«Questa politica urlata non piacerebbe a Belzebù»
Un altro Giulio Andreotti. Un altro, rispetto al ritratto che ci ha lasciato la vulgata giustizialista di gran parte dei media. Un politico in rapporto con Licio Gelli e Cosa nostra. Un Belzebù che trama nell’ombra. Il Divo Giulio dei salotti e delle terrazze. Dai Diari segreti di Andreotti emerge un tessitore di relazioni, un instancabile mediatore, un interlocutore di Papi, un amico di madre Teresa di Calcutta, uno statista. «Ai miei occhi è così, ma io sono di parte», si giustifica Stefano Andreotti, 68 anni, ex dirigente Siemens, sposato, con un figlio, che, insieme alla sorella Serena, ha curato la pubblicazione per l’editrice Solferino di un decennio (1979-1989) di appunti, lettere, minute, ritagli di giornali, per fortuna raccolti in cartelline con la dicitura «Diario».
Un volume gigantesco di scritti.
«Pensi che è solo una piccola parte. Mio padre ha raccolto una montagna di documenti, già donati all’archivio della Fondazione Sturzo».
Che cosa emerge da questi Diari?
«La quantità di relazioni che coltivava in Italia e nel mondo. Dal 1979, dopo il governo di solidarietà nazionale, al 1989 quando tornò a Palazzo Chigi succedendo a Ciriaco De Mita, Andreotti fu per quattro anni presidente della commissione Esteri della Camera e per sei ministro degli Esteri. Non c’è nazione in cui non avesse rapporti. In ogni situazione nella quale emergeva il bisogno di mediazione lui c’era. Dalle crisi nell’area del Mediterraneo fino ai primi passi nella distensione con l’Urss».
Nella nota dei curatori scrive che I Diari possono aiutare a comprendere meglio la sua figura «depurandola da alcuni luoghi comuni»: quali?
«Diceva che dalle Guerre puniche in poi tutti i mali italiani gli venivano addebitati».
La gobba di Andreotti era la scatola nera della Repubblica.
«Ancor più dopo che è morto. Ora molti giovani non sanno chi è stato, altre persone l’hanno conosciuto in modo diverso. Con mia sorella Serena abbiamo deciso di documentare perché crediamo che leggendo questi Diari senza essere prevenuti si possa vedere come viveva giorno per giorno. Inoltre, per chi la ama, possono essere un buon ripasso di storia».
Quante ore dormiva?
«Quattro, al massimo cinque. Però di pomeriggio si concedeva un quarto d’ora di pennichella».
Dava appuntamenti all’alba, il tempo del diario era la notte?
«La giornata iniziava alle 4 e mezza, 5 del mattino. Alle 6,30 assisteva alla messa e alle 7,30 era nello studio privato. Tutti i giorni, sabato e domenica compresi».
E il diario?
«Scriveva sempre, non c’era un momento topico. Anche le poche sere in cui rimaneva a casa, davanti alla tv scriveva, annotava, chiosava».
La goccia che vi ha fatto decidere per la pubblicazione è stata la ricostruzione circolata della storia delle fotografie di papa Wojtyla in piscina?
«Secondo la versione riportata nella biografia scritta da Massimo Franco mio padre avrebbe ricevuto quelle foto da Gelli con l’invito a non farle pubblicare».
Invece come andò?
«Abbiamo trovato una ricostruzione molto differente. Agosto 1980, mentre era in vacanza a Merano ricevette una telefonata urgente dal segretario di Stato Agostino Casaroli che lo avvisava del fatto che in Germania si parlava di fotografie di Giovanni Paolo II in costume da bagno a Castel Gandolfo. In Italia il settimanale Gente aveva già pubblicato due scatti della piscina, senza il Papa. Era una situazione strana… bisogna ricordare il clima di quegli anni. C’erano le prime proteste dei sindacati a Danzica. La Polonia era sottomessa all’Urss, un Papa straniero che fa il bagno poteva dare scandalo. Mio padre contattò Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli, e il cavalier Edilio Rusconi, proprietario di Gente, per sincerarsi che se fossero entrati in possesso delle fotografie non le avrebbero pubblicate».
E Gelli?
«Non ce n’è traccia. Allora però la Rizzoli era chiacchierata, non si può escludere che Gelli si sia vantato con qualcuno».
Andreotti aveva sempre avuto un filo diretto con la Santa Sede.
«Con Giovanni Battista Montini, che diverrà Paolo VI, avevano condiviso la formazione nella Fuci, di cui mio padre sarà presidente dopo Aldo Moro. Ma i rapporti erano buoni anche prima con Pio XII e Giovanni XXIII. E poi con Giovanni Paolo I».
Proseguendo con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, mentre morì poco dopo l’elezione di Bergoglio.
«Che conosceva già. Al sabato pomeriggio andava spesso alla messa a san Lorenzo in Verano dove incontrava il cardinal Bergoglio in trasferta a Roma».
Avrebbe amato la spiccata intonazione sociale di Francesco?
«Credo di sì. Non dimentichiamo che l’interclassismo della Dc proviene dalla dottrina sociale. Mio padre era attento al Terzo mondo, s’interessava alla cooperazione. Affiancava le imprese missionarie. Forse non avrebbe sposato appieno la rivoluzione ora in corso nella curia romana, perché è sempre stato uomo di cambiamenti graduali».
Cosa vuol dire che nei dieci anni in cui non è stato primo ministro ha potuto lavorare per la pace «a ogni costo»?
«Veniva da una guerra e la ricordava come una sciagura da evitare in tutti i modi per l’Europa. Non gli interessava il potere in quanto tale. Tant’è vero che rifiutò quando Giovanni Spadolini e Arnaldo Forlani gli offrirono il ministero del Tesoro».
Non è un paradosso il fatto che mentre il mondo era diviso in blocchi la politica fosse soprattutto trattativa?
«Era la caratteristica dell’epoca. Basta vedere anche come è caduto l’Impero sovietico, goccia dopo goccia, con l’apertura realizzata da Gorbaciov. La vicenda dei missili e dello scudo spaziale fu sempre affrontata nell’ottica della distensione».
Proseguendo nel paradosso, oggi che l’ideologia è in crisi la politica è fatta di scontri.
«Una modalità che non approverebbe. Con l’eccezione del periodo della solidarietà nazionale, il Pci era sempre rimasto all’opposizione. Eppure la scelta atlantica fu condivisa da tutti. C’era rispetto umano anche per gli esponenti del Pci e del Psi. Lo si vede in tutti i Diari, aldilà della partita a scopone in aereo quando mio padre, D’Alema, Berlinguer e Pertini andarono ai funerali di Jurij Andropov. Questo non impediva che si facessero sgambetti anche nella Dc, per esempio con Amintore Fanfani, Carlo Donat-Cattin e De Mita…».
L’emergenza sanitaria fa tornare di moda la formula della solidarietà nazionale: la classe politica di oggi è paragonabile a quella di allora?
«No, è molto diverso. Comunque, al di là della qualità dei singoli esponenti, alla base c’era il fatto che le grandi decisioni erano sempre concordate».
Nell’introduzione accenna a «una relazione del tutto particolare con Comunione e liberazione».
«Aveva un grande rapporto con don Luigi Giussani e, finché ce l’ha fatta, il Meeting di Rimini è stato un appuntamento fisso al quale contribuiva anche suggerendo personalità da invitare… Era poi molto amico di don Giacomo Tantardini, il sacerdote responsabile del movimento a Roma al quale rimase sempre grato per l’offerta della direzione di 30Giorni, il periodico punto di riferimento del pensiero e della presenza della Chiesa nel mondo. Mio padre amava il giornalismo. Sull’Europeo teneva la rubrica Blocnotes, ma quando finì sotto processo quella collaborazione fu carinamente interrotta. Così accettò volentieri l’offerta di don Tantardini, buttandosi con passione nel rapporto con i giovani giornalisti di 30Giorni che diresse fino alla fine».
Come reagì quando fu accusato di collusioni con Cosa nostra?
«I primi due anni furono terribili, non riusciva a dormire nemmeno poche ore. Non usciva di casa, si imbottiva di psicofarmaci… Poi finalmente reagì, ritrovando serenità. Cosciente di aver avuto in altre occasioni della vita magari comportamenti da farsi perdonare, ma non certamente nei casi degli addebiti per associazione mafiosa e per la morte del giornalista Mino Pecorelli».
Che giudizio dava della magistratura?
«Essendo uomo delle istituzioni ne ha sempre avuto grande rispetto. In qualche caso si è ricreduto, perché una certa politicizzazione non gli piaceva».
E dei giornalisti? Ogni tanto dissentiva da Indro Montanelli?
«I giornalisti non se li è mai arruffianati, come diciamo a Roma. Con Montanelli c’era un buon rapporto, si vedevano d’estate a Cortina. In un’intervista sul caso Sindona gli aveva suggerito di reagire e precisare. Mio padre acconsentì, ma poi non lo fece, convinto che tutto si sarebbe sistemato. Più complesso era il dialogo con Scalfari».
Doveva correggere certe sue interpretazioni?
«Sì, ma mai in modo brusco».
Come giudicherebbe la politica muscolare di Matteo Salvini?
«Non credo si troverebbe bene in questo clima di assalto tutti contro tutti. Avrebbe disapprovato la tendenza ad attaccare l’avversario piuttosto che a proporre soluzioni».
E i Cinque stelle al governo?
«Non accetterebbe l’improvvisazione. Mio padre aveva il culto della preparazione, non andava da nessuna parte senza prima informarsi, studiare su enciclopedie e annuari…».
Che ironia gli susciterebbe il trasformismo di Conte che in un pomeriggio passa dal guidare un governo di centrodestra a un altro con quattro formazioni di sinistra?
«Nella Prima repubblica ci sono sempre state evoluzioni. Lui stesso nella Dc all’inizio era visto come un esponente della destra, poi del centro, infine dialogante con il Pci. Non credo avrebbe approvato un cambiamento così repentino dalla sera alla mattina come quello visto un anno fa».
Gli sarebbe piaciuta la moda politicamente corretta?
«La mentalità radical chic lo infastidiva molto. La sua natura romana confliggerebbe con le ipocrisie cui assistiamo».
Che cosa vuol dire essere figlio di Giulio Andreotti?
«Noi quattro fratelli abbiamo condotto una vita normalissima, con una madre più presente e un padre affettuoso, attento alla qualità dei rapporti. Essere figlio di un ministro è stato normale perché ci siamo nati. Oggi sono orgoglioso di dare il mio contributo per far conoscere chi è stato davvero Giulio Andreotti. Una persona che è morta nel suo letto con la coscienza a posto».
La Verità, 12 settembre 2020