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«Il dissidente singolo rafforza la propaganda»

La propaganda non tollera il contraddittorio. Se lo fa, lo tratta da eccezione che conferma e rafforza la regola. Ovvero il pensiero unico. In tempi di pandemia: vaccinazioni, lockdown e green pass. In tempi di guerra: campagna belligerante e invio delle armi all’Ucraina. È questo il pensiero di Carlo Freccero che, nell’ora più buia del libero confronto delle idee, torna a esporsi sulla Verità dopo un periodo di silenzio.
Che cosa l’ha colpita in questi giorni sul fronte dell’informazione?

«Tg1 e giornaloni hanno taciuto l’invettiva di papa Francesco contro l’aumento delle spese militari perché, in tempi di propaganda bellica, è molto difficile sostenere contemporaneamente il pacifismo e l’incremento delle spese militari».

Due opzioni che faticano a convivere.

«Il tentativo di mediazione tra pacifismo e bellicismo è più diffuso di quanto si creda. Il Papa stesso, come il vostro giornale ha riportato, pur dichiarandosi a favore della pace, sostiene il diritto all’autodifesa dell’Ucraina. E nelle manifestazioni di piazza molti sostengono contemporaneamente la pace e l’invio di armi all’Ucraina, senza rendersi conto che una scelta del genere può provocare una guerra mondiale».
Come si spiega questa contraddizione?

«Con la propaganda. La propaganda non è necessariamente logica e ci chiede ogni giorno di azzerare le opinioni del giorno precedente, per allinearsi ai nuovi diktat delle autorità. L’abbiamo già visto durante la pandemia».

Cioè?

«L’abbiamo visto con le mascherine. Quando non c’erano erano sconsigliate in quanto inutili e controproducenti. Quando è partito il business sono diventate indispensabili. Così, a giorni alterni accettiamo e respingiamo la guerra».

Principalmente la si accetta e nel caso di alcuni grandi media e alcuni grandi statisti la si vuole proprio.

«Desta sconcerto l’incremento delle spese militari sino al 2% del Pil in un momento in cui il nostro Paese soffre una crisi post-pandemica che ha portato alla chiusura di moltissime attività economiche. I toni belligeranti del discorso di Mario Draghi in risposta all’intervento in Parlamento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky hanno destato nuove preoccupazioni».

In tv alcuni opinionisti dicono di rappresentare la gente, ma i sondaggi mostrano un’opinione pubblica divisa in materia di invio delle armi all’Ucraina.

«Gli italiani vorrebbero aiutare l’Ucraina, ma nello stesso tempo tenersi fuori dalla guerra. La propaganda che ha funzionato così bene per la pandemia ora sembra funzionare meno bene. La chiave interpretativa giusta è il concetto di paura di cui la propaganda si nutre. La paura ci ha reso docili di fronte alla pandemia e alla minaccia della morte per infezione. Ma la guerra è essa stessa fonte di paura. Spingere sulla guerra può provocare forme di dissociazione psicologica».

Qual è la sua valutazione del trattamento riservato dalle tv e dai giornali mainstream al professor Alessandro Orsini?

«Per avere senso, i talk show devono contemplare lo scontro diretto tra opinioni divergenti, altrimenti diventano propaganda. In questo contesto un’unica voce dissenziente rischia di fare il gioco dell’avversario».

Perché?

«Con la tecnica del panino le conclusioni spettano sempre al conduttore e l’effetto che il pubblico ricava dallo spettacolo del dissenso è la convinzione che dissentire non va bene, non conviene, dato che il dissenziente è sempre minoritario e viene messo a tacere. C’è il rischio di rinforzare la tesi che si vorrebbe combattere».

Sta dicendo che alle voci dissonanti converrebbe una sorta di Aventino dei media?

«In un contesto così squilibrato, l’opposizione finisce per fare da spalla al discorso della propaganda, dandole la possibilità di reiterare all’infinito le tesi che deve inculcare. Prima la pandemia, oggi la reductio ad Hitlerum di Putin».

Il trattamento del professor Orsini è dentro questo schema? In fondo ha avuto molta pubblicità…

«La censura è sempre da condannare. In questo caso però il discorso non è tanto di libertà di espressione, ma proprio di propaganda che non ammette contraddizione. Sembra di vivere nel contesto americano del maccartismo».

Addirittura.

«Non mi risulta che Orsini sia un pericoloso estremista. Ho letto un intervento di Giovanni Fasanella, storico e documentarista, che gli attribuiva un atteggiamento piuttosto convenzionale sul terrorismo. Però Orsini è un insegnante universitario, quindi, necessariamente deve dare una spiegazione argomentata del suo pensiero, valutando gli eventi senza fanatismo. Nel contesto attuale non è ammesso: chi cerca di capire viene presentato come un disertore ed un nemico della patria».

Secondo lei lo scandalo è stato generato dalle sue tesi o dal fatto di percepire un compenso come ospite?

«Quasi nessuno partecipa gratis. Alcuni virologi ricevevano ingaggi di tutto rispetto per intervenire nei talk. I compensi vengono ritenuti leciti e addirittura meritori se chi li riceve alimenta il coro del pensiero dominante. Del resto sono stati pubblicati gli aiuti elargiti dal governo alle emittenti private locali e ai giornali disposti ad assecondare l’emergenza. Si trattava di finanziamenti considerevoli, mai visti prima d’ora. Il governo ha raddoppiato il sostegno ai giornali “collaborativi”».

Erano finanziamenti per spazi destinati ad annunci e bollettini sui comportamenti da tenere durante la crisi, non necessariamente hanno influenzato la linea editoriale dei media che li hanno accettati.

«In tempo di caduta libera e crisi generalizzata delle vendite, è comprensibile che quei media si allineino alla versione ufficiale. Senza contare che spesso i giornali sono di proprietà di gruppi che nella pandemia e nella guerra hanno i loro principali interessi».
È un’insinuazione molto forte. Le chiedevo di Orsini.

«Orsini ha scelto di parlare gratis per difendere la sua libertà di espressione. A questo punto dobbiamo chiederci: perché siamo disposti a contenderci un professore nei talk? Perché, come ho detto, il format del talk richiede un contraddittorio per esistere. Il monologo e il coro unanime fanno precipitare gli ascolti secondo lo stesso meccanismo per cui i giornali allineati alle tesi ufficiali continuano a diminuire le vendite  e a perdere autorevolezza».

 

La Verità, 18 marzo 2022

Storie e memoria dal gorgo della pandemia

Sotterrata dalla nuova infodemia bellica, giovedì 17 marzo è passata completamente sotto silenzio la Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid-19 istituita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A svegliarci dalla narcosi provvede ora Attraverso i muri: storie del tempo della pandemia, il docufilm realizzato da Andrea Broglia e Daniele Ferrero, e prodotto da Mneo – Archivio italiano della memoria e Puntodoc, in collaborazione con il dipartimento di storia dell’università di Bologna (master in comunicazione storica), lodevolmente trasmesso ieri in prima serata da Rete 4 e ora disponibile su Mediaset Infinity. Alcune parole chiave descrivono la notevole qualità di questo lavoro. Innanzitutto si tratta di storie, cioè di 190 testimonianze dirette, vissute in prima persona, di pazienti scampati alla morte, di figli o famigliari di persone decedute, di infermieri, medici, volontari, operatori delle onoranze funebri, sacerdoti… Niente virologi, con la puntuale eccezione di Andrea Crisanti, per la sperimentazione di Vo’ Euganeo. Tra i politici solo Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, e i sindaci di Vo’ e di Nembro. L’altra parola chiave di questo racconto è memoria. Non a caso a consegnarci questo documento di ciò che abbiamo vissuto è un’associazione culturale che «si fonda sul lavoro di produzione e archiviazione video». La dimenticanza è anch’essa un virus sempre in agguato. Nelle quasi due ore di racconto divise in quattro capitoli (Dispnea, Apnea, Comunità, Naufraghi) non c’è un briciolo di retorica, tipo quella dei medici «eroi», non ci sono eccessi sentimentali o insistenza su immagini abusate dell’iconografia pandemica. L’asciuttezza narrativa rende, appunto, memorabile la tragedia che ha colpito la popolazione e commuove chi ripensa a ciò che ha vissuto. I pazienti che hanno visto spegnersi un compagno di stanza e si sono risvegliati dopo due settimane di coma. I figli che, dopo aver accompagnato un padre o una madre in ospedale, per giorni non ne hanno avuto notizia. I medici che hanno dovuto decidere a chi dare e a chi togliere il casco ventilatorio polmonare o chi mandare in terapia intensiva e chi lasciare in pronto soccorso. I famigliari che non hanno potuto celebrare il lutto di un proprio caro. Gli infermieri che rientravano dopo turni interminabili con la paura di contagiare chi li aspettava a casa. La condivisione di chi ha saputo stringersi nel dramma, come accaduto in tante situazioni. Scrive Paul Claudel: «La sofferenza è un’aggressione che ci invita alla coscienza». Attraverso i muri è un documentario da vedere.

 

La Verità, 20 marzo 2022

«Sul vino si è vinto, ma la guerra del cibo è lunga»

Un visionario a capo del settore agroalimentare. È Luigi Scordamaglia, 56 anni, consigliere delegato di Filiera Italia. Da grande voleva fare il veterinario, fin quando Luigi Cremonini, grande produttore nel settore della carne, lo convince a mollare tutto per dedicarsi all’alimentazione. In pochi anni brucia le tappe, fino all’incarico attuale. Ultimamente lo hanno scoperto anche i conduttori televisivi più accorti. Impegnato in Europa in difesa del nostro vino e contro il Nutriscore, e in Italia a sostegno degli agricoltori in difficoltà per l’aumento dei prezzi causato dalla crisi energetica, per lui questi sono giorni caldi.

Ora che il bollino nero sul vino è stato scongiurato il pericolo è scampato per sempre?

«Doserei l’entusiasmo. Abbiamo vinto una battaglia non certo la guerra che è tutta da combattere. Abbiamo introdotto un po’ di buon senso nel testo sul consumo di alcol, ma la guerra tra opposte visioni prosegue».

Da chi è rappresentata quella che avversa il vino?

«Da una buona parte dei Paesi del Nord Europa e da poche, ben identificate, multinazionali che pensano che l’alimentazione del futuro debba essere omologata, non distintiva e sempre più composta da ingredienti sintetici e chimici a danno della qualità e dell’equilibrio dei cibi».

In che modo avete introdotto elementi di buon senso?

«Cancellando sugli alcolici l’etichettatura allarmistica, tipo quella in uso sui pacchetti di sigarette. È sufficiente consigliarne sempre un uso moderato e consapevole, come facciamo. Un’altra dose di buon senso è essere riusciti nelle scorse settimane a far eliminare sempre dal cancer plan (il piano europeo contro il cancro ndr) ogni riferimento esplicito al Nutriscore».

Quindi si può stare tranquilli?

«Mai. Abbiamo momentaneamente scampato il pericolo relativo al Piano anticancro, ma incombe sempre quello relativo all’obiettivo di armonizzare l’etichettatura nutrizionale con un unico sistema entro il 2022».

Cosa significa in concreto?

«La Commissione europea ha il compito d’identificare una sola grafica Fop (front of pay) che dia in maniera intuitiva le informazioni nutrizionali fondamentali. Al momento non esiste un unico sistema: si dovrà scegliere tra il Nutriscore e il Nutrinform, proposto dall’Italia».

In breve, cosa li diversifica?

«Il Nutriscore distingue tra alimenti buoni e cattivi, penalizzando prodotti come il parmigiano a vantaggio di formaggi di pessima qualità con ingredienti artificiali. Il Nutrinform, che sta sempre più convincendo i Paesi del Sud Europa, aiuta invece il consumatore a scegliere i singoli alimenti, meglio se di qualità per un apporto complessivo giornaliero equilibrato. Personalmente credo che, considerate le posizioni lontane tra i vari Paesi, la Commissione farebbe bene a prendersi un margine di riflessione ulteriore per definire un’indicazione unitaria».

A chi era venuto in mente di targare il vino come causa di malattie cancerogene?

«La commissione Beca del Parlamento europeo doveva scrivere il Piano anticancro. Ma casualmente, proprio nelle ultime settimane, anziché rilassarsi con un buon bicchiere di vino, Serge Hercberg, il professore francese inventore del Nutriscore, ha pensato di completare il suo già discutibile sistema con un bordo nero da apporre su tutti i prodotti contenenti oltre l’1% di gradazione alcolica».

Oltre l’1% chi si salva?

«Forse neanche le bevande analcoliche. Questi nostri interlocutori sembrano ignorare l’esistenza di testimonianze risalenti a 5 milioni di anni fa secondo le quali i primi ominidi mangiavano succhi da frutti fermentati con un certo livello alcolico».

Tuttavia, in Europa il consumo di alcol è superiore a quella degli altri continenti, perciò l’Oms chiede una riduzione del 10%.

«Chi ha una tradizione culturale e alimentare di millenni è abituato a distinguere tra uso e abuso. Imporre un bollino nero sulla bottiglia è una misura che può essere utile in molti Paesi del Nord Europa, dove molti giovani nel fine settimana sono abituati ad abusare spesso di mix di alcolici, non certo ai cittadini italiani che bevono un bicchiere di vino durante il pasto».

Dietro una problematica reale si nasconde qualcos’altro?

«Si strumentalizza una legittima preoccupazione per affermare interessi poco trasparenti. Se si promuove un prodotto trasformato con ingredienti sintetici e chimici di basso costo a scapito di quelli naturali si risparmia sulla produzione, si aumentano i margini di guadagno e, al contempo, si diventa salvatori del mondo».

Come in altri settori, si vuole applicare l’algoritmo anche in cucina?

«È la logica dell’omologazione. Si vuole applicare un algoritmo costruito a tavolino per favorire determinati prodotti e penalizzarne altri dimenticando che quello che ha fatto degli italiani uno dei popoli tra i più longevi al mondo è la dieta basata sull’equilibrio delle varie componenti alimentari di qualità».

Non bastano gli studi che mostrano che, dopo il Giappone, siamo il paese più longevo al mondo?

«Se prevalesse il buon senso dovrebbero bastare. Ma se dall’altra parte ci sono multinazionali globali o personalità come Bill Gates che investono risorse senza limiti nella fake meat e nel fake cheese il buon senso non è più sufficiente».

Perché dà fastidio il cibo made in Italy?

«Perché continua a crescere a due cifre all’anno sfondando l’obiettivo dei 50 miliardi di euro di esportazione come avvenuto nel 2021».

Nonostante la pandemia?

«Esatto. Anche nel 2020, anno in cui il commercio è crollato al livello dell’ultima guerra mondiale, l’export alimentare italiano è cresciuto con segno positivo: +1,5% contro -11% dell’intero manifatturiero italiano».

Una crescita imperdonabile?

«Per alcuni potenti interessi in particolare. Però, a mio avviso, non risulta imperdonabile solo la crescita del cibo italiano, ma anche la tenuta di tutte le culture alimentari distintive e non omologate».

È il conflitto tra globalizzazione e tradizione.

«Le multinazionali che producono cibo a bassissimo costo promosso come ecosostenibile vivono il successo del parmigiano reggiano o dell’olio d’oliva come un intralcio da eliminare».

A che punto è nel nostro Paese la risalita del comparto agroalimentare dopo la fase acuta della pandemia?

«Oggi l’agroalimentare è oggetto di una tempesta perfetta. L’esplosione dei costi delle risorse energetiche incide su tutta la filiera, dal campo agricolo alla trasformazione alla logistica distributiva, e mette in difficoltà soprattutto le piccole e medie imprese che non riescono a scaricare a valle questo aumento con il rischio che molte di queste debbano chiudere. Oggi oltre 40.000 dipendenti dell’industria alimentare sono a rischio disoccupazione».

Sono questi i motivi per cui in questi giorni gli agricoltori sono tornati a protestare in diverse piazze italiane?

«Certo senza agricoltura scomparirebbe una filiera di circa 550 miliardi di euro, il 25% del Pil italiano. Se gli agricoltori non hanno un reddito certo e adeguato, non gli si può chiedere di continuare a svolgere quel ruolo indispensabile non solo per garantire l’approvvigionamento alimentare del Paese, ma anche di tutela e presidio di paesaggi e territori e di difesa degli elevati standard di qualità e sicurezza che oggi la filiera agroalimentare italiana è in grado di garantire al consumatore. Da qui anche l’appello di questi giorni al presidente Draghi».

Cosa serve per tornare ai livelli precedenti l’avvento della pandemia?

«Non si può dipendere troppo dall’estero per beni di prima necessità. Nella malaugurata ipotesi di un’esasperazione della crisi tra Russia e Ucraina si sarebbero bloccati il primo e il terzo fornitore mondiale di grano, facendo esplodere i prezzi già alti di questa e di altre materie prime agricole. La soluzione è una sola: bisogna aumentare la produzione agricola nazionale attraverso contratti di lungo termine che valorizzino adeguatamente il nostro prodotto».

È ciò di cui si occupa Filiera Italia?

«È l’elemento ispiratore della sua stessa esistenza».

Che cosa significa il fatto che, nell’occasione dell’attacco al vino la nostra classe politica si è mostrata unita a prescindere dagli schieramenti?

«Su questi argomenti la classe politica si sta muovendo con un livello di unità difficile da vedere in altri campi. Forse perché il settore è così strategico per il Paese e così di buon senso sono le nostre richieste che non si poteva fare diversamente».

In passato lei ha detto che l’agricoltura è il nuovo petrolio: i nostri politici ne sono consapevoli?

«Finalmente cominciano a esserlo anche grazie alla fondamentale azione svolta da Coldiretti e Filiera Italia».

Perché a volte sembra che difendere categorie come i ristoratori sia un atto corporativo?

« L’agroalimentare non è più la Cenerentola dell’economia come si riteneva fino a poco tempo fa. Abbiamo una superficie di terra che è un fazzoletto rispetto ad altri Paesi del mondo, eppure riusciamo a ricavarci oltre 64 miliardi di euro, il più alto valore aggiunto in Europa».

Uno dei nemici da sconfiggere è l’Italian sounding, i prodotti che imitano il made in Italy?

«Gli effetti sono drammatici perché se è vero il nostro export cresce, l’Italian sounding aumenta in maniera molto più veloce».

Su questo fronte come state agendo?

«Attraverso strumenti giuridici sempre più efficaci, con accordi bilaterali sempre più mirati e con campagne di comunicazione sempre più specifiche nei principali mercati di esportazione».

Però intanto si valuta il Prosek croato.

«Ovviamente bisognerebbe evitare il fuoco amico, come l’atteggiamento della Commissione europea poco rispettoso del Prosecco doc. Ma ci auguriamo che tutto ciò finisca presto e la richiesta croata sia rigettata».

Cosa pensa del fatto che gli over 50 senza super green pass non possono recarsi al lavoro?

«I lavoratori del settore manifatturiero italiano hanno dato prova di grandissima responsabilità. Insieme ai sindacati abbiamo spiegato loro l’importanza della vaccinazione e abbiamo raggiunto lo straordinario risultato volontario di oltre il 99% dei vaccinati. A questo punto il sacrificio però dev’essere ripagato e, con la fine dell’emergenza, bisogna aprire tutto senza più limitazioni ai positivi  asintomatici e senza più ostacoli alla ripresa di tutte le attività, soprattutto di ristorazione e ospitalità».

 

La Verità, 19 febbraio 2022

Il 2022 sarà l’anno della fine dei cinema?

Anno 2022, fuga dai cinema. Potrebbe intitolarsi così il film apocalittico sul declino delle sale cinematografiche. La fantascienza ci ha abituato a cupi scenari, ma stavolta, per fortuna, non si sta preconizzando la morte della settima arte. Il cinema è rinato da crisi peggiori della pandemia da coronavirus. E film se ne continueranno a produrre, magari in numero inferiore o destinati alla visione in streaming come già avviene per le serie. Però, coccolato dalle piattaforme, lo spettatore si sta impigrendo e il binomio divano-telecomando batte sempre più spesso la combinazione auto-parcheggio-coda alla biglietteria. A rischiare l’estinzione sono soprattutto certe scomode sale cittadine. O quelle che non riescono a sedurre il pubblico con programmazioni creative e scontate, o con servizi accessori, librerie, ristoranti…

I dati Cinetel del 2021 sono impietosi. Rispetto al triennio 2017-2019, annate da oltre 100 milioni di biglietti venduti, il calo è stato del 71% negli incassi e del 73% nelle presenze. Tuttavia, considerando che nell’anno appena concluso i cinema sono rimasti chiusi per 4 mesi, riaprendo poi con presenze contingentate, non c’è da meravigliarsi. A preoccupare sono soprattutto i numeri di dicembre e gennaio, con le sale a pieno regime. In autunno si era registrata una ripresa, favorita dal ritorno alla capienza al 100%, ma inferiore alle attese. Dopo il rallentamento produttivo dei mesi precedenti e l’uscita diretta nelle piattaforme di molte opere, i cinema avevano riaperto, ma non c’erano i film. Almeno, non i grandi film. Molte aspettative si appuntavano, perciò, sul periodo natalizio. Che invece, con l’arrivo della variante Omicron, sono andate deluse. L’unico a salvarsi è stato Spider-Man: No Way Home che, potendo contare sul pubblico adolescente meno timoroso dei contagi, ha mietuto record in tutto il mondo. Restando nei confini nazionali, se la sono cavata Pio e Amedeo, protagonisti di Belli ciao, prodotto da Fremantle e Vision Distribution, anche loro forti di un target giovane e consolidato. Tutti gli altri titoli, anche se di qualità (da Supereroi di Paolo Genovese a West Side Story diretto da Steven Spielberg, da Illusioni perdute a House of Gucci) hanno dovuto accontentarsi delle briciole. Il fatto poi che ad alimentare il dibattito sui media sia stato Don’t look up, ma solo dopo la programmazione sulla piattaforma streaming, ha fatto sentenziare qualche sacerdote della critica che ormai l’algoritmo sta vincendo.

«Certamente la pandemia ha accelerato di qualche anno un processo in atto», ammette Giampaolo Letta, amministratore delegato di Medusa. «Con il lockdown molti hanno rotto gli indugi, decidendo di abbonarsi alle piattaforme over the top. La comodità del divano si è aggiunta al freno psicologico di dover indossare le mascherine ed esibire il green pass per andare al cinema». Resta da chiedersi se queste nuove abitudini dureranno anche quando la pandemia sarà finita. «Non credo sarà così», è sicuro Paolo Del Brocco, gran capo di Rai Cinema. «L’esperienza di visione che si fa in sala non è riproducibile altrove. Piuttosto, dobbiamo trarre una piccola lezione da questi mesi. Sono andati bene i film che si rivolgono a una fan base, una comunità di appassionati, come Spider-Man o Diabolik. Mentre hanno sofferto parecchio quelli rivolti al pubblico adulto e maturo, il più impaurito, e proprio quello che in prevalenza riempie le sale cittadine. Perciò, anche noi produttori dobbiamo imparare a targettizzare meglio le nostre proposte». Per Massimiliano Orfei, dal maggio scorso amministratore delegato di Vision Distribution, quella in atto è «una crisi transitoria. Nella sua storia il cinema ha superato altre situazioni di pandemia. Un secolo fa, con la spagnola, tutte le sale chiusero e fallirono. Ma poi riaprirono tornando a essere il luogo centrale dello spettacolo cinematografico, un’esperienza non replicabile dalle piattaforme».

Tuttavia, la sensazione che la fetta di consumo domestico tenda a crescere rimane. Il destino delle sale assomiglia a quello delle videoteche e dei distributori di dvd, completamente scomparsi? A quello delle cabine telefoniche che sopravvivono come residuati di un mondo vintage? O a quello delle edicole che si arrendono malinconicamente una alla volta, soprattutto se non riescono a sostenersi con altri servizi che, spesso, da secondari diventano primari? «A differenza delle edicole che devono competere con le edizioni digitali dei giornali, le sale hanno il vantaggio dell’esclusiva», sottolinea Letta. «È un privilegio che gli esercenti devono tenersi stretto, migliorando la qualità dei servizi, dalla grandezza dello schermo al comfort delle poltrone». Con l’esplosione della pandemia la finestra di esclusiva in sala prima del passaggio in tv, si è ridotta a 30 giorni (da 105 che era). Finché l’emergenza sanitaria non sarà superata i produttori potranno scegliere se sfidare il mercato complicato, se preservare qualche titolo aspettando tempi migliori o atterrare direttamente sulle piattaforme. «Si valuta film per film», sintetizza Orfei. «Quel che è certo è che in futuro sale e streaming convivranno e noi produrremo di più, non di meno. Diversificando l’offerta con film più targettizzati, più verticali e sostenuti da campagne di marketing mirate».

Produttori ed esercenti, tutti devono fare lo sforzo di raffinare la proposta e venire incontro al pubblico per farlo alzare dal divano. Qualcuno lo sta facendo da tempo. Il palazzo del cinema dell’Anteo di Milano ha ammortizzato il calo di questi mesi registrando una riduzione di presenze del 50%, sensibilmente inferiore alla media nazionale. «Il pubblico è fatto di tanti pubblici», dettaglia Lionello Cerri, produttore cinematografico, fondatore e amministratore delegato di Anteo Spazio cinema. «Di conseguenza le nostre dieci sale diversificano l’offerta in un ventaglio che comprende le proiezioni al mattino, le visioni per gruppi ristretti, quelle in lingua originale non solo in inglese, le presentazioni e l’arena estiva, oltre alla possibilità di accedere al ristorante e alla libreria. Così si crea fidelizzazione nel pubblico, chi viene qui sa di trovare qualcosa in più. Come imprenditore sono più che mai convinto che il cinema abbia una funzione sociale e culturale pubblica. Sono ottimista per la ripresa, vedremo che cosa succederà a pandemia finita. Intanto posso dire che cinema e teatri sono luoghi sicuri dove non si è mai verificato alcun contagio». Anche Del Brocco sottolinea «la valenza culturale e identitaria del cinema. Le piattaforme tendono a standardizzare il prodotto. Dobbiamo difendere con le unghie e con i denti i diversi modi di raccontare dei vari Paesi». Per questo, aggiunge Letta, «è molto importante che lo Stato, che già ci è venuto incontro in questi mesi con incentivi fiscali alla produzione e alla distribuzione favorendo l’arrivo in sala delle pellicole, proroghi queste norme per tutto il 2022». Per evitare che diventi l’anno della fuga dai cinema.

 

Carmen Llera Moravia, talebana delle sale

Carmen Llera Moravia è «una talebana della sala». Ride: «Sì, può definirmi così. Tutti i giorni, o quasi, vedo un film rigorosamente al cinema. Per me è impensabile vederlo in tv. È come paragonare un concerto di Claudio Abbado al conservatorio con un cd ascoltato a casa». Come ha fatto durante il lockdown? «Ho patito. Ero felice del silenzio che ci avvolgeva, riuscivo ad andare a camminare al mattino presto. Mi mancava il rito pomeridiano di uscire di casa, andare in una delle tante sale di Roma dove ritrovo amici che condividono questa felice abitudine». Ce l’ha da molto? «Da sempre. Ho fatto la tesi di laurea sul rapporto tra cinema e letteratura. Ho conosciuto Alberto Moravia parlando di cinema. Il mio attaccamento ha basi forti. Ho amici registi e attori che mi dicono: ho visto in streaming… Un’aberrazione». E se le sale dovessero chiudere? «Spero di morire prima», conclude ridendo.

 

Panorama, 9 febbraio 2022

 

 

«Ecco perché sarebbe meglio un Mattarella bis»

Il pregio maggiore di Michele Ainis, uno dei più autorevoli costituzionalisti che la nostra Repubblica dei presidenti può vantare, è la capacità di rendere comprensibile la materia opaca dell’architettura delle istituzioni, gli incastri dei palazzi, le competenze degli organi dello Stato. L’ultimo suo saggio, pubblicato da La nave di Teseo, s’intitola Presidenti d’Italia – Atlante di un vizio nazionale. Secondo il sito Dagospia un suo recente editoriale su Repubblica sta facendo tentennare Sergio Mattarella sulla possibilità di un secondo mandato.

Una bella soddisfazione, professore?

«Non ho nessun riscontro diretto. Se così fosse, dimostrerebbe la sensibilità del presidente Mattarella ai problemi costituzionali. Del resto, è professore di diritto costituzionale».

Il suo ragionamento era più o meno questo: siamo in emergenza e questo Parlamento è inadeguato a nominare un nuovo presidente, perciò meglio allungare l’attuale settennato e scegliere l’inquilino del Colle con le prossime camere?

«Non esattamente, un mandato a tempo sarebbe una sgrammaticatura istituzionale. Io sono partito dalla constatazione di un Parlamento in crisi di legittimità. Non ultimo a causa di un referendum che ha benedetto la scelta di amputarne il numero dei componenti. Questo deficit di legittimità potrebbe indebolire il nuovo presidente, mentre non lo farebbe con il vecchio, che risolverebbe il problema».

Il ragionamento fila, la strada è spianata?

«No, perché si aggiungono due riflessioni contrapposte. La prima è la sacrosanta indisponibilità di Mattarella. Il raddoppio della durata rischierebbe di trasformare la presidenza in una monarchia costituzionale e l’eccezione, sperimentata con Giorgio Napolitano, in regola. Di contro, la condizione di emergenza pone un interrogativo: può un regime straordinario generare la massima carica ordinaria che è appunto la presidenza della Repubblica?».

Lei come si risponde?

«Mi limito a osservare che questo profilo istituzionale, finora ignorato, va invece considerato. Questa elezione del presidente della Repubblica si inserisce in un quadro eccezionale che può peraltro falsare la stessa elezione, attraverso la lotteria dei contagiati e dei quarantenati».

Con la permanenza di Mattarella quali problemi si risolverebbero?

«Innanzitutto la difficoltà delle forze politiche a convergere su un nome condiviso. Poi l’esigenza di stabilità che proviene dall’intera società italiana. Siamo tutti spaventati per questa pandemia che va a ondate. Cambiare timoniere mentre la nave è in tempesta può essere pericoloso».

Draghi resterebbe dov’è?

«Molto probabilmente. Anche se questo potrebbe deludere qualche leader politico e queste delusioni potrebbero inoculare tossine sulla stabilità del governo. Mi riferisco a Berlusconi».

Un secondo mandato di Mattarella risolverebbe qualche problema, ma ne creerebbe altri: il centrodestra lo voterebbe?

«Sono ipotesi che appartengono ai retroscena dei giornali».

Potrebbero esserci contraccolpi sul governo?

«È un’ipotesi impossibile. Mattarella non potrebbe essere eletto senza i voti del centrodestra o almeno di una sua parte importante».

Quanto complica la situazione la candidatura di Berlusconi?

«Al di là dei giudizi sulla persona e sul suo operato, il problema è il ruolo. Finora mai un leader politico è salito al Quirinale a eccezione di Giuseppe Saragat, che però era segretario di un piccolo partito di sinistra che guardava a destra e aveva presieduto la Costituente. I presidenti hanno sempre avuto una precedente legittimazione istituzionale. Carlo Azeglio Ciampi era stato governatore della Banca d’Italia, Mattarella era giudice costituzionale al momento della nomina, altri avevano presieduto la Camera o il Senato».

Nel 2013 Romano Prodi fu candidato senza che si obiettasse sulla sua leadership.

«Forse fu proprio questa la causa della mancata elezione».

I franchi tiratori non appartenevano al suo schieramento?

«È un fatto che si potrebbe ripetere anche nel caso di Berlusconi. In politica il tuo peggior nemico spesso è il tuo miglior amico».

E la candidatura di Draghi?

«Non so se complichi. Il suo è un profilo assimilabile a quello di Ciampi, che è stato un ottimo presidente della Repubblica. Se venisse eletto ci sarebbe qualche slalom procedurale inedito per la ragione che mai nessun presidente del Consiglio è diventato Capo dello Stato».

Come si dovrebbe procedere?

«Non potendosi dimettere nelle mani di sé stesso, Draghi dovrebbe farlo in quelle di Mattarella. Che però dovrebbe rendere immediatamente efficaci le dimissioni».

Ci sarebbe un vuoto di potere?

«Un momento in cui Draghi non è più a palazzo Chigi e non è ancora al Quirinale. Il governo verrebbe presieduto da Renato Brunetta, il ministro più anziano».

Subito dopo sarebbe corretto indire elezioni?

«Credo che chiunque diventi o ridiventi presidente della Repubblica difficilmente come primo atto scioglierebbe le camere, perché è il potere più forte di cui dispone. Sarebbe quasi come se Biden appena eletto capo degli Stati uniti tirasse una bomba atomica sulla Corea del nord».

Un nuovo governo senza legittimazione popolare saprebbe tenere alta la guardia contro la pandemia e proseguire il percorso delle riforme necessarie per l’ottenimento dei fondi del Pnrr?

«Quello in carica è il terzo governo della legislatura e nessuno dei tre ha avuto diretta investitura popolare. È il Parlamento la cucina dei governi».

Davanti a un’emergenza drammatica servono basi più solide?

«Le elezioni sarebbero un passaggio complicato perché significherebbero assenza di governo per alcuni mesi proprio durante l’emergenza».

In questa ipotesi la pandemia promuoverebbe il raddoppio del mandato a Mattarella ma non la convocazione dei seggi elettorali. Si protrarrebbe una situazione istituzionale emergenziale?

«La Costituzione reclama elezioni ogni cinque anni. Quindi, evitando lo scioglimento anticipato, prevarrebbe la normalità costituzionale».       

Questa situazione rende più che mai urgente la riforma istituzionale?

«La rende urgente e allo stesso tempo impossibile».

Dalla Bicamerale dalemiana al referendum di Matteo Renzi, parecchi tentativi sono stati abortiti: queste forze politiche riusciranno mai a ridisegnare il sistema?

«Qui ci viene in aiuto “il paradosso delle riforme” illustrato da Ernst Fraenkel. Quanto più un sistema istituzionale è malato tanto più ha bisogno delle riforme, ma siccome è malato, è impotente a esprimere la maggiore decisione che le riforme richiedono».

L’elezione diretta del presidente della Repubblica sarebbe una soluzione?

«In questo momento non ci sono le condizioni. Il prossimo Parlamento forse potrebbe lavorare a una riforma in profondità. Personalmente credo che le regole costituzionali siano figlie della storia di un Paese. Perciò, un conto è introdurre un sistema presidenziale in un Paese che non ha mai conosciuto dittature o curvature autoritarie come gli Stati uniti, un altro sarebbe farlo in Italia dove ne abbiamo fatto una triste esperienza».

Perché, come scrive in Presidenti d’Italia, nei livelli bassi della politica, sindaci e governatori, vige l’elezione diretta e per il Capo dello Stato non è prevista?

«Perché abbiamo un sistema schizofrenico e perché, tutto sommato, le riforme le facciamo senza scriverle».

In che senso?

«Nel senso che anche il livello di vertice dello Stato sta diventando presidenzialista di fatto. Basta pensare alla stagione dei Dpcm di Giuseppe Conte».

E all’uso dello stato di emergenza?

«Anche l’esperienza di Draghi mostra che si sta imponendo qualcuno con un potere superiore a quello del Parlamento. Il ruolo del presidente del Consiglio si è potenziato anche se formalmente i suoi poteri restano gli stessi».

Là dove servirebbe il presidenzialismo non c’è, mentre è diffuso dov’è superfluo?

«Potremmo dire così. Abbiamo in circolo un presidenzialismo straccione, una folla di presidenti nei molti gangli delle amministrazioni pubbliche».

Più di 70.000 enti che generano altrettanti presidenti.

«Più esattamente 70.000 presidenti perché esistono istituzioni che ne hanno più di uno. Basti pensare ai comuni, che hanno il presidente del consiglio comunale, della giunta comunale, il sindaco, delle varie commissioni e dei gruppi consigliari. Così anche le regioni».

È un vizio solo italiano?

«Chiamiamolo presidentismo. Dipende dalla moltiplicazione delle cariche, che deriva dalla moltiplicazione degli enti pubblici, che deriva dalla moltiplicazione delle leggi».

Con i suoi tre collaboratori ha censito tutti questi enti per fotografare la nomenclatura o per suggerire una terapia?

«Immaginavo che ci sarebbe stata molta attenzione sul Quirinale. Perciò, mi divertiva offrire un punto di vista laterale, indagando i presidenti ai vari livelli. Poi ho provato a capire l’etimologia della parola, che s’impone nei periodi repubblicani. Tant’è che la usano Tacito e poi Boccaccio, durante le Repubbliche marinare. Mentre ora, con la nostra Repubblica, si afferma questo presidentismo».

Siamo un popolo malato più di vanità o di burocrazia?

«Forse potremmo dire di burocrazia vanesia».

Parlando di eccessi legislativi e burocrazia, quanti decreti per la semplificazione sono stati varati nel ventunesimo secolo?

«Non credo sia stato inventato un computer tanto potente da poterli calcolare».

Negli enti pubblici si diventa presidenti più per meriti o più per anzianità?

«Per fortuna ci sono delle eccezioni, ma in generale la meritocrazia è una parola disgraziata in Italia».

L’articolo 34 della Costituzione che la stabilisce nel diritto allo studio è rispettato in modo soddisfacente?

«Assolutamente no. Lo dimostra la condizione difficile che vivono i giovani: la paura del futuro che si è sostituita all’attesa del futuro».

Vicino a giovani e futuro starebbe bene la parola speranza, ma questo scenario ci consegna al pessimismo.

«Nella Russia di Breznev circolava una battuta sulla differenza tra il pessimista e l’ottimista: il primo pensa che peggio di così le cose non possono andare, mentre il secondo pensa che possono andare anche peggio».

Proviamo a chiudere in leggerezza con un suo pronostico.

«A parte Ainis, tutti gli italiani sopra i 50 anni sono candidabili».

 

La Verità, 15 gennaio 2022

 

«Che ipocrisia negare il male che c’è in noi»

È uno dei maggiori scrittori italiani viventi. Già docente di Letteratura italiana contemporanea all’università dell’Aquila, critico letterario, curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini per la collana dei Meridiani (Mondadori), vincitore del Premio Strega del 2012 con Resistere non serve a niente. Di recente il suo Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli) ha fatto traballare la cattedra di qualche autore da talk show di prima serata.

Quanti nemici si è fatto con il suo ultimo saggio?

Non credo più di quelli che avevo già. Ho fatto il mio mestiere di critico letterario senza coinvolgere minimamente le persone. Ho scritto quello che penso dei testi di alcuni autori e della piega che sta prendendo la letteratura quando si prefigge scopi etici. Non mi pare di essere stato sgradevole, tanto che mi risulta che nessuno si sia offeso.

Il libro è stato strumentalizzato dalla destra, come temeva?

Stranamente, no. Anche le cose scritte su Roberto Saviano non sono state utilizzate da quella parte. E nemmeno quelle riguardanti l’opera di Michela Murgia. Forse perché, in genere, faccio osservazioni sia positive che negative. O perché è più facile utilizzare qualche breve frase sui social di quegli autori che confrontarsi con il saggio di un critico che ha richiesto mesi di lavoro.

Perché secondo lei si moltiplicano gli scrittori pedagoghi?

In passato la letteratura è stata ancella delle ideologie. In epoca di realismo socialista, per esempio, veniva usata per combattere il capitalismo anche sul terreno dell’immaginario. Oggi, in un tempo di grande smarrimento, tutti pensano di dover fare qualcosa. Anche la letteratura si trasforma in un’attività per far prevalere contenuti di amore anziché di odio. Inoltre, le teorie e pratiche soprattutto americane di applicazione del pensiero computazionale, statistica e algoritmi delle digital humanities, per conferire alla letteratura una valenza scientifica, ne studiano le tendenze dei contenuti perché più semplici da cogliere di quelle della forma.

Il politically correct sostituisce l’ideologia tradizionale?

No, gli daremmo troppo valore. L’ideologia contiene anche un metodo d’interpretazione della storia. Il politicamente corretto è soprattutto un modo di non far sentire esclusi gli esclusi. Il presupposto di partenza è giusto. Se l’esclusione di alcune categorie si è incarnata in un linguaggio è bene correggerlo per evitare che si sentano ancora maltrattate.

Tutto bene, dunque?

Due aspetti non mi piacciono. Il più ovvio è che se si pubblica un libro di un secolo fa, quando la parola «negro» era normale, bisogna lasciarla spiegando come veniva usata all’epoca. In Europa lo si sta facendo, mentre in America si tolgono i libri dalle biblioteche. Il secondo aspetto che disapprovo è che, a forza d’inseguire le categorie penalizzate, ce ne sarà sempre una più piccola, diversa dai diversi. Se rincorriamo tutte le micro categorie, da libera come dev’essere, per non pestare nessun callo la letteratura finirà imbrigliata da mille avvertimenti, trasformandosi in qualcosa di comico.

Che vuoto riempie la missione degli scrittori di riparare il mondo?

Innanzitutto quello della scuola, che da trent’anni non ha più una direzione precisa. Anche nelle università si seguono le ultime tendenze, senza sapere come organizzare i programmi, tra contenuti fondanti e accessori. L’agenzia educativa principale è venuta meno. Così come l’altra agenzia, la famiglia. I figli frequentano mondi che padri e nonni ignorano. Da qui la perdita di autorevolezza degli adulti. Con il dominio del consumismo, anche la cultura insegue l’ultimo grido, l’ultimo aggiornamento. Una certa letteratura vorrebbe supplire alla scomparsa delle istituzioni che si occupavano d’insegnare. Una volta si riparava il mondo con la rivoluzione o con le riforme, ma oggi anche la politica gira a vuoto.

Per riparare il mondo bisogna che qualcuno l’abbia rotto, presupporsi nel giusto e possedere gli attrezzi per farlo, cioè la parola?

Il discorso del centrosinistra sostiene che il mondo l’hanno rotto il capitalismo selvaggio e la finanza. E che tocca a noi ripararlo. Per la letteratura lo strumento è la parola. Ma ciò che gli autori impegnati tendono a sottovalutare è che le parole sono viscide e cambiano significato a seconda di come vengono usate. Per questo non stare attenti alla forma può essere dannoso. Se si entra nel campo etico, può accadere che sebbene una parola venga usata per condannare un certo modo di essere, questo divenga un modello per qualcuno. A quel punto come potrò usare quella parola?

C’è un’ambiguità della parola che non controlliamo?

Se lascio l’iniziativa alle parole possono dire una cosa e il loro contrario. Se dico al mio analista che ho sognato una signora che di sicuro non era mia madre, l’analista potrà pensare che era proprio lei. Mettere dei no davanti alle parole può far salire in superficie il sì sottostante.

Un’altra missione degli scrittori impegnati è abbassare la conflittualità attraverso un galateo del linguaggio?

Ridurre la conflittualità è una buona idea, ma alcune volte, nell’ansia di farlo, si tende a negarla. Si evita di dire che nell’uomo esiste il male e che esso si mescola con la passione. La violenza non è amore, si sentenzia. Appena qualcuno fa trapelare una minima forma di violenza lo si rimuove. Invece anche il male e la violenza hanno una loro attrattiva, non a caso esiste il sadomasochismo. L’animalità dell’uomo comporta violenza e oppressione: sarebbe giusto ricordarsi che è ineliminabile. La letteratura frequenta anche le pulsioni distruttive.

Perché è liberatorio?

C’è una componente di autodistruzione. Dire che si tratta di patologie come fa la letteratura pedagogica non risolve il problema. Come scrittore devo raccontare come sono fatte, non rifiutarmi di capirle.

Il dibattito pubblico che si svolge attraverso antinomie come patriarcato/femminismo, migranti/razzisti si è riprodotto anche sul Covid?

Nella pandemia c’è la contrapposizione tra sì vax e no vax. Parlando con alcune persone mi sono sentito ripetere: «Io sono più forte del virus». In passato nessuno si era detto più forte del morbillo o dell’Aids. Oggi si è creato un meccanismo antagonista. Il virus è stato subito un nemico da abbattere, poi un nemico subdolo, infine un’entità contro cui si scatenano pulsioni machiste, da combattere a petto in fuori. Si è affermata una convinzione per cui essere contro il vaccino significa essere forti.

Cosa pensa delle posizioni di intellettuali come Massimo Cacciari e Giorgio Agamben?

Non ho approfondito e non sono abituato a basarmi su poche frasi. In generale credo che la situazione mondiale sia diventata tale per cui, per non lasciare che la pandemia si prolunghi, alcune istituzioni normalmente democratiche abbiano accentuato il loro carattere decisionista. Questo per qualcuno può mettere a rischio le forme della democrazia in Occidente. Uno come Cacciari avverte questa situazione.

Che opinione si è fatto del comportamento dell’informazione durante la pandemia?

C’è stata un’esagerazione. È un argomento che ha riempito troppi minuti di palinsesto, trasformandosi in occasione di spettacolo. A volte si parla troppo a lungo dello stesso problema. Altre volte viene enfatizzato il caso singolo perché fa più spettacolo della statistica. Infine, vorrei fare una petizione agli autori tv: smettete di mostrare aghi che entrano nelle braccia, sono immagini che non danno alcuna informazione.

Concorda con Vittorio Sgarbi che, per evitare confusioni e notizie contraddittorie, propone di dare all’informazione sul Covid un’ora al giorno.

Un’ora al giorno mi sembrerebbe un po’ dittatoriale. Però, capisco l’intenzione. Concordo con l’esigenza di spettacolarizzare meno l’argomento, di decidere uno schema per non sentire ripetere le stesse cose… Oggi i nostri telegiornali dedicano una parte alla pandemia e un’altra all’elezione del presidente della Repubblica, come se nel mondo non succedesse altro.

In Italia manca uno scrittore come Michel Houellebecq?

Direi di no. Houellebecq è un bravo autore che non nasconde dentro di sé le sue pulsioni. Ma è accessibile, lo si può leggere in francese o tradotto…

Intendevo dire che manca una coscienza critica come la sua.

In Italia abbiamo una letteratura di forte impatto critico. Per esempio nel 2021 è uscito un libro potente come Le ripetizioni di Giulio Mozzi, ma non è entrato nella cinquina del Premio Strega. I libri troppo disturbanti tendiamo a lasciarli nell’ombra. Houellebecq ha avuto la fortuna che Sottomissione è uscito nel giorno dell’attacco terroristico a Charlie Hebdo. Questo gli ha dato un’aura ancora più profetica. Ricordo che quando segnalavo i suoi primi romanzi mi dicevano: «Lascia perdere quel fascista, quell’antifemminista…».

 

Panorama, 12 gennaio 2022

«Se il premier punta al Colle, elezioni inevitabili»

Giulio Tremonti è stato ministro delle Finanze e dell’Economia nei governi Berlusconi. L’ultimo suo libro, edito da Solferino, s’intitola Le tre profezie – Appunti per il futuro dal profondo della storia.

Professor Tremonti, sul futuro del Paese si staglia l’elezione del presidente della Repubblica: come andrà a finire?

«Sulla elezione del Capo dello Stato si stanno moltiplicando articoli e memorie, libri e aneddoti, tutti comunque riferiti al passato, alla Prima e alla Seconda repubblica, ovvero riferiti a un passato felice o semi-felice che non c’è più. Oggi la realtà è diversa e drammatica ed è quella che è stata descritta con terribile lucidità da Rino Formica: “Un ciclo si è chiuso. Oggi c’è un Parlamento decomposto e incontrollabile”».

Insomma, finirà male?

«Bertolt Brecht scriveva: “Beato il Paese che non ha bisogno di eroi”. Oggi è pure peggio, data l’assenza di eroi. È per questo che pare diretta al naufragio la nave della “concordia” varata magicamente per notturno artificio nel febbraio scorso. Un naufragio nelle torbide acque della politica nazionale, e fra poco nelle tempestose acque di quella internazionale. Con una specifica: è un naufragio non per tragedia, quasi per commedia».

In che senso?

«Si sta ripetendo la storia dell’altra Concordia, la nave da crociera che naufraga dopo un lunghissimo inchino, con l’astuta discesa del suo comandante. Senza che ci sia un ufficiale che invita al rispetto del dovere, intimando di tornare a bordo, nel pieno di quello che era e che è ancora un possibile naufragio».

Dopo aver tentato di scendere, il comandante che tornasse a bordo godrebbe ancora di autorevolezza e di carisma?

«Non credo alla discesa, credo al senso di responsabilità».

In assenza di eroi e dentro un quadro così fosco, a cosa possiamo appellarci?

«Nella Repubblica di Platone la politica è definita come la forma superiore della tecnica perché per fare politica devi conoscere insieme la struttura della nave, l’equipaggio, i fondali, le correnti, i venti e le stelle. Semplificando, oggi la nave è il Palazzo, l’equipaggio è il popolo, il resto, i fondali, i venti, le correnti e le stelle sono il mondo circostante».

Cominciamo dal Palazzo.

«Ci sono tre palazzi: Montecitorio, Palazzo Chigi e Quirinale. Nel fare le elezioni del presidente della Repubblica, il primo palazzo, il Parlamento, che rappresenta la volontà popolare, è stato sempre centrale. Il secondo palazzo, il governo, è sempre stato quasi del tutto irrilevante e, comunque, mai in concorrenza alternativa con il terzo».

Come invece sembra accadere oggi?

«Speriamo di no».

Passiamo al popolo.

«Nella nostra storia repubblicana è stata sempre rispettata la centralità del popolo, ma in questa fase c’è l’impressione di una marginalizzazione del popolo da parte del palazzo. Si ha la sensazione che non sia sovrano, ma sovranizzato».

Può spiegare?

«Giorno dopo giorno aumenta l’evidenza, e non solo nei sondaggi, delle paure e delle sofferenze crescenti che investono sempre più larghi strati della popolazione. Contemporaneamente, c’è la sensazione di una sovrana indifferenza».

Dove la vede?

«Gli esempi non mancano e crescono di giorno in giorno. Da ultimo si riducono le tasse a chi ha di più e non ha chi ha di meno. Le mascherine sono un costo imposto a tutti, anche senza sgravi per chi ha di meno. I rincari non sono solo sulle bollette dell’energia, ma ormai su tutto il carrello della spesa. Così che emerge dal remoto passato la figura del “caro pane”. Si continua a parlare di scostamento di bilancio, ma la parola scostamento serve a occultare la realtà di un pubblico indebitamento sempre meno sostenibile».

Poi ci sono i condizionamenti esterni, i fondali e le correnti…

«Sullo scenario internazionale vediamo che la storia, che secondo i globalisti doveva essere finita, sta tornando con il carico degli interessi arretrati. E sta tornando, accompagnata dalla geografia lungo un arco di crisi che va dal Pacifico fino ai confini dell’Europa. Dalla pandemia che continua fino all’emersione dei nuovi conflitti. Nell’euforia della cosiddetta ripresa si evocano gli anni Venti, gli anni della Montagna incantata nella quale Thomas Mann prefigurava: “Il denaro sarà imperatore, ma solo fino alla completa demonizzazione della vita”. La Montagna è del 1924, la crisi finanziaria del ’29 è venuta subito dopo. Dopo quella del 2008 si è pensato che sono stati confusi la causa con gli effetti. Si è fatto girare l’helicopter money con il whatever it takes che non è stato un pronto soccorso, ma una lunga degenza. Si è creata e si sta ancora creando una massa infinita e incontrollabile di finanza».

A pagare le conseguenze sarà la nostra Italia?

«L’alternativa non è tra chi va al Quirinale e chi va al governo, ma tra questo governo e le elezioni».

Nessuno parla di elezioni.

«Ma nel caso in cui il comandante scendesse dalla nave, è fortemente improbabile che un governo composto da para-zombie possa subentrare all’attuale».

Che cosa intende per governo di para-zombie?

«È fortemente improbabile che, per quanto capaci, i ministri attuali possano sopravvivere in una Zombieland politica, interna ed esterna».

Qual è il suo giudizio sul governo attuale?

«Nel discorso sulla fiducia pronunciato in Senato il 17 febbraio scorso gli obiettivi erano tre: la vaccinazione come mezzo per l’uscita dalla pandemia, il Pnrr e soprattutto le grandi e necessarie riforme, per le quali si citava Cavour».

Il suo giudizio?

«Oggi è difficile sostenere che la pandemia è a termine. Mi pare particolarmente difficile sostenerlo osservando il labirintico, caotico, apparato dei quasi divieti e quasi permessi che si stanno sviluppando sulla Gazzetta ufficiale. La formula quasi era quella tipica di Bisanzio. La speranza è che anche il virus si metta a leggere la Gazzetta ufficiale».

Ma come? L’altro giorno il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta ha detto che l’Italia è il modello seguito da tutti, a cominciare dal green pass.

«Omissis».

Passando al Piano nazionale di ripresa e resilienza?

«I 51 punti del Pnrr sono attualmente e, per la verità, piuttosto confusamente, solo sulla carta. In questo contesto, oggi e domani, la forza del governo dovrà prevalere sulla triplice burocrazia: europea, nazionale e regionale. E se è difficile per questo governo, tanto più sarà difficile per un altro governo. Per quanto riguarda le riforme Cavour style vale lo stesso».

Il comandante vuole scendere anche perché ritiene insubordinato l’equipaggio?

«Nella Terza repubblica francese il pubblico si beava per il fatto che i leoni divoravano il domatore. In questa nostra repubblica lo scenario è meno cruento, ci sono modi diversi e per certi versi più subdoli per creare difficoltà al domatore».

Intanto c’è da risolvere il problema del terzo palazzo, il Quirinale.

«La sovranità appartiene al popolo. Come detto, dev’essere chiaro che l’alternativa è tra questo governo e le elezioni».

Il centrodestra sta rischiando di sprecare l’occasione di decidere il prossimo Capo dello Stato?

«Anche su questo omissis».

C’è chi si preoccupa che il futuro presidente sia una donna.

«Inviterei a rileggere La Repubblica di Platone dove le qualità politiche si valutano oggettivamente e non per gender. D’altra parte, nel G7 di Carbis Bay del maggio scorso, c’è ripetuto l’invito a superare lo status sessuale auspicandone la fluida mutevolezza come ai tempi di Eliogabalo: uomo di giorno, donna di notte. Naturalmente, sto scherzando».

È preoccupante lo scenario d’indifferenza che sottolinea tra la situazione della popolazione e le priorità dei palazzi.

«Le forze politiche – forze, si fa per dire –  sono concentrate sul Quirinale. Tuttavia, un vero grande problema rischia di essere sottovalutato. È l’emersione, più che prevedibile già prevista, di forme di protesta, che vanno ben oltre i no-vax, pronte a confluire in un movimento simile a quello che portò alla nascita dei Cinque stelle. Dal vaffa al vax, è una forza attorno al 5%, che si sta saldando con sofferenze e paure crescenti e che potrà erodere e spiazzare gli schemi politici convenzionali».

Se si andasse davvero a elezioni e il centrodestra le vincesse, dopo un governo come quello attuale pensa che riuscirà a prendere le redini del Paese e altri poteri interni o internazionali non lo impediranno?

«Credo che ci troviamo di fronte a un eccesso di retorica provinciale sulle cancellerie europee. Per l’esperienza che ho, sono stati più forti i traditori interni che le pressioni esterne. L’impegno per la chiamata dello straniero l’abbiamo già visto all’opera nel 2011. E non è stato per il bene dell’Italia. In quell’anno ero il presidente dei ministri del Tesoro del Ppe, la stragrande maggioranza. Il colpo non è venuto dall’Europa, ma dai “patrioti” italiani. È così, con la chiamata dello straniero, che arrivammo al governo Monti».

C’è da temere che l’Europa consenta sempre meno margini di autonomia alle nazioni come mostra il caso polacco?

«Dopo una lunga fase di errori, l’Europa si è messa dal lato giusto della storia fronteggiando con gli Eurobond la gestione della pandemia. Se posso, gli Eurobond sono stati una proposta italiana fatta nel 2003 e poi ancora nel 2010».

Qual è il lato giusto della storia?

«Gli Stati uniti d’America ci hanno messo due secoli, con in mezzo una tragica guerra, per arrivare a uno Stato federale. L’Europa ha solo 70 anni e può evolvere verso una unione federale solo passando attraverso una crescente confederazione degli Stati nazionali. Questo è nei Trattati europei che, diretti verso l’Unione, presuppongono ancora le identità e le costituzioni nazionali. Nella cerimonia per il cambio ai vertici della Bce nel 2019 i politici stavano in platea ad applaudire estasiati. Avrebbe visto Helmut Kohl, Charles de Gaulle, Francesco Cossiga, Alcide De Gasperi, Robert Schuman fare altrettanto? Il futuro per un’Europa politica è nella politica e non nella finanza».

 

 La Verità, 8 gennaio 20221

 

«Con la scrittura aiuto i pazienti a svelarsi»

A Davide Bregola piace la gente fuori dagli algoritmi. Scrittori e scrittrici che non frequentano i talk show, i social e non scrivono sui giornaloni. Gavino Ledda, Aldo Busi, Rocco Brindisi, Carmen Covito… Anche lui, scrittore a sua volta e firma delle pagine culturali del Giornale, è un tipo strano: «Mantova ne è piena», ammicca. Autore di spettacoli dei burattini e animatore di corsi di scrittura per pazienti psichiatrici, l’ultimo suo saggio s’intitola I solitari. Scrittori appartati d’Italia (Oligo editore). Chi sia Davide Bregola lo s’intuisce da due fotogrammi.

Il primo: un cinquantenne con figlia di due anni.

«Fino a qualche tempo fa ero un Peter Pan che aveva fatto della letteratura uno scopo di vita. La qual cosa si presta a tante considerazioni».

Tipo?

«Pensavo che la cultura e i libri fossero un motivo esistenziale. Molti degli incontri fatti nell’arco della vita avevano come scopo la divulgazione letteraria».

Invece?

«La nascita di Chiara e la pandemia mi hanno fatto cambiare registro. Non solo nella vita, anche nella scrittura. I ritratti d’autori dell’ultimo libro non li avrei scritti così, prima. Con quella libertà stilistica che ha scardinato le formule abituali».

La vita spiazza la letteratura?

«La stimola e quindi sì, la spiazza. La letteratura lievita quando nella vita accadono delle cose. Dostoevskij è diventato lo scrittore che conosciamo da sopravvissuto, sfuggito alla condanna a morte. Aveva visto negli occhi la fine».

Ferdinando Camon sostiene che Scrivere è più di vivere, come s’intitola uno dei suoi saggi.

«Da autore del Novecento, ha costruito la sua vita su questa idea».

Per uno scrittore la letteratura è tutto?

«Non vorrei darne un’idea edulcorata. La letteratura è uno strumento, un linguaggio che aiuta. Ma non la baratterei con la vita, che è più forte e potente».

Il secondo fotogramma risale ai primi anni Novanta: facoltà di Legge, ma professione scrittore e consulente editoriale.

«Ho studiato a Ferrara, ma da figlio di proletari sarebbe stato problematico conquistare una cattedra. Avrei atteso decenni. Allora in alcune facoltà persistevano le classi sociali e durante gli esami qualche professore chiedeva che lavoro facevano i nostri genitori».

Com’è nata la passione per la scrittura?

«L’ho sempre avuta. A 23 anni bazzicavo la redazione di Transeuropa ad Ancona. C’erano Enrico Brizzi, Silvia Ballestra, Giuseppe Culicchia, Romolo Bugaro, Giulio Mozzi… Era il mondo di autori nato da Pier Vittorio Tondelli. Lì ho capito che mi attraeva di più approfondire la letteratura delle leggi».

Dopo questo saggio lei è uno scrittore di scrittori?

«Tanti anni fa mi hanno folgorato le interviste di Camon pubblicate in due volumi Garzanti, Il mestiere di scrittore e Il mestiere di poeta. Quelle conversazioni erano letteratura. Vuol dire che si può raccontare la contemporaneità dell’Italia attraverso gli scrittori, in questo caso appartati. Perciò la definizione di scrittore di scrittori non mi dispiace. Questa piccola galleria di ritratti fa il paio con la raccolta di colloqui con autori stranieri che ho pubblicato a fine anni Novanta. Mi è sempre piaciuto ascoltare storie, da bambino mi stregavano i racconti dei vecchi sulla guerra».

Esiste una letteratura della pianura?

«Alcuni di quelli presenti nel libro sono scrittori di pianura. In genere mi piace incontrare le persone nei loro territori. Quando vado in un posto cerco di conoscerne prima l’immaginario. Da ragazzo leggevo Giorgio Bassani prima di andare a Ferrara…».

Chi pensa di non avere una vita interessante può scrivere un’autobiografia raccontando le vite degli altri?

«Proprio grazie alla letteratura credo di condurre una vita interessante. Da cinque anni lavoro in un centro psichiatrico e faccio scrivere i pazienti. Ho fatto per tanto tempo spettacoli dei burattini come Guido Ceronetti e Gianni Rodari. Ho avuto l’opportunità d’incontrare i bambini nelle scuole e gli anziani nelle case di riposo».

Come si insegna scrittura ai pazienti psichiatrici?

«È un breve corso fatto in collaborazione con la Asl e il reparto psichiatrico. Il primo momento si compone di brevi lezioni frontali di narrativa e poetica, il secondo è un momento di scrittura, il terzo di condivisione. Grazie alla scrittura molti pazienti raccontano aspetti della loro vita altrimenti inenarrabili. Scrivendo riescono a dire con precisione ciò che non saprebbero dire a voce. Così la scrittura è una maschera e allo stesso tempo una forza di verità. Dopo il Covid, che aveva bloccato tutto, abbiamo ripreso. Il tema di quest’anno sono le emozioni. Io stimolo i pazienti e volo anche alto. Loro mi seguono e spesso mi sorprendono».

Tornando agli scrittori, cosa la incuriosisce delle loro scelte di solitudine?

«I solitari sono di tre tipi: quelli che lo sono per carattere, quelli che lo sono diventati dopo un grande successo e i solitari perché ancora non riconosciuti. Mi affascina questa scelta quasi monacale. Il romitaggio, in qualche modo, ha a che fare con la spiritualità ed è l’opposto del marketing».

Per molti l’isolamento è la condizione per creare, per altri una scelta esistenziale.

«Bisogna essere portati per la solitudine. Tante persone non riescono a stare sole con sé stesse. In qualche caso dentro quella solitudine è avvenuto qualcosa che l’ha trasformata in una forza. Mi piace perché va controtendenza al mainstream che ci propina continuamente il paese dei balocchi nel quale le merci danno la felicità».

Perché alcuni come Lara Cardella, Carmen Covito o Gavino Ledda si ritirano dopo esser stati molto visibili?

«Cardella e Covito sono nate come prodotto televisivo. Erano ospiti fisse del Maurizio Costanzo show e dei giornali che facevano opinione. Quando i media hanno spento i riflettori è avvenuto il cambiamento. Quella di Gavino Ledda invece è stata una scelta».

Anche Aldo Busi è stato molto visibile sui media.

«Lui è un solitario per scelta che ha conosciuto la popolarità televisiva più che letteraria. Era noto per L’Isola dei famosi non per Seminario sulla gioventù. Una volta mi ha detto che “il mondo non segue più una trama, ma si esprime con un linguaggio frammentato”. Accorgendosi di non appartenere a questo mondo, ha preferito isolarsi».

Per un problema di linguaggio?

«In un mondo che ha perso molte parole chi possiede un vocabolario ricco si autoesclude perché risulta incomprensibile».

I colpevoli sono i social media?

«Semplificano, frammentano, riducono il vocabolario attivo delle persone. La solitudine e la marginalità sono un destino segnato. Nel caso di Busi non è subito, ma voluto: lui rimane battagliero e incazzoso».

Giovanni Lindo Ferretti rappresenta una variante diversa?

«Ha riabbracciato le sue radici e la casa degli avi, che ha ristrutturato. Il suo è un romitaggio consapevole».

Altri sono solitari da sempre, come Francesco Permunian.

«È un dissacratore degli stereotipi nazionali, predisposto alla polemica. La letteratura e la curiosità lo hanno salvato dal diventare prevedibile, nelle sue furie».

Cosa mi dice di Vitaliano Trevisan?

«Con la sua intelligenza è arrivato a vertici del pensiero e della psiche difficili da sostenere. Tutti siamo esseri fragili per reggere certe vette, lui in modo particolare».

Come va catalogato Gianni Celati?

«È il maestro dello sguardo. La sua solitudine è fatta di partenze perché è sempre in movimento. È stato in Francia, ora è a Brighton, perciò non è mai al centro del dibattito. Parlando da lontano lo poteva sentire solo chi aveva un buon udito. Così è diventato un classico».

Raccontare questi scrittori è una forma di contestazione?

«Prima di tutto è il tentativo di creare una piccola epica della figura dello scrittore e della scrittrice. Poi è una forma di divulgazione di libri degli altri, da Padre padrone ai romanzi di Rocco Brindisi…».

C’è anche la contestazione del luccichio e delle mode?

«Mi attrae di più la potenzialità di chi è in disparte rispetto a chi rappresenta il mainstream, che tende a consumare tutto nell’esposizione».

Contestazione del circuito scrittura creativa, salotti, premi letterari, giornali?

«È la scelta consapevole di fare un’altra strada. Le compagnie di giro le conosco, ma vado altrove».

Se dovesse scegliere uno di loro con chi condividerebbe una vacanza?

«Con Simona Vinci perché è bella e amo le donne. La persona che vorrei approfondire è Rocco Brindisi, un maestro elementare, molisano invisibile. Non trovando una sua foto, sul Giornale hanno dovuto mettere un’immagine della piazza della città in cui vive».

Cosa vuol dire per uno scrittore vivere a Mantova, città del Festival della Letteratura?

«Incontrare grandi autori in luoghi insoliti è un’occasione per mettere in moto l’immaginario. Gli scrittori sono persone pittoresche, ma anche molto normali. Vedere un premio Pulitzer come Michael Cunnigham, perdere la pazienza in un negozio di scarpe perché non trova il suo numero è divertente».

Anche lei per un certo periodo ha fatto vita eremitica: cos’era successo?

«Dopo una serie di esperienze, a 45 anni ho pensato che pulirmi e stare un anno fuori mi avrebbe aiutato a sedimentare i fatti».

Ho letto che aveva «le tasche piene delle persone».

«Avevo fatto il direttore artistico di un festival, il ghostwriter per persone famose, vivendo con loro… Mi era più chiaro come va il mondo e volevo staccarmene per un po’».

Che cosa ne ha tratto?

«Intanto un libro, Fossili e storioni. Notizie dalla casa galleggiante (Avagliano). Poi l’idea che a volte il silenzio è più forte delle parole e una certa pulizia aiuti a prendere decisioni».

Dopo quanto è tornato in società?

«Dopo un anno. Avevo una compagna. Sono tornato a Mantova nel dicembre 2018 e un paio di mesi dopo abbiamo concepito Chiara».

Perché faceva spettacoli con i burattini?

«C’era un intento didattico: con i burattini e le filastrocche s’impara la metrica della poesia. Sono andato a Ginevra dove sono esposti i burattini di Paul Klee, ho preso i cataloghi, li ho fotografati e riprodotti. Con la pandemia si è fermato tutto, adesso mi hanno chiesto di ricominciare, ma quel tipo di messa in scena non m’interessa più».

Li farà per sua figlia?

«Sì, lei ha l’esclusiva».

 

La Verità, 4 dicembre 2021

«L’Italia sta con Padre Pio, ma comanda la Cirinnà»

È un bipolarismo culturale prima ancora che politico quello che Pietrangelo Buttafuoco tratteggia in questa intervista, fornendo una chiave di lettura tridimensionale allo stato delle cose. L’Italia degli anni Venti è scavata dalle dicotomie: uomini o caporali, Padre Pio e la Cirinnà, salesiani o gesuiti. Libero da acquartieramenti vincolanti, lo scrittore catanese non ha peli che ne ingombrino la parlata. Sono cose che passano, il romanzo in uscita da La nave di Teseo – «un divorzio all’italiana, ambientato nella Sicilia del dopoguerra, che si risolve in un Faust al femminile» – susciterà di certo polemiche e gridolini di sdegno nel bel mondo politicamente corretto. Ma lungi dal preoccuparsene, Buttafuoco se la ride. Come fa, in sottofondo, mentre chiacchieriamo da qui in avanti.

Caro Pietrangelo, la prima indicazione che le amministrative ci hanno consegnato è che non si voterà fino al 2023?

«Il dato più evidente è stato il non voto più che il voto. Il vero bipolarismo è quello di Esopo tra il topo di città e il topo di campagna».

Il quale non è andato alle urne.

«Ribadendo l’annoso problema che la maggioranza silenziosa non ha rappresentanza politica e culturale. Questo, salvo eccezioni. L’ultima delle quali è stato Silvio Berlusconi. Che, all’apice, veniva massacrato allo stesso modo in cui abbiamo visto svillaneggiati Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Con il grande svantaggio di non avere, loro due, la forza del Cav; non ultima quella di pagare gli avvocati».

Sta di fatto che lo schieramento che più voleva anticipare le politiche ha preso una batosta.

«Da quando chiedevano le elezioni è passato un lasso di tempo che ha svuotato l’entusiasmo. Queste amministrative sono state un secondo Papeete».

Addirittura?

«Si fosse votato quando toccava avrebbero stravinto. Invece, il patrimonio si è depauperato».

Anche il Pd non vuole affrettare i tempi perché il M5s è in crisi e la coalizione è fluida.

«Siamo di fronte a un groviglio di contraddizioni. La prima è che, da padrone del sistema, il Pd ha l’abilità di trarre vantaggi da ogni situazione. All’inizio Draghi era visto come fumo negli occhi. I suoi capi speravano nel Conte tris, poi erano vedove di Conte, infine si son fatti piacere Draghi, che ora sembra roba loro».

La seconda?

«All’esordio la Lega era il pilastro di Draghi. Giancarlo Giorgetti gli sedeva accanto come un fratello. Ma pure in questo caso, il vantaggio si è capovolto. E lo stesso Draghi ci ha messo del suo».

Cioé?

«Ha sentito il richiamo delle sirene della rispettabilità sociale, tanto che non ha fatto l’auspicato cambio di passo tenendosi Roberto Speranza, Luciana Lamorgese e perfino il reddito di cittadinanza. Anche l’abbraccio con Maurizio Landini si trasformerà nel suo contrario, sarà Draghi a dover abbracciare Landini. È l’antica regola italiana: nella difficoltà ci si butta a sinistra».

Anche se adesso sta rinascendo il centro?

«Vedremo. Temo che, seguendo il solito richiamo, Carlo Calenda possa replicare la parabola di Mario Segni. Quando Berlusconi gli offrì il ruolo di leader dei moderati, Mariotto rinunciò per non inimicarsi il sistema. Invece, se vuoi vincere devi intercettare la maggioranza degli italiani che è naturaliter antisistema. Nel senso che sono più uomini che caporali».

Chi sono i caporali oggi?

«Gli stessi di ieri. Quelli che si danno quest’aria di compostezza presto indosseranno le uniformi richieste dall’epoca. I trentenni meravigliosi della task force di Palazzo Chigi, si sarebbero scapicollati con Bettino Craxi e prima con Amintore Fanfani, Alcide De Gasperi e Giuseppe Bottai. Chi sosteneva il Borbone è già pronto per il Savoia, per la camicia nera, il fazzoletto rosso, lo scudocrociato, la falce e martello e ora per sventolare la bandiera dell’Europa. Il codice del potere è sempre lo stesso, cambia solo l’uniforme».

I burocrati più longevi dei ministri?

«L’originalità italiana è nel trasformismo del potere narrato da I Viceré di Federico De Roberto e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa».

Anche il Pd ha interesse a mantenere Supermario dov’è sperando di piazzare uno dei suoi al Quirinale?

«Dipende dalla capacità di tenuta del centrodestra che, sulla carta, ha un vantaggio numerico. E questo anche considerando il fatto che, a dispetto di Berlusconi, i ministri di Forza Italia sono più affini al Pd che al resto del centrodestra e potrebbero, dunque, votare Paolo Gentiloni, il vero candidato dem. Tuttavia, i margini per giocarsela ci sono. Bisogna solo individuare una figura di pacificazione. E trarre insegnamenti dai due Papeete. In queste amministrative sono stati commessi diversi errori».

La crescita di Fratelli d’Italia ha bloccato la svolta moderata di Salvini?

«In politica c’è un momento in cui un leader dice: basta, voti non me ne servono più. Il caso di Meloni è particolare perché il successo è suo, non di Fdi. Ricordiamoci che parliamo di granai pieni, non di carestie. Ma il granaio pieno va distribuito, altrimenti marcisce. L’acutezza dell’establishment è stato far tenere il granaio chiuso e marcire il consenso».

Prendendo qualche grande città il centrodestra ne avrebbe messo a frutto una parte?

«La cagnara sul fascismo ha spaventato il popolino. È stato un gigantesco pizzino per dire: “Voi la coda non la muovete”. Sì, il candidato di Roma era debole, ma il dossieraggio cui si sono prestate autorevoli testate e la quasi totalità dell’informazione tv ha paralizzato i topi di campagna».

La batosta è stata determinata dalla campagna sul fascismo più che dai candidati sbagliati?

«Tutto insieme. Senza quella cagnara, a Torino il centrodestra avrebbe vinto. Il grande centro dei moderati lo faranno grazie a Forza nuova che fa il gioco del Pd».

Come ha evidenziato a suo modo @LefrasidiOsho. Che idea ti sei fatto della tempistica delle inchieste?

«Mi affido all’arguzia di Giulio Andreotti: a pensar male ci si azzecca».

Vince il centrodestra moderato: conseguenze?

«Resta attuale la strategia dell’armonia di Pinuccio Tatarella. Dare visibilità a tutte le sfumature, il consenso si costruisce in un caravanserraglio aperto. Se non ci si impegna a dare un destino politico e culturale alla maggioranza degli italiani si costringe il Pd a governare».

Il consenso si costruisce nel dibattito culturale, lontano dalle urne?

«Faccio un esempio. Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza degli italiani ami Padre Pio e ciò che rappresenta. Invece, grazie a un’accorta regia, sembra che stia più a cuore la cultura della Cirinnà. Vuoi un altro esempio?»

Prego.

«Ogni volta che si deve nominare una persona autorevole per i destini del Paese tutti citano Emma Bonino, quando sappiamo bene che per i padri di famiglia e la gente semplice che lavora è una figura inesistente. Certi culti vivono solo nel racconto dei giornali e nei palinsesti tv».

La pandemia ha bocciato populismi e politica di pancia e promosso competenza e pragmatismo?

«La pandemia è un’occasione per mantenere lo status quo e neutralizzare dissenso e spirito critico. Il mondo occidentale è una grande sala d’attesa dove si passa da un’emergenza all’altra. Esco dalla metropolitana a Piazza del Popolo e vengo fermato da una volante che mi chiede il certificato verde: emergenza sanitaria. In Via del Corso m’imbatto nei blindati della polizia: emergenza terroristica. 100 metri dopo trovo uno che chiede l’elemosina, emergenza finanziaria. Quando penso che tre bastino, sullo smartphone mi vedo recapitare un video di Greta Thunberg con l’emergenza climatica».

Finirà come ha ipotizzato Paolo Mieli sul Corriere della Sera, cioè si faranno «i conti senza il voto» per adeguarsi alla «formula Ursula»?

«Conoscendo il senso dell’umorismo di Mieli, immagino che volesse rifarsi alla Modesta proposta di Jonhatan Swift: ingrassare i bambini denutriti per farli mangiare ai ricchi».

Fuor di metafora?

«Si toglie il voto ai “deplorevoli», come li ha chiamati Hillary Clinton, inadatti a gestire la cosa pubblica. Mieli è allievo di Renzo De Felice, studioso di Mussolini, per il quale le elezioni erano “ludi cartacei”».

Ha lanciato il sasso e nascosto la mano o no?

«Non dimenticare La dissimulazione onesta di Torquato Accetto, formula molto gesuitica. Un’altra dicotomia italiana è quella dei salesiani massacrati dai gesuiti. Ricordiamoci che Berlusconi è un allievo dei salesiani mentre Draghi lo è dei gesuiti».

La quadratura sarebbe il primo al Quirinale e l’altro a Palazzo Chigi?

«È dal 1641, anno in cui viene stampata La dissimulazione onesta, che i gesuiti orchestrano i giochi. Perciò, come diceva Ludwig Wittgenstein: “Di quel che non si può parlare si deve tacere”».

La terza indicazione rafforzata dalle amministrative è che per governare serve il benestare dell’Europa?

«In un’ottica provinciale sì. Oggi il gioco con la posta più alta si è trasferito nell’oceano Pacifico, dove Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia fronteggiano la Cina».

Come finirà il braccio di ferro con la Polonia?

«Sula Polonia non può gravare una pregiudiziale storica come sull’Italia o la Germania. I polacchi hanno fronteggiato i due moloch del Novecento. E hanno alle spalle il mito fondante di Karol Woytjla, mentre l’Unione europea segue la moda passeggera di Bergoglio».

Perché se siamo un Paese in prevalenza moderato il partito del sistema è il Pd?

«Perché ha avuto l’astuzia gesuitica d’innestarsi nella dissoluzione apparente delle due chiese del regime partitocratico, il Pci e la Dc. Per fare carriera i figli di buona famiglia devono bazzicare quelle stanze».

Perché la cultura è in mano alle élite di sinistra?

«Perché purtroppo la Chiesa è stata politicamente complice dei suoi persecutori».

Giudizio molto duro.

«Ma vero. Se chiacchieri con un alto prelato non ti parla di Dio, ma dell’etica. Se chiedi al cattolico medio il nome di un filosofo ti cita Norberto Bobbio e non l’unico grande filosofo che abbiamo avuto, Augusto Del Noce. Faccio quest’esempio apposta, perché avevano le aule confinanti all’università di Torino».

Finirà che il centrodestra resterà digiuno mentre la sinistra famelica «ha già il tovagliolo al collo e si papperà un’altra volta il Quirinale», come teme Maurizio Gasparri?

«Ma certo, si prenderanno tutto».

 

La Verità, 23 ottobre 2021

«Il referendum sul fine vita nasconde un equivoco»

Con l’autorevolezza che gli deriva dalla lunga frequentazione delle istituzioni repubblicane, già presidente della commissione Antimafia e della Camera dei deputati, Luciano Violante è abituato a spaccare il capello con il laser del diritto. Significativo è stato un suo recente intervento sul referendum, spacciato come pro eutanasia, in realtà volto a depenalizzare il reato di omicidio del consenziente.

Presidente, pure in presenza di un giudizio positivo sull’operato del governo Draghi alcuni analisti segnalano che esso rappresenta un’anomalia istituzionale per esempio in rapporto al Parlamento: qual è la sua opinione in proposito?

«Abbiamo un sistema costituzionale che non favorisce la decisione. I nostri  tempi, invece, necessitano di decisioni. Senza riforma costituzionale quello che sta succedendo è inevitabile».

Sembra anche a lei che Draghi decida quasi a prescindere dalle indicazioni dei partiti della maggioranza?

«La figura del presidente del Consiglio in tutti i sistemi di democrazia matura non è quella del mediatore, ma del decisore, previo consenso delle componenti della maggioranza. Non è più un puro recettore delle tendenze dei partiti com’è stato fino al governo Craxi. Da allora il sistema si è modernizzato. Non a caso  i giornalisti usano il titolo di premier, costituzionalmente  scorretto, ma che ne definisce bene le funzioni».

Ritiene indispensabile il protrarsi dello stato di emergenza a causa della pandemia?

«Non siamo in presenza di una guerra, per cui alcuni argomenti “bellici” andrebbero usati con prudenza. Tuttavia l’epidemia è gravissima e sostanzialmente  sconosciuta ; va affrontata con  strumenti adeguati, gravi, che in condizioni normali non sarebbero accettabili».

È corretto sottolineare che l’emergenza del Covid ha accentuato una deriva pericolosa per la democrazia o quella di Massimo Cacciari va presa solo come una provocazione?

«Non è mio costume fare polemiche. Il professor  Cacciari ha espresso un’opinione che, anche quando non condivisa, va accolta con rispetto. Ritengo sbagliato demonizzare anziché discutere. Le restrizioni sono ammissibili se ragionevoli, proporzionate e temporanee».

Non le pare che la demonizzazione di chi pone domande sia evidente?

«Vedo radicalismi da un parte e dall’altra».

È pretestuosa l’accusa d’ipocrisia della gestione del green pass? Non sarebbe più trasparente stabilire l’obbligo vaccinale cosicché nei casi controversi ci sia una responsabilità precisa alla quale rifarsi?

«La gestione del green pass è un fatto sanitario. A mio avviso la salvaguardia della salute è primaria. Dotarsi di green pass non comporta un grave sacrificio né un gran costo. Personalmente capisco poco la polemica sulla privazione della libertà».

Quanto dev’essere tenuto in considerazione il fatto che, esclusa la Francia, nella maggioranza dei Paesi europei il certificato verde non ha applicazioni così estese?

«Il problema va considerato in termini comparativi. Le misure vengono adottate in rapporto al costume, alle relazioni tra cittadini e con lo Stato, se si tratti di un popolo più o meno disciplinato o di uno Stato più o meno accentratore. Noi siamo un Paese con una forte tendenza alla libertà  individuale».

In questa situazione si registra la spinta per il referendum in favore dell’eutanasia o più precisamente per l’abolizione del reato dell’omicidio del consenziente: se fosse approvato quali scenari aprirebbe nella legislazione del fine vita?

«Se tanti cittadini  firmano significa che esiste un problema. Se il referendum fosse approvato potrebbe essere uccisa una persona con il suo consenso solo perché ritiene insopportabile una delusione sentimentale, un fallimento finanziario, una depressione. Tutto ciò che riguarda decisioni definitive, non riformabili, come dare e darsi la morte va legiferato con estrema attenzione. Diverso è, a mio avviso, il suicidio assistito sul quale esiste già una sentenza della Corte costituzionale. L’attuale quesito referendario esprime una buona intenzione, ma può avere effetti tragici».

Perché l’abolizione dell’articolo 579 del Codice penale potrebbe trasformarsi in una discriminazione dei più poveri?

«Oggi assistere un malato in un istituto che pratica cure palliative costa circa 300 euro al giorno, mentre in un ospedale il costo sale a 470 euro. Aumentando la popolazione anziana con il miglioramento delle condizioni di vita, in futuro gli anziani che non possono pagare queste cure potrebbero essere indotti a chiedere la morte per sé. Mi ha colpito che, durante questa pandemia, un giornalista e scrittore importante come Massimo Fini abbia detto che per salvare la vita ai settantenni e ottantenni si mette a repentaglio quella dei giovani: che muoiano pure i vecchi. Nella nostra società circola con leggerezza un’opinione nichilista e cinica nei confronti delle persone più fragili, come gli anziani. Dal pensare che non vale la pena far vivere alcune categorie deboli alla loro soppressione concordata, il passo può diventare breve».

La proposta di questo referendum viene dopo il dibattito sul ddl Zan che a sua volta segue quello sullo ius soli: a sinistra i diritti civili hanno definitivamente soppiantato i diritti sociali?

«È una domanda che a volte mi sono fatto anch’io. Ma oggi mi pare che lo slittamento sia stato frenato; penso, ad esempio, alle politiche del lavoro del Ministro Orlando. Il fatto è  che i dritti di libertà sono diritti tanto necessari quanto “facili” perché non costano e si esercitano subito dopo la proclamazione. Mentre i diritti sociali costano, creano conflitti e sviluppano i loro benefici in tempi più lunghi. Credo che una forza di sinistra debba esprimere equilibrio tra diritti e doveri e tra  diritti individuali e diritti sociali».

L’identità di genere percepita sui cui si basano alcuni articoli del ddl Zan è un concetto sufficientemente solido per costruire un’architettura legislativa?

«Sarebbe necessaria una discussione che superi la logica dei numeri. Mentre alcuni aspetti mi convincono, preferirei un ragionamento più complessivo sulle discriminazioni nelle scuole».

Mi pare di capire che è contrario all’istituzione della giornata scolastica contro l’omotransfobia?

«Preferirei una giornata contro tutte le discriminazioni. Credo che ai ragazzi dobbiamo insegnare che il meccanismo delle discriminazioni, di tutte le discriminazioni, scatta quando si inizia a pensare che qualcuno sia diverso da te e abbia meno diritti di te per il fatto stesso di essere diverso».

L’insistenza sui diritti civili evidenzia un distacco dalla quotidianità della maggioranza, fatta di problemi di gestione della salute, di difficoltà ad arrivare a fine mese, di problematiche legate alla pressione fiscale?

«Mi pare che in questa fase si stia costruendo un equilibrio. Mi riferisco alla difesa della salute o alle tematiche del lavoro».

Il nuovo fronte è la coltivazione della cannabis a uso privato. Sembra anche a lei che il Pd proponga continuamente nuove questioni divisive per mettere in difficoltà una parte della maggioranza e omologare il governo alla propria linea?

«Governano insieme forze che hanno idee diverse su molte questioni, ma prevale il senso di responsabilità. La coltivazione di quattro piante di  cannabis a uso privato fa certamente effetto. Ma mi sembra più importante lo ius soli. Credo che il diritto di avere la cittadinanza italiana di ragazzi nati in Italia, che frequentano scuole italiane e tifano per squadre di calcio italiane sia un diritto diverso da quello di coltivarsi le piantine in terrazza. Lo ius soli attiene ai moderni diritti di libertà».

Ritiene che le gravi storture messe in luce dalle rivelazioni di Palamara avrebbero meritato degli interventi più energici degli organi direttivi della magistratura?

«Più che espellerlo dalla magistratura… Palamara non ha rivelato misteri inediti, ma ha messo per iscritto un sistema corrotto di cui molti magistrati già parlavano nelle loro chat. Oggi occorre un intervento legislativo per evitare che la magistratura rimanga un corpo totalmente autoreferenziale rispetto al resto della società e dell’ordinamento costituzionale».

La riforma della giustizia di Marta Cartabia assolve a questo compito o è solo una mediazione rispetto alla riforma Bonafede per ottenere i fondi del Recovery plan?

«I fondi del Recovery plan riguardano la riforma della giustizia civile, non di quella penale. La riforma del ministro Cartabia ha una visione strategica seria, apprezzata da tutti gli operatori. Adesso occorre mettere mano all’ordinamento giudiziario che non riesce a rispondere alle trasformazioni del ruolo della magistratura».

Una necessità da tempo parcheggiata nella lista dei desideri.

«Occorre pensare a interventi con una logica costruttiva, non punitiva. La magistratura non è più quella degli anni Cinquanta quando sono stati introdotti il Csm e l’attuale struttura di governo. Se non si interviene c’è il rischio che la società venga amministrata dal sistema della giustizia penale».

Come giudica l’operato del ministro Lamorgese in occasione del rave party di Mezzano anche alla luce delle ultime rivelazioni sulla «scorta» al convoglio di camper in avvicinamento al luogo dell’evento?

«Prima di esprimermi vorrei conoscere l’esatto stato delle cose».

Pensando al caso Durigon e alle espressioni del professor Tomaso Montanari sulla Giornata del ricordo delle foibe che cosa serve per una vera riconciliazione con il nostro passato?

«Bisogna che ciascuno rispetti le memorie dell’altro. Rispettare non vuol dire condividere, ma rispettare. E le memorie  di tutti devono stare dentro l’ordinamento costituzionale».

Perché a suo avviso ci s’innamora ciclicamente di tanti piccoli messia come Roberto Saviano, Michela Murgia, Fedez, Montanari ai quali attribuire una funzione supplente nel dibattito politico?

«Il pensiero di sinistra nasce dalla critica hegeliana del reale. Perciò il pensiero critico dello stato delle cose, di cui le persone da lei citate sono espressione, è sempre fortemente apprezzato. Poi, certo, il reale non basta criticarlo, va anche ricostruito».

Non è perché la sinistra è più vicina alle élite di quanto lo fosse un tempo?

«Avendo governato abbastanza a lungo negli ultimi anni è inevitabile che i ceti più forti si siano avvicinati alla sinistra. Quando ha governato la destra è accaduto il contrario. Il problema non è  che il Pd prenda i voti nelle Ztl; deve  avere anche il consenso delle persone svantaggiate con politiche adeguate a conquistarlo. Quanto alla distanza dal reale dei partiti di sinistra, nutro qualche dubbio considerando che la maggioranza degli 8.000 comuni italiani è governata da giunte di sinistra o con componenti di sinistra, dove ogni giorno i cittadini chiedono concretezza».

 

La Verità, 11 settembre 2021