Ha l’età di Elisabetta II d’Inghilterra, ma la reattività di un quarantenne. Tre ore dopo la mia mail, Franco Ferrarotti, padre della sociologia italiana, è al telefono con la sua voce squillante. Niente uffici stampa né altri intermediari. «La regina? Sì, siamo entrambi dell’aprile del 1926. Una coincidenza. Io non sono né re né regina e nemmeno monarchico. Ma ricordo che, a differenza di altri sovrani che ripararono in Canada o altrove, i Windsor restarono nella loro residenza anche durante i bombardamenti dei tedeschi. L’ora più buia, come va di moda dire. Un conto sono certi pennacchi di facciata, un altro l’attaccamento al popolo di cui si è veri rappresentanti».
Consigliere di Adriano Olivetti, fondatore di riviste e collane editoriali, gran viaggiatore, docente negli Stati uniti, parlamentare, cavaliere di Gran croce, tuttora professore emerito alla Sapienza di Roma, a proposito di vecchi che hanno parole più solide nei momenti drammatici, l’editore Marietti 1820 sta pubblicando tutte le opere di Ferrarotti: sei volumi, cinquemila pagine.
Professore, qual è la prima lezione che dovremmo trarre da questa pandemia?
«Che la famiglia umana ha un destino comune e nessuno si salva da solo. Devo fare autocritica: pensavo che la globalizzazione sarebbe stata opera delle multinazionali, invece la sta facendo il virus».
Che cosa vuol dire?
«La globalizzazione è stata lo strumento delle multinazionali occidentali per soddisfare la fame di mercati, il bisogno di produrre, vendere e generare profitto. Il quale è legittimo, s’intende. Ma questo era il mondo di prima».
Invece, con la pandemia…
«Dobbiamo riscoprire il senso del limite. Non possiamo pensare che andare avanti per andare avanti sia in sé il bene. È giusto produrre, ma mantenendo l’equilibrio ecosistemico delle comunità».
Adelante con juicio.
«Dobbiamo imparare la lentezza, perché il cervello umano è una macchina lenta. Dopotutto, ci vogliono sempre nove mesi per fare un bambino. A meno che i ginecologi non s’inventino qualcosa… ma nemmeno l’inseminazione artificiale ha migliorato le cose, anzi. Può darsi che l’uomo non sia fatto per vivere alla velocità della luce».
Lo spot di una casa automobilistica tedesca recitava: «Io sono il tempo. Vado avanti per natura. Può sembrare che vada di fretta. Ma anche se non puoi fermarmi, grazie alla tecnologia puoi darmi molto più valore».
«È l’illusione di onnipotenza alla quale ci siamo votati. Spero impareremo che siamo interagenti, interdipendenti. Nessuno si salva da solo, come ha detto il Papa».
Nel secolo scorso abbiamo lottato contro la povertà e il terrorismo, ora la minaccia riguarda la salute.
«Stavolta non sono in gioco l’equilibrio socio economico e la redistribuzione della ricchezza, ma la sopravvivenza dell’umanità come famiglia unitaria. Il virus intacca le radici esistenziali della natura umana».
È una sconfitta per la scienza?
«Da tempo la scienza non è in grado di dispensare certezze, cioè leggi universalmente necessarie e vincolanti. Dopo la grande triade Copernico Galileo Newton, dopo la teoria della relatività, può darci solo uniformità tendenziali e probabilistiche».
È una sconfitta anche per la politica?
«I politici, non solo i nostri, nascondono dietro una scienza che non è quella che immaginano, la propria incapacità di decidere e di rappresentare i popoli».
Tutti o qualcuno di più?
«Direi tutti i gruppi dirigenti, non solo i governanti. Anche coloro che collaborano a formare l’opinione pubblica. Sono già iniziate contestazioni e processi fuori luogo che andranno fatti quando la crisi sarà superata».
Che cosa comporta per la nostra società la moria degli anziani?
«Una perdita irrimediabile. I vecchi sono lo scrigno della memoria, senza la quale non c’è vita sociale e civile. Gli esseri umani sono ciò che sono stati e ciò che ricordano di essere stati. Per questo la memoria è fondamentale. Noi siamo ricordi ambulanti».
Che sconfitta è se una comunità non può accompagnare chi muore?
«Tragica, perché i morti continuano a parlare. La grande invenzione della storia umana è stata la sedentarietà, cioè l’uscita dal nomadismo. Le popolazioni hanno scelto di rimanere ferme perché non potevano trasportare i morti, così la casa e l’opificio sono sorti accanto al camposanto».
Che cos’ha pensato vedendo i camion dell’esercito che trasportavano le bare di Bergamo?
«Quell’immagine ha messo in luce l’imbarazzo dei sopravvissuti. I quali possono pacificarsi solo trasformandosi da superstiti in supertesti. Cioè testimoni di coloro che non ci sono più. Ma che, nel ricordo, continuano a vivere».
L’immagine più memorabile sono quei camion, il Papa solo in piazza San Pietro o l’infermiera addormentata sulla tastiera del computer?
«Oltre tutte queste, non mi abbandona quella del malato intubato che respira grazie a un congegno meccanico. Un morto che non cessa dal morire e affida alla macchina la sua speranza di vita».
Se le avessero detto che saremmo stati reclusi in casa davanti a uno schermo ci avrebbe creduto?
«Certo che no. Per gli italiani e i popoli mediterranei la socializzazione elettronica è una mutilazione. Per secoli abbiamo comunicato più con i gesti e le mani che con le parole. Giustamente si fanno le lezioni via web, ma il nostro vitalismo ci dice che non ci sono surrogati del dialogo faccia a faccia».
Non ha molta fiducia nella comunicazione elettronica.
«Perché è comunicare a, anziché comunicare con».
La differenza?
«Comunicare a significa comunicare tutto a tutti. Cioè, in realtà, niente a nessuno. Comunicare con esprime la comunione, il parlare guardandosi negli occhi».
Dopo la crisi saremo migliori, uguali o peggiori?
«Saremo diversi: migliori se diventeremo più consapevoli dei limiti del profitto e del mercato. Il profitto è legittimo quando dimostra razionalità nella gestione dell’impresa. Ma la ricerca della sua massimizzazione nel più breve tempo possibile porta a un’azione predatoria, insensata e infine autodistruttiva. Quanto al mercato, che ha vinto su scala planetaria contro Confucio in Cina e le caste in India, è legittimo come foro di negoziazione. Ma quando l’economia di mercato diventa dominante e i politici cominciano a dire “Vediamo come aprono i mercati”, c’è il rischio che si traduca in società di mercato».
Il mercatismo di cui parla Giulio Tremonti.
«Esatto, un’economia prettamente finanziaria, non produttrice di merci. L’espressione “società di mercato” è una contraddizione in termini. Perché identifica rapporti che valgono in quanto finalizzati a un obiettivo strumentale definito da un prezzo».
Perché tornare al mondo di prima sarebbe la fine?
«Perché è un mondo in cui l’individuo non è aggregato, ma disgregato. In cui c’è libero accesso, ma non controllo dell’eccesso».
Guardando al futuro, come trovare equilibrio tra libertà e sicurezza, iniziativa e salute?
«L’equilibrio non si trova una volta per tutte, sarà sempre mobile e problematico. È inutile interrogare la scienza come una sfinge. Vedo la necessità di tornare ad Aristotele, che sosteneva che la virtù fondamentale dell’uomo e della donna in politica è la prudenza».
Concretamente?
«Vuol dire tenere alti gli ideali di libertà democratica, giustizia sociale e iniziativa del singolo. Ma sapendo procedere a piccoli passi, in vista del bene pubblico. Credo che dovremo scoprire un nuovo riformismo. Finora abbiamo oscillato tra il polo rivoluzionario, con l’immaginazione che è diventata incompetenza al potere, e il polo del realismo pauroso che dimentica le grandi visioni».
La terza via è quella della tecnica e delle task force?
«La tecnica rappresenta un’illusione di perfezione operativa, ma non è in grado di dire da dove veniamo, dove siamo e dove andiamo. Ha una prospettiva solo strumentale. Le task force sono il tentativo di coprire le vergogne dell’indecisionismo con foglie di fico ingiallite».
Quali dovrebbero essere le priorità della fase due?
«Tornare a lavorare e produrre, ma con grande cautela. La parola d’ordine è convivere con il virus».
Sarà il primo e l’ultimo?
«Non sarà l’ultimo, perché il dramma del vivere, per gli esseri umani, gli animali e i vegetali passa attraverso la lotta costante per la sopravvivenza».
Su cosa far leva, dove trovare le risorse migliori?
«Qui non si tratta di materie prime, naturali o soprannaturali. Per ripartire servirà una grande chiamata al coraggio e al cambiamento. Dobbiamo capire questa lezione di lentezza, di silenzio, di solitudine, di profondità. Questa crisi ci ha fatto riscoprire gli esercizi spirituali inventati da Sant’Ignazio di Loyola».
L’Occidente è disposto a questa revisione?
«Dobbiamo scegliere. Galvanizzati dall’onnipotenza tecnologica, puntavamo a conquistare Marte, ma il virus ci ha riportato con i piedi per terra. Alla crisi seguirà una voglia di vita, ci sarà una ripresa della natalità. Stiamo vivendo un tempo di depurazione, una catarsi. Come dopo il Getsemani».
Possiamo contare sull’Europa?
«L’Europa ha un’enorme occasione. Invece di Meccanismo europeo di stabilità lo si chiami Meccanismo europeo di solidarietà. Senza cambiare l’acronimo. L’Italia deve farsi dare i 37 miliardi per la sanità non solo senza condizioni e a lunga scadenza, ma anche a un tasso dello 0,5%».
Vede un ritorno della centralità dello Stato?
«Dovrà essere una centralità leggera, non il foro degli opportunismi e della corruzione endemica com’è ora. Ci vorrà uno Stato centrale più snello, coordinato con le comunità di base e le regioni. Attenti a evitare i protagonismi incrociati di ministri, governatori e sindaci».
Se dovesse dare l’agenda al premier della rinascita cosa gli direbbe?
«Di procedere per gradi, sulla base di tre criteri. Primo: migliorare il servizio sanitario nazionale. Secondo: promuovere industrializzazione senza disumanizzazione, come raccomandava Olivetti. Terzo: lavorare a un grande risveglio del Mezzogiorno».
La Verità, 26 aprile 2020