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«Questa politica urlata non piacerebbe a Belzebù»

Un altro Giulio Andreotti. Un altro, rispetto al ritratto che ci ha lasciato la vulgata giustizialista di gran parte dei media. Un politico in rapporto con Licio Gelli e Cosa nostra. Un Belzebù che trama nell’ombra. Il Divo Giulio dei salotti e delle terrazze. Dai Diari segreti di Andreotti emerge un tessitore di relazioni, un instancabile mediatore, un interlocutore di Papi, un amico di madre Teresa di Calcutta, uno statista. «Ai miei occhi è così, ma io sono di parte», si giustifica Stefano Andreotti, 68 anni, ex dirigente Siemens, sposato, con un figlio, che, insieme alla sorella Serena, ha curato la pubblicazione per l’editrice Solferino di un decennio (1979-1989) di appunti, lettere, minute, ritagli di giornali, per fortuna raccolti in cartelline con la dicitura «Diario».

Un volume gigantesco di scritti.

«Pensi che è solo una piccola parte. Mio padre ha raccolto una montagna di documenti, già donati all’archivio della Fondazione Sturzo».

Che cosa emerge da questi Diari?

«La quantità di relazioni che coltivava in Italia e nel mondo. Dal 1979, dopo il governo di solidarietà nazionale, al 1989 quando tornò a Palazzo Chigi succedendo a Ciriaco De Mita, Andreotti fu per quattro anni presidente della commissione Esteri della Camera e per sei ministro degli Esteri. Non c’è nazione in cui non avesse rapporti. In ogni situazione nella quale emergeva il bisogno di mediazione lui c’era. Dalle crisi nell’area del Mediterraneo fino ai primi passi nella distensione con l’Urss».

Nella nota dei curatori scrive che I Diari possono aiutare a comprendere meglio la sua figura «depurandola da alcuni luoghi comuni»: quali?

«Diceva che dalle Guerre puniche in poi tutti i mali italiani gli venivano addebitati».

La gobba di Andreotti era la scatola nera della Repubblica.

«Ancor più dopo che è morto. Ora molti giovani non sanno chi è stato, altre persone l’hanno conosciuto in modo diverso. Con mia sorella Serena abbiamo deciso di documentare perché crediamo che leggendo questi Diari senza essere prevenuti si possa vedere come viveva giorno per giorno. Inoltre, per chi la ama, possono essere un buon ripasso di storia».

Quante ore dormiva?

«Quattro, al massimo cinque. Però di pomeriggio si concedeva un quarto d’ora di pennichella».

Dava appuntamenti all’alba, il tempo del diario era la notte?

«La giornata iniziava alle 4 e mezza, 5 del mattino. Alle 6,30 assisteva alla messa e alle 7,30 era nello studio privato. Tutti i giorni, sabato e domenica compresi».

E il diario?

«Scriveva sempre, non c’era un momento topico. Anche le poche sere in cui rimaneva a casa, davanti alla tv scriveva, annotava, chiosava».

La goccia che vi ha fatto decidere per la pubblicazione è stata la ricostruzione circolata della storia delle fotografie di papa Wojtyla in piscina?

«Secondo la versione riportata nella biografia scritta da Massimo Franco mio padre avrebbe ricevuto quelle foto da Gelli con l’invito a non farle pubblicare».

Invece come andò?

«Abbiamo trovato una ricostruzione molto differente. Agosto 1980, mentre era in vacanza a Merano ricevette una telefonata urgente dal segretario di Stato Agostino Casaroli che lo avvisava del fatto che in Germania si parlava di fotografie di Giovanni Paolo II in costume da bagno a Castel Gandolfo. In Italia il settimanale Gente aveva già pubblicato due scatti della piscina, senza il Papa. Era una situazione strana… bisogna ricordare il clima di quegli anni. C’erano le prime proteste dei sindacati a Danzica. La Polonia era sottomessa all’Urss, un Papa straniero che fa il bagno poteva dare scandalo. Mio padre contattò Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli, e il cavalier Edilio Rusconi, proprietario di Gente, per sincerarsi che se fossero entrati in possesso delle fotografie non le avrebbero pubblicate».

E Gelli?

«Non ce n’è traccia. Allora però la Rizzoli era chiacchierata, non si può escludere che Gelli si sia vantato con qualcuno».

Andreotti aveva sempre avuto un filo diretto con la Santa Sede.

«Con Giovanni Battista Montini, che diverrà Paolo VI, avevano condiviso la formazione nella Fuci, di cui mio padre sarà presidente dopo Aldo Moro. Ma i rapporti erano buoni anche prima con Pio XII e Giovanni XXIII. E poi con Giovanni Paolo I».

Proseguendo con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, mentre morì poco dopo l’elezione di Bergoglio.

«Che conosceva già. Al sabato pomeriggio andava spesso alla messa a san Lorenzo in Verano dove incontrava il cardinal Bergoglio in trasferta a Roma».

Avrebbe amato la spiccata intonazione sociale di Francesco?

«Credo di sì. Non dimentichiamo che l’interclassismo della Dc proviene dalla dottrina sociale. Mio padre era attento al Terzo mondo, s’interessava alla cooperazione. Affiancava le imprese missionarie. Forse non avrebbe sposato appieno la rivoluzione ora in corso nella curia romana, perché è sempre stato uomo di cambiamenti graduali».

Cosa vuol dire che nei dieci anni in cui non è stato primo ministro ha potuto lavorare per la pace «a ogni costo»?

«Veniva da una guerra e la ricordava come una sciagura da evitare in tutti i modi per l’Europa. Non gli interessava il potere in quanto tale. Tant’è vero che rifiutò quando Giovanni Spadolini e Arnaldo Forlani gli offrirono il ministero del Tesoro».

Non è un paradosso il fatto che mentre il mondo era diviso in blocchi la politica fosse soprattutto trattativa?

«Era la caratteristica dell’epoca. Basta vedere anche come è caduto l’Impero sovietico, goccia dopo goccia, con l’apertura realizzata da Gorbaciov. La vicenda dei missili e dello scudo spaziale fu sempre affrontata nell’ottica della distensione».

Proseguendo nel paradosso, oggi che l’ideologia è in crisi la politica è fatta di scontri.

«Una modalità che non approverebbe. Con l’eccezione del periodo della solidarietà nazionale, il Pci era sempre rimasto all’opposizione. Eppure la scelta atlantica fu condivisa da tutti. C’era rispetto umano anche per gli esponenti del Pci e del Psi. Lo si vede in tutti i Diari, aldilà della partita a scopone in aereo quando mio padre, D’Alema, Berlinguer e Pertini andarono ai funerali di Jurij Andropov. Questo non impediva che si facessero sgambetti anche nella Dc, per esempio con Amintore Fanfani, Carlo Donat-Cattin e De Mita…».

L’emergenza sanitaria fa tornare di moda la formula della solidarietà nazionale: la classe politica di oggi è paragonabile a quella di allora?

«No, è molto diverso. Comunque, al di là della qualità dei singoli esponenti, alla base c’era il fatto che le grandi decisioni erano sempre concordate».

Nell’introduzione accenna a «una relazione del tutto particolare con Comunione e liberazione».

«Aveva un grande rapporto con don Luigi Giussani e, finché ce l’ha fatta, il Meeting di Rimini è stato un appuntamento fisso al quale contribuiva anche suggerendo personalità da invitare… Era poi molto amico di don Giacomo Tantardini, il sacerdote responsabile del movimento a Roma al quale rimase sempre grato per l’offerta della direzione di 30Giorni, il periodico punto di riferimento del pensiero e della presenza della Chiesa nel mondo. Mio padre amava il giornalismo. Sull’Europeo teneva la rubrica Blocnotes, ma quando finì sotto processo quella collaborazione fu carinamente interrotta. Così accettò volentieri l’offerta di don Tantardini, buttandosi con passione nel rapporto con i giovani giornalisti di 30Giorni che diresse fino alla fine».

Come reagì quando fu accusato di collusioni con Cosa nostra?

«I primi due anni furono terribili, non riusciva a dormire nemmeno poche ore. Non usciva di casa, si imbottiva di psicofarmaci… Poi finalmente reagì, ritrovando serenità. Cosciente di aver avuto in altre occasioni della vita magari comportamenti da farsi perdonare, ma non certamente nei casi degli addebiti per associazione mafiosa e per la morte del giornalista Mino Pecorelli».

Che giudizio dava della magistratura?

«Essendo uomo delle istituzioni ne ha sempre avuto grande rispetto. In qualche caso si è ricreduto, perché una certa politicizzazione non gli piaceva».

E dei giornalisti? Ogni tanto dissentiva da Indro Montanelli?

«I giornalisti non se li è mai arruffianati, come diciamo a Roma. Con Montanelli c’era un buon rapporto, si vedevano d’estate a Cortina. In un’intervista sul caso Sindona gli aveva suggerito di reagire e precisare. Mio padre acconsentì, ma poi non lo fece, convinto che tutto si sarebbe sistemato. Più complesso era il dialogo con Scalfari».

Doveva correggere certe sue interpretazioni?

«Sì, ma mai in modo brusco».

Come giudicherebbe la politica muscolare di Matteo Salvini?

«Non credo si troverebbe bene in questo clima di assalto tutti contro tutti. Avrebbe disapprovato la tendenza ad attaccare l’avversario piuttosto che a proporre soluzioni».

E i Cinque stelle al governo?

«Non accetterebbe l’improvvisazione. Mio padre aveva il culto della preparazione, non andava da nessuna parte senza prima informarsi, studiare su enciclopedie e annuari…».

Che ironia gli susciterebbe il trasformismo di Conte che in un pomeriggio passa dal guidare un governo di centrodestra a un altro con quattro formazioni di sinistra?

«Nella Prima repubblica ci sono sempre state evoluzioni. Lui stesso nella Dc all’inizio era visto come un esponente della destra, poi del centro, infine dialogante con il Pci. Non credo avrebbe approvato un cambiamento così repentino dalla sera alla mattina come quello visto un anno fa».

Gli sarebbe piaciuta la moda politicamente corretta?

«La mentalità radical chic lo infastidiva molto. La sua natura romana confliggerebbe con le ipocrisie cui assistiamo».

Che cosa vuol dire essere figlio di Giulio Andreotti?

«Noi quattro fratelli abbiamo condotto una vita normalissima, con una madre più presente e un padre affettuoso, attento alla qualità dei rapporti. Essere figlio di un ministro è stato normale perché ci siamo nati. Oggi sono orgoglioso di dare il mio contributo per far conoscere chi è stato davvero Giulio Andreotti. Una persona che è morta nel suo letto con la coscienza a posto».

 

La Verità, 12 settembre 2020

 

«L’opulenza non educa, la società austera sì»

Filostar: per Umberto Galimberti si può coniare un vocabolo ad hoc. I suoi video su YouTube contano centinaia di migliaia di visualizzazioni. Come le popstar, il filosofo antropologo piscoanalista va in tournée (in questi giorni Ancona, Montebelluna, Gavazzana, Brà…), riempie teatri, attira giovani e adulti. Ha partecipato alla conversazione con l’insigne psichiatra Eugenio Borgna al Meeting di Rimini intitolata «Le sfide del vivere nell’epoca del nichilismo». Il 15 settembre terrà una lectio su «I Greci, l’anima e l’amore» all’Arena di Verona nell’ambito del Festival della bellezza. «La filosofia non si studia più», osserva anche in questa intervista. Ma il pubblico accorre e forse politici e governanti dovrebbero trarne qualche conseguenza in materia di scuola.

Perché il nemico numero uno di oggi è il nichilismo?

«Il nichilismo è un dato di fatto. Per descriverlo, Friedrich Nietzsche ha usato tre parole fulminanti: “Manca lo scopo”. Manca la risposta al perché, tutti i valori si svalutano. Che i valori si svalutino non è particolarmente interessante perché essi non scendono dal cielo. Sono coefficienti sociali che una comunità adotta per ridurre la conflittualità».

Per esempio?

«Prima della Rivoluzione francese la convivenza era basata su criteri gerarchici, dopo si è strutturata sulla cittadinanza. I valori sono cambiati, ma la storia non è finita».

Se il nichilismo non è figlio della crisi di valori, lo è del pensiero debole o del primato della tecnica, come diceva Emanuele Severino?

«È figlio soprattutto della mancanza di futuro. Un tempo, essendo prevedibile, il futuro conteneva una promessa. Quando mi sono laureato nel 1965 sapevo che mi aspettavano il concorso e l’abilitazione: nell’ottobre dell’anno dopo ero in cattedra. Il futuro prevedibile è motivante, se è incerto demotiva. Questo è il nocciolo del nichilismo».

A soffrirne maggiormente sono i giovani?

«I giovani sono le vittime principali. Ma neppure gli adulti ne sono immuni perché sono diventati dei funzionari di apparato».

Cosa significa?

«Apparato sono i sistemi produttivi. La catena di montaggio, lo studio del notaio, un protocollo sanitario, i programmi ministeriali della scuola. L’adulto deve realizzare gli scopi dell’apparato nel quale opera a prescindere dal fatto che li condivida o no. Se è un funzionario di banca, entro una scadenza deve vendere mille titoli deteriorati. Se ascolta la sua coscienza che si ribella perde il posto di lavoro, se vuole conservarlo la mette a tacere e obbedisce all’apparato. Questo processo è iniziato con il nazismo».

La prevalenza della gerarchia e degli ordini.

«Gitta Sereny, una giornalista ungherese, fece ore di interviste a Franz Stangl, il direttore del campo di concentramento di Treblinka, chiedendogli per 170 volte cosa provasse quando mandava a morte migliaia di ebrei, ma Stangl non rispondeva mai. Finché una volta disse: perché continua a pormi questa domanda? Io non ero incaricato di provare qualcosa. Dovevo eseguire un programma: eliminare 3000 persone entro le undici del mattino e altre 5000 entro le cinque del pomeriggio: “Ero un funzionario, obbedivo agli ordini di un superiore”. Nell’età della tecnica questa è la risposta esatta. Vale per tutti, compresi gli operai delle acciaierie di Brescia che confezionano bombe antiuomo».

Perché sostiene che la tecnica genera nichilismo?

«La tecnica non si preoccupa del progresso dell’umanità, ma del suo stesso autopotenziamento. Già nel 1970 Pie Paolo Pasolini distingueva tra sviluppo e progresso. Il frigorifero, il computer, il cellulare sono tecnologia. La tecnica è la forma di razionalità più alta mai raggiunta dall’uomo e consiste nel raggiungere il massimo dei risultati con il minimo di mezzi. Questa razionalità è comune anche al mercato. Che però ha anche un tratto umanistico, la passione per il denaro, dal quale la tecnica è esonerata. Se si impone quest’unica forma di convivenza, l’uomo rischia l’estromissione dalla storia perché è fatto di componenti irrazionali come il dolore, l’amore, l’immaginazione, l’ideazione, il sogno, la fantasia. Per la tecnica questi fattori sono impacci».

Anche l’etica lo è?

«Nell’età della tecnica l’etica è patetica: può solo implorare la tecnica di non fare ciò che può».

Certi esperimenti estremi di laboratorio.

«Non cloniamo gli uomini, non facciamo la fecondazione eterologa… Ma se si può tecnicamente fare, prima o poi si farà».

La tecnica ha l’ultima parola.

«Per Platone era la politica, la “tecnica regia”, il luogo della decisione. Oggi la politica non decide, ma guarda all’economia che a sua volta si basa sulle risorse tecnologiche. La tecnica funziona e basta».

Dobbiamo temerla?

«È inutile temere. L’uomo deve rendersi conto che non è più il soggetto della storia, ma è la tecnica a farlo funzionare con i suoi parametri».

Droni, robot, intelligenza artificiale, transumanesimo.

«Da Oswald Spengler con Il tramonto dell’Occidente fino a Emanuele Severino, i filosofi ripetono queste cose. Ma nessuno ci bada e la filosofia sarà eliminata dai licei. Nel 1966 Martin Heidegger diceva a Der Spiegel: “Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra”. Si era spaventato vedendo le fotografie della terra scattate dalla luna. “Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto”. Lo diceva senza aver visto cos’è diventata la tecnica oggi».

Lei era l’ottavo di dieci figli, orfano di padre a 14 anni e si è laureato. Che cosa è cambiato rispetto a oggi?

«Niente è cambiato. Allora se volevi laurearti dovevi lavorare per comprarti i libri. Io sono andato in Germania… Allora si faceva oggi non si fa più».

Non è un dettaglio secondario.

«Siamo molto più ricchi, ma l’opulenza corrompe i costumi».

La movida obbligatoria, la cultura dello sballo e le dipendenze derivano da questo vuoto interiore?

«Droga, alcol e annessi sono anestetici contro l’angoscia del futuro. Con la sua essenza anestetica, la droga aiuta i giovani a vivere nell’assoluto presente».

In che cosa mancano gli adulti verso di loro?

«Mi pare che ormai le famiglie siano un disastro. C’è pochissimo dialogo, padri e madri non sanno che parlare serve finché i figli hanno meno di 12 anni. Dopo c’è solo l’esempio».

Padri e madri si vantano di essere loro amici.

«Altro disastro. Perché è una sottrazione di autorità. Gli amici i figli se li trovano da soli».

E la scuola, la formazione: la politica le dà lo spazio che le spetta?

«La politica non ha mai pensato la scuola in termini di educazione dei giovani, ma sempre di occupazione degli insegnanti. Se uno studente trova uno o due professori che sappiano affascinarlo può ritenersi fortunato. Gli altri sette son lì a prendere lo stipendio e a demotivare gli studenti».

Un errore della cultura contemporanea è stato far credere ai giovani che il progresso è illimitato e si è invulnerabili?

«Non abbiamo il senso della misura. I Greci dicevano che chi conosce il proprio limite non teme il destino. Abbiamo vissuto nell’illusione del progresso infinito. Per avere coscienza del limite non basta che i genitori dicano di no, cosa che per altro non fanno più. Il senso del limite deriva dallo stato di necessità, come accadeva negli anni Cinquanta. Non voglio dire che dobbiamo tornare al passato, ma che l’opulenza non educa, mentre una società austera sì. Per questo sono favorevole a reintrodurre il servizio civile obbligatorio: a vent’anni, 12 mesi ben lontano da casa».

La pandemia può essere un avvertimento. C’è sottovalutazione o enfatizzazione del pericolo?

«Direi sottovalutazione. Abbiamo centri di eccellenza sanitaria, ma abbiamo smantellato la medicina territoriale. Basta vedere le sorti toccate in questo periodo ai malati di diabete e di tumore».

Discoteche chiuse o aperte?

«Aprirle è stata un’imprudenza. È ovvio che quando si balla si sta uno addosso all’altro. E poi basta con questi giovani “poverini, hanno sofferto il lockdown”… Chi è morto l’ha sofferto di più. Qualche sacrificio possono farlo anche loro. Balli e danze torneranno quando il contagio sarà superato».

Ci sono i primi suicidi. Quanto possiamo resistere nel clima di emergenza senza che influisca sulla nostra psiche?

«Che la vita sia precaria non lo scopriamo adesso. Noi occidentali siamo la parte più rassicurata del pianeta. Ma non viviamo certo in stato di denutrizione, assediati da malattie inguaribili, privi di farmaci. Ci farebbe bene confrontarci di più con chi vive in condizioni davvero precarie».

L’assenza di senso oggi può essere colmata dall’ambientalismo, l’antirazzismo, l’antifascismo?

«Se sono espressioni individuali sì, meno se sono un fenomeno collettivo. Il Sessantotto, il Risorgimento, l’Illuminismo, anche l’attuale movimento di protesta in Bielorussia, danno un senso finché si raggiunge lo scopo. Negli anni Settanta i pazienti mi sottoponevano problemi sentimentali, affettivi, sessuali. Oggi nessuno mi parla di questo. Le persone si chiedono che senso ha la propria vita: è questa mancanza il vero disagio odierno. Che senso ha la mia esistenza se dal lunedì al venerdì sono un funzionario di apparato?».

Parteciperà al Festival della bellezza. Dove cercare una bellezza che aiuti ad affrontare la crisi nella quale ci troviamo?

«La bellezza vera è coniugata con la bontà, ha una valenza etica. I Greci abbinavano sempre bello e buono. È un concetto che si capisce bene osservando il suo contrario, cioè la mancanza di etica. Non è bello vedere gente che non paga le tasse, che inquina, che maltratta i più deboli. Una bellezza non coniugata con la bontà è evanescente come una nuvola che sparisce».

Cosa vuol dire che una società cambia a colpi di amore come ha detto al Meeting di Rimini?

«La vita avanza in forza dell’amore, non c’è altro motore. Le vite si spengono quando non sono più amate. Chi è innamorato ha una forza, una potenza maggiore. Si sta al mondo finché qualcuno ci ama».

 

La Verità, 29 agosto 2020

«Lo dice la storia, dopo le pandemie c’è la rinascita»

Professore, da grande viaggiatore quanto soffre il lockdown?

«Non molto. Quando c’è vento fatti canna, recita un detto siciliano. Finita la bufera torni dritto…».

Franco Cardini ha la saggezza degli antichi e dei filosofi. Di suo, è storico, insigne medievista, fondatore e direttore di riviste, consulente di case editrici, polemista. «Impenitente reazionario», sottolinea. Cattolico, antimilitarista, tutt’altro che innamorato della democrazia, riluttante alle regole della tecnologia e del giornalismo: «Il mio sito lo gestiscono alcuni collaboratori, ci scrivono anche altri, io ogni tanto mando le mie pensate. Quando scrivevo per il Giornale e Indro Montanelli mi chiedeva 4.000 battute me ne venivano il doppio. “Io non taglio nulla, taglia tu”, mi ribatteva. “Ma sono le due di notte”. E lui: “Veglia”».

Con quale immagine descriverebbe la situazione in cui siamo?

«È l’esito finale del capovolgimento del rapporto tra domanda e offerta attuato dall’Occidente. Un tempo era il cliente a stabilire cosa far produrre. Da due millenni la prospettiva è rovesciata: i produttori inducono i consumi per arricchirsi. Le conseguenze le vediamo».

La pandemia ci ha fatto riscoprire gli esercizi spirituali?

«Ci dividiamo in tre famiglie. Quelli che non hanno scoperto un accidente e restano nel disagio o nell’ottusità. La maggioranza che ha riscoperto questa dimensione dimenticata. E una minoranza che non ha mai abbandonato, almeno in linea concettuale, il silenzio e il rapporto con sé stessi. Qualcosa che i credenti chiamano Dio».

Finiti gli esercizi spirituali ci sarà la trasformazione del capitalismo?

«Non credo. Il capitalismo può cambiare i suoi pesi e contrappesi interni. Più produzione e meno finanza, più tecnologia e meno manifattura, forse. Ma senza ciò che i greci chiamavano metanoia, cioè conversione a qualcosa di diverso, il capitalismo non muterà la sua natura determinata dalla fame dell’oro».

Vede il pericolo di svolte autoritarie?

«Quello c’è sempre. Ma che sia in sé un pericolo è da dimostrare. Io sono un impenitente reazionario e segnalo che prima della svolta autoritaria c’è il disordine. Platone osservava che quando c’è troppa licenza, un eccesso di forza bruta a tutti i livelli, questo genera un violento e arbitrario ritorno all’ordine. Aveva ragione e viveva ad Atene».

Si parla di primato della scienza, ma i virologi litigano.

«Da una parte riconosciamo il primato della competenza e la necessità che certi argomenti vengano discussi tra addetti ai lavori, dall’altra, vittime della mitologia democratica, pretendiamo di sapere e dire la nostra su tutto, anche quando dovremmo ascoltare. I talk show sono l’emblema di questa contraddizione. Aveva ragione Umberto Eco: c’è una massa di imbecilli che vuole pontificare senza studiare».

La pandemia è una lezione di umiltà per la scienza che rincorre il virus?

«Qualunque scienziato serio sa di essere una formica. Il problema è che la scienza non va avanti sulle proprie gambe, ma su quelle del potere. I mezzi per farla avanzare sono in mano a chi dovrebbe decidere per il bene comune, ma in realtà decide per mantenere la propria supremazia».

Ai tempi della spagnola la scienza era messa peggio, ma si faceva leva su altre risorse?

«C’erano maggiore coesione sociale e maggiore capacità di reagire intimamente. Più fede religiosa e più capacità di relativizzare la vita umana. In Italia abbiamo adottato misure così drastiche perché abbiamo proiettato a livello sociale le nostre paure individuali. Se la vita è un valore assoluto perché siamo convinti che dopo non ci sia nulla, la morte è irrimediabile».

La politica che figura ci sta facendo?

«Nel Medioevo l’egoismo dei politici era temperato dalla filosofia del buongoverno. Carlo Marx prevedeva che i governanti si sarebbero trasformati in comitati d’affari. L’economia e la finanza – le menti – e la tecnologia – il braccio armato – comandano sulla politica che balla su uno spartito scritto da altri. Se Machiavelli scrivesse oggi Il Principe non lo spedirebbe ai capi di Stato, ma a Wall Street o a Davos».

E i nostri governanti come si stanno comportando?

«Si potrebbe far di meglio, ma non so quanto. L’Italia è una delle maggiori potenze europee, ma avendo perso l’ultima guerra ha ceduto sovranità. Non abbiamo autonomia nel decidere se fare la guerra o mantenere la pace. Non abbiamo sovranità diplomatica, monetaria e territoriale. Siamo un Paese militarmente occupato da circa 130 basi di uno Stato extraeuropeo e di un’alleanza egemonizzata dalla Nato».

Che nesso c’è con la gestione dell’epidemia del coronavirus?

«Il nesso è nei fondi che si usano per fabbricare gli F35 anziché per il sistema sanitario. Sono antisovranista perché i sovranisti non lo sono abbastanza. Il cane bastonato morde il bastone e lecca la mano del padrone, ma se capisse da dove viene la bastonata morderebbe la mano. Questo Giorgia Meloni lo sa bene».

Il premier Conte è troppo paternalista quando assicura che non si potrà tornare alla situazione di prima?

«Un governante ha una capacità di comprensione del mondo superiore a quella dei cittadini comuni. Il pater familias è per natura paternalista».

Il paternalismo può servire a indorare il lockdown e prolungare il mandato?

«Uno statista adegua le scelte alle esigenze del momento. C’è un’emergenza senza precedenti. Poi può anche sbagliare. Il governante dice: so più cose, ho più responsabilità e più mezzi di voi. Quando vi dico una cosa, fatela».

La tendenza ad applicare uno schema identico a situazioni diverse è eccesso di ideologia?

«Credo che se il governatore di una regione decide una linea più permissiva debba anche assumersi la responsabilità di affrontare l’eventuale ripresa del contagio».

Molise e Umbria devono sottostare alle stesse normative decise per Lombardia e Piemonte?

«Bisogna pensare alle possibili ricadute del contagio. L’obiettivo di un governo dev’essere arrivare al debellamento del virus su tutto il territorio nel minor tempo possibile. Il virus si è diffuso con tempi e modalità diverse, sparirà con tempi e modalità diverse. In alcune regioni servirà qualche settimana, in altre qualche mese. Perciò, certe cose si possono fare e altre no».

Lo stesso eccesso ideologico si è visto nella sospensione delle funzioni religiose feriali? In certi paesi di campagna l’unica novità è il divieto di assistere alle messe.

«Il divieto di partecipazione alle messe è una misura estrema, bastava chiedere il rispetto della distanza di un metro. I valori di carattere spirituale che riguardano i diritti di Dio sono superiori ai valori materiali».

Le gerarchie ecclesiastiche dovevano fare di più perché venissero rispettati?

«Le gerarchie sanno che gran parte dei fedeli sono tiepidi. Perciò, non hanno avuto una reazione più robusta di fronte a questi provvedimenti. Dei credenti autentici sarebbero insorti. Pur di non rinunciare all’alimento spirituale avrebbero corso il rischio dell’infezione».

Che sentimento le ha provocato la Preghiera del Papa in piazza san Pietro?

«È stato il gesto della solitudine della Chiesa e di un Papa che ribadisce il suo ruolo nel mondo. Ma che, allo stesso tempo, non può chiedere ai fedeli di venire in piazza. Lo fece nel 1630 il cardinal Federigo Borromeo con un’altra cristianità, indicendo la processione per scongiurare la peste. Il giorno dopo erano tutti infettati, ma credevano fosse per volontà di Dio».

Le sono piaciuti i balconi del 25 aprile?

«Non capisco come mai devo adattarmi alla messa televisiva e si è permesso a tante persone di celebrare insieme il 25 aprile. I balconi mi sono sembrati la dimostrazione che abbiamo bisogno di liturgie consolatorie, cantando Bella ciao o Fratelli d’Italia».

Fratelli d’Italia più di Bella ciao, o no?

«Come cittadino sì, ma come uomo l’unità d’Italia è stata una sciagura. Ero per il mantenimento del Granducato di Toscana, cioè per un’unità non lesiva delle differenze regionali, su modello dei länder tedeschi. Invece abbiamo scelto qualcosa di contrario alla nostra storia, simile allo Stato nazionale francese».

Come si sta comportando l’Europa?

«Come un’entità inesistente. Quando si è formata, pareva un passo verso un assetto federale o confederale. Invece l’Unione europea è solo doganale e finanziaria, al massimo socioeconomica. Non certo sociopolitica. È il regno dei Chief executive officiers, funzionari che badano agli interessi delle lobby e delle multinazionali. L’Europa non dispone di strumenti legislativi per arginare le crisi. Dipendiamo dai banchieri tedeschi e dagli imprenditori francesi».

In questa emergenza si sono realizzate le idee di Beppe Grillo: riduzione dei consumi non essenziali, stop alle grandi opere, tutti a casa con i sussidi statali: è la decrescita felice?

«Non tanto. Quella di Grillo è una visione statica. Gli storici sanno che durante le pandemie succede questo. Dobbiamo recuperare la capacità di guardare oltre. Per fortuna, dopo le epidemie e le guerre c’è un rifiorire, si aprono nuove strade…».

Anche quella di una vita controllata dalla tecnica: droni, piattaforme, app. Scaricherà l’applicazione «Immuni»?

«Io no, i miei familiari e collaboratori sì. È la contraddizione dei sistemi democratici: difesa della privacy o sicurezza, libertà o salute. Nasce dalla Rivoluzione francese: la fraternità è la componente più trascurata, libertà e uguaglianza sono difficilmente compatibili. Il vaccino garantisce salute, ma impone controllo sociale. Il drone salva dal malvivente, ma sorveglia il privato. Trovare il giusto equilibrio spetta alla politica».

È ottimista sul futuro?

«Sì, grazie ai miei studi. Dopo un trauma c’è sempre una ripresa. Dopo la crisi del Basso Medioevo, dopo la Seconda guerra mondiale… Si torna a riempire i vuoti. Lo dico a scapito di me stesso: la pandemia si comporta da predatrice e colpisce i più deboli della specie, indirettamente rafforzandola. Dopo aver perso potere demografico ci sarà una nuova natalità. Dopo aver perso ricchezza torneremo a produrre…».

 

La Verità, 3 maggio 2020

«Ci salverà il lavoro umano, non le task force»

Ha l’età di Elisabetta II d’Inghilterra, ma la reattività di un quarantenne. Tre ore dopo la mia mail, Franco Ferrarotti, padre della sociologia italiana, è al telefono con la sua voce squillante. Niente uffici stampa né altri intermediari. «La regina? Sì, siamo entrambi dell’aprile del 1926. Una coincidenza. Io non sono né re né regina e nemmeno monarchico. Ma ricordo che, a differenza di altri sovrani che ripararono in Canada o altrove, i Windsor restarono nella loro residenza anche durante i bombardamenti dei tedeschi. L’ora più buia, come va di moda dire. Un conto sono certi pennacchi di facciata, un altro l’attaccamento al popolo di cui si è veri rappresentanti».

Consigliere di Adriano Olivetti, fondatore di riviste e collane editoriali, gran viaggiatore, docente negli Stati uniti, parlamentare, cavaliere di Gran croce, tuttora professore emerito alla Sapienza di Roma, a proposito di vecchi che hanno parole più solide nei momenti drammatici, l’editore Marietti 1820 sta pubblicando tutte le opere di Ferrarotti: sei volumi, cinquemila pagine.

Professore, qual è la prima lezione che dovremmo trarre da questa pandemia?

«Che la famiglia umana ha un destino comune e nessuno si salva da solo. Devo fare autocritica: pensavo che la globalizzazione sarebbe stata opera delle multinazionali, invece la sta facendo il virus».

Che cosa vuol dire?

«La globalizzazione è stata lo strumento delle multinazionali occidentali per soddisfare la fame di mercati, il bisogno di produrre, vendere e generare profitto. Il quale è legittimo, s’intende. Ma questo era il mondo di prima».

Invece, con la pandemia…

«Dobbiamo riscoprire il senso del limite. Non possiamo pensare che andare avanti per andare avanti sia in sé il bene. È giusto produrre, ma mantenendo l’equilibrio ecosistemico delle comunità».

Adelante con juicio.

«Dobbiamo imparare la lentezza, perché il cervello umano è una macchina lenta. Dopotutto, ci vogliono sempre nove mesi per fare un bambino. A meno che i ginecologi non s’inventino qualcosa… ma nemmeno l’inseminazione artificiale ha migliorato le cose, anzi. Può darsi che l’uomo non sia fatto per vivere alla velocità della luce».

Lo spot di una casa automobilistica tedesca recitava: «Io sono il tempo. Vado avanti per natura. Può sembrare che vada di fretta. Ma anche se non puoi fermarmi, grazie alla tecnologia puoi darmi molto più valore».

«È l’illusione di onnipotenza alla quale ci siamo votati. Spero impareremo che siamo interagenti, interdipendenti. Nessuno si salva da solo, come ha detto il Papa».

Nel secolo scorso abbiamo lottato contro la povertà e il terrorismo, ora la minaccia riguarda la salute.

«Stavolta non sono in gioco l’equilibrio socio economico e la redistribuzione della ricchezza, ma la sopravvivenza dell’umanità come famiglia unitaria. Il virus intacca le radici esistenziali della natura umana».

È una sconfitta per la scienza?

«Da tempo la scienza non è in grado di dispensare certezze, cioè leggi universalmente necessarie e vincolanti. Dopo la grande triade Copernico Galileo Newton, dopo la teoria della relatività, può darci solo uniformità tendenziali e probabilistiche».

È una sconfitta anche per la politica?

«I politici, non solo i nostri, nascondono dietro una scienza che non è quella che immaginano, la propria incapacità di decidere e di rappresentare i popoli».

Tutti o qualcuno di più?

«Direi tutti i gruppi dirigenti, non solo i governanti. Anche coloro che collaborano a formare l’opinione pubblica. Sono già iniziate contestazioni e processi fuori luogo che andranno fatti quando la crisi sarà superata».

Che cosa comporta per la nostra società la moria degli anziani?

«Una perdita irrimediabile. I vecchi sono lo scrigno della memoria, senza la quale non c’è vita sociale e civile. Gli esseri umani sono ciò che sono stati e ciò che ricordano di essere stati. Per questo la memoria è fondamentale. Noi siamo ricordi ambulanti».

Che sconfitta è se una comunità non può accompagnare chi muore?

«Tragica, perché i morti continuano a parlare. La grande invenzione della storia umana è stata la sedentarietà, cioè l’uscita dal nomadismo. Le popolazioni hanno scelto di rimanere ferme perché non potevano trasportare i morti, così la casa e l’opificio sono sorti accanto al camposanto».

Che cos’ha pensato vedendo i camion dell’esercito che trasportavano le bare di Bergamo?

«Quell’immagine ha messo in luce l’imbarazzo dei sopravvissuti. I quali possono pacificarsi solo trasformandosi da superstiti in supertesti. Cioè testimoni di coloro che non ci sono più. Ma che, nel ricordo, continuano a vivere».

L’immagine più memorabile sono quei camion, il Papa solo in piazza San Pietro o l’infermiera addormentata sulla tastiera del computer?

«Oltre tutte queste, non mi abbandona quella del malato intubato che respira grazie a un congegno meccanico. Un morto che non cessa dal morire e affida alla macchina la sua speranza di vita».

Se le avessero detto che saremmo stati reclusi in casa davanti a uno schermo ci avrebbe creduto?

«Certo che no. Per gli italiani e i popoli mediterranei la socializzazione elettronica è una mutilazione. Per secoli abbiamo comunicato più con i gesti e le mani che con le parole. Giustamente si fanno le lezioni via web, ma il nostro vitalismo ci dice che non ci sono surrogati del dialogo faccia a faccia».

Non ha molta fiducia nella comunicazione elettronica.

«Perché è comunicare a, anziché comunicare con».

La differenza?

«Comunicare a significa comunicare tutto a tutti. Cioè, in realtà, niente a nessuno. Comunicare con esprime la comunione, il parlare guardandosi negli occhi».

Dopo la crisi saremo migliori, uguali o peggiori?

«Saremo diversi: migliori se diventeremo più consapevoli dei limiti del profitto e del mercato. Il profitto è legittimo quando dimostra razionalità nella gestione dell’impresa. Ma la ricerca della sua massimizzazione nel più breve tempo possibile porta a un’azione predatoria, insensata e infine autodistruttiva. Quanto al mercato, che ha vinto su scala planetaria contro Confucio in Cina e le caste in India, è legittimo come foro di negoziazione. Ma quando l’economia di mercato diventa dominante e i politici cominciano a dire “Vediamo come aprono i mercati”, c’è il rischio che si traduca in società di mercato».

Il mercatismo di cui parla Giulio Tremonti.

«Esatto, un’economia prettamente finanziaria, non produttrice di merci. L’espressione “società di mercato” è una contraddizione in termini. Perché identifica rapporti che valgono in quanto finalizzati a un obiettivo strumentale definito da un prezzo».

Perché tornare al mondo di prima sarebbe la fine?

«Perché è un mondo in cui l’individuo non è aggregato, ma disgregato. In cui c’è libero accesso, ma non controllo dell’eccesso».

Guardando al futuro, come trovare equilibrio tra libertà e sicurezza, iniziativa e salute?

«L’equilibrio non si trova una volta per tutte, sarà sempre mobile e problematico. È inutile interrogare la scienza come una sfinge. Vedo la necessità di tornare ad Aristotele, che sosteneva che la virtù fondamentale dell’uomo e della donna in politica è la prudenza».

Concretamente?

«Vuol dire tenere alti gli ideali di libertà democratica, giustizia sociale e iniziativa del singolo. Ma sapendo procedere a piccoli passi, in vista del bene pubblico. Credo che dovremo scoprire un nuovo riformismo. Finora abbiamo oscillato tra il polo rivoluzionario, con l’immaginazione che è diventata incompetenza al potere, e il polo del realismo pauroso che dimentica le grandi visioni».

La terza via è quella della tecnica e delle task force?

«La tecnica rappresenta un’illusione di perfezione operativa, ma non è in grado di dire da dove veniamo, dove siamo e dove andiamo. Ha una prospettiva solo strumentale. Le task force sono il tentativo di coprire le vergogne dell’indecisionismo con foglie di fico ingiallite».

Quali dovrebbero essere le priorità della fase due?

«Tornare a lavorare e produrre, ma con grande cautela. La parola d’ordine è convivere con il virus».

Sarà il primo e l’ultimo?

«Non sarà l’ultimo, perché il dramma del vivere, per gli esseri umani, gli animali e i vegetali passa attraverso la lotta costante per la sopravvivenza».

Su cosa far leva, dove trovare le risorse migliori?

«Qui non si tratta di materie prime, naturali o soprannaturali. Per ripartire servirà una grande chiamata al coraggio e al cambiamento. Dobbiamo capire questa lezione di lentezza, di silenzio, di solitudine, di profondità. Questa crisi ci ha fatto riscoprire gli esercizi spirituali inventati da Sant’Ignazio di Loyola».

L’Occidente è disposto a questa revisione?

«Dobbiamo scegliere. Galvanizzati dall’onnipotenza tecnologica, puntavamo a conquistare Marte, ma il virus ci ha riportato con i piedi per terra. Alla crisi seguirà una voglia di vita, ci sarà una ripresa della natalità. Stiamo vivendo un tempo di depurazione, una catarsi. Come dopo il Getsemani».

Possiamo contare sull’Europa?

«L’Europa ha un’enorme occasione. Invece di Meccanismo europeo di stabilità lo si chiami Meccanismo europeo di solidarietà. Senza cambiare l’acronimo. L’Italia deve farsi dare i 37 miliardi per la sanità non solo senza condizioni e a lunga scadenza, ma anche a un tasso dello 0,5%».

Vede un ritorno della centralità dello Stato?

«Dovrà essere una centralità leggera, non il foro degli opportunismi e della corruzione endemica com’è ora. Ci vorrà uno Stato centrale più snello, coordinato con le comunità di base e le regioni. Attenti a evitare i protagonismi incrociati di ministri, governatori e sindaci».

Se dovesse dare l’agenda al premier della rinascita cosa gli direbbe?

«Di procedere per gradi, sulla base di tre criteri. Primo: migliorare il servizio sanitario nazionale. Secondo: promuovere industrializzazione senza disumanizzazione, come raccomandava Olivetti. Terzo: lavorare a un grande risveglio del Mezzogiorno».

 

La Verità, 26 aprile 2020

«Certe lezioncine sono solo pessima letteratura»

Professor Massimo Cacciari, crede che questa epidemia abbia spiazzato la cultura positivista contemporanea?

No, non ha spiazzato quelli che sanno leggere e scrivere, tanto meno i medici e gli scienziati. Era tutto previsto. Ci sono intere biblioteche di studi dell’Organizzazione mondiale della sanità che anticipavano queste calamità. Le cause sono sempre le stesse: la deforestazione, il rapporto sbagliato con l’ambiente, il commercio illegale di animali. La Cina è piena di mercati dove avvengono queste cose senza controlli. Si chiama spillover (salto di specie di un germe patogeno ndr). Ha già dato origine alla Sars e a Ebola.

Non ha spiazzato gli scienziati, ma ancora non è stato trovato il vaccino.

Che cosa vuol dire? I virus e le infezioni cambiano. Della Sars il vaccino è stato trovato. Si troverà anche questo. L’anno scorso sono morte 8000 persone per complicazioni dall’influenza. Il coronavirus ha stupito chi non sa niente. Gli studiosi avevano lanciato l’allarme.

E la politica non l’ha raccolto?

La politica è ripiegata sulle proprie beghe e sa solo inseguire le emergenze. Ci svegliamo quando ci chiudono le città. Non c’è programmazione, non c’è prevenzione, non c’è convergenza. Gli studiosi continuano a dire di investire sulla sanità, la ricerca, la formazione. La politica non dà retta e procede tagliando e stabilendo numeri chiusi a capocchia nelle università.

È una battuta d’arresto della globalizzazione?

Cinquant’anni fa il contagio sarebbe rimasto a Wuhan e nessuno ne avrebbe saputo niente. Oggi qualsiasi cosa avviene in punto del pianeta diventa immediatamente globale.

Ci vorrebbe collaborazione tra le nazioni.

Già, basta guardare l’Europa. Ognuno è andato per conto proprio. L’Europa è scomparsa.

Abbiamo anche i guru da quarantena che ci spiegano ogni giorno quello che hanno imparato.

È tutta pessima letteratura. Non bastava questa sciagura? Con i problemi che ha l’80 o 90 per cento della popolazione. Leggere un libro, rivalutare le piccole cose… Mica tutti hanno le loro case. Ci sono famiglie di cinque o sei persone in 80 metri quadri, ci saranno eserciti di disoccupati e sottoccupati. Sono chiacchiere di nani e ballerine. Pifferai da quattro soldi. Ma qualcuno si chiede cosa accadrà se questa situazione andrà avanti?

 

Panorama, 1 aprile 2020

«Il mio Osho fa ridere anche con il coronavirus»

Se l’autore di satira del momento si definisce «non di sinistra» vuol dire proprio che non si può più stare tranquilli. L’unica certezza era che lo sberleffo e la risata antipotere erano sinistrorsi e proletari. «Invece la sinistra sta con l’establishment, vedi il Pd, e il proletariato sta dall’altra parte», dice Federico Palmaroli, in arte Le frasi di Osho. 47 anni, studi classici e un lavoro diverso da quello che lo ha portato ad avere 300.000 followers su Twitter e un milione su Facebook, collaborazioni con Il Tempo, Porta a Porta e il Corriere della Sera. Ogni post un tizzone, una scintilla che illumina più di tanti pensosi editoriali. Sulla psicosi da coronavirus: «Ormai me lavo le mani pure dopo essermi lavato le mani». Sulle sardine che aprono la stagione di Amici di Maria De Filippi: «Li avrei visti mejo ad Alici». «Signole, Mattalella ’scito», risponde il presidente in persona alla telefonata di Conte, preoccupato per l’aria di crisi.

La satira è solo un hobby?

La vivo ancora come un fenomeno estemporaneo.

Ma di tempo gliene prende molto?

Soprattutto verso sera, quando preparo la vignetta per il quotidiano e mi dedico a Osho. C’è la ricerca delle immagini, poi le battute arrivano fulminee.

Tempi duri con il coronavirus?

Era più facile ridere quando non era un caso nostro. Riguardava i cinesi e chissenefrega. Appena è arrivato in Italia è montata l’onda buonista che decide su cosa si può fare satira e su cosa no.

Poi è calata?

Il moralismo non regge perché sui social tutti cercano un ruolo. All’inizio provano a fare i censori, tipo: non si scherza su queste cose; questa te la potevi risparmiare… Poi tutti cominciano a far battute.

Il bersaglio si è spostato dai politici agli italiani?

C’è un certo appetito di satira, perculare le paranoie funziona. Dopo un po’ la politica può stancare.

Soprattutto se è noiosa.

Prendersi una pausa serve anche a chi la racconta. Per resettare… come con la storia di Meghan e Harry. Anche se la coppia Salvini Di Maio con i loro litigi quotidiani offriva più spunti.

Ridere sulle psicosi è facile?

La caccia all’amuchina e alla mascherina lo era fin troppo. Non era satira sui morti, ma sugli eccessi di panico.

Alessandro Di Battista ha scritto su Facebook che ne muoiono di più colpiti dai fulmini.

Un po’ di ragione ce l’ha, c’è un allarmismo stereotipato. Nessuno ne è davvero immune.

Neanche un autore un po’ cinico?

In effetti, il raffreddore mi ha fatto pensare.

Il governo più naif che combatte l’epidemia più proteiforme del secolo è una buona base di lavoro?

Un governo che sta insieme con la colla, con un premier che cambia tutte le gradazioni, dal gialloverde al giallorosso, magari al giallazzurro, e con un ministro degli Esteri come Di Maio, fa ridere da solo.

Conte rivendica il primato in Europa.

Con i contagi l’ha trovato.

Ha ritratto lui e Giggino pronti a mollare tutto.

Aprire un chiosco di amuchina nel lodigiano poteva essere molto redditizio. E per Di Maio coerente con il passato.

Poi c’è il ministro della Salute Roberto Speranza confortato da chi l’ha preceduto.

«’N te invidio proprio», detto dalla Lorenzin. Con la sua faccia da fanciullo, di fronte a ’sta sciagura Speranza fa tenerezza. Il cognome sembra un contrappasso.

Il soggetto più fertile è Matteo Renzi?

Le sue bizze cominciano ad annoiare, divertono di più le incoerenze di Conte. Il suo fare rassicurante che nasconde altro. Il suo essere pronto ad accordi con chiunque pur di restare incollato allo scranno. Subito dopo, come fonte ci sono le sardine, che purtroppo sono già mezze finite.

Dice?

Dopo aver riempito le piazze quand’era facile hanno infilato una serie di gaffe. Contro il coronavirus intoniamo Bella ciao?

Perché sono in calo?

Hanno dimostrato il vuoto pneumatico. L’umorismo su di loro non fa più scattare i difensori. Quando ho postato «aggiungere Calfort a ogni lavaggio» per la Whirlpool nessuno ha protestato. Qualche giorno fa Santori ha detto che non riusciva a trovare un buco in agenda per incontrare Conte, poi s’è scoperto che stava a prepara’ il passo a due per la sfida di danza ad Amici.

Com’è riuscito a vedere un lato comico in Mattarella?

Con il romanesco si dà un tono terra terra a un personaggio ad alto contenuto istituzionale e si crea il corto circuito. Lo stesso succede con il Papa.

I grillini offrono più spunti di tutti?

Per il loro autodidattismo. I guai di Di Maio con l’inglese e la geografia sono noti. Ora che torna Di Battista ci sarà da lavorare.

Cos’ha visto in Osho, il santone?

Non sapevo neanche chi fosse. Cinque anni fa ho trovato che le sue «perle di saggezza» erano molto condivise su Facebook e mi è scattata l’idea di fargli pronunciare certe massime: «Quando c’hai sete l’acqua è la meglio cosa», oppure: «I pomodori ’n sanno più de niente». Lo declinavo come uno di noi.

Niente politica?

Poca. Il fatto che fosse neutrale gli dava forza. I followers incoraggiavano: «Nun te mischia’ con la politica…». Adesso sono impantanato, ma se non ci fossi entrato, prima o poi sarebbe finito.

Un santone orientale con il cinismo dei romani.

Altro corto circuito. La nostra parlata ha una vena che nessun dialetto ha, manco l’italiano. È quella della comicità cinematografica riconosciuta ovunque.

Con le foto dà il senso del fatto in tempo reale?

Cerco di cogliere l’espressione o la posa e creo la frase che corrisponde. È quello che facevano cinquant’anni fa i fotoromanzi come Grand Hotel.

Il terzo ingrediente è il gergo, le frasi fatte ricontestualizzate.

Le espressioni che sono depositate nel nostro codice linguistico tornano a galla con Osho e fanno scattare l’alert mentale.

È più facile prendere in giro «i migliori»?

È il meccanismo del re nudo. I 5 stelle si sono proposti come paladini anticasta e poi scopriamo che hanno i loro scheletri. Anche se bisogna riconoscere che la politica l’hanno un po’ moralizzata.

Dà soddisfazione sbeffeggiare chi tiene molto alla propria immagine?

Quando puoi infilzare quello che se la tira mostrando com’è in realtà è difficile risparmiarlo. Il picco è sbertucciare chi si pensa superiore.

I soloni del politicamente corretto?

È stato divertentissimo il periodo di Laura Boldrini con il suo linguaggio tassativamente al femminile. Un altro bel momento è stata la campagna contro Harvey Weinstein e le scoperte su Asia Argento. Poi Greta Thunberg, un’intoccabile alla quale facevo dire banalità meteorologiche. Anche se un certo accanimento non mi piaceva.

I social fomentano l’odio?

Hanno creato la guerra civile 2.0. Una volta certi discorsi si facevano al bar o tra amici. La possibilità di scrivere in forma anonima autorizza chiunque a insultare. È un meccanismo che ha creato dei mostri. Aveva ragione Umberto Eco quando disse che il Web aveva dato voce a tanti imbecilli.

Esempi?

La base militante dei 5 stelle non ammette critiche e reagisce sempre in modo scomposto. Il massimo si è avuto quando si sono alleati con il Pd che fino a quel momento era il partito di Bibbiano.

Poi c’è il gioco delle coppie, Massimo D’Alema che svezza Speranza.

Le coppie danno la possibilità di collegare fenomenologie distanti come quella della politica e quella dell’amore.

Salvini e Di Maio.

Salvini che telefonava a Di Maio rivelandogli di essere incinto ha spopolato.

Zingaretti e Renzi che litigano su tutto.

Il Pd è una miniera perché, pur essendo il partito dell’establishment, è anche il partito dei grandi litigi perché sta al governo e all’opposizione allo stesso tempo. Zingaretti non è facile perché dice cose da Miss Italia, la pace nel mondo… basta odio… Sembra una sardina cresciuta.

È più tenero con Giorgia Meloni e Salvini perché sono più veraci?

Salvini è bullizzato ogni giorno come Berlusconi una volta, perciò non mi viene voglia di attaccarlo. Far parlare la Meloni in romanesco sarebbe ridondante. Si può se ci sono in ballo le alleanze, perché per il resto si espone poco e mantiene una linea coerente.

Risparmia i volti noti della tv?

Le cazzate dei conduttori non hanno un’eco così vasta. Se i fatti non sono noti e si devono spiegare la battuta non arriva. A Sanremo Amadeus rincorreva Morgan che voleva andarsene a casa: «Quale casa?».

Mi rivela una sua passione privata?

Mi piace il Futurismo: leggo i saggi, vado alle mostre. Poi tifo Lazio e quindi qualcuno si sente autorizzato a darmi del nazista. In realtà, credo che nessuno si aspettasse una satira divertente che non fosse di sinistra. Ma ora cominciano ad apprezzarmi anche da quelle parti.

 

Panorama, 4 marzo 2020

«Quando Craxi era l’uomo nero e io la sua strega»

Buongiorno signora Alda D’Eusanio, perché non è andata ad Hammamet per il ventennale della morte di Bettino Craxi?

«Per me la tragedia di Hammamet, come la chiamo, è una ferita ancora aperta. Non credo molto nelle visite collettive in occasione degli anniversari. Credo invece che vada fatta un’opera per ristabilire la verità e la giustizia sul caso Craxi, affinché il Paese possa riflettere su ciò che è stato. La fine di Bettino è stata anche la morte di un intero sistema».

«Bettino»: lo chiama spesso così, Alda D’Eusanio, in questa intervista; per sottolineare la prevalenza dell’uomo sullo statista e per esprimere il senso di un’amicizia che ha lasciato un vuoto. Giornalista, moglie del sociologo Gianni Statera, scomparso pochi mesi prima del leader socialista, D’Eusanio è un volto molto noto della televisione italiana. Ha condotto per alcuni anni il Tg2 e poi ideato e condotto diversi programmi di cronaca e attualità, da L’Italia in diretta a Ricomincio da qui, da Al posto tuo a Qualcosa è cambiato. Grazie all’abitudine a evitare troppe circonlocuzioni, da qualche stagione si è ritagliata uno spazio come opinionista di programmi popolari, soprattutto in Mediaset.

Non è andata ad Hammamet pur essendo amica del leader socialista.

«Ci sono sempre andata e ancora ci andrò, in forma privata. Ero un’amica come lo era mio marito, uno studioso, autore di molti libri, tra i quali uno intitolato Il caso Craxi. Immagine di un presidente».

In che cosa consisteva quest’amicizia?

«Mio marito, che era molto stimato da Craxi, me lo fece conoscere. Ogni 15 giorni o più spesso – dipendeva dai loro impegni – c’invitava a cena all’hotel Raphael. Con il mio carattere privo di formalità ero riuscita a superare le sue diffidenze iniziali. Bettino credeva nell’amicizia».

Pochi lo ricordano così.

«M’infastidisce che quando si parla di lui si citino sempre nani e ballerine. La sua casa era frequentata da politici come Giovanni Spadolini, oltre ai tanti amici socialisti. Il fatto di averla aperta anche a persone del mondo dello spettacolo come Ornella Vanoni, Adriana Asti o Caterina Caselli non ha fatto di lui il capo di un circo».

Come s’intende quando si rispolvera quel binomio?

«La politica spettacolo era già arrivata con Marco Pannella che fu il primo a usare la tv in modo moderno. Anche Sandro Pertini era molto attento alla sua immagine. Bettino non lo è mai stato, era schivo, persino timido».

Non dava questa impressione.

«Invece era così. Non amava i riflettori, il palcoscenico, il lusso».

A differenza del suo amico Silvio Berlusconi?

«Che però allora non faceva politica e si occupava, molto bene, di televisione. Berlusconi era il volto seduttivo del potere, l’esatto opposto di Craxi. Che non era né seduttivo né simpatico».

Ha ragione Claudio Martelli che ha intitolato il suo libro L’Antipatico. Bettino Craxi e la grande coalizione?

«Sì. Non faceva nulla per conquistarsi la simpatia di nessuno. Tutta la sua mente era rivolta alla soluzione dei problemi. L’unico momento di svago era la sera a cena, quando incontrava amici, politici, scrittori o persone dello spettacolo, ma sempre parlando di politica. Ha condotto una vita in un certo senso umile, al Raphael non viveva in un attico sfarzoso come si diceva, erano due stanze piene di libri, giornali e polvere».

Si è parlato a lungo del suo tesoro, conti all’estero, ville, donazioni alle amanti.

«Ancora la storia dell’oro di Dongo? A smentirla basta la sobrietà della vita condotta da lui e dalla sua famiglia. Le case in cui ha vissuto, compresa quella di Hammamet, l’unica di proprietà, erano come quelle due stanze al Raphael».

Perché dice che è stato ucciso? E da chi?

«Quando doveva operarsi e si sapeva che la Tunisia non aveva ospedali all’altezza, non gli è stato consentito di tornare in Italia. È stato un modo di ucciderlo. Solo la Tunisia l’ha accolto. François Mitterand disse che non poteva garantirgli la protezione: poteva garantirla ai terroristi assassini di innocenti come Cesare Battisti, ma non a un leader politico. Craxi non voleva sfuggire alla giustizia italiana, ma auspicava l’esercizio di una giustizia giusta, che non agisse come un potere deciso ad azzerare un intero ceto politico».

Martelli sostiene che è stato ucciso da una grande coalizione della finanza internazionale.

«Nessuno credo pensi realmente che il sistema politico e sociale della quinta potenza industriale potesse essere distrutto dal mariuolo Guido Chiesa e dal poliziotto Antonio Di Pietro. Sicuramente c’era un disegno. Martelli è sempre stato lucido nelle sue analisi, era il delfino di Bettino. Che, del resto, a differenza di altri leader, si è sempre circondato di persone di valore, come Rino Formica e Gianni De Michelis».

Non ci sono state anche colpe sue nel compiersi di quella tragedia?

«Eraclito dice che il destino dell’uomo è il suo carattere. Quello di Bettino lo portava a combattere mettendo da parte la prudenza. Non era capace di abbassare la testa per aspettare che passasse l’onda».

Ha visto Hammamet di Gianni Amelio?

«Sì e non mi è piaciuto. Non è né un documento politico né un’operazione verità sui suoi ultimi mesi. Se non ci fosse la bravura di Pierfrancesco Favino… È un film che non aggiunge nulla, solo cose sbagliate».

Per esempio?

«Il modo di raccontare la famiglia. Bettino era amato dalla moglie Anna e da Bobo, Stefania lo adorava. Nel film si vede quasi solo lei. Ma la vera infermiera era Anna, che non lo ha mai lasciato mezzo secondo, tranne quando è stata costretta ad andare a Parigi per curarsi. È morto quando si è allontanata, ma nel film è descritta come una donna che guarda la tv. Anche Bobo si era trasferito lì con la famiglia. Quegli ultimi anni sono stati raccontati meglio in Route El Fawara, Hammamet di Gianni Pennacchi».

L’amicizia con Craxi ha aiutato la sua carriera di giornalista?

«Io ero molto critica nei confronti della gestione della Rai del Psi e del Pci. C’è una mia intervista a Maria Latella del Corriere della Sera intitolata: “Telegarofano, la mia croce”. Commentandola, Giampaolo Pansa scrisse sull’Espresso: “Attenti a quell’Alda di notte”».

Aveva ragione?

«Faccia lei. Prima di diventare giornalista a 40 anni me ne sono fatta undici di precariato. Poi ho condotto il tg della notte che è quello che ti danno quando non vogliono farti far carriera. Ho cominciato ad avere successo nel 1996 con L’Italia in diretta quando Bettino era ad Hammamet da due anni. La prima conduzione in prima serata l’ho avuta nel 2001, con Al posto tuo, quando sia mio marito che Craxi erano morti».

Alla conduzione del tg delle 20.30 quando arrivò?

«Nel 1995. Fu Clemente Mimun a spostarmi, ma durò pochi mesi perché poi passai a L’Italia in diretta. Poco dopo spuntarono le intercettazioni delle nostre telefonate…».

Che cosa venne fuori?

«Lo chiamavo alla sera con mio marito, sapendo benissimo che eravamo intercettati, per chiedergli come stava e riferirgli lo stato di salute di Vincenzo Muccioli, nostro amico. Lui parlava, si sfogava anche. Io manifestai l’intenzione di scrivere un libro sulla sua vicenda».

Disse: «Sarò la tua voce».

«Il senso era questo: se riuscirò a convincere un editore sarò la tua voce. Si parlava di un libro da scrivere. Un’altra volta in cui raccontava del dolore provocato da un’ernia gli mandai affettuosamente “un bacino sulla bua, che ti passa”. Fui messa alla gogna, il mio peccato originale era stato ammettere di essere amica di Bettino Craxi. Lo rivendicai, chiedendo di dimostrarmi dove sbagliavo. Avevo anche rifiutato, come Enrico Mentana, di fare uno spot elettorale».

Gli attacchi non si placarono?

«L’Indipendente di Vittorio Feltri, L’Unità e Norma Rangeri sul Manifesto scrissero le cose più ignominiose. Se Bettino era l’uomo nero io ero una strega. Forse volevano anche colpire mio marito, socialista sopra le parti. Ma avevamo la coscienza a posto, non temevamo l’isolamento di cui fummo oggetto per anni. Quando andavo a mangiare alla mensa della Rai, come mi sedevo tutti si alzavano e restavo sola al tavolo».

Intanto continuava a condurre: come definirebbe la sua televisione?

«Una televisione coraggiosa, che guardava avanti e raccontava le storie delle persone comuni. Non a caso fu copiata da tutti».

Per esempio?

«L’Italia in diretta divenne La vita in diretta, poi Ricomincio da qui, Un pugno o una carezza, Qualcosa è cambiato hanno ispirato tanti programmi di questi anni, le storie e l’infotainment. È stata copiata anche la tecnica dei primissimi piani durante il racconto. Di pomeriggio Al posto tuo batteva Maria De Filippi. Ideavo programmi, ma dopo un anno mi mandavano via».

Perché?

«La libertà e la solitudine si pagano».

Non c’erano anche polemiche per l’uso di attori?

«La tv è fatta dal rapporto tra i telespettatori e il conduttore che tiene il pubblico legato alla storia. Io non recitavo e non facevo recitare, facevo passare i sentimenti, li stimolavo».

Negli ultimi anni è stata opinionista di alcuni reality. Che cosa le piace di questi programmi?

«L’unico reality è stato L’Isola dei Famosi. M’incuriosiva la durezza del format: le situazioni estreme, la sopravvivenza e la convivenza con persone diverse mettono a nudo il carattere delle persone. Poi sono stata opinionista anche per Piero Chiambretti e, a volte, per Barbara D’Urso. È la tv di adesso».

Che cosa guarda da telespettatrice?

«Seguo i programmi d’informazione, da Ballarò a Report a Porta a porta. E poi Maurizio Crozza, che mi diverte molto».

Tra i politici di oggi chi le fa meno rimpiangere quelli della Prima repubblica?

«Tutti me li fanno rimpiangere perché dopo di allora non c’è più stata vera politica. Berlusconi ci ha provato, anche se non era del ramo. Sono politica il Conte 1, il Conte 2 o allearsi prima con un partito e subito dopo con un altro? Lei vede in giro qualcuno che possa lontanamente paragonarsi a Giulio Andreotti, Bettino Craxi o Enrico Berlinguer?».

 

La Verità, 19 gennaio 2020

«Hammamet inneschi la riscossa della politica»

Una storia tragica che ha molto da dire all’Italia di oggi. La caduta del re. Il perdente in disarmo. La grande rimozione della politica repubblicana. È tutto questo, Bettino Craxi, oggi. Tra pochi giorni ricorrerà il ventennale della sua morte avvenuta ad Hammamet il 19 gennaio del 2000. Stanno per uscire libri e saggi. Si torna a parlare di lui e della sua eredità politica. Non del presunto tesoro nascosto chissà dove. Sono maturi, a sinistra, i tempi del perdono o, almeno, dell’assoluzione? Un film intitolato Hammamet, diretto da Gianni Amelio e con un bravissimo Pierfrancesco Favino, racconta gli ultimi sei mesi dell’ingombrante esilio del leader socialista.

Incontro la figlia Stefania nella sede della fondazione a lui intitolata dove, tra i suoi ritratti, spunta un busto di Giuseppe Garibaldi. Alle pareti si legge: «La mia libertà equivale alla mia vita», epigrafe posta sulla tomba dello statista italiano.

Signora Craxi, le è piaciuto Hammamet di Gianni Amelio?

Aspettarsi una ricostruzione storico-politica della vicenda di mio padre sarebbe stato sbagliato. Gianni Amelio è un regista dell’anima, non poteva che raccontare il dramma e l’ingiustizia profonda dell’esilio. Ritengo importante che un regista, che non proviene dal mondo socialista e non tratta tematiche politiche, percepisca questa grande ingiustizia della storia repubblicana.

Suo fratello dice che è troppo romanzato.

È un suo giudizio. Ma è un film, ovvio che sia romanzato.

Si riconosce in Anita, la figlia del Presidente come siete chiamati nella pellicola?

Anita è un omaggio a Garibaldi di cui Craxi era un estimatore, ed è anche il nome che ho dato a mia figlia. È una domanda che non mi sono posta. L’attrice è molto intensa. Ma a un certo punto mi sono detta che, forse, un piatto in più di pasta potevo lasciarglielo mangiare!

Si è trovata troppo inflessibile?

Vedendomi ho pensato: «Che rompicoglioni!». Ma poi ho dovuto ammettere che Anita a tratti mi assomiglia, su alcune cose avrei potuto mollare un po’ di più.

Come interpreta la frase «Io mio padre ho cercato di salvarlo, ma non ci sono riuscita», pronunciata dopo che Fausto, personaggio di fantasia, dice di aver ucciso il padre, tesoriere del partito, che «era un criminale ed è diventato un martire»?

Non la interpreto. È vero che ho cercato di salvarlo e non ci sono riuscita. Ho battuto tutte le strade perché fosse curato nel suo Paese o all’estero. Non ci sono riuscita. È esattamente ciò che è successo. Ho anche cercato di metterlo in guardia dai falsi amici. Invano.

Chi erano?

Tante persone a cui ha dato fiducia e ruoli e non lo meritavano. È una riflessione che ha fatto lui stesso e si trova nei suoi scritti.

Nel film Craxi è un uomo solo. In sogno, quando uno sketch tv gioca sull’assonanza milanese tra lader e leader, anche suo padre ride divertito.

Se questo film trasmetterà al pubblico il dramma e la grande solitudine dell’uomo centra il bersaglio. Ci sono straniazione e isolamento. Che cosa può portare in esilio un uomo che ha dato tutta la vita per il suo Paese?

Ha apprezzato l’interpretazione di Favino?

Non ha nulla da invidiare ai migliori attori americani. Ha fatto un grande lavoro sulla gestualità e sulla sofferenza. Mi auguro che vinca l’Oscar.

È un film più psicologico che politico?

Sicuramente non è un film politico, ma intimista. Da quanto ho letto il regista rivede nella storia gli stilemi della grande tragedia classica. Prevale in lui la tematica del capro espiatorio, mentre la lettura politica è assente e a tratti superficiale. Lo scontro di quegli anni tra la grande finanza internazionale e il primato della politica è molto complesso e ramificato. A differenza degli americani, gli autori italiani non sanno raccontarlo, leggono la tragedia ma non leggono la politica.

Anche se c’è un passaggio sulla riflessione di sua padre relativa alla differenza tra il termine rimosso, «popolo», e quello più in voga, «gente comune».

Assolutamente sì. Mio padre era molto attento. Per lui la politica doveva parlare a ciascun individuo, non genericamente alle masse. Doveva dare risposte ai suoi bisogni, alle sue necessità, premiare i meriti e i talenti. Il confronto era per idee e fatti, non per bandiere.

Amelio ha tenuto a specificare che non è un film contro Mani pulite.

Non serve Amelio per dire cos’è stata quella falsa rivoluzione. Con eroi finti e ideali finti. Basta guardare cos’è oggi il nostro Paese, quanto conta la politica, quanto conta nei consessi internazionali, qual è lo stato della nostra economica e del sistema produttivo. Ognuno, ormai, può farsi un’idea in proprio.

Nella scena in cui davanti all’aereo che deve riportarlo in Italia per farsi curare Craxi ha un ripensamento e rifiuta il rimpatrio c’è orgoglio, fierezza, solitudine?

Ovviamente quella scena è frutto di finzione. Non era a tema il suo ritorno da uomo «non libero». La scelta di non curarsi prima, e di non farsi operare in Italia, dà la cifra di un uomo per cui le proprie idee, la propria libertà erano la sua stessa vita. Un gesto ottocentesco.

È un’opera che non affronta la riflessione sul primato della politica, motivo per cui suo padre non ha voluto farsi processare nei tribunali, ma voleva dibattere del finanziamento ai partiti solo in Parlamento?

In Parlamento Craxi non fa una chiamata di correità come banalmente viene detto. Parla il linguaggio della verità e chiede una fine politica della prima Repubblica. A quella richiesta segue un vile silenzio. Tra ipocrisie e opportunismi capitola il primato della politica e inizia la deriva italiana.

Suo padre era un latitante, un esule o un contumace?

Era un esule. Nella storia dell’umanità e nel diritto internazionale l’esilio ha un posto preciso. Non a caso la Tunisia si sarebbe opposta alle richieste di estradizione. Craxi è stato dichiarato illecitamente latitante, perché se n’è andato dall’Italia esibendo il suo passaporto. Per il dizionario Devoto Oli, latitante è chi vuol far perdere le proprie tracce, nascondendosi. Craxi rispondeva personalmente al telefono, il cui numero era su tutti i giornali. Una commissione d’inchiesta parlamentare stava venendo giù per un’audizione…

Che giorni sono per lei questi?

Sono giorni di bilancio di vent’anni di ribellione verso quella che ritengo un’ingiustizia umana prima che politica. Non sapevo come riparare questa ingiustizia, ma sapevo che la mia vita sarebbe cambiata. Di questa battaglia vado orgogliosa, anche se non mi attribuisco molti meriti, questo lo rivendico. Controcorrente, spesso in solitudine e talvolta derisa ho difeso Craxi, la sua storia e la storia di una intera comunità. Di questo vorrei che i socialisti mi fossero grati. Il 19 gennaio vivremo il senso di una grande perdita, fortunatamente mitigato dai tanti amici e compagni che anche quest’anno verranno dall’Italia. Al cimitero di Hammamet ci saranno più di 800 persone.

Molti politici?

Ho invitato tutti i leader, ma al momento non ha risposto nessuno… Incombono le elezioni in Emilia Romagna… Verranno tante personalità di ieri e di oggi. Carlo Tognoli, Giorgio Gori, Annamaria Bernini, Maria Stella Gelmini ma soprattutto tante persone del mondo della cultura e dello spettacolo, come Andrée Ruth Shammah, Marcello Sorgi, Maria Giovanna Maglie, Eugenio Bennato, Costantino Della Gherardesca…

Le anticipazioni del libro L’ultimo Craxi. Diari di Hammamet di Andrea Spiri hanno svelato una lettera inedita nella quale Giuliano Amato gli suggeriva di «tornare in Italia a condizioni legittime e appropriate».

Era chiamato Dottor Sottile non a caso.

Suo padre disse che era «il peggiore di tutti» e si confessava pentito del potere dato a tanti che non lo meritavano.

Era un’amarezza che riguardava tutti quelli che dovevano difenderlo e non l’hanno fatto. Colleghi di partito e avversari che lo stimavano.

Ieri è uscito anche un libro di Craxi da Mondadori.

È una spy story intitolata Parigi-Hammamet, attraverso la quale racconta la contrapposizione di quegli anni tra la grande finanza internazionale e la politica.

Avete messo insieme alcuni suoi scritti?

È uno scritto inedito che abbiamo ritrovato nelle sue carte quando, la Fondazione che nel 2000 ho fondato, ha messo ordine nel suo «archivio».

Craxi giallista?

Il giallo è solo la forma narrativa. Lui lo presenta così: «Non è un saggio, non ha alcun valore storico politico. Prendetelo come un mio passatempo. Magari scoverete inciampi nella fantapolitica, stilemi abborracciati, intrecci indegni di John Le Carrè o Ian Fleming. Eppure, nelle trame del mio modesto tappeto narrativo, troverete nude e inconfutabili verità. E una miriade di profezie di futuri, inesorabili, disastri nazionali». Vent’anni dopo l’attualità gli dà ragione.

Vent’anni dopo la politica è ancora sotto schiaffo della magistratura, della finanza e degli apparati?

Se le sue parole non fossero rimaste inascoltate come quelle di una Cassandra, la situazione del Paese sarebbe molto diversa. L’attualità di quella visione è riscontrabile nelle sue riflessioni anche da Hammamet, quando dicevano che non era più lucido.

Come vorrebbe fosse ricordato suo padre?

Come un uomo che ha servito con lealtà e passione la sua patria. Che voleva grande tra i grandi e non certo l’Italietta ininfluente sul piano internazionale che vediamo oggi. Tra Craxi e Garibaldi ci sono molti tratti comuni, basti pensare che Garibaldi ha vissuto un anno a Tunisi e che le loro tombe sono entrambe divise dal mare dall’Italia. E basta pensare alle ultime parole di Garibaldi da Caprera: «Non era questa l’Italia che sognavo, miserabile al suo interno e derisa al suo esterno».

Come finirà la vicenda dell’intestazione di una via a Milano?

Se il sindaco di Milano vorrà dare un riconoscimento a un grande italiano e a un grande milanese, senza se e senza ma, farà una cosa giusta. Altrimenti, amen: a dire di Craxi sarà la storia.

In un momento in cui la politica italiana appare molto confusa e priva di personalità di statura, tanti ripensano agli uomini della Prima repubblica. Che cosa avrebbe da dare suo padre all’Italia di oggi?

Mi permetto di dire che Craxi era una personalità eccezionale anche tra le figure della Prima repubblica. Sia per statura politica che per la profondissima carica umana, nascosta da un tratto di ruvidezza caratteriale erroneamente scambiata per arroganza. Ma la cosa che lo rende di grande attualità è la sua capacità di capire il futuro e di cogliere modernità e innovazioni. L’eredita craxiana non è quel tesoro mai esistito, ma quel patrimonio di idee e riformismo ancora validi che può rappresentare una bussola per chi avesse la volontà di raccoglierla.

   

Panorama, 15 gennaio 2020 

 

«La richiesta di sovranità è richiesta di democrazia»

Un uomo di sinistra che difende la sovranità. E, per di più, lo fa da studioso. Carlo Galli insegna Storia delle dottrine politiche all’università di Bologna. Nella precedente legislatura è stato deputato del Pd fino al 2015, prima di passare a Sinistra ecologia e libertà e di confluire in Articolo 1 – Movimento democratico e progressista. Nel 2018 non si è ricandidato ed è tornato a insegnare. Ha pubblicato saggi su Carl Schmitt e, di recente, uno intitolato Marx eretico. Ma l’ultimo suo libro per il Mulino, l’editrice con la quale collabora assiduamente, s’intitola Sovranità, ed è un saggio piuttosto denso.

Professore, perché oggi la sovranità è un concetto messo in discussione malgrado sia presente nell’articolo 1 della Costituzione?

«L’interpretazione prevalente della nostra Costituzione, a opera di studiosi di scuola kelseniana, ha fatto coincidere la sovranità con l’ordinamento giuridico del Paese. A questa avversione di tipo scientifico si aggiunge oggi il fatto che l’Italia, partecipando alla moneta unica europea, ha rinunciato alla sovranità monetaria. Così, in una sorta di riflesso condizionato, chi parla di sovranità subisce gli attacchi degli amici dell’Europa. In realtà, da una parte l’Europa funziona attraverso le sovranità degli Stati, e dall’altra le logiche dell’euro costringono a continui tagli dei bilanci statali a investimenti, sanità, scuola e università; con le conseguenze materiali e sociali che vediamo, non solo in Italia. La richiesta di sovranità è in realtà la richiesta di democrazia, che lo Stato si occupi della società».

L’Europa è pronta a limitare e chiedere, ma lenta a condividere, partecipare, aiutare?

«L’Europa di oggi è espressione prevalente della volontà della coppia franco-tedesca. L’Italia è come sempre un vaso di coccio tra vasi di ferro: un paese di serie A, ma a rischio retrocessione. Si tratta ora di vedere se e come possiamo servirci anche noi della nostra sovranità».

Da qui l’accusa di sovranismo e nazionalismo: quando la difesa della sovranità sconfina nel nazionalismo?

«La sovranità consiste nell’affermazione dell’esistenza, su un territorio, di un gruppo umano che vuole essere “politico”. La sovranità è un concetto esistenziale. I suoi comportamenti concreti – pacifici o aggressivi – dipendono dalle circostanze».

Ci sono pericoli di nazionalismo oggi in Italia?

«Non credo. Di fronte al fatto che i principali Stati europei fanno larghissimo uso della propria sovranità, e che le banche di qualche Paese vengono salvate, quelle di qualche altro Paese vengono lasciate fallire, c’è chi insiste sulla necessità di garantire meglio i nostri interessi. Le mosse identitarie sono propaganda».

Il Meccanismo europeo di stabilità serve a questo?

«Il Mes esiste perché la Bce non è una vera banca centrale, prestatrice di ultima istanza; e ciò accade perché l’Europa non è un soggetto politico unitario. Il Mes serve ad aiutare le banche in difficoltà di Stati che non sono in difficoltà, come la Germania. Se l’impianto istituzionale della Ue è sconclusionato, per chiudere le falle si usano delle toppe. Il Mes è una di queste».

Altro pericolo: stabilendo la distinzione tra chi è interno e chi è esterno la sovranità pone le premesse della xenofobia?

«Il nesso interno/esterno è l’essenza della politica: le dà concretezza. L’esistenza politica è situata storicamente e geograficamente; i confini possono essere gestiti in modo crudele o civile, ma non possono non esistere. Quanto alle migrazioni, nel loro tratto finale sono coinvolti interessi criminali, mentre nel tratto iniziale c’è una struttura d’ingiustizia talmente colossale che non può essere risolta semplicemente allargando le maglie dell’accoglienza».

Perché il contrasto tra i sentimenti di compassione e solidarietà da una parte e le sovranità degli Stati dall’altra si risolve a vantaggio dei primi?

«La politica non si fa con la compassione, ma con la prudenza e la giustizia. Le società pronte a commuoversi per i migranti sono le prime a respingerli, quando diventano troppi. E, soprattutto, le persone hanno diritto di non migrare oppure devono rassegnarsi al destino di abitare in una terra invivibile e quindi a dover venire in Europa? Tranne la minoranza di profughi che fugge da persecuzioni e guerre, la maggioranza dei migranti fugge da un’ingiustizia strutturale, che non può essere sanata da improbabili gesti di misericordia degli Stati».

Perché i sentimenti di compassione e solidarietà sembrano vincere sulle ragioni della politica?

«Dipende dalla “narrazione”. L’attuale governo si sta comportando più o meno come quello precedente, pur con qualche concessione in più. Matteo Salvini imprimeva maggiore enfasi nel fermare gli sbarchi, offrendo il fianco ai suoi avversari interni ed europei, ma i patti con le milizie libiche li ha fatti dapprima Marco Minniti. Il trattato di Dublino continua a imporci di tenerci i migranti, e nessuna promessa di redistribuzione è stata mantenuta, nonostante il recente, sbandierato, patto di Malta».

La sovranità degenera in sovranismo e il popolo si abbandona al populismo: le preoccupazioni sono giustificate?

«Oggi una fetta rilevante di popolo italiano chiede che lo Stato si serva della propria sovranità per avere soluzioni a situazioni di disagio sociale ed economico. Questo non è sovranismo, ma richiesta di democrazia reale. Ed è chiaro che il popolo è populista, che cosa dovrebbe essere? Tanto più in assenza di partiti credibili, in grado di tradurre in azione politica i problemi della società».

Che ruolo ha l’improvviso esplodere del dibattito sull’emergenza climatica?

«Gravi problemi di inquinamento sono senza dubbio presenti, ed è interesse di tutti dare a essi una soluzione. Una parte del capitalismo mondiale pone molta enfasi su questa necessità, vedendo nell’economia verde un’occasione di ulteriore sviluppo».

E che ruolo ha, invece, la predicazione di papa Francesco che, necessariamente, ha una prospettiva mondiale?

«Chi ha scritto la Laudato si’ non può non essere sensibile al saccheggio del mondo. Il Papa manda moniti non solo ambientalisti, ma anche etici: non tratta solo di accoglienza, ma di un’ingiustizia strutturale che domina il mondo. Quanto la sua posizione, molto radicale, sia condivisa, resta da vedere».

La critica della sovranità muove da motivazioni morali ed economiche. All’incrocio tra questi due poteri si pone la sinistra moderna da Tony Blair in poi: con quale risultato?

«Che la sinistra è diventata il pilastro del sistema di governo; che ha accettato l’ineluttabilità del neoliberismo, sperando di addomesticarlo un po’. Ma se c’è da scegliere tra le ragioni del lavoratore e quelle dell’imprenditore quasi sempre le sinistre scelgono quelle dell’imprenditore. Il jobs act ne è un esempio. Le compatibilità del capitalismo pesano più dei diritti dei lavoratori: questo è una posizione di destra che viene fatta propria dalla sinistra».

Quindi la sinistra ha molte responsabilità della crescita dei movimenti populisti e dei loro consensi presso i ceti meno agiati?

«In una parola, la sinistra è diventata liberal. Ora, ai cittadini l’estensione dei diritti civili può interessare, ma interessa di più che scuola e sanità funzionino, che i loro figli trovino lavoro, che i diritti sul lavoro e pensionistici siano rispettati. Ma la sinistra, benché a parole mostri interesse per questi temi, è convinta che il paradigma economico vigente non può essere modificato. Questo paradigma è l’ordoliberalismo tedesco (sistema liberista mediato dalle regole dello Stato ndr) esteso a tutta l’eurozona: l’euro è il marco che ha cambiato nome, e che è stato un po’ indebolito per aiutare le esportazioni tedesche. Ed è un paradigma molto esigente, che richiede sacrifici sociali: i suoi obiettivi primari sono la stabilità e l’esportazione; l’economia non può essere trainata dalla domanda interna».

Come siamo finiti in questa situazione?

«Dopo che gli Stati Uniti sono usciti dalla parità aurea nel 1971 il modello keynesiano vigente, che si basava sulla domanda interna e aveva come nemico la disoccupazione, è andato in crisi in pochi anni, ed è stato sostituito dal modello neoliberista e ordoliberista che ha come nemico l’inflazione. Da qui la perenne austerità, la riduzione della circolazione del denaro e i tagli che gli Stati ogni anno devono operare nella legge di bilancio».

Che cosa rappresenta il movimento delle sardine nato nella Bologna dove lei insegna?

«Sono l’ultima speranza che la sinistra ha di non perdere le elezioni in Emilia Romagna».

Dove hanno ribaltato l’inerzia del match, come si dice con linguaggio sportivo.

«L’Emilia è contendibile, ma non a causa delle sardine, quanto piuttosto perché il modello emiliano, storicamente valido, a molti pare oggi consunto».

Questo movimento, che fa dell’antisalvinismo la propria bandiera, rappresenta l’establishment?

«Hanno dalla loro la stampa, i media, la maggioranza parlamentare, la Chiesa ufficiale e illustri personalità li supportano in chiave elettorale. Ma le sardine appartengono all’ambito della politica spettacolo, anche se pensano di esserne il contrario. Che cosa sanno dire dell’euro, di Taranto, della Libia, dei migranti?».

Come spiega che il M5s nato come partito anticasta si sia alleato al Pd e ora il suo fondatore dica che le sardine sono un movimento igienico sanitario?

«La politica italiana non consiste nelle parole di Beppe Grillo, ma in quello che sappiamo fare per reagire al declino in cui ci troviamo. Un gesto di sanità politica sarebbe non interessarsi a ciò che non è essenziale. La politica è una cosa seria, e non sta né nelle sardine né nei talk show. Il M5s è passato dal 34% al 17% perché con la sua incompetenza e inconsistenza ha deluso l’elettorato. E si è alleato col Pd per non scomparire alle prossime elezioni. Ecco perché i suoi esponenti sono così abbarbicati alle poltrone».

 

La Verità, 29 dicembre 2019

 

«Io ex mago dei sondaggi: oggi sono inutili»

Cambiare vita restando nello stesso posto. Resettare il server e ricominciare da capo, rimanendo nel cuore di Milano, a due passi dal Duomo. Non dev’essere stato facile. Un cambio professionale ed esistenziale. Una rivoluzione, anzi, una palingenesi; ma composta e ordinata. Gianni Pilo, «il sondaggista di fiducia». «L’uomo dei numeri». «Il consigliere fidato». «Lo stratega della discesa in campo». «Il mago della statistica» che con la sua Diakron azzeccò sia la vittoria di Silvio Berlusconi nel 1994, che quella successiva di Romano Prodi, nel 1996. Una creatura del primo berlusconismo. Deputato di Forza Italia per due legislature, fino al 2001. Poi più nulla, o quasi. Riflettori spenti. Telefono silente, giornalisti spariti. «Ho preso la mia agendina con 3000 numeri e l’ho buttata. Dovevo cercarmi un nuovo lavoro, in un nuovo ambiente». Oggi Pilo è un signore di 63 anni con bretelle americane e retroaccento sardo, che ha messo tra il presente e la prima vita alcuni gradi di separazione.

È stato difficile ricominciare senza cambiare città o Paese?

«Milano rispetta e aiuta chi lavora: è stato facile far capire che volevo essere dimenticato».

Smettere di occuparsi di politica rimanendo nella capitale del berlusconismo. 

«La passione era forte. Ci sono voluti alcuni anni per smettere di pensare a quel mondo. Tuttavia, rivisto con gli occhi di oggi non è stato così faticoso. Non c’è nulla di più fastidioso di un ex che si sente indispensabile, e io non mi sentivo indispensabile».

A distanza di tempo le sembra meno doloroso?

«Avrei fatto meglio a restare un tecnico che si occupava di politica. Oggi è una figura accettata, ci sono stati Steve Bannon e Gianroberto Casaleggio, tanto per fare dei nomi. Ma ero molto inesperto e quando si “candidiamoci tutti” accettai. Dal 1996 al 2001 siamo stati all’opposizione, un’esperienza dura per chi aveva sognato la rivoluzione liberale. Non ero fatto per la politica politicante».

C’è stato un momento che ha causato il distacco?

«Più che un episodio preciso è stato un lento allontanarsi. Forse la più grande delusione fu il mancato riconoscimento del mio contributo nel successo di Giorgio Guazzaloca a Bologna nel 1999. L’avevo incoraggiato io a candidarsi. Era una grande figura, un gigantesco politico locale che sconfisse per la prima volta la sinistra nella sua roccaforte. Fu un’esperienza esaltante. Mi amareggiò il fatto che non venne riconosciuto il mio ruolo».

Che bilancio ne trasse?

«Pensai che era giusto fermarsi. Cercare posti di sottogoverno come parziale risarcimento o magari cambiare casacca per continuare non fa parte della mia indole. Nel 2001 non ho chiesto di ricandidarmi e nessuno lo ha chiesto a me».

Il successo di Guazzaloca fu la caduta del muro di Bologna. Oggi che sono cadute molte altre città e regioni rosse che cosa pensa?

«Sono stato uno dei primi a vedere le crepe in quel sistema… Ma, senza autocompiacimenti, il punto oggi è capire dove questa crisi porterà. Non è scontato: i vincitori di oggi non devono farsi illusioni».

Lei fu il primo statistico prestato alla politica?

«Non credo che i politici della Prima repubblica non disponessero di dati statistici. Probabilmente i sondaggi restavano nei cassetti dei capi di partito. La mia attività ha avuto una notorietà inaspettata».

Con l’arrivo di Berlusconi e la nascita della Seconda repubblica però ci fu un cambiamento radicale.

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