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Quella volta che Gigi Riva disse no anche a me

Una decina d’anni fa, quando Gigi Riva era prossimo alla settantina, provai a intervistarlo per Rivista Undici di Giuseppe de Bellis. Lui mi ascoltò, ma declinò garbatamente, ribadendo la sua ritrosia in favore di quelle priorità che ne confermavano la statura. Da quel breve dialogo ricavai un ritratto per il sito di Rivista Studio che, forse, ha ancora qualche senso, oggi che ne piangiamo la morte.

Non leggeremo lunghe interviste a Gigi Riva in occasione del suo settantesimo compleanno, il prossimo 7 novembre. No: dovremo arrangiarci con quello che sappiamo e ricordiamo di lui, leggendario Rombo di Tuono. Raramente un soprannome è stato così aderente alla realtà e insieme così evocativo come quello coniato da Gianni Brera dopo Inter-Cagliari 1-3, 25 ottobre 1970, doppietta di Luigi Riva da Leggiuno, Varese. Quell’anno Gigi giocava con lo scudetto sulla maglia appena conquistato, l’unico mai vinto dal Cagliari. Nella squadra allenata da Manlio Scopigno, fumatore più accanito di lui e perciò tollerante, c’erano anche Albertosi, Cera, Domenghini, Gori: un concentrato di baldanza, applicazione, sacrificio e tecnica. Rombo di Tuono era un’immagine calzante, l’iperbole perfetta per descrivere la sua esuberanza fisica, la potenza del tiro da fermo e in corsa, la coordinazione nelle rovesciate, l’imperiosità dello stacco aereo, lo sconquasso che provocava irrompendo nelle aree affollate. Lo sapevano bene gli stopper (non «i centrali»)… Rosato, Castano, Burgnich. Giocavano con una scimmia sulle spalle. Dov’è Gigi? Da dove sbuca?

Riva è stato uno dei più grandi attaccanti di sempre del calcio italiano. Tuttora titolare del record di gol segnati in Nazionale, 35 in sole 42 partite, disputate nel corso di una carriera costellata di infortuni e interrotta dopo l’ennesimo, a soli 31 anni, durante Cagliari-Milan (1-3). Era il febbraio 1976. Il solito Brera gli dedicò una sorta di coccodrillo sportivo, un tributo innamorato. «Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta».

Sei anni prima, in quel famoso 1970, oltre allo scudetto e alla classifica dei capocannonieri, vinta anche nel ’68 e nel ’69, aveva conquistato il secondo posto al Mondiale messicano – sconfitta in finale dal Brasile dopo la storica vittoria sulla Germania – e il terzo posto nella classifica del Pallone d’oro dietro Gerd Müller e Bobby Moore. L’anno prima invece aveva sfiorato il successo, superato di soli quattro voti da Gianni Rivera, primo italiano a vincerlo.

Un grande attaccante, dunque. Sicuramente il migliore a difendere la propria vita privata. Non leggeremo mega interviste. Niente celebrazioni. Niente monumenti. «No, guardi. Hanno cominciato a telefonarmi già qualche settimana fa… I maggiori quotidiani. Anche dall’estero, giornali francesi inglesi. E le radio…». La voce ha sempre quel timbro metallico che, abbinato al volto scavato solido prominente, ti spiazza quel tanto da costringerti ad ascoltare. Il carisma di una persona è fatto di tante piccole cose. Un tono di voce, lo sguardo, il parlare dosato, una garbata ma decisa ritrosia. «Ho detto di no a tutti, per non far torto a nessuno. Avrei dovuto passare ore al telefono». Non si è ammorbidito nemmeno davanti ai miei accenni personali: quell’Italia-Germania, prima partita vista a notte fonda, questioni di fuso, al fianco di mio padre, suo grande ammiratore.

Il no ai grandi giornali e alle televisioni di oggi riporta alla mente il gran rifiuto degli anni d’oro, quando Inter Milan e soprattuto Juventus tentarono in tutti i modi di accaparrarselo. Puntuale il tormentone arrivava come una malattia estiva da calciomercato. All’epoca negarsi alla Juve era praticamente impossibile. Incomprensibile. Cocciuto, quel Riva. Cocciuto e strano. «Quando giocavamo in trasferta, a Milano, a Torino, ci chiamavano pecorai. Oppure banditi. Avevamo dalla nostra migliaia di sardi all’estero, in quell’Italia del nord». Erano pullman di tifosi che arrivavano dalla Germania o dall’Olanda, «nei loro occhi non leggevi la gioia dello sportivo, ma del sardo: era orgoglio». La Costa Smeralda non esisteva, l’Aga Khan non aveva ancora trasformato l’isola in una meta di moda. «E noi, che pure eravamo solo dei calciatori, le demmo un nome. Come potevo andarmene?». Così, come un «Bartleby, lo scrivano» del calcio, Gigi pronunciò il più definitivo dei suoi «preferirei di no». Era un uomo del nord che aveva scelto la Sardegna come terra d’elezione. Terra schiva, ombrosa e leale come lui.

Essere Gigi Riva non è il mestiere più facile del mondo. Non lo è da sempre. Quando il padre Ugo muore, 1953, Luigi ha nove anni. La mamma Edis lavora in una filanda e fa le pulizie per arrotondare. Ma le rinunce sono tante. A cominciare dalla spensieratezza. Gigi viene mandato in collegio dai preti, a Viggiù, a Varese, anche a Milano. Scappa più volte. Non sopportava «il peso, l’umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover dire sempre grazie signora grazie signore a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi». Direttori e presidi convocano la madre perché si riprenda quel ragazzo refrattario all’obbedienza, allergico allo studio, introverso, nostalgico dei boschi, degli amici e delle partite all’aria aperta.

Un altro no lo pronuncia a 16 anni, finalmente uscito dal collegio, quando i dirigenti del Laveno voglio acquistarlo dal Leggiuno. All’ultimo momento si sono fatti avanti i padroni del Varese, serie B, allenato da Ettore Puricelli, che oltre a un posto in fabbrica gli promettono un motorino. Ma è tardi, le donne di casa, la madre e Fausta, una delle tre sorelle, si oppongono e Gigi finisce al Laveno. Poi al Legnano, dal quale, nell’intervallo di Italia-Spagna juniores che si disputa all’Olimpico, il presidente Arricca lo acquista per 37 milioni, soffiandolo a Dall’Ara, patron del Bologna. È il 13 marzo 1963, il Cagliari milita in serie B e l’anno prima, ultima di una serie di disgrazie, se n’è andata anche la mamma, stroncata da un cancro. Il giorno del funerale, 5 luglio 1962, l’unica sorella sana rimasta è in ospedale a partorire. Così, men che diciottenne, tocca a Gigi accompagnare da solo il feretro al camposanto.

Nel decennio di grandi cambiamenti che inizia e che contagia anche il calcio, Riva è l’espressione di una forma di ribellione atipica, introversa. Non ha il tratto eccentrico e beat di Luigi Meroni, un comasco trapiantato a Torino, pittore e artista dandy, morto tragicamente in un incidente stradale. Né il carattere antisistema di Gianni Rivera, un piemontese integrato a Milano, leader della contestazione di regole e gerarchie sclerotizzate. La sua è una ribellione esistenziale, trattenuta, taciturna. Che affonda in quell’adolescenza di dolori e rinunce. E Cagliari è il posto giusto dove macerare quella ribellione orgogliosa che si sposa col temperamento schivo, ma solido e terragno di quei posti. Qualche anno dopo quello scudetto, Albertosi, Domenghini, Cera se ne vanno uno alla volta, chi al Milan, chi alla Roma, chi altrove. Se ne va anche Scopigno. Lui resta: «Mi piaceva la gente, mi piaceva la terra; potevi fare il primo bagno già ad aprile, andare a pesca, a funghi in campagna, non c’era lo stress della grande città né la noia e i pettegolezzi della provincia».

Nel 2001, in un’intervista al Giornale all’interno di una serie in cui alcune personalità svelavano il loro «film della vita», Riva raccontò del Dottor Zivago con Julie Christie. «Era un film in cui c’era tutto, vale a dire bravi attori, bei costumi, belle scene, una storia che ti prendeva. Un altro elemento era la natura. Come accompagnatore della Nazionale sono stato spessissimo nell’ex Unione Sovietica. Nei prossimi mesi andremo in Ucraina, in Lettonia, in Estonia… Lì gli spazi, le distanze, i paesaggi sono un qualcosa che ti lascia senza fiato. Aggiunga alla natura Julie Christie e il cerchio si chiude, è perfetto. Lei non era soltanto una brava attrice e una bella donna, era molto di più». La Nazionale l’ha abbandonata poco più di un anno fa con due parole: «Sono stanco». Le trasferte gli costavano, gli acciacchi lo limitavano, non voleva fare «il dirigente che zoppica». E poi c’era lo stress, la tensione di stare a bordo campo, il Lexotan per mantenere la calma. Anche ai tempi del Cagliari era così. Se era squalificato, la domenica pomeriggio, anziché andare in tribuna saliva in auto e andava a farsi un giro a Costa Rei. Poi s’informava sul risultato. Allo stadio continua a non andarci. Legge i quotidiani, il Corriere, la Gazzetta, l’Unione Sarda. Guarda la partita il giorno dopo. Frequenta qualche amico. Tutte le sere cena da Giacomo, «che ha un ristorante di pesce, ma a me fa il minestrone di verdure. Mangio da solo o, se capita, in compagnia». Prandelli aveva provato più volte a convincerlo a tornare nello staff della Nazionale. Ci fosse stato lui a parlare con Balotelli e Cassano magari qualcosa sarebbe andata diversamente. Di sicuro la gestione del disastro. In quell’intervista sul cinema raccontò che tra gli attori prediligeva Clint Eastwood: «Parla poco e non ti delude». Il suo ritratto. Il ritratto di gente più che mai indispensabile al calcio di oggi. Raccontò anche che non andava più al cinema da quando avevano vietato fumare nelle sale. Perciò, ora, ero curioso di sapere quante sigarette fuma. E quanto gli manca Gianni Brera. Ma lui ha preferito di no: «Festeggerò con i miei figli», ha detto gentile. »È la cosa che m’interessa di più».

 

Rivista Studio, 6 novembre 2014

«All’algoritmo sarebbe sfuggito il genio di Rivera»

L’uomo del mercato: Walter Sabatini. Tra i più geniali e fantasiosi. Sicuramente il più tormentato. Da calciatore, una carriera di sogni incompiuti: «Volevo essere Gianni Rivera», ma «l’urgenza di dimostrare il mio talento fu, prima tra tutte, la mia condanna perché mi indusse a giocare un calcio bizantino, fatto di orpelli solitari e inutili. Non ero in grado di concorrere al fine comune», scrive in Il mio calcio furioso e solitario, da poco uscito da Piemme. Da direttore sportivo ha fatto la fortuna delle società per le quali ha lavorato. Scopre e porta alla Lazio giocatori come Aleksandar Kolarov e Stephen Lichtsteiner. Al Palermo di Maurizio Zamparini lo seguono Josip Iličić e Javier Pastore. Alla Roma ecco Miralem Pjanić, Marquinhos, Radja Nainggolan, Mohamed Salah. Nel gennaio 2022, appena chiamato alla Salernitana, conclude dieci acquisti in una settimana, tra i quali Ederson e Simone Verdi, che portano alla miracolosa salvezza del club.
Lo abbiamo in mente avvolto nel fumo della sigaretta, fronte aggrottata, barba incolta, come compare anche sulla copertina del libro.

Quante sigarette fuma al giorno?

«Zero. Ho fumato tutte le sigarette del mondo e adesso non ce ne sono più per me».

Obbligo di salute?

«Un’imposizione del mio fisico. Per i miei polmoni a brandelli non c’è nessun’altra possibilità».

Fumava più o meno di Gigi Riva?

«Penso di più. Sessanta al giorno per 40 anni».

Anche da giocatore?

«Certo».

Cos’è il calcio, passione?

«Soprattutto, non solamente. Senza passione non si va da nessuna parte. Il talento da solo non basta».

Scoperta che si fa subito o, a volte, troppo tardi?

«Io l’ho imparato tardi. Mi illudevo di esprimere il talento pur con qualche distrazione. Invece, il mio talento non produceva effetti. Ero un grande calciatore che non capiva il calcio».

Che invece è una professione.

«Ovviamente».

Anche una religione?

«Pier Paolo Pasolini l’ha definita l’ultima rappresentazione sacra contemporanea».

Un tormento, un’ossessione?

«Per me, sì. Un’ossessione, un tormento, un batticuore quotidiano. L’ho vissuto pienamente sulla mia pelle».

A che prezzo?

«Salatissimo, il mio fisico è conciato davvero male. Sono stato un uomo eccessivo, che ha voluto far tutto di corsa. Finché il mio corpo mi ha chiesto di fermarmi. Ora è un corpo sofferente, ma non ho nessun rammarico».

Il libro è una lunga lettera a suo figlio Santiago, nome in onore di chi?

«Di nessuno. È un nome che mi piaceva, da frequentatore ideologico del Sudamerica. Anche il pescatore di Ernest Hemingway si chiama Santiago».

Scrive di non aver «mai ceduto al nichilismo», eccetto che nei confronti del suo corpo «trasformato in un campo di battaglia». A che tipo di nichilismo avrebbe potuto cedere?

«Al nichilismo rispetto alla vita: il non affrontare i grandi temi cercando delle compensazioni. Non ho mai evitato di prendere certi pugni in faccia. Non ho mai nascosto i problemi agli altri, l’ho fatto solo con me stesso».

Il corpo campo di battaglia invece cos’è?

«L’ho usato così. Non ero un direttore sportivo, ma un acrobata del calcio. Ho fatto cose inimmaginabili, disdicevoli per il mio fisico».

Me ne dica una.

«Cinque giorni dopo essere uscito dalla clinica per un tumore ai polmoni sono andato in Sudamerica. Poi, una volta lì, ho intrapreso un altro viaggio in auto nell’interno dell’Argentina. Queste cose si fanno a danno della propria salute. Sono tornato in Italia con un pneuma toracico».

Non c’era nessuno vicino a fermarla?

«Ovviamente sì, ma ho sempre sfondato la soglia del rischio. Mia moglie e altri mi trattenevano per la giacca. Ma ci sono andato perché credevo non tanto di poterlo fare, quanto di doverlo fare».

Cosa vuol dire concretamente che ha un cervello di sinistra e un corpo di destra?

«Il mio cervello è liberale, aperto, inclusivo, dialogante. Il mio corpo no perché in certe circostanze ha reazioni violente. Il mio corpo è diretto, colpisce e si fa colpire».

Quante volte si è dimesso da direttore sportivo?

«Tante, non ricordo quante. Sono in doppia cifra, come i grandi attaccanti».

C’è un motivo di fondo o ricorrente?

«Il mio corpo di destra perde il controllo, quindi si dimette e se ne va. Con la testa saprei gestire meglio le situazioni, ma il mio corpo non la ascolta».

La sua idea romantica di calcio la fa litigare?

«Non ho un’idea romantica del calcio, è un luogo comune. Ho un’idea sublime del calcio. Se Eschilo e Sofocle, o lo stesso Shakespeare, avessero conosciuto il calcio, avrebbero rappresentato le loro tragedie mettendo negli anfiteatri calciatori e allenatori, e il pubblico a rappresentare il coro».

È intransigente, intollerante?

«L’ho ammesso più di una volta».

C’è qualcuno con cui va o è andato d’accordo?

«Con alcuni presidenti e dirigenti meravigliosi come Adriano Galliani. Ho avuto un ottimo rapporto, seppur litigioso, con Claudio Lotito e Maurizio Zamparini».

Con Galliani però non ha mai lavorato.

«Ma lo giudico il miglior dirigente calcistico italiano del dopoguerra».

Che cos’è la Walter Sabatini consulting team?

«Un’agenzia di consulenza. Un tentativo di sviluppo oggi necessario della figura del direttore sportivo classico che sta tramontando. Cerco di rinnovarmi perché i tempi lo richiedono».

Che caratteristiche devono avere gli osservatori del suo team?

«Grande sensibilità, forza di volontà e soprattutto grande perseveranza».

Gli osservatori possono essere sostituiti dagli algoritmi?

«Supportati, non sostituiti».

Come possono gli algoritmi controllare l’infinità di variabili che si producono in un campo dove si fronteggiano due squadre composte da 11 giocatori?

«Il calcio sfugge alla statistica fredda, ma gli algoritmi possono ridurre il margine di errore. Il calcio non è il baseball e le variabili sono troppe per essere calcolate da un algoritmo».

Parliamo del mercato di quest’anno: l’affare migliore, finora?

«Non è ancora stato fatto. Per lo meno io non l’ho visto».

Quale potrebbe essere?

«Non ne parlo».

E il peggiore?

«Non ho visto nemmeno questo. Ho visto uscire dei giocatori dal nostro campionato, un fatto doloroso ma anche necessario».

Parlando dei tempi in cui giocava scrive che «i soldi, al pari della fama immediata, ottundono le menti e innescano comportamenti spesso incomprensibili». Oggi è ancora più vero?

«È vero oggi come lo era ieri. È sempre stato vero per tutti in qualsiasi momento».

Cosa pensa del fatto che l’Al Alhi, una società araba, è disposta a sborsare per Paul Pogba 150 milioni di ingaggio per tre stagioni?

«Gli arabi sono intervenuti nel mercato di un campionato nel quale non competono con una forza potentissima per prendere i calciatori, ma non riusciranno a prendere la cultura. Per acquisire anche quella devono avere pazienza. Per adesso acquistano i calciatori. Non basterà».

Milinkovic Savic fa bene a trasferirsi all’Al Hilhal a 28 anni?

«Non vorrei parlare di casi specifici. Avrà ragionato con la sua famiglia e penserà che gli convenga».

Ho letto che disprezza la vendita di Sandro Tonali al Newcastle.

«Molto. Il Milan, una società con una tradizione solidissima, non doveva rinunciare a un campione giovane che ha vinto lo scudetto ed era leader in campo. Io non l’avrei mai fatto anche se si trattava di un’operazione remunerativa e hanno preso tanti soldi».

Qual è stato il suo miglior affare come uomo mercato?

«Marquinhos alla Roma».

Poi capitano al Psg, altri nomi?

«Li sanno tutti».

Chi è il miglior allenatore che ha visto?

«Luciano Spalletti».

Perché si è ritirato dopo aver vinto lo scudetto?

«Fa parte del suo carattere tormentato».

Molti allenatori si fermano dopo la conquista di uno scudetto o cambiano aria perché è difficile ripetersi?

«Lo stress è notevole. Quelli che lo soffrono di più hanno necessità di ritemprarsi».

Anche Fabio Grosso che ha conquistato la promozione in Serie A col Frosinone?

«Grosso è un ragazzo speciale, di un’intelligenza rara. Se lo ha fatto deve aver avuto motivi seri».

Consigli un calciatore a una squadra nel mercato attuale.

«Non ci penso neanche, sarebbe deontologicamente scorretto».

Quante partite vede in una settimana?

«In piena stagione anche tre al giorno».

Ci sono stati degli sliding doors che avrebbero potuto orientare diversamente la sua carriera di calciatore?

«Il primo fu quando sbagliai il gol del pareggio nel derby contro la Lazio. Il secondo in una partita contro l’Inter quando Nils Liedholm mi fece sostituire Bruno Conti incaricandomi di tenere d’occhio il terzino avversario, cosa che io non feci. Allora mi tirò fuori e preferì terminare la partita in 10 perché non c’erano più sostituzioni. Fu un’umiliazione tremenda, ma molto educativa. Liedholm era un grande educatore e quella volta aveva ragione».

Voleva essere Gianni Rivera per una questione di estetica?

«Per una questione tecnica. Frequentava le linee oscure di passaggio, un’attitudine che l’algoritmo non potrà mai comprendere. L’algoritmo può contare il numero di passaggi e le percentuali, non cogliere la genialità».

L’ammirazione per Rivera è stata poi superata dalla passione per la Roma?

«Ero prima di tutto un tifoso di Rivera, poi del Milan. Infine, è arrivato l’amore per la Roma».

Anche per la vita di Roma?

«Da direttore sportivo, non da calciatore».

L’incontro più importante fatto nel mondo del calcio?

«Sicuramente quello con Zamparini, uomo eccezionale e carismatico».

Ha commesso errori come direttore sportivo?

«Tipo questa intervista?».

Tutto qui?

«Ho sbagliato molte cose, anche nella vita. Ma non le rinnego. La mia vita me la tengo tutta».

Suo figlio ama il calcio?

«Certo. Fin dai primissimi anni quando veniva allo stadio della Roma. Vuole fare il direttore sportivo».

Guarda le partite con lui?

«Le partite le guardo sempre da solo. Con lui qualche spezzone e basta».

Che idea ha dei giornalisti sportivi?

«Sono esseri umani. Alcuni mi piacciono molto, hanno capacità incredibile di scrivere e di rendere la partita un grande racconto».

Chi per esempio?

«Mi piaceva molto Gianni Mura, il migliore in assoluto».

Tra i telecronisti?

«Mi diverto ancora oggi con Sandro Piccinini. E prima mi piaceva Bruno Pizzul, raffinatissimo raccontatore di partite. Un modello difficile da replicare perché aveva un vocabolario molto personale».

 

La Verità, 15 luglio 2023

Gigi Riva… che mostrò che non si può comprare tutto

Fuma sempre molto, Gigi Riva, e dorme sempre poco. Così racconta Riccardo Milani in Nel nostro cielo un rombo di tuono, un lungo, forse troppo, docufilm, da ieri visibile su Sky Cinema 2, Sky Sport Summer e Sky Documentaries prodotto da Wildside e Vision Distribution. Il regista lo riprende avvolto nelle volute delle sigarette che si accende a ripetizione, seduto nella poltrona davanti al camino della sua casa di Cagliari. È il posto dei ricordi e dei racconti, snodati dalla voce un po’ metallica che esce dal volto squadrato, pensoso. Una storia lunga da mettere insieme, dall’infanzia a Leggiuno, presto orfano di padre, il collegio dai preti, la perdita della madre, l’amore per il calcio, il temperamento schivo come quello dei sardi che subito lo adottano quando, nel 1963, approda al Cagliari in Serie B. Sette anni dopo, insieme a Ricky Albertosi, Angelo Domenghini, Pierluigi Cera, Comunardo Niccolai e Bobo Gori, guidato dall’allenatore filosofo Manlio Scopigno mentre lui fa gol «a grappoli», il Cagliari conquisterà il primo e unico scudetto della sua storia. Fu la realizzazione di un sogno, la scoperta di una terra fino allora nell’ombra, il riscatto di un popolo di «pecorai» e «banditi», come «ci chiamavano quando giocavamo in trasferta, a Milano o Torino». Sempre in quel 1970, ai Mondiali del Messico, dopo la memorabile semifinale con la Germania, arrivò il titolo di vicecampione del mondo con la maglia azzurra. Si ritirò dopo l’ennesimo infortunio e Gianni Brera gli dedicò una sorta di epitaffio sportivo: «Il giocatore chiamato Rombo di tuono è stato rapito in cielo, come tocca agli eroi. Ne può discendere solo per prodigio: purtroppo la giovinezza, che ai prodigi dispone e prepara, ahi, giovinezza è spenta».

Quella di Milani è una sorta di elegia un po’ nostalgica a più voci, con gli amici dell’epoca, gli anziani che assistettero all’avventura, i compagni di squadra che la condivisero, Roberto Baggio, campione altrettanto antidivo, Nicolò Barella che ha frequentato la scuola calcio a lui intitolata, Gigi Buffon e Gianfranco Zola, talento di calcio e umiltà sarda. E poi Massimo Moratti e Sandro Mazzola a contrappuntare i momenti del gran rifiuto di Riva alla Juventus, quasi un Bartleby del calcio. Tra tutti, si nota l’assenza di Gianni Rivera, che con lui in Nazionale si trovava a occhi chiusi.

Ciò che fa pensare è l’insegnamento tratto dal regista, più che mai attuale nel calcio mercenario di oggi: «Grazie a Gigi Riva ho capito che per noi che cercavamo e cerchiamo ancora adesso un mondo più giusto sarebbe bastato e basta ancora… avere il coraggio, pagandone il prezzo, di saper dire di no a chi pensa di poter sempre comprare tutto».

 

La Verità, 28 giugno 2023

«Via i procuratori, non servono al calcio»

Lo dichiaro subito a beneficio dei lettori: sono al telefono con il mio idolo d’infanzia, Gianni Rivera. Perciò, mi concederete un breve ricordo personale. Forse per alleviare il trauma dell’iscrizione alla prima elementare, mio padre, che era maestro, mi consentì d’iniziare a raccogliere le figurine Panini. E lì c’era lui, con i capelli a spazzola. Diventai allora tifoso del Milan, fresco vincitore della Coppa dei campioni, la prima di una squadra italiana. Su Rivera, che nel 1969 sarà il nostro primo Pallone d’oro, non serve aggiungere altro. Se non la sorpresa causata dalle notizie recenti che lo riguardano.

Gianni Rivera no vax non ce l’aspettavamo.

«Ho sentito molti virologi, di quelli mai invitati in tv, dirsi contrari a questi vaccini perché non sufficientemente testati. I virologi ufficiali dicono che vanno bene, ma a me risulta che non siano stati adeguatamente verificati prima di essere diffusi».

Non ha paura?

«Non particolarmente. Conduco una vita tranquilla sia in casa che fuori, come fossi agli arresti domiciliari».

Come si definirebbe: coraggioso, temerario o critico verso l’informazione omologata?

«Sono una persona normale che si è fatta le proprie idee. Dopo le mie dichiarazioni a Porta a porta ho ricevuto molti messaggi di persone che la pensano come me. Tra queste ci sono anche esperti che hanno posizioni diverse rispetto all’ufficialità. Il fatto che non siano state fatte verifiche sufficienti su queste sostanze è risaputo. Non si può dire, ma questo è un altro discorso».

Non teme di essere imprudente?

«No. Se mi dicono che questi sieri non sono sperimentati preferisco aspettare che lo siano. Anche Mario Draghi il 28 maggio ha detto che le varianti possono rendere inutili gli effetti dei vaccini. Poi forse si è pentito e non l’ha più ripetuto. Qualcuno gli avrà consigliato di non farlo perché potrebbe saltare per aria tutto. Ma se saltano le cose sbagliate, meglio».

Non è imprudente non vaccinarsi considerando che la mortalità è più elevata tra le persone anziane?

«Cosa c’entra? Molti morti stavano già male prima e sono deceduti per altre patologie. L’anno prima del Covid ci sono stati più morti a causa dell’influenza… E poi esistono cure domiciliari che funzionano. Perché non farle e riempire gli ospedali?».

Le notizie di questi giorni dicono che gli ultimi ricoverati in terapia intensiva sono persone non vaccinate.

«Noi conosciamo persone intubate a Milano dopo la seconda iniezione. Lo sappiamo per voce diretta, ma di questi casi nessuno parla o scrive».

Chi sono i virologi che vorrebbe vedere in televisione?

«Luc Montagnier che ha preso un Nobel per la medicina, magari gliel’hanno dato per sbaglio. O Stefano Montanari. Ma non li invitano, forse perché dissentono dalla versione ufficiale».

Non crede che le vaccinazioni massicce ci stiano facendo uscire dall’emergenza?

«Lo spero. Io preferisco non correre il rischio finché non c’è una sperimentazione più ampia. Se poi funzionano, meglio».

Per lei chi si vaccina è una cavia?

«Questo è il sospetto».

Da cittadino e potenziale paziente ha la stessa allergia nei confronti dei virologi che aveva da calciatore verso gli arbitri?

«Mai avuto allergie nei confronti di nessuno. Mi infastidivo quando vedevo che gli arbitri avevano un comportamento non indipendente. Come capitano del Milan difendevo i miei compagni e la mia società quando mi accorgevo che inclinavano dall’altra parte».

Quale altra parte?

«Quella dell’avversario. Allora mi esponevo, se no che capitano sarei stato. Funziona così anche con il vaccino: dico la mia se qualcosa non mi convince».

Anche allora antisistema?

«No, il sistema funzionava. Erano gli antisistema che agivano nel sistema a inquinarlo. L’antisistema nel calcio dà fastidio e si spera che qualcuno intervenga».

Nella magistratura «il sistema» è un meccanismo perverso.

«Si sperava che non ci fossero disonesti tra chi deve giudicare gli altri, invece abbiamo capito che ci sono magistrati che dicono di fare un mestiere e ne fanno un altro».

Sta seguendo gli Europei di calcio?

«Certo. L’Italia sta andando molto bene, come avveniva anche prima degli Europei. Roberto Mancini ha molti meriti. Penso che potremo cavarcela bene anche contro squadre più forti di quelle che abbiamo incontrato finora».

Quante chance dà all’Italia per la vittoria finale?

«Non ho mai fatto pronostici prima delle partite. Andavo in campo per vincere, ma sapendo che avrei potuto perdere. Mi è capitato di perdere con squadre molto più deboli. La schedina l’ho giocata solo qualche volta con degli amici, ma poi ho smesso perché mi accorgevo che buttavo via i soldi».

C’è troppa euforia attorno alla Nazionale?

«Quando si vince i tifosi fanno festa perché il calcio trasmette entusiasmo. Il tifo è una malattia che ci si porta dietro. È giusto che i tifosi si sfoghino nella gioia, speriamo che la gioia prevalga sempre».

Parlando di tifo, cosa pensa delle critiche al fatto che lo stadio di Budapest per Ungheria-Portogallo fosse gremito di pubblico?

«Non le ho molto capite. Come entrano 20.000 persone controllate ne possono entrare anche 80.000, sempre controllate. Se si riesce a fare il tampone a tutti perché non farli entrare? Non credo che dobbiamo stare distanziati se non abbiamo niente. In casa, con mia moglie e i miei figli mica viviamo con la mascherina. Anche con gli amici: se uno sta male va dal medico, ma se sta bene può venire a cena da noi».

Certe precauzioni sono esagerate?

«A volte ho questa impressione. Io sono un semplice cittadino e capisco che chi ha responsabilità si preoccupi di più. Però leggo che tra poco non ci sarà più l’obbligo della mascherina all’aperto».

Che cosa l’ha colpita di più del caso Eriksen?

«Bisogna indagare su perché gli è successo. Qualcuno ha detto che potrebbe essere stato a causa del vaccino».

L’amministratore delegato dell’Inter Beppe Marotta ha smentito, la motivazione sembra di natura cardiaca.

«Indaghino e dicano qual è stata. Bisogna anche chiedere ai medici che gli hanno concesso di giocare finora quali erano le loro conoscenze».

Se dovesse fare una modifica per migliorare il mondo del calcio da cosa comincerebbe?

«Regolamenterei il ruolo dei procuratori. Fino a qualche tempo fa chiunque poteva inventarsi procuratore di giocatori e allenatori. Adesso sostengono un esame ridicolo per iscriversi a un albo. Mi meraviglio che Uefa e Fifa non intervengano su questa situazione».

Due anni fa ha frequentato il corso allenatori a Coverciano, qualche società l’ha contattata?

«Nessuna perché non ho procuratori. Credo di poter aiutare una squadra di calcio sebbene se non sia più giovane. Anche Dino Zoff ha pagato questa situazione. È stato presidente della Lazio, poi allenatore. Ma quando si è interrotto il rapporto non ha più trovato spazio perché si è rifiutato di farsi gestire da un procuratore».

Quand’era calciatore ce l’aveva?

«No. Avevo rapporti diretti con il presidente della società per la quale giocavo e rinnovavo il contratto discutendolo direttamente con lui. Oggi i procuratori cominciano a gestire i bambini da quando hanno 5 o 6 anni. So di genitori nauseati perché vanno avanti i bambini gestiti dal procuratore e non i migliori. Ho suggerito di denunciare questa situazione, ma mi rispondono che i loro figli ne avrebbero più danni che vantaggi. Così tutto rimane com’è. Anche le società non si ribellano».

Il caso di Gianluigi Donnarumma ha mostrato che certi calciatori sono più dei procuratori che delle società?

«Evidentemente Donnarumma si trova bene così e avendo un contratto con Raiola è costretto ad ascoltarlo. Ai miei tempi c’era l’Aic, l’associazione calciatori, che si occupava di aiutarli. Adesso mi chiedo a cosa serva. Abbiamo fatto tante battaglie per liberare i calciatori dalla schiavitù delle società e ora sono ostaggi dei procuratori. Il caso di Donnarumma mi ha molto meravigliato».

Ha visto che Franck De Bruyne, il capitano belga del Manchester City, ha rinnovato il contratto senza ricorrere a procuratori ma basandosi solo sull’analisi dei dati del suo gioco?

«È la conferma che i procuratori non sono indispensabili. Ai miei tempi facevamo già senza di loro. Non capisco perché ci debba essere un terzo incomodo che è, per altro, una spesa inutile per le società».

Tra le cose da cambiare ci sono anche gli stipendi dei calciatori?

«In questo particolare momento è una situazione molto pesante per le società. Mi meraviglio che accettino le condizioni imposte dai procuratori».

Calciatori troppo pagati?

«Non lo so. Se uno chiede 10 e glieli danno, li prende».

Cosa pensa del Var?

«Mi sembra un’ottima innovazione. Se uno strumento tecnico aiuta l’arbitro a eliminare gli errori, tutti ne traggono vantaggio. Chissà se fosse stato attivo ai miei tempi quante volte mi avrebbe dato ragione».

Che idea si è fatto della Superlega?

«Mi sono meravigliato che società così importanti si siano imbarcate in quella iniziativa senza preoccuparsi delle conseguenze che avrebbe avuto su tutto il sistema. Credo che i numeri uno debbano sempre misurarsi con i numeri cinque sei o sette. Tutti devono avere l’opportunità di migliorarsi. Magari succede che poi vince la squadra sfavorita. A me è capitato di perdere uno scudetto all’ultima giornata, sconfitto in casa dal Bari che si era appena salvato».

In Nazionale fanno faville Berardi e Locatelli del Sassuolo che la Superlega non la giocherebbero.

«Le loro prestazioni sono frutto di un percorso lungimirante. Com’è stato quello dell’Atalanta, altra squadra che non sarebbe iscritta alla Superlega. Un’idea che per fortuna è morta prima di nascere».

È vero che da bambino era juventino?

«Ad Alessandria arrivavano le notizie da Torino perciò simpatizzavo per la Juventus che vinceva. Poi ho iniziato a giocarle contro con l’Alessandria e il Milan e tutto è cambiato».

Un ricordo di Giampiero Boniperti?

«È stato un ottimo giocatore e un altrettanto ottimo presidente. Una persona seria che ha lasciato un ottimo ricordo di sé a tutti».

Tolto Gianni Rivera, chi è il più grande giocatore italiano di sempre?

«No, guardi, è difficile fare queste classifiche. Non c’è nessuno, neanche Rivera. Gli unici grandi, superiori a tutti sono Pelè per una ragione e Maradona per un’altra. Se il calcio non fosse esistito, Pelè l’avrebbe insegnato lui a tutti, destro, sinistro, colpo di testa, tutto. Dopo di lui tutti gli altri sono secondi, terzi e quarti».

 

La Verità, 19 giugno 2021

Bello il calcio nostalgia, senza attori e sapientoni

Scherzi della nostalgia, certo. E dell’astinenza da calcio. Rivedere Italia Germania Ovest 1970, oppure Italia Argentina 1978, oppure ancora Italia Germania Ovest ma 1982, quella del Mundial, fa uno strano effetto. Fa scattare l’automatico era meglio quando si stava peggio. Oddio, peggio. Sicuramente meglio di questi giorni da reclusi. Provocazione: era meglio quel calcio lì. Asciutto, essenziale, schietto. Privo di tutte quelle insopportabili malizie che stanno intossicando lo sport più bello del mondo, oggi. Parlare di assenza di malizie quando i campi erano calcati da gente come Claudio Gentile o Marco Tardelli, come Daniel Passarella o Mario Kempes, come Gerd Müller o Paul Breitner, è tutto dire. Non che non succedessero cose strane, come per esempio nella finale del 1978 tra Argentina e Paesi Bassi (si chiamavano così, per la cronaca, 3 – 1 per la formazione di Cesar Luis Menotti) mal arbitrata dall’italiano Sergio Gonella, davanti al generale della giunta militare Jorge Videla. C’era gioco duro, c’erano i falli e si espelleva e ammoniva molto meno di ora. Ma c’erano anche meno sceneggiate, astuzie e proteste. L’arbitro fischiava, il giocatore si rialzava, si batteva la punizione. Meno ambiguità e protagonismi anche nelle telecronache a una sola voce che si limitavano al racconto, senza compiaciute lezioni di tattica. Un calcio più elementare e più selvaggio. Che Mediaset Extra ci sta permettendo di riassaporare nella maratona di Emozioni mondiali, tre giorni da giovedì a oggi, con il meglio dei match della Nazionale nella Coppa del Mondo dal 1970 al 2006. Quest’ultimo, altro torneo vittorioso ai rigori contro la Francia, dopo che in semifinale avevamo nuovamente battuto ed eliminato i tedeschi padroni di casa. Insomma, un concentrato di orgoglio azzurro in giorni di «stadi chiusi». Scherzi dell’astinenza oltre che della nostalgia. Alimentata dalle immagini in 4/3 dell’epoca. Dall’urlo di Tardelli dopo il gol del due a zero. O dalla voce di Nando Martellini e dallo storico triplice «campioni del mondo!» al Bernabeu di Madrid (11 luglio 1982). Oppure dal gol del 4-3 di Gianni Rivera alla fine dei tempi supplementari della «partita del secolo» (Città del Messico, 18 giugno 1970). Momenti nei quali tutti ricordiamo dov’eravamo e che, complice la clausura, si possono rievocare con chi allora non c’era. E chissà, considerata la probabilità che la quarantena si trasformi in ottantena, perché non riproporre anche altri storici match, senza l’assillo dell’audience? Tipo quelli della vertiginosa, rivoluzionaria e prediletta Olanda di Johan Cruijff e Ruud Krol, la nazionale più bella e sfortunata di sempre.

 

La Verità, 11 aprile 2020