022, fuga dai cinema. Potrebbe intitolarsi così il film apocalittico sul declino delle sale cinematografiche. La fantascienza ci ha abituato a cupi scenari, ma stavolta, per fortuna, non si sta preconizzando la morte della settima arte. Il cinema è rinato da crisi peggiori della pandemia da coronavirus. E film se ne continueranno a produrre, magari in numero inferiore o destinati alla visione in streaming come già avviene per le serie. Però, coccolato dalle piattaforme, lo spettatore si sta impigrendo e il binomio divano-telecomando batte sempre più spesso la combinazione auto-parcheggio-coda alla biglietteria. A rischiare l’estinzione sono soprattutto certe scomode sale cittadine. O quelle che non riescono a sedurre il pubblico con programmazioni creative e scontate, o con servizi accessori, librerie, ristoranti…

I dati Cinetel del 2021 sono impietosi. Rispetto al triennio 2017-2019, annate da oltre 100 milioni di biglietti venduti, il calo è stato del 71% negli incassi e del 73% nelle presenze. Tuttavia, considerando che nell’anno appena concluso i cinema sono rimasti chiusi per 4 mesi, riaprendo poi con presenze contingentate, non c’è da meravigliarsi. A preoccupare sono soprattutto i numeri di dicembre e gennaio, con le sale a pieno regime. In autunno si era registrata una ripresa, favorita dal ritorno alla capienza al 100%, ma inferiore alle attese. Dopo il rallentamento produttivo dei mesi precedenti e l’uscita diretta nelle piattaforme di molte opere, i cinema avevano riaperto, ma non c’erano i film. Almeno, non i grandi film. Molte aspettative si appuntavano, perciò, sul periodo natalizio. Che invece, con l’arrivo della variante Omicron, sono andate deluse. L’unico a salvarsi è stato Spider-Man: No Way Home che, potendo contare sul pubblico adolescente meno timoroso dei contagi, ha mietuto record in tutto il mondo. Restando nei confini nazionali, se la sono cavata Pio e Amedeo, protagonisti di Belli ciao, prodotto da Fremantle e Vision Distribution, anche loro forti di un target giovane e consolidato. Tutti gli altri titoli, anche se di qualità (da Supereroi di Paolo Genovese a West Side Story diretto da Steven Spielberg, da Illusioni perdute a House of Gucci) hanno dovuto accontentarsi delle briciole. Il fatto poi che ad alimentare il dibattito sui media sia stato Don’t look up, ma solo dopo la programmazione sulla piattaforma streaming, ha fatto sentenziare qualche sacerdote della critica che ormai l’algoritmo sta vincendo.

«Certamente la pandemia ha accelerato di qualche anno un processo in atto», ammette Giampaolo Letta, amministratore delegato di Medusa. «Con il lockdown molti hanno rotto gli indugi, decidendo di abbonarsi alle piattaforme over the top. La comodità del divano si è aggiunta al freno psicologico di dover indossare le mascherine ed esibire il green pass per andare al cinema». Resta da chiedersi se queste nuove abitudini dureranno anche quando la pandemia sarà finita. «Non credo sarà così», è sicuro Paolo Del Brocco, gran capo di Rai Cinema. «L’esperienza di visione che si fa in sala non è riproducibile altrove. Piuttosto, dobbiamo trarre una piccola lezione da questi mesi. Sono andati bene i film che si rivolgono a una fan base, una comunità di appassionati, come Spider-Man o Diabolik. Mentre hanno sofferto parecchio quelli rivolti al pubblico adulto e maturo, il più impaurito, e proprio quello che in prevalenza riempie le sale cittadine. Perciò, anche noi produttori dobbiamo imparare a targettizzare meglio le nostre proposte». Per Massimiliano Orfei, dal maggio scorso amministratore delegato di Vision Distribution, quella in atto è «una crisi transitoria. Nella sua storia il cinema ha superato altre situazioni di pandemia. Un secolo fa, con la spagnola, tutte le sale chiusero e fallirono. Ma poi riaprirono tornando a essere il luogo centrale dello spettacolo cinematografico, un’esperienza non replicabile dalle piattaforme».

Tuttavia, la sensazione che la fetta di consumo domestico tenda a crescere rimane. Il destino delle sale assomiglia a quello delle videoteche e dei distributori di dvd, completamente scomparsi? A quello delle cabine telefoniche che sopravvivono come residuati di un mondo vintage? O a quello delle edicole che si arrendono malinconicamente una alla volta, soprattutto se non riescono a sostenersi con altri servizi che, spesso, da secondari diventano primari? «A differenza delle edicole che devono competere con le edizioni digitali dei giornali, le sale hanno il vantaggio dell’esclusiva», sottolinea Letta. «È un privilegio che gli esercenti devono tenersi stretto, migliorando la qualità dei servizi, dalla grandezza dello schermo al comfort delle poltrone». Con l’esplosione della pandemia la finestra di esclusiva in sala prima del passaggio in tv, si è ridotta a 30 giorni (da 105 che era). Finché l’emergenza sanitaria non sarà superata i produttori potranno scegliere se sfidare il mercato complicato, se preservare qualche titolo aspettando tempi migliori o atterrare direttamente sulle piattaforme. «Si valuta film per film», sintetizza Orfei. «Quel che è certo è che in futuro sale e streaming convivranno e noi produrremo di più, non di meno. Diversificando l’offerta con film più targettizzati, più verticali e sostenuti da campagne di marketing mirate».

Produttori ed esercenti, tutti devono fare lo sforzo di raffinare la proposta e venire incontro al pubblico per farlo alzare dal divano. Qualcuno lo sta facendo da tempo. Il palazzo del cinema dell’Anteo di Milano ha ammortizzato il calo di questi mesi registrando una riduzione di presenze del 50%, sensibilmente inferiore alla media nazionale. «Il pubblico è fatto di tanti pubblici», dettaglia Lionello Cerri, produttore cinematografico, fondatore e amministratore delegato di Anteo Spazio cinema. «Di conseguenza le nostre dieci sale diversificano l’offerta in un ventaglio che comprende le proiezioni al mattino, le visioni per gruppi ristretti, quelle in lingua originale non solo in inglese, le presentazioni e l’arena estiva, oltre alla possibilità di accedere al ristorante e alla libreria. Così si crea fidelizzazione nel pubblico, chi viene qui sa di trovare qualcosa in più. Come imprenditore sono più che mai convinto che il cinema abbia una funzione sociale e culturale pubblica. Sono ottimista per la ripresa, vedremo che cosa succederà a pandemia finita. Intanto posso dire che cinema e teatri sono luoghi sicuri dove non si è mai verificato alcun contagio». Anche Del Brocco sottolinea «la valenza culturale e identitaria del cinema. Le piattaforme tendono a standardizzare il prodotto. Dobbiamo difendere con le unghie e con i denti i diversi modi di raccontare dei vari Paesi». Per questo, aggiunge Letta, «è molto importante che lo Stato, che già ci è venuto incontro in questi mesi con incentivi fiscali alla produzione e alla distribuzione favorendo l’arrivo in sala delle pellicole, proroghi queste norme per tutto il 2022». Per evitare che diventi l’anno della fuga dai cinema.

 

Carmen Llera Moravia, talebana delle sale

Carmen Llera Moravia è «una talebana della sala». Ride: «Sì, può definirmi così. Tutti i giorni, o quasi, vedo un film rigorosamente al cinema. Per me è impensabile vederlo in tv. È come paragonare un concerto di Claudio Abbado al conservatorio con un cd ascoltato a casa». Come ha fatto durante il lockdown? «Ho patito. Ero felice del silenzio che ci avvolgeva, riuscivo ad andare a camminare al mattino presto. Mi mancava il rito pomeridiano di uscire di casa, andare in una delle tante sale di Roma dove ritrovo amici che condividono questa felice abitudine». Ce l’ha da molto? «Da sempre. Ho fatto la tesi di laurea sul rapporto tra cinema e letteratura. Ho conosciuto Alberto Moravia parlando di cinema. Il mio attaccamento ha basi forti. Ho amici registi e attori che mi dicono: ho visto in streaming… Un’aberrazione». E se le sale dovessero chiudere? «Spero di morire prima», conclude ridendo.

 

Panorama, 9 febbraio 2022

 

 

«Ecco perché sarebbe meglio un Mattarella bis»

Il pregio maggiore di Michele Ainis, uno dei più autorevoli costituzionalisti che la nostra Repubblica dei presidenti può vantare, è la capacità di rendere comprensibile la materia opaca dell’architettura delle istituzioni, gli incastri dei palazzi, le competenze degli organi dello Stato. L’ultimo suo saggio, pubblicato da La nave di Teseo, s’intitola Presidenti d’Italia – Atlante di un vizio nazionale. Secondo il sito Dagospia un suo recente editoriale su Repubblica sta facendo tentennare Sergio Mattarella sulla possibilità di un secondo mandato.

Una bella soddisfazione, professore?

«Non ho nessun riscontro diretto. Se così fosse, dimostrerebbe la sensibilità del presidente Mattarella ai problemi costituzionali. Del resto, è professore di diritto costituzionale».

Il suo ragionamento era più o meno questo: siamo in emergenza e questo Parlamento è inadeguato a nominare un nuovo presidente, perciò meglio allungare l’attuale settennato e scegliere l’inquilino del Colle con le prossime camere?

«Non esattamente, un mandato a tempo sarebbe una sgrammaticatura istituzionale. Io sono partito dalla constatazione di un Parlamento in crisi di legittimità. Non ultimo a causa di un referendum che ha benedetto la scelta di amputarne il numero dei componenti. Questo deficit di legittimità potrebbe indebolire il nuovo presidente, mentre non lo farebbe con il vecchio, che risolverebbe il problema».

Il ragionamento fila, la strada è spianata?

«No, perché si aggiungono due riflessioni contrapposte. La prima è la sacrosanta indisponibilità di Mattarella. Il raddoppio della durata rischierebbe di trasformare la presidenza in una monarchia costituzionale e l’eccezione, sperimentata con Giorgio Napolitano, in regola. Di contro, la condizione di emergenza pone un interrogativo: può un regime straordinario generare la massima carica ordinaria che è appunto la presidenza della Repubblica?».

Lei come si risponde?

«Mi limito a osservare che questo profilo istituzionale, finora ignorato, va invece considerato. Questa elezione del presidente della Repubblica si inserisce in un quadro eccezionale che può peraltro falsare la stessa elezione, attraverso la lotteria dei contagiati e dei quarantenati».

Con la permanenza di Mattarella quali problemi si risolverebbero?

«Innanzitutto la difficoltà delle forze politiche a convergere su un nome condiviso. Poi l’esigenza di stabilità che proviene dall’intera società italiana. Siamo tutti spaventati per questa pandemia che va a ondate. Cambiare timoniere mentre la nave è in tempesta può essere pericoloso».

Draghi resterebbe dov’è?

«Molto probabilmente. Anche se questo potrebbe deludere qualche leader politico e queste delusioni potrebbero inoculare tossine sulla stabilità del governo. Mi riferisco a Berlusconi».

Un secondo mandato di Mattarella risolverebbe qualche problema, ma ne creerebbe altri: il centrodestra lo voterebbe?

«Sono ipotesi che appartengono ai retroscena dei giornali».

Potrebbero esserci contraccolpi sul governo?

«È un’ipotesi impossibile. Mattarella non potrebbe essere eletto senza i voti del centrodestra o almeno di una sua parte importante».

Quanto complica la situazione la candidatura di Berlusconi?

«Al di là dei giudizi sulla persona e sul suo operato, il problema è il ruolo. Finora mai un leader politico è salito al Quirinale a eccezione di Giuseppe Saragat, che però era segretario di un piccolo partito di sinistra che guardava a destra e aveva presieduto la Costituente. I presidenti hanno sempre avuto una precedente legittimazione istituzionale. Carlo Azeglio Ciampi era stato governatore della Banca d’Italia, Mattarella era giudice costituzionale al momento della nomina, altri avevano presieduto la Camera o il Senato».

Nel 2013 Romano Prodi fu candidato senza che si obiettasse sulla sua leadership.

«Forse fu proprio questa la causa della mancata elezione».

I franchi tiratori non appartenevano al suo schieramento?

«È un fatto che si potrebbe ripetere anche nel caso di Berlusconi. In politica il tuo peggior nemico spesso è il tuo miglior amico».

E la candidatura di Draghi?

«Non so se complichi. Il suo è un profilo assimilabile a quello di Ciampi, che è stato un ottimo presidente della Repubblica. Se venisse eletto ci sarebbe qualche slalom procedurale inedito per la ragione che mai nessun presidente del Consiglio è diventato Capo dello Stato».

Come si dovrebbe procedere?

«Non potendosi dimettere nelle mani di sé stesso, Draghi dovrebbe farlo in quelle di Mattarella. Che però dovrebbe rendere immediatamente efficaci le dimissioni».

Ci sarebbe un vuoto di potere?

«Un momento in cui Draghi non è più a palazzo Chigi e non è ancora al Quirinale. Il governo verrebbe presieduto da Renato Brunetta, il ministro più anziano».

Subito dopo sarebbe corretto indire elezioni?

«Credo che chiunque diventi o ridiventi presidente della Repubblica difficilmente come primo atto scioglierebbe le camere, perché è il potere più forte di cui dispone. Sarebbe quasi come se Biden appena eletto capo degli Stati uniti tirasse una bomba atomica sulla Corea del nord».

Un nuovo governo senza legittimazione popolare saprebbe tenere alta la guardia contro la pandemia e proseguire il percorso delle riforme necessarie per l’ottenimento dei fondi del Pnrr?

«Quello in carica è il terzo governo della legislatura e nessuno dei tre ha avuto diretta investitura popolare. È il Parlamento la cucina dei governi».

Davanti a un’emergenza drammatica servono basi più solide?

«Le elezioni sarebbero un passaggio complicato perché significherebbero assenza di governo per alcuni mesi proprio durante l’emergenza».

In questa ipotesi la pandemia promuoverebbe il raddoppio del mandato a Mattarella ma non la convocazione dei seggi elettorali. Si protrarrebbe una situazione istituzionale emergenziale?

«La Costituzione reclama elezioni ogni cinque anni. Quindi, evitando lo scioglimento anticipato, prevarrebbe la normalità costituzionale».       

Questa situazione rende più che mai urgente la riforma istituzionale?

«La rende urgente e allo stesso tempo impossibile».

Dalla Bicamerale dalemiana al referendum di Matteo Renzi, parecchi tentativi sono stati abortiti: queste forze politiche riusciranno mai a ridisegnare il sistema?

«Qui ci viene in aiuto “il paradosso delle riforme” illustrato da Ernst Fraenkel. Quanto più un sistema istituzionale è malato tanto più ha bisogno delle riforme, ma siccome è malato, è impotente a esprimere la maggiore decisione che le riforme richiedono».

L’elezione diretta del presidente della Repubblica sarebbe una soluzione?

«In questo momento non ci sono le condizioni. Il prossimo Parlamento forse potrebbe lavorare a una riforma in profondità. Personalmente credo che le regole costituzionali siano figlie della storia di un Paese. Perciò, un conto è introdurre un sistema presidenziale in un Paese che non ha mai conosciuto dittature o curvature autoritarie come gli Stati uniti, un altro sarebbe farlo in Italia dove ne abbiamo fatto una triste esperienza».

Perché, come scrive in Presidenti d’Italia, nei livelli bassi della politica, sindaci e governatori, vige l’elezione diretta e per il Capo dello Stato non è prevista?

«Perché abbiamo un sistema schizofrenico e perché, tutto sommato, le riforme le facciamo senza scriverle».

In che senso?

«Nel senso che anche il livello di vertice dello Stato sta diventando presidenzialista di fatto. Basta pensare alla stagione dei Dpcm di Giuseppe Conte».

E all’uso dello stato di emergenza?

«Anche l’esperienza di Draghi mostra che si sta imponendo qualcuno con un potere superiore a quello del Parlamento. Il ruolo del presidente del Consiglio si è potenziato anche se formalmente i suoi poteri restano gli stessi».

Là dove servirebbe il presidenzialismo non c’è, mentre è diffuso dov’è superfluo?

«Potremmo dire così. Abbiamo in circolo un presidenzialismo straccione, una folla di presidenti nei molti gangli delle amministrazioni pubbliche».

Più di 70.000 enti che generano altrettanti presidenti.

«Più esattamente 70.000 presidenti perché esistono istituzioni che ne hanno più di uno. Basti pensare ai comuni, che hanno il presidente del consiglio comunale, della giunta comunale, il sindaco, delle varie commissioni e dei gruppi consigliari. Così anche le regioni».

È un vizio solo italiano?

«Chiamiamolo presidentismo. Dipende dalla moltiplicazione delle cariche, che deriva dalla moltiplicazione degli enti pubblici, che deriva dalla moltiplicazione delle leggi».

Con i suoi tre collaboratori ha censito tutti questi enti per fotografare la nomenclatura o per suggerire una terapia?

«Immaginavo che ci sarebbe stata molta attenzione sul Quirinale. Perciò, mi divertiva offrire un punto di vista laterale, indagando i presidenti ai vari livelli. Poi ho provato a capire l’etimologia della parola, che s’impone nei periodi repubblicani. Tant’è che la usano Tacito e poi Boccaccio, durante le Repubbliche marinare. Mentre ora, con la nostra Repubblica, si afferma questo presidentismo».

Siamo un popolo malato più di vanità o di burocrazia?

«Forse potremmo dire di burocrazia vanesia».

Parlando di eccessi legislativi e burocrazia, quanti decreti per la semplificazione sono stati varati nel ventunesimo secolo?

«Non credo sia stato inventato un computer tanto potente da poterli calcolare».

Negli enti pubblici si diventa presidenti più per meriti o più per anzianità?

«Per fortuna ci sono delle eccezioni, ma in generale la meritocrazia è una parola disgraziata in Italia».

L’articolo 34 della Costituzione che la stabilisce nel diritto allo studio è rispettato in modo soddisfacente?

«Assolutamente no. Lo dimostra la condizione difficile che vivono i giovani: la paura del futuro che si è sostituita all’attesa del futuro».

Vicino a giovani e futuro starebbe bene la parola speranza, ma questo scenario ci consegna al pessimismo.

«Nella Russia di Breznev circolava una battuta sulla differenza tra il pessimista e l’ottimista: il primo pensa che peggio di così le cose non possono andare, mentre il secondo pensa che possono andare anche peggio».

Proviamo a chiudere in leggerezza con un suo pronostico.

«A parte Ainis, tutti gli italiani sopra i 50 anni sono candidabili».

 

La Verità, 15 gennaio 2022

 

«Che ipocrisia negare il male che c’è in noi»

È uno dei maggiori scrittori italiani viventi. Già docente di Letteratura italiana contemporanea all’università dell’Aquila, critico letterario, curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini per la collana dei Meridiani (Mondadori), vincitore del Premio Strega del 2012 con Resistere non serve a niente. Di recente il suo Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli) ha fatto traballare la cattedra di qualche autore da talk show di prima serata.

Quanti nemici si è fatto con il suo ultimo saggio?

Non credo più di quelli che avevo già. Ho fatto il mio mestiere di critico letterario senza coinvolgere minimamente le persone. Ho scritto quello che penso dei testi di alcuni autori e della piega che sta prendendo la letteratura quando si prefigge scopi etici. Non mi pare di essere stato sgradevole, tanto che mi risulta che nessuno si sia offeso.

Il libro è stato strumentalizzato dalla destra, come temeva?

Stranamente, no. Anche le cose scritte su Roberto Saviano non sono state utilizzate da quella parte. E nemmeno quelle riguardanti l’opera di Michela Murgia. Forse perché, in genere, faccio osservazioni sia positive che negative. O perché è più facile utilizzare qualche breve frase sui social di quegli autori che confrontarsi con il saggio di un critico che ha richiesto mesi di lavoro.

Perché secondo lei si moltiplicano gli scrittori pedagoghi?

In passato la letteratura è stata ancella delle ideologie. In epoca di realismo socialista, per esempio, veniva usata per combattere il capitalismo anche sul terreno dell’immaginario. Oggi, in un tempo di grande smarrimento, tutti pensano di dover fare qualcosa. Anche la letteratura si trasforma in un’attività per far prevalere contenuti di amore anziché di odio. Inoltre, le teorie e pratiche soprattutto americane di applicazione del pensiero computazionale, statistica e algoritmi delle digital humanities, per conferire alla letteratura una valenza scientifica, ne studiano le tendenze dei contenuti perché più semplici da cogliere di quelle della forma.

Il politically correct sostituisce l’ideologia tradizionale?

No, gli daremmo troppo valore. L’ideologia contiene anche un metodo d’interpretazione della storia. Il politicamente corretto è soprattutto un modo di non far sentire esclusi gli esclusi. Il presupposto di partenza è giusto. Se l’esclusione di alcune categorie si è incarnata in un linguaggio è bene correggerlo per evitare che si sentano ancora maltrattate.

Tutto bene, dunque?

Due aspetti non mi piacciono. Il più ovvio è che se si pubblica un libro di un secolo fa, quando la parola «negro» era normale, bisogna lasciarla spiegando come veniva usata all’epoca. In Europa lo si sta facendo, mentre in America si tolgono i libri dalle biblioteche. Il secondo aspetto che disapprovo è che, a forza d’inseguire le categorie penalizzate, ce ne sarà sempre una più piccola, diversa dai diversi. Se rincorriamo tutte le micro categorie, da libera come dev’essere, per non pestare nessun callo la letteratura finirà imbrigliata da mille avvertimenti, trasformandosi in qualcosa di comico.

Che vuoto riempie la missione degli scrittori di riparare il mondo?

Innanzitutto quello della scuola, che da trent’anni non ha più una direzione precisa. Anche nelle università si seguono le ultime tendenze, senza sapere come organizzare i programmi, tra contenuti fondanti e accessori. L’agenzia educativa principale è venuta meno. Così come l’altra agenzia, la famiglia. I figli frequentano mondi che padri e nonni ignorano. Da qui la perdita di autorevolezza degli adulti. Con il dominio del consumismo, anche la cultura insegue l’ultimo grido, l’ultimo aggiornamento. Una certa letteratura vorrebbe supplire alla scomparsa delle istituzioni che si occupavano d’insegnare. Una volta si riparava il mondo con la rivoluzione o con le riforme, ma oggi anche la politica gira a vuoto.

Per riparare il mondo bisogna che qualcuno l’abbia rotto, presupporsi nel giusto e possedere gli attrezzi per farlo, cioè la parola?

Il discorso del centrosinistra sostiene che il mondo l’hanno rotto il capitalismo selvaggio e la finanza. E che tocca a noi ripararlo. Per la letteratura lo strumento è la parola. Ma ciò che gli autori impegnati tendono a sottovalutare è che le parole sono viscide e cambiano significato a seconda di come vengono usate. Per questo non stare attenti alla forma può essere dannoso. Se si entra nel campo etico, può accadere che sebbene una parola venga usata per condannare un certo modo di essere, questo divenga un modello per qualcuno. A quel punto come potrò usare quella parola?

C’è un’ambiguità della parola che non controlliamo?

Se lascio l’iniziativa alle parole possono dire una cosa e il loro contrario. Se dico al mio analista che ho sognato una signora che di sicuro non era mia madre, l’analista potrà pensare che era proprio lei. Mettere dei no davanti alle parole può far salire in superficie il sì sottostante.

Un’altra missione degli scrittori impegnati è abbassare la conflittualità attraverso un galateo del linguaggio?

Ridurre la conflittualità è una buona idea, ma alcune volte, nell’ansia di farlo, si tende a negarla. Si evita di dire che nell’uomo esiste il male e che esso si mescola con la passione. La violenza non è amore, si sentenzia. Appena qualcuno fa trapelare una minima forma di violenza lo si rimuove. Invece anche il male e la violenza hanno una loro attrattiva, non a caso esiste il sadomasochismo. L’animalità dell’uomo comporta violenza e oppressione: sarebbe giusto ricordarsi che è ineliminabile. La letteratura frequenta anche le pulsioni distruttive.

Perché è liberatorio?

C’è una componente di autodistruzione. Dire che si tratta di patologie come fa la letteratura pedagogica non risolve il problema. Come scrittore devo raccontare come sono fatte, non rifiutarmi di capirle.

Il dibattito pubblico che si svolge attraverso antinomie come patriarcato/femminismo, migranti/razzisti si è riprodotto anche sul Covid?

Nella pandemia c’è la contrapposizione tra sì vax e no vax. Parlando con alcune persone mi sono sentito ripetere: «Io sono più forte del virus». In passato nessuno si era detto più forte del morbillo o dell’Aids. Oggi si è creato un meccanismo antagonista. Il virus è stato subito un nemico da abbattere, poi un nemico subdolo, infine un’entità contro cui si scatenano pulsioni machiste, da combattere a petto in fuori. Si è affermata una convinzione per cui essere contro il vaccino significa essere forti.

Cosa pensa delle posizioni di intellettuali come Massimo Cacciari e Giorgio Agamben?

Non ho approfondito e non sono abituato a basarmi su poche frasi. In generale credo che la situazione mondiale sia diventata tale per cui, per non lasciare che la pandemia si prolunghi, alcune istituzioni normalmente democratiche abbiano accentuato il loro carattere decisionista. Questo per qualcuno può mettere a rischio le forme della democrazia in Occidente. Uno come Cacciari avverte questa situazione.

Che opinione si è fatto del comportamento dell’informazione durante la pandemia?

C’è stata un’esagerazione. È un argomento che ha riempito troppi minuti di palinsesto, trasformandosi in occasione di spettacolo. A volte si parla troppo a lungo dello stesso problema. Altre volte viene enfatizzato il caso singolo perché fa più spettacolo della statistica. Infine, vorrei fare una petizione agli autori tv: smettete di mostrare aghi che entrano nelle braccia, sono immagini che non danno alcuna informazione.

Concorda con Vittorio Sgarbi che, per evitare confusioni e notizie contraddittorie, propone di dare all’informazione sul Covid un’ora al giorno.

Un’ora al giorno mi sembrerebbe un po’ dittatoriale. Però, capisco l’intenzione. Concordo con l’esigenza di spettacolarizzare meno l’argomento, di decidere uno schema per non sentire ripetere le stesse cose… Oggi i nostri telegiornali dedicano una parte alla pandemia e un’altra all’elezione del presidente della Repubblica, come se nel mondo non succedesse altro.

In Italia manca uno scrittore come Michel Houellebecq?

Direi di no. Houellebecq è un bravo autore che non nasconde dentro di sé le sue pulsioni. Ma è accessibile, lo si può leggere in francese o tradotto…

Intendevo dire che manca una coscienza critica come la sua.

In Italia abbiamo una letteratura di forte impatto critico. Per esempio nel 2021 è uscito un libro potente come Le ripetizioni di Giulio Mozzi, ma non è entrato nella cinquina del Premio Strega. I libri troppo disturbanti tendiamo a lasciarli nell’ombra. Houellebecq ha avuto la fortuna che Sottomissione è uscito nel giorno dell’attacco terroristico a Charlie Hebdo. Questo gli ha dato un’aura ancora più profetica. Ricordo che quando segnalavo i suoi primi romanzi mi dicevano: «Lascia perdere quel fascista, quell’antifemminista…».

 

Panorama, 12 gennaio 2022

«Se il premier punta al Colle, elezioni inevitabili»

Giulio Tremonti è stato ministro delle Finanze e dell’Economia nei governi Berlusconi. L’ultimo suo libro, edito da Solferino, s’intitola Le tre profezie – Appunti per il futuro dal profondo della storia.

Professor Tremonti, sul futuro del Paese si staglia l’elezione del presidente della Repubblica: come andrà a finire?

«Sulla elezione del Capo dello Stato si stanno moltiplicando articoli e memorie, libri e aneddoti, tutti comunque riferiti al passato, alla Prima e alla Seconda repubblica, ovvero riferiti a un passato felice o semi-felice che non c’è più. Oggi la realtà è diversa e drammatica ed è quella che è stata descritta con terribile lucidità da Rino Formica: “Un ciclo si è chiuso. Oggi c’è un Parlamento decomposto e incontrollabile”».

Insomma, finirà male?

«Bertolt Brecht scriveva: “Beato il Paese che non ha bisogno di eroi”. Oggi è pure peggio, data l’assenza di eroi. È per questo che pare diretta al naufragio la nave della “concordia” varata magicamente per notturno artificio nel febbraio scorso. Un naufragio nelle torbide acque della politica nazionale, e fra poco nelle tempestose acque di quella internazionale. Con una specifica: è un naufragio non per tragedia, quasi per commedia».

In che senso?

«Si sta ripetendo la storia dell’altra Concordia, la nave da crociera che naufraga dopo un lunghissimo inchino, con l’astuta discesa del suo comandante. Senza che ci sia un ufficiale che invita al rispetto del dovere, intimando di tornare a bordo, nel pieno di quello che era e che è ancora un possibile naufragio».

Dopo aver tentato di scendere, il comandante che tornasse a bordo godrebbe ancora di autorevolezza e di carisma?

«Non credo alla discesa, credo al senso di responsabilità».

In assenza di eroi e dentro un quadro così fosco, a cosa possiamo appellarci?

«Nella Repubblica di Platone la politica è definita come la forma superiore della tecnica perché per fare politica devi conoscere insieme la struttura della nave, l’equipaggio, i fondali, le correnti, i venti e le stelle. Semplificando, oggi la nave è il Palazzo, l’equipaggio è il popolo, il resto, i fondali, i venti, le correnti e le stelle sono il mondo circostante».

Cominciamo dal Palazzo.

«Ci sono tre palazzi: Montecitorio, Palazzo Chigi e Quirinale. Nel fare le elezioni del presidente della Repubblica, il primo palazzo, il Parlamento, che rappresenta la volontà popolare, è stato sempre centrale. Il secondo palazzo, il governo, è sempre stato quasi del tutto irrilevante e, comunque, mai in concorrenza alternativa con il terzo».

Come invece sembra accadere oggi?

«Speriamo di no».

Passiamo al popolo.

«Nella nostra storia repubblicana è stata sempre rispettata la centralità del popolo, ma in questa fase c’è l’impressione di una marginalizzazione del popolo da parte del palazzo. Si ha la sensazione che non sia sovrano, ma sovranizzato».

Può spiegare?

«Giorno dopo giorno aumenta l’evidenza, e non solo nei sondaggi, delle paure e delle sofferenze crescenti che investono sempre più larghi strati della popolazione. Contemporaneamente, c’è la sensazione di una sovrana indifferenza».

Dove la vede?

«Gli esempi non mancano e crescono di giorno in giorno. Da ultimo si riducono le tasse a chi ha di più e non ha chi ha di meno. Le mascherine sono un costo imposto a tutti, anche senza sgravi per chi ha di meno. I rincari non sono solo sulle bollette dell’energia, ma ormai su tutto il carrello della spesa. Così che emerge dal remoto passato la figura del “caro pane”. Si continua a parlare di scostamento di bilancio, ma la parola scostamento serve a occultare la realtà di un pubblico indebitamento sempre meno sostenibile».

Poi ci sono i condizionamenti esterni, i fondali e le correnti…

«Sullo scenario internazionale vediamo che la storia, che secondo i globalisti doveva essere finita, sta tornando con il carico degli interessi arretrati. E sta tornando, accompagnata dalla geografia lungo un arco di crisi che va dal Pacifico fino ai confini dell’Europa. Dalla pandemia che continua fino all’emersione dei nuovi conflitti. Nell’euforia della cosiddetta ripresa si evocano gli anni Venti, gli anni della Montagna incantata nella quale Thomas Mann prefigurava: “Il denaro sarà imperatore, ma solo fino alla completa demonizzazione della vita”. La Montagna è del 1924, la crisi finanziaria del ’29 è venuta subito dopo. Dopo quella del 2008 si è pensato che sono stati confusi la causa con gli effetti. Si è fatto girare l’helicopter money con il whatever it takes che non è stato un pronto soccorso, ma una lunga degenza. Si è creata e si sta ancora creando una massa infinita e incontrollabile di finanza».

A pagare le conseguenze sarà la nostra Italia?

«L’alternativa non è tra chi va al Quirinale e chi va al governo, ma tra questo governo e le elezioni».

Nessuno parla di elezioni.

«Ma nel caso in cui il comandante scendesse dalla nave, è fortemente improbabile che un governo composto da para-zombie possa subentrare all’attuale».

Che cosa intende per governo di para-zombie?

«È fortemente improbabile che, per quanto capaci, i ministri attuali possano sopravvivere in una Zombieland politica, interna ed esterna».

Qual è il suo giudizio sul governo attuale?

«Nel discorso sulla fiducia pronunciato in Senato il 17 febbraio scorso gli obiettivi erano tre: la vaccinazione come mezzo per l’uscita dalla pandemia, il Pnrr e soprattutto le grandi e necessarie riforme, per le quali si citava Cavour».

Il suo giudizio?

«Oggi è difficile sostenere che la pandemia è a termine. Mi pare particolarmente difficile sostenerlo osservando il labirintico, caotico, apparato dei quasi divieti e quasi permessi che si stanno sviluppando sulla Gazzetta ufficiale. La formula quasi era quella tipica di Bisanzio. La speranza è che anche il virus si metta a leggere la Gazzetta ufficiale».

Ma come? L’altro giorno il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta ha detto che l’Italia è il modello seguito da tutti, a cominciare dal green pass.

«Omissis».

Passando al Piano nazionale di ripresa e resilienza?

«I 51 punti del Pnrr sono attualmente e, per la verità, piuttosto confusamente, solo sulla carta. In questo contesto, oggi e domani, la forza del governo dovrà prevalere sulla triplice burocrazia: europea, nazionale e regionale. E se è difficile per questo governo, tanto più sarà difficile per un altro governo. Per quanto riguarda le riforme Cavour style vale lo stesso».

Il comandante vuole scendere anche perché ritiene insubordinato l’equipaggio?

«Nella Terza repubblica francese il pubblico si beava per il fatto che i leoni divoravano il domatore. In questa nostra repubblica lo scenario è meno cruento, ci sono modi diversi e per certi versi più subdoli per creare difficoltà al domatore».

Intanto c’è da risolvere il problema del terzo palazzo, il Quirinale.

«La sovranità appartiene al popolo. Come detto, dev’essere chiaro che l’alternativa è tra questo governo e le elezioni».

Il centrodestra sta rischiando di sprecare l’occasione di decidere il prossimo Capo dello Stato?

«Anche su questo omissis».

C’è chi si preoccupa che il futuro presidente sia una donna.

«Inviterei a rileggere La Repubblica di Platone dove le qualità politiche si valutano oggettivamente e non per gender. D’altra parte, nel G7 di Carbis Bay del maggio scorso, c’è ripetuto l’invito a superare lo status sessuale auspicandone la fluida mutevolezza come ai tempi di Eliogabalo: uomo di giorno, donna di notte. Naturalmente, sto scherzando».

È preoccupante lo scenario d’indifferenza che sottolinea tra la situazione della popolazione e le priorità dei palazzi.

«Le forze politiche – forze, si fa per dire –  sono concentrate sul Quirinale. Tuttavia, un vero grande problema rischia di essere sottovalutato. È l’emersione, più che prevedibile già prevista, di forme di protesta, che vanno ben oltre i no-vax, pronte a confluire in un movimento simile a quello che portò alla nascita dei Cinque stelle. Dal vaffa al vax, è una forza attorno al 5%, che si sta saldando con sofferenze e paure crescenti e che potrà erodere e spiazzare gli schemi politici convenzionali».

Se si andasse davvero a elezioni e il centrodestra le vincesse, dopo un governo come quello attuale pensa che riuscirà a prendere le redini del Paese e altri poteri interni o internazionali non lo impediranno?

«Credo che ci troviamo di fronte a un eccesso di retorica provinciale sulle cancellerie europee. Per l’esperienza che ho, sono stati più forti i traditori interni che le pressioni esterne. L’impegno per la chiamata dello straniero l’abbiamo già visto all’opera nel 2011. E non è stato per il bene dell’Italia. In quell’anno ero il presidente dei ministri del Tesoro del Ppe, la stragrande maggioranza. Il colpo non è venuto dall’Europa, ma dai “patrioti” italiani. È così, con la chiamata dello straniero, che arrivammo al governo Monti».

C’è da temere che l’Europa consenta sempre meno margini di autonomia alle nazioni come mostra il caso polacco?

«Dopo una lunga fase di errori, l’Europa si è messa dal lato giusto della storia fronteggiando con gli Eurobond la gestione della pandemia. Se posso, gli Eurobond sono stati una proposta italiana fatta nel 2003 e poi ancora nel 2010».

Qual è il lato giusto della storia?

«Gli Stati uniti d’America ci hanno messo due secoli, con in mezzo una tragica guerra, per arrivare a uno Stato federale. L’Europa ha solo 70 anni e può evolvere verso una unione federale solo passando attraverso una crescente confederazione degli Stati nazionali. Questo è nei Trattati europei che, diretti verso l’Unione, presuppongono ancora le identità e le costituzioni nazionali. Nella cerimonia per il cambio ai vertici della Bce nel 2019 i politici stavano in platea ad applaudire estasiati. Avrebbe visto Helmut Kohl, Charles de Gaulle, Francesco Cossiga, Alcide De Gasperi, Robert Schuman fare altrettanto? Il futuro per un’Europa politica è nella politica e non nella finanza».

 

 La Verità, 8 gennaio 20221