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Grillo torna comico, punge Conte e attacca Bongiorno

Dopo Patrick Zaki, Vincenzo De Luca ed Elly Schlein, ecco Beppe Grillo presentarsi davanti all’acquario di Che tempo che fa. Più ancora che il Parlamento, dove agiscono deputati e senatori dem e pentastellati, e le piazze, dove si sventolano bandiere e si urlano slogan per battere le destre, è la televisione il territorio più visibile dell’opposizione al governo Meloni. Grillo arriva per consolidare l’altalenante intesa intravista in piazza del Popolo a Roma, con Giuseppe Conte presente alla manifestazione Pd, circondato dai suoi colonnelli e dai pontieri di Schlein? È la domanda che sta sottotraccia all’ospitata del comico genovese nel programma del conduttore savonese. Una connessione anche geografica, non senza spinose interruzioni nascoste nel passato. Ma risposte non ne sono arrivate. Grillo entra e porge a Fabio Fazio una campanella: «Se esagero, mi fermi». Il conduttore lo aveva presentato con gli epiteti e gli insulti che lo precedono nei suoi show a teatro: Grillo è il peggiore. «Sono qui per capire chi sono. Sono davvero il peggiore? Voglio capire in base a quello che voi vedete in me», dice rivolto al pubblico in studio. Intanto ingrana la retromarcia dalla politica: «Non posso condurre e portare a buon fine un movimento politico. L’ultima intervista che ho fatto in tv abbiamo perso le elezioni e quelli che ho mandato affanculo adesso sono al governo». È l’ammissione di un fallimento. Il comico, l’uomo di spettacolo subentra al leader del M5s. Anche se sottolinea alcune cose buone fatte o suggerite sulla transizione ecologica. Salta da un argomento all’altro, «la televisione finta», «le statistiche finte», i giornali online «che sono peggio di quelli cartacei, c’è la foto di un bambino morto e poi subito a fianco Jennifer Lopez in mutande». Fazio tenta di arginarlo. L’idea di promuovere il campo largo non passa. Poi «ci sono alcuni personaggi inopportuni, come l’avvocato Giulia Bongiorno, che è presidente della commissione giustizia e fa dei comizietti davanti ai tribunali». Per inciso, è anche l’avvocato difensore della vittima di stupro nel processo che vede imputato suo figlio Ciro. Fortunatamente il conduttore lo ferma.

Schlein, De Luca, Grillo: sul Nove il campo largo è una telerealtà certificata dal ritorno in televisione a quasi dieci anni dall’ultima volta, ospite di Bruno Vespa, del comico fondatore e ora garante del M5s. Era il 19 maggio 2014, praticamente un’altra era politica, quando Beppe Grillo si era accomodato sulla poltroncina bianca di Porta a Porta e aveva sparato la sua raffica contro l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, definito «l’ebetino». E ancora più lontani sono i tempi in cui, febbraio 2013, annunciando che sarebbe andato a cantare al Festival di Sanremo quell’anno condotto da Fazio, il comico genovese definiva Che tempo che fa il «programma stuoino del Pdmenoelle». Ora il Pdl non c’è più, è rimasto solo «il Pdmenoelle», nel frattempo diventato alleato dei Cinque stelle prima nel governo giallorosso e, potenzialmente, ora all’opposizione. Perché, soprattutto, adesso c’è la destra al governo e, dunque, ecco la rimpatriata dei liguri Fazio e Grillo, tra Francesco Guccini e Bella ciao, l’immancabile Roberto Burioni e l’ideologo della compagnia, Michele Serra. Il quale, in apertura di serata, con un’acrobazia consentita ai saltimbanchi dell’ideologia, citando San Francesco e «sorella morte», ha appoggiato il primato della volontà di morte dei medici inglesi sul desiderio di vita dei genitori di Indi Gregory.

Poi ci avevano pensato le grandi firme del giornalone unico a preparare il terreno alla questione all’ordine del giorno. Il campo largo si avvicina o no? «La piazza c’è, l’alternativa non ancora» (Massimo Giannini), «Le persone ci sono, adesso bisogna vedere i leader cosa costruiscono, anche perché a questo governo fa bene l’opposizione» (Fiorenza Sarzanini).

Ma Grillo ha scombinato i piani e deluso le attese. La sua autocritica sembra sincera e diventa un torrente inarrestabile, fra transizione ecologica e attacchi sparsi. Fa un sondaggio col pubblico: ditemi cosa devo fare, il comico o il politico? Ma queste idee le dai a Conte?, prova a riportarlo sul binario della politica Fazio. «Luigi Di Maio era il politico più preparato che avevamo. Siamo stati noi a scegliere Conte. Non si può fare l’opposizione totale, sempre: anche un orologio fermo due volte al giorno segna l’ora giusta. Questo governo è una decalcomania, più gli sputi sopra più si appiccica. Adesso lasciamo che facciano da soli. Conte l’abbiamo scelto perché non potevo andare avanti sempre con il vaffanculo. È un bell’uomo, laureato, curriculum prestigioso, sapeva l’inglese, quando parlava si capiva poco perciò era perfetto per la politica, poi è migliorato. Adesso ci mette un po’ più di cuore, siamo stati un movimento evangelico, siamo nati il 4 ottobre, San Francesco. Questo governo fa quello che può. Non è tutta colpa di questo governo… Avete visto i giovani? Sono depressi, demotivati, non credono più a niente, neanche in Dio. La scomparsa di Dio è un fatto grave, io non sono credente, ma senza Dio è un problema, non ci sarebbe niente, non ci sarebbe più l’arte, c’è un algoritmo. Il cristianesimo ha fatto la nostra storia, la nostra cultura. Siete sorpresi? Lo capisco…».

 

La Verità, 13 novembre 2023

De Girolamo-Boccia, una coppia un format tv

Di martedì, fra iene e belve può succedere che il popolo, anziché avanzare, finisca sbranato. E allora, ecco la trovata: perché non allestire una bella sit-com in famiglia? Un politic family nel vero senso? A volte i colpi di genio sono l’uovo di colombo. E la percezione che di grande trovata promozionale si tratti c’è tutta.

Su Rai 3 debutta stasera Avanti popolo condotto da Nunzia De Girolamo. E, per l’occasione, si è pensato di invitare come primo ospite Francesco Boccia, dal 2011 consorte della conduttrice. Lei, già ministro in un governo Berlusconi e anche con Enrico Letta. Donna di centrodestra. Ri-inventatasi volto tv dopo la mancata rielezione, quando fu sorprendentemente candidata a Bologna dov’era impossibile farcela. E così ecco la nuova gavetta, ospite di Massimo Giletti e Corrado Formigli, poi le conduzioni Rai di Ciao maschio ed Estate in diretta. Lui, capo dei senatori Pd molto vicino a Elly Schlein, dalla quale ha avuto l’incarico di occuparsi delle faccende Rai. Lo ha fatto bene. Anzi, benissimo. Perché, già che si era a buon punto, si è pensato di puntare dritti sull’effetto Sandra e Raimondo della politica, come già li ritrae nel suo sito Roberto D’Agostino. Moralisti come sono, abituati a considerarsi sempre una spanna eticamente sopra gli altri e a vedere conflitti d’interessi solo dalla parte opposta, a sinistra manifestano imbarazzo. Volti seri, mezze frasi di circostanza…

Avanti popolo, titolo sagacemente attinto da Bandiera rossa, ma le sorprese sono in agguato, è il programma che sostituisce Cartabianca di Bianca Berlinguer, felicemente accasata e in onda da oltre un mese su Mediaset. C’è molta attesa. E anche molta apprensione in Viale Mazzini. Il salotto di De Girolamo è l’unico talk politico di prima serata della Rai. Ed è anche il programma che certifica la virata a destra della Terza rete, già Telekabul. Del resto, di talk sinistri ce ne sono già due nell’affollatissimo palinsesto del martedì sera, la più presidiata della settimana. E dunque, bando agli indugi. Dopo qualche esordio stagionale non proprio esaltante, non è contemplato sbagliare. Ci vogliono ospiti di peso, tematiche forti per garantire buoni ascolti. Così, non si è badato troppo ai risparmi, affidandosi alla produzione esterna di Fremantle, che proprio per poter offrire cachet invitanti, ha fatto lievitare il costo a puntata fino a 200.000 euro.

La povera Nunzia, che si sente «di stare in una casa in territorio sismico», apre buon’ultima la sua boutique sulla via della tv generalista. I target sono già tutti assegnati. Su La7 c’è il circolo della sinistra radicale, con Pierluigi Bersani o Corrado Augias nei panni di oracoli apriserata, al quale Berlinguer replica su Rete4 con i volti pop, Mauro Corona e Iva Zanicchi, e le inchieste sul malessere quotidiano della gente comune. Su Italia 1, nonostante l’avvicendamento di Belen Rodriguez con Veronica Gentili, il format del giornalismo giustiziere e raddrizzatorti mantiene sempre una buona cera. Infine, su Rai 2 c’è l’atelier glamour di Francesca Fagnani, interviste tendenza Vanity Fair con outing incorporato, anche questo prodotto da Fremantle. Ops: non ci sarà mica anche qui sentore di conflitto, o di conflittino, o di scaramuccia d’interessi? Su Rai 2 e Rai 3 vanno in contemporanea due programmi prodotti dalla stessa società esterna. Nemmeno si può dire che Belve evita di sbranare i politici perché, per esempio, stasera l’ospite di punta sarà Emma Bonino. Di sicuro, dei due programmi Rai fraternamente concorrenti si occuperanno gruppi di lavoro blindati e inibiti alla reciproca comunicazione, e quindi si può stare tranquilli…

Insomma, che poteva fare la povera Nunzia? Ci voleva una trovata, qualcosa per farsi largo in un contesto tanto agguerrito. Perciò, ecco l’idea, la lettera rubata che nessuno scovava era proprio lì davanti, in bella vista. Perché non intervistare il marito che milita dall’altra parte? Alla maniera di Aboccaperta di Gianfranco Funari, 100 persone in studio, praticamente un panel, discutono per alzata di mano, Avanti popolo è un people show che mette a confronto su un tema di attualità tesi e personalità contrapposte. La prima contrapposizione, Nunzia ce l’ha in casa. Il suo rapporto coniugale è il simbolo, l’emblema del format. Anzi, è il format stesso. Perciò, per esemplificarlo, niente di meglio che convocare il consorte sulle ali della leggerezza e dell’autoironia. Se sarà un’intervista accomodante avrà prevalso il sentimento. Se pungente, la politica. Più format di così. Si saprà domani se il pubblico avrà gradito e gli ascolti daranno ragione alla coppia mediatica più bipartisan del bigoncio.

L’amore non è bello se non è litigarello, recitava un vecchio adagio. Litigarello d’interessi.

 

La Verità, 10 ottobre 2023

«L’attualità ce la racconta l’establishment»

Buongiorno Peter Gomez, da vicedirettore a condirettore del Fatto quotidiano che cosa cambia?

«Resto direttore del sito e del mensile Millennium. Qui a Roma lavorerò all’integrazione tra giornale cartaceo e online. Le edicole chiudono e sempre più copie sono vendute in forma digitale».

Le edicole chiudono e i lettori calano?

«Quelli del Fatto quotidiano di Marco Travaglio stanno aumentando. Crescono le copie digitali e degli abbonamenti cartacei, oltre 50.000 in totale».

Da Milano a Roma, una bella sterzata…

«Mia figlia i miei affetti sono a Milano e quando le cose si sistemeranno spero di poterci rimanere di più. Ho sempre rifuggito Roma, che mi piace molto, ma è la città del potere. E ai giornalisti non fa bene star troppo vicino al potere, anche se per raccontarlo è necessario».

Altre novità professionali?

«Da lunedì sarò ospite due volte la settimana di Giù la maschera, il nuovo programma di Marcello Foa su Radio Uno».

Si era parlato di lei su Rai 3 al posto di Bianca Berlinguer.

«L’ho letto anch’io sui giornali, ma non c’è mai stato niente di concreto. A un certo punto Repubblica ha scritto che Giuseppe Conte voleva impormi per una sorta di ricatto. Qualche volta Conte l’ho intervistato, ma ci avrò parlato sei o sette volte in tutto. Poi il Corriere della Sera ha scritto che la mia partecipazione al programma di Foa è in quota 5 stelle».

Invece?

«Anche se la pensiamo diversamente su diverse cose, io e Foa siamo stati colleghi al Giornale di Indro Montanelli e trovo che in passato Marcello sia stato attaccato in modo ignobile. Quando mi ha proposto di collaborare a un programma pluralista e di qualità ho accettato di buon grado. L’unica cosa vera in questi anni è che, ai tempi del governo gialloverde, ho rifiutato la direzione del Tg1 per coerenza con il fatto che ho sempre scritto “fuori i partiti dalla Rai”».

È vero che potrebbe comunque approdare in Rai con La confessione?

«Purtroppo no. Sul Nove, dove il programma continuerà, ho sempre avuto libertà assoluta. Se arrivasse un’offerta la prenderei in considerazione perché la Rai è la Rai».

Perché al Tg1 no e un programma sì?

«Se il programma non funziona ti chiudono. Con la riforma voluta da Renzi la Rai è nelle mani del governo e la politica tormenta i direttori dei tg più di prima».

Come valuta gli abbandoni di alcuni professionisti all’arrivo della nuova dirigenza?

«Non ci sono epurati, ma persone che sono andate a guadagnare di più e con l’idea di sentirsi più libere. Fabio Fazio non è andato al Nove quando è arrivata la nuova dirigenza, è stato il cda di Carlo Fuortes a non aver avviato la trattativa per confermarlo».

Se ne sono andati anche Massimo Gramellini e Lucia Annunziata: se si è in dissenso con la nuova linea non è più da schiena dritta restare?

«Secondo me, sì. Però non riesco a biasimare chi pensa che il lavoro sarebbe stato impossibile. Mi ero fatto una cattiva opinione di Lucia Annunziata quando sembrava che si candidasse come europarlamentare del Pd. Ora che l’ha smentito l’ho rivalutata».

Quest’estate si è tornati a parlare della strage di Bologna e dell’abbattimento dell’aereo dell’Itavia su Ustica.

«Sulla strage di Bologna ha fatto tutto Marcello De Angelis, giurando che Mambro, Fioravanti e Ciavardini non c’entravano. È troppo comodo smorzare i toni quando scoppia il polverone. Su Ustica ho un atteggiamento diverso rispetto a quando fioccavano le tesi complottiste. Ora mi sembra una grande storia giornalistica, anche se vedo poche novità. Mi pare che i lettori guardino a Ustica come ai cold case italiani, tipo la scomparsa di Emanuela Orlandi o la fine di Simonetta Cesaroni».

I misteri del passato hanno riempito l’assenza di grandi gialli estivi?

«In parte, sì. Noto che i giornali di destra stentano un po’ ora che governa Giorgia Meloni. Varrebbe anche a parti rovesciate, se ci fosse Conte al suo posto. A me sarebbe piaciuto fare questo mestiere quand’era vincente il giornalismo british, ma oggi funzionano le testate di opinione. Non si possono più portare a esempio nemmeno i giornali americani che sono stati embedded durante la guerra in Iraq e non si sono accorti dell’ascesa di Donald Trump».

Di che cosa è sintomo il caso Vannacci?

«Di quanto stiamo dicendo. Premetto: il generale è libero di dire quello che vuole ma, al di là di quello che c’è scritto nei codici, chi è dipendente pubblico ha obblighi maggiori rispetto a chi non lo è. Se esprimi opinioni critiche sui gay, ai cittadini può venire il dubbio che con quella divisa non eserciti il tuo ruolo in modo imparziale. Per lo stesso motivo disapprovo che un magistrato entri in politica o che lo facciano i giornalisti. Prendiamo un fatto di attualità: il problema di Andrea Giambruno è che è il compagno di Giorgia Meloni e chi lo guarda in video può percepirlo come un ventriloquo».

Giorgia Meloni ha risposto a questa obiezione difendendo la libertà di stampa: vale pure per Giambruno, o no?

«Secondo me tutto dipende dal rapporto che si vuole avere con il pubblico. Credo che chi ha un ruolo di arbitro nella convivenza civile abbia un dovere in più. Quando Enrico Letta diventò premier, Gianna Fregonara smise di scrivere sul Corriere, mentre Cinzia Sasso si ritirò quando Giuliano Pisapia divenne sindaco di Milano».

Il pubblico è così ingenuo?

«Se Giambruno non fosse il compagno di Meloni le sue parole non sarebbero state così rilevanti. Per dire, Nunzia De Girolamo è brava ma, più in piccolo, lo stesso conflitto si presenterà anche per lei, ex ministra del governo Berlusconi e moglie del numero due del Pd. Se eviterà di parlarne qualcuno potrà pensare che non vuole litigare col marito».

Tornando a Vannacci, anche noi facciamo come i media americani e sottovalutiamo fenomeni importanti?

«C’è un mondo, non so quanto grande, che la pensa come Vannacci e sta a destra di Fdi e della Lega. Ma alle urne le forze che dovrebbero rappresentarlo di solito non sfondano. Il caso Vannacci è esploso perché Repubblica ne ha scritto osteggiandolo, perché l’autore è un militare e perché il ministro Guido Crosetto lo ha destituito. Non è vero che questa Italia non viene rappresentata, La Verità e Rete 4 lo fanno. La sinistra si limita a condannarla, mentre noi giornalisti dobbiamo anche raccontarla».

Cosa pensa delle forme di protesta di Ultima generazione?

«Sono non violente, imbrattano monumenti o fermano il traffico. Certo, si viola il codice penale e sono azioni fastidiose, ma in democrazia ci sta».

Ha letto i documenti svelati da Fuori dal coro che annunciano un’escalation nei prossimi mesi?

«Se commetteranno reati è giusto che vengano perseguiti. Al momento si tratta di proteste e annunci di un movimento presente, ma non così esteso. Perché non c’è lo stesso allarme per le commemorazioni dell’omicidio Ramelli col saluto romano?».

Non c’è differenza?

«Il blocco stradale è una forma di lotta dall’Ottocento, adesso è un reato come lo è il danneggiamento di monumenti. A me sembra che si guardi più al dito che alla luna. Dovremmo preoccuparci che i ghiacciai e le calotte artiche si stanno sciogliendo. Che l’uso massiccio delle plastiche aumenta l’inquinamento, e il numero e la gravità delle malattie. Dovremmo essere contenti che i nostri figli non si battono più per il comunismo o il fascismo, ma per preservare il pianeta».

Studi di geologi e climatologi smentiscono l’eco-ideologia per la quale la causa di tutti i mali è l’uomo.

«So che ci sono posizioni diverse, ma per me questa è una battaglia ideale che, finché non si commettono reati, non mi sento di condannare. All’epoca del G8 di Genova tutta la destra era contraria ai no global non solo per il modo in cui manifestavano, ma anche per quello che sostenevano. Adesso anche Matteo Salvini riconosce che avevano ragione».

Le piace la famiglia queer di Michela Murgia?

«La mia regola di vita è non fare agli altri quello che non vorrei fosse fatto a me. Se loro stanno bene e sono felici, mi piace».

La famiglia si crea e si decide autonomamente come si vorrebbe fare con il sesso?

«La famiglia è espressione del tempo in cui si vive. Se fossi un musulmano di 400 anni fa avrei quattro mogli. Sarebbe sbagliato impedirlo se quello stato non ledesse i diritti di qualcuno e non comportasse reati».

Non si tratta di reati, ma di radice dell’essere: gli uomini non vengono al mondo per volontà propria, né come vogliono loro.

«Se cambiare sesso non danneggia qualcuno sono fatti di chi lo fa. Ciascuno ha diritto alla felicità e se la dà la famiglia queer o sentirsi oggi donna e domani uomo a me non cambia nulla».

C’è qualcosa da smascherare nella grande informazione?

«L’informazione serve agli scopi degli editori che, per esempio, guadagnano con le cliniche o con le autostrade. Oppure vogliono avere rapporti mirati con la politica. Così la realtà è raccontata con la lente dell’establishment. Quanti giornali stanno in ginocchio a pregare per rianimare il centro politico quando gli italiani non ne vogliono sapere?».

Quanto è credibile Giuseppe Conte come leader delle classi deboli?

«Secondo me, molto. La credibilità di un leader non dipende dal suo stato sociale, ma dalle sue battaglie e da quello che fa».

Elly Schlein è meno risolutiva di quanto gli elettori dem speravano?

«Temo di sì. I sondaggi danno il Pd sempre al 20% nonostante la campagna favorevole di cui ha goduto».

Cosa pensa delle sue ultime prese di posizione: «l’Italia ha diritto di sapere la verità su Ustica», «porteremo subito in aula una legge contro la propaganda fascista».

«Quando parla di propaganda fascista si rivolge a una parte del suo elettorato. Obiettivamente non vedo questo rischio in Italia. La verità su Ustica vorremmo conoscerla tutti, ma non dipende da lei».

Cosa pensa del decreto Caivano?

«Finora, in Italia la repressione penale non ha mai funzionato. Togliere il telefonino ai minori colpevoli è un provvedimento tecnicamente inattuabile».

E della tassa sugli extraprofitti?

«È giusta. Sbagliato sarebbe tassare chi guadagna grazie alla propria abilità. Chi trae profitto dalla fortuna perché la Bce alza i tassi può dare di più alla comunità. Stando ai grandi giornali, avrebbe dovuto crollare la borsa e salire lo spread, invece…».

Le manca Silvio Berlusconi?

«Da giornalista sì, perché c’era parecchio da scrivere. Da cittadino no, perché ritenevo sbagliato che facesse politica il proprietario di un grande gruppo editoriale».

 

La Verità, 9 settembre 2023

«Il linguaggio dimostra che Meloni è laureata dentro»

Saggista, docente di Linguistica italiana all’Università di Cagliari, autore di studi sulla comunicazione dei maggiori leader politici (dopo il Renziario, il Salvinario e il Berlusconario, ecco il Melonario, sempre da Castelvecchi editore), Massimo Arcangeli è in prima linea contro le storture prodotte dal politicamente corretto nell’uso della lingua. Sarà forse per la petizione contro lo schwa scritta con lo storico Angelo D’Orsi e firmata da tanti intellettuali autorevoli, o perché collabora anche con testate non mainstream, fatto sta che la voce di Wikipedia che lo riguarda è sempre lacunosa e non registra le sue ultime iniziative pubbliche.

In questi giorni uscirà il dizionario del linguaggio parlato, scritto e postato di Giorgia Meloni realizzato con più ricercatori. Definirebbe il premier attuale erede o successore di Silvio Berlusconi?

«Se posso permettermi, né erede né successore perché tra loro esistono distanze rilevanti se non, per alcuni versi, abissali».

Lui era un imprenditore visionario, lei una militante da sempre.

«Meloni è stata fedele fino all’ultimo alla destra sociale, con una storia consolidata di opposizione. Berlusconi è stato un grande imprenditore e l’inventore della tv commerciale. Retroterra che non collimano. Ricordo situazioni in cui Meloni si espresse in modo critico su Maurizio Costanzo o Maria De Filippi. Poi c’è una distanza geografica, Meloni è espressione del mondo romano e Berlusconi di quello milanese. Con tutto quello che questo comporta nella cultura politica».

Elementi convergenti?

«Ci sono e coinvolgono anche Umberto Bossi. Mi riferisco al populismo come elemento positivo di base. Non nell’accezione deteriore che vediamo incarnata, per esempio, dai 5 stelle».

Berlusconi sapeva e Meloni sa interpretare le istanze popolari?

«Hanno la capacità di interpretare i bisogni della gente comune e di parlare alla pancia del Paese. È quella percezione nazionalpopolare della politica che la sinistra non ha saputo fare propria diventando radical chic e fallendo gran parte dei suoi obiettivi».

Vede elementi comuni nel linguaggio?

«Innanzitutto, la personalizzazione della leadership. Più nel caso di Berlusconi ma anche parlando Meloni, il punto di riferimento del partito e della coalizione sono loro. Nella Seconda repubblica ci hanno provato a esserlo anche Matteo Renzi, danneggiato dal suo superego, e Matteo Salvini, con gli esiti che abbiamo visto. La seconda componente comune è la spettacolarizzazione della politica. Anche se Meloni non è una donna di spettacolo, lo sa usare. E sa usare bene i social che, nell’epoca della promocrazia, è molto importante».

Della promocrazia?

«Della politica basata sull’autopromozione, sul marketing. Berlusconi era un simpatico imbonitore, lo dico in positivo. Meloni compete sui vari media. Entrambi sanno che nella politica 2.0 i media che interagiscono tra loro hanno un effetto moltiplicato».

Lei è più multitasking di lui?

«Pur non essendo nemmeno lei nativa digitale».

Entrambi politici pop?

«Se dovessimo redigere un vocabolario delle nuove parole o dei tormentoni inventati da politici nell’ultimo ventennio il primato spetterebbe a loro. Con “cribbio”, “mi consenta” e “l’Italia è il Paese che amo” abbiamo tutto Berlusconi. Per rappresentare Meloni citerei l’avverbio “sommessamente”, che usa spesso e in varie sfumature, oppure il neologismo “nomadare”, in riferimento all’azione dei nomadi, i rom, entrato nella Treccani».

C’è molta differenza dal linguaggio della Prima repubblica?

«Come per Berlusconi che aveva un linguaggio doubleface, sia famigliare che volgare, dalla “patonza” al gesto delle corna, espressioni che tutti abbiamo, anche Meloni alterna il romanesco ai tecnicismi anglosassoni, per esempio in materia economica. Questa è una differenza, ma ci sono anche affinità con la Prima repubblica».

Quali?

«Ho ascoltato centinaia di discorsi a braccio di Giorgia Meloni verificandone la capacità di tenere il filo del discorso. Ecco: lei sa controllare l’esposizione per un tempo molto più lungo degli altri politici contemporanei. Per trovarne qualcuno con la stessa capacità bisogna risalire a Bettino Craxi, Enrico Berlinguer o Aldo Moro. Inoltre, ho trovato una memorizzazione formidabile dei contenuti. Pur parlando a braccio, riesce a riproporli con le stesse parole usate diversi anni prima, fatti salvi i cambiamenti del contesto».

Questo ne accentua la percezione di coerenza e lealtà?

«La lealtà è un elemento fondamentale del suo discorso, al punto che si sono individuate espressioni tratte dalla cultura cavalleresca che, per qualcuno, erano di derivazione fascista. In realtà, sono eredità della cultura risorgimentale e, andando più indietro, dell’immaginario letterario e cinematografico di Tolkien e del fantasy che Meloni ha fatto proprie».

Cosa pensa del ricorso all’inflessione romanesca vuol dire questo?

«È un vezzo».

Da correggere in un ruolo istituzionale?

«Avrebbe potuto fare dei corsi di dizione, se non l’ha fatto è perché il romanesco le è caro. Da premier mi pare vi ricorra di meno».

Cosa significa, come scrive, che è «laureata dentro»?

«Che non ha bisogno di avere una laurea per dimostrare di saper scrivere e parlare bene. È sufficientemente colta, ha le sue letture evidenziabili, parla inglese e spagnolo in modo più che accettabile. Anche Renzi e Berlusconi parlano bene. Lei parla e argomenta meglio. Ha anche capacità di accelerare e decelerare efficacemente i ritmi del discorso».

Il linguaggio deriva dalla vita concreta e lei ha fatto tanti mestieri, dalla barman alla baby sitter, perché il padre non c’era e la madre aveva perso il lavoro… Ha ragione Pietrangelo Buttafuoco a dire che ha una storia di sinistra?

«Paradossalmente sì, una storia di sinistra vissuta sul versante opposto».

«Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana»: questo linguaggio è vincente rispetto alla comunicazione della sinistra abituata ai continui distinguo millimetrici?

«Se dicessi che sono uomo, sono padre, sono cristiano criticherebbero pure me. Siccome c’è la moltiplicazione dei generi, dobbiamo stare attenti a declinare la nostra identità. Ma mi sembra un problema falso e intellettualoide. Nessuno deve temere di dire chi è, purché rispetti l’identità altrui. Il politicamente corretto vorrebbe che il neutro si imponesse anche in questo. Io non voglio assistere all’affermarsi della tirannia del neutro».

Parlando di leaderizzazione e storytelling, due anni dopo Io sono Giorgia sta per pubblicare un nuovo libro: non sarà troppo?

«Ha capito che deve mantenere un contatto forte con i suoi lettori, follower e potenziali elettori. Se fossi in lei farei un libro l’anno».

Appartenevano a questa filosofia anche «Gli appunti di Giorgia»?.

«Quell’idea nacque in occasione della scelta dei ministri, quando Berlusconi le attribuì comportamenti scorretti. Allora lei s’inventò “Gli appunti di Giorgia”. Gli appunti si usano prima di metterli in bella forma per la divulgazione. In quel modo mandò un messaggio di trasparenza: non ho niente da nascondere, vi mostro la mia agenda, come sono realmente».

Com’è cambiata la sua comunicazione da presidente di Fdi a presidente del consiglio?

«Si è istituzionalizzata, a partire dagli abiti che sono, giustamente, meno scanzonati di un tempo. Costruisce i discorsi in modo più ecumenico, smussando i toni del primo decennio del Duemila che, secondo me, è stato il più efficace. Usa maggiormente termini angloamericani, in una proiezione più internazionale e di attenzione ai mercati».

Come giudica la modifica delle intestazioni dei ministeri, per esempio dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, dell’Istruzione e del merito…

«Mi sembrano modifiche di facciata. Ho trovato inutile la specificazione del merito per un Paese che fonda il suo futuro sull’istruzione. Sarebbe stato innovativo se, oltre al merito, avesse aggiunto l’inclusione, rubando il monopolio di questo tema alla sinistra».

Non sarebbe stato un cedimento al mainstream?

«Non credo. Da docente universitario dico che, forse a causa della pandemia, c’è un’esplosione della fragilità giovanile che non ho mai riscontrato in trent’anni d’insegnamento. Rischiamo di far crescere tanti soggetti anomali, instabili. Su questo non c’è né destra né sinistra. Perciò, mi batto per l’adozione dello psicologo in ogni plesso scolastico e università. Come già avviene nelle scuole del Nordeuropa e americane».

Perché si critica il ricorso a termini come nazione e patria?

«Altro falso problema. Nazione compare nella nostra Costituzione e anche patria è un termine di alveo risorgimentale. Chi insiste sugli echi fascisti di questi vocaboli non conosce la storia».

Intravede dei punti deboli nell’azione del premier? Quali consigli le darebbe nella comunicazione?

«L’unico punto debole di Giorgia Meloni è Giorgia Meloni. Se vuole durare deve basarsi davvero sul merito delle persone giuste».

Invece?

«Ci sono ministri, sottosegretari e parlamentari non all’altezza».

Qualcuno in particolare?

«Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Un anno fa si è consumato il più scandaloso concorso scolastico ordinario della storia della Repubblica con decine e decine di quiz sbagliati o mal formulati come hanno documentato le perizie di docenti specializzati. L’ex ministro Patrizio Bianchi non ha fatto quasi nulla e Valditara nulla».

Tornando alla comunicazione, cos’ha pensato dello speech dopo l’incontro con il presidente tunisino Kaïs Saied senza giornalisti davanti?

«Che non è meloniano e non doveva essere così. Si è lasciata convincere da qualcuno».

Ha un rapporto ancora conflittuale con i media e preferisce la disintermediazione, rivolgersi alla gente senza la mediazioni dei giornalisti?

«Sì. Sa bene che i contenuti possono essere manipolati e ricuciti in modi non sempre consoni. Se potesse opterebbe per la disintermediazione totale».

Il confronto linguistico con Elly Schlein?

«Se devo prendere appunti di quello che dice Giorgia Meloni trascrivo poco perché capisco gli snodi del ragionamento. Se parla Elly Schlein sono costretto a trascrivere tutto e poi, alla fine, rileggendo, stento a fare la sintesi. Lo ha detto anche Concita De Gregorio: rileggi, ma il titolo non salta fuori. Ma purtroppo, questo non è solo un problema di vocabolario».

 

La Verità, 17 giugno 2023

«La surrogata altruistica è una trovata mainstream»

Aurelio Mancuso è uno dei leader, oltre che figura storica, del movimento arcobaleno italiano. Giornalista freelance, iscritto al Pd, fondatore e presidente di Equality Italia, associazione che vuole «rendere i diritti civili una proposta trasversale», ha scritto l’appello No Gpa (Gestazione per altri) sottoscritto da oltre 600 tra intellettuali, politici e amministratori locali soprattutto progressisti.

Mancuso, togliere il patrocinio ai pride vuol dire essere omofobi?

«Non significa tout court essere omofobi quanto, nel caso specifico, che la Regione Lazio avrebbe fatto bene a compiere le dovute e preventive verifiche. Ritirare il patrocinio perché non si è letto il documento di convocazione dell’iniziativa è un comportamento poco istituzionale. Ormai i pride sono manifestazioni tradizionali che travalicano chi li convoca e ai quali ragazzi e ragazze vanno come a una festa. Al presidente della Regione Lazio avrei consigliato di dare il patrocinio… Poi, certo, alcune cose contenute nel documento ha difficoltà a sostenerle anche un’istituzione governata dalla sinistra».

Dare il patrocinio vuol dire sostenere quella manifestazione, negarlo vuol dire essere omofobi e fascisti?

«Francesco Rocca è la stessa persona che da presidente della Croce rossa italiana ha cofinanziato una casa rifugio per ragazzi cacciati dalle famiglie perché omosessuali?».

Sì e lo rivendica e il pride si tiene anche senza patrocinio: la comunità arcobaleno non dovrebbe essere orgogliosa di non averlo?

«Esatto, il pride si fa lo stesso. Nelle democrazie europee e americane esponenti di destra e sinistra partecipano pur senza concordare con la totalità dei temi. Non è una manifestazione educata, ma per sua stessa natura maleducata. Mi auguro che oggi tanti ragazzi e ragazze partecipino. Altra cosa è ciò che pensano i suoi organizzatori».

Distinzione complicata: come si può dire viva il popolo del pride e abbasso i vertici?

«Io non dico abbasso i vertici. Chi organizza è colui che fa e, perciò, ha ragione. Non credo che le persone che ci vanno siano lì perché aderiscono integralmente al documento. Sarei curioso di sapere quanti tra i partecipanti l’hanno letto e sono consapevoli di ciò che contiene».

Lei oggi sfilerà?

«Da anni non lo faccio. Per non creare inutili tensioni con la mia presenza e preservare lo spirito di festa della manifestazione. Vorrei soprattutto che questi temi, che sono divisivi, fossero finalmente discussi nella comunità Lgbt».

Invece?

«C’è un rifiuto a confrontarsi. Chi non la pensa esattamente come i promotori viene etichettato come fascista e omofobo. E per me è davvero troppo».

C’è uno stigma anche tra voi?
«Se si eccettua Arcilesbica che è bersagliata tutti i giorni, sono l’unico omosessuale noto e che ha avuto un ruolo nel movimento a esprimere pubblicamente una posizione critica. Però non voglio fare uno contro tutti. Su molte delle questioni c’è accordo, mentre non c’è sull’autodeterminazione di genere, la Gpa e la prostituzione».

Che cosa pensa del linguaggio del documento del pride?

«Ne avrei usato un altro. Alcune questioni marginali venti o trent’anni fa ora sono diventate centrali. Chi un tempo non era protagonista oggi lo è».

Lei come l’avrebbe scritto?

«Mettendo in primo piano i diritti concreti e riconoscibili che vogliamo. Le unioni civili o il matrimonio egualitario, la riforma della legge sulle adozioni e della legge 164/82 sull’attribuzione del sesso, le norme di contrasto all’omofobia e all’omotransfobia. Temi presenti, ma talmente conditi di visioni e distinguo da risultare confusi».

Lo scontro è soprattutto sull’utero in affitto: la comunità Lgbt non vede la violenza di questa pratica?

«È un passo avanti che si evitino espressioni come maternità surrogata e utero in affitto. Forse si sta iniziando a riconoscere che sono pratiche disumane, che sfruttano le donne e trattano i bambini come oggetti. Tuttavia, anche parlare di Gpa altruistica e gratuita senza condannare queste pratiche è ultimamente ipocrita. La Gpa altruistica è un’invenzione del mainstream».

In che senso?

«Nel senso che non chiarisce che i bambini non si possono né comprare né vendere, ma nemmeno si possono donare o regalare. Anche la Gpa altruistica tratta il bambino come un oggetto a disposizione degli adulti, mentre è un soggetto».

La comunità Lgbt non si avvede della strumentalità di chiedere prima l’ovocita da una donna e poi di noleggiare l’utero di un’altra a pagamento?

«A me pare che non ci sia nessuna riflessione su questo tema. Prevale la volontà di dare una risposta al desiderio di adulti, trasformato erroneamente in diritto, di avere un bambino. Bisogna essere chiari: stiamo parlando al 90% di coppie etero e al 10% di coppie omosessuali. Ciò significa che parliamo di un tema molto marginale che solleva questioni etiche delicatissime ma che, riguardando persone con buone possibilità economiche per ricorrere a queste pratiche, coinvolge ristrettissime nicchie».

Molte sigle femministe internazionali approvano la proposta di legge italiana appena presentata di rendere l’utero in affitto reato universale.

«Il nostro appello No Gpa ha raccolto oltre 600 firme di intellettuali e personalità pubbliche contro la Gpa. È un reato che dovrebbe essere definito universale per ciò che avviene nel Terzo mondo, per la commercializzazione e lo sfruttamento sia del bambino che delle donne. Appellandoci alla risoluzione del 2015 del Parlamento europeo e ai pronunciamenti dell’Onu pensiamo si debba arrivare al bando internazionale di questa pratica. Molte persone che hanno firmato il nostro appello sostengono la legge in discussione in Parlamento, altre no. Abbiamo ricercato una sintesi, rispettando l’opinione di tutti. Probabilmente la legge sarà approvata, ma io rivolgo altre due richieste a Giorgia Meloni…».

Quali?

«La prima: eliminare le discriminazione dei bambini che non possono essere trattati come un pacco postale; cioè, se arrivano in Italia non si possono rispedire indietro. La seconda: se è d’accordo con la modifica della legge sulle adozioni allo scopo di accelerare i tempi. Qualcosa in questo senso è stato fatto con l’equiparazione delle adozioni speciali a quelle normali, ma si può fare ancora di più».

La prossima settimana l’utero in affitto sarà in discussione a Strasburgo. Visto che il Pd dice che la questione va risolta in Europa, perché questa discussione non l’hanno chiesta i democratici ma i conservatori?

«È evidente un certo imbarazzo da parte del Pd e non solo sul tema. Però quella discussione sarà un banco di prova evidente: la surrogata è una pratica da mettere al bando in tutto il mondo o no? Su questo si dovranno pronunciare. Vedremo come andrà a finire».

Perché su questi temi il Pd è in forte imbarazzo?

«Al netto di ciò che dicono i segretari di turno, non solo Elly Schlein, nel Pd ci sono posizioni differenti. Grazie al nostro documento è finalmente chiaro che tanta parte del Pd è contraria all’utero in affitto. Perciò, se non vuol essere il passacarte del movimento Lgbt, il partito deve aprire quella discussione che finora non ha voluto fare. Chi aveva posizioni critiche non riusciva a farsi ascoltare su questo tema. Negli ultimi anni non ho mai ricevuto un invito da una sezione del Pd, mentre ne ho ricevuti da associazioni esterne al partito».

Come giudica il fatto che nelle interviste Elly Schlein rifiuta le domande sulla surrogata e i diritti Lgbt?

«Una segretaria che si è esposta personalmente sbaglia a eludere le domande sull’argomento. Nel Pd esiste da anni un tavolo permanente di discussione con la comunità Lgbt. Purtroppo, da quando ho messo in discussione il ddl Zan non sono più stato invitato. Mi auguro che Schlein cambi questa pratica antidemocratica dentro un partito che si chiama democratico».

Che cosa indica il fatto che negli ultimi due anni l’acronimo arcobaleno è raddoppiato, da Lgbt+ è diventato Lgbtqiak+, da quattro lettere a otto?

«Il continuo allungarsi dell’acronimo è indice di confusione culturale e divisione. Non si possono declinare tutte le identità e aspirazioni, mettendole sullo stesso piano. Molte specificità non sono nemmeno rappresentabili in quelle otto lettere. Se si vogliono nominare tutte le identità si finisce per annullare tutte le identità».

Perdoni l’ignoranza, che identità rappresenta la lettera I?

«Le persone Intersex, che nascono con apparati genitali non del tutto definiti. La richiesta è di non essere soggetti già alla nascita alla scelta del sesso, ma aver tempo di decidere. Ovviamente, parliamo di una minuscola minoranza, tuttavia soggetta a grandi sofferenze».

E la lettera A?

«Dovrebbero essere gli asessuali o gli asessuati o gli aromantici, mi sono perso anch’io. Chiunque siano, mi domando quale diritto legislativo chiedano».

Nel documento del Roma pride si parla dei «comportamenti kinky» specificando il rifiuto della contestazione «degli scambi di potere consensuali»: cosa significa?

«Sebbene sia allenatissimo nell’interpretazione di queste formule, questa parte risulta criptica anche a me. Auspico che venga chiarita meglio. Il tema del rapporto di potere tra i sessi è delicatissimo».

È sbagliato pensare che l’espressione «scambi di potere consensuali» celi un’apertura ai rapporti pedofiliaci?

«In un passaggio si parla di bambini arcobaleno che sfilano vicino a coloro che usano strumenti sadomaso. Sono nettamente contrario alla pedofilia. È uno stigma che negli anni è stato erroneamente affibbiato all’omosessualità. Il documento è così nebuloso che attendo chiarimenti. Sono sicuro che nessuno voglia aprire il minimo spiraglio a questo tipo di crimini».

Un altro punto è l’insistenza sulle identità alias che si vorrebbero riconosciute nelle scuole, nei posti di lavoro, nell’esercizio del voto…

«L’autodefinizione di sé è un tema che non riguarda solo l’Italia. In tanti Stati dove si è liberalizzato, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ora si sta tornando indietro perché ci si è accorti dei tanti problemi che comporta, per esempio, nelle competizioni sportive. Mi spiace che anche questo tema venga affrontato con una certa brutalità. Il problema esiste, ma le soluzioni arrivano solo alla fine di un confronto sociale e culturale approfondito. Solo a questo punto si può giungere a una normativa corretta e rispettosa di tutte le componenti».

 

La Verità, 10 giugno 2023

Il pubblico tv vede arrivare la Schlein… E scappa

Anche i telespettatori non l’hanno vista arrivare. Anzi sì, e sono scappati. L’ospitata di Elly Schlein a Cartabianca dell’altra sera è stata un flop su tutta linea. Come o addirittura peggio delle ultime amministrative, nelle quali la sinistra ha vinto solo dove non ha partecipato alla campagna elettorale. In televisione, «Elly Nein», come l’ha rinominata il direttore Maurizio Belpietro, fa lo stesso effetto di un break pubblicitario. Uno smottamento di ascolti. Una frana di audience. Un precipizio dello share. Come quelli delle urne – dopo i quali Schlein ha invitato i suoi detrattori tramite un video su Instagram a mettersi comodi perché lei è arrivata per restare – anche questi sono numeri incontrovertibili. Cifre inconfutabili anche a colpi di supercazzola.
Con il derby dei talk show tutto interno alla sinistra, la tenera Elly su Rai 3 e Pier Luigi Bersani su La7, la serata di martedì 6 giugno è un ulteriore colpo di maglio sull’autostima della segretaria multigender e multipassaporto. Nel segmento del programma di Bianca Berlinguer aperto dal ping pong con Mauro Corona si è registrato il picco di 1,65 milioni di telespettatori, share dell’8,4%. Ma quando è comparsa Schlein la colonnina dell’Auditel è precipitata al 5,5% con un’emorragia di mezzo milione di persone, quasi un terzo della platea, prima di inabissarsi a 950.000 ascoltatori (700.000 in meno). Insomma, un esodo. Entra lei ed esce il pubblico. Arriva Elly, fuga da Rai 3. Il dato risulta particolarmente significativo perché fotografa il comportamento di un bacino di telespettatori già orientati a sinistra.
La platea della Terza rete Rai che ascolta più volentieri lo scrittore montanaro, privo di armocromista, della leader del Pd fa venire in mente la campagna pubblicitaria di quel marchio di telefonia che invita a evitare le consulenze dei Vip – sportivi, rockstar, attori delle soap, persino una regina – e a fidarsi invece della persona comune che il prodotto in questione già lo usa. È una questione di credibilità, di attendibilità. Giusto quella che inizia a difettare alla tenera Elly da quando ha concesso la sua prima intervista a Vogue. Non tanto per l’inciampo dell’armocromista enfatizzato dai critici, quanto per la scelta stessa della testata. Se nella tua prima intervista pubblica ti rivolgi ai lettori di una patinatissima rivista di moda e design, con quale credibilità, poi, puoi parlare di salario minimo e di battaglie ugualitarie? Domande legittime che forse gli elettori e i telespettatori di riferimento cominciano a porsi. Per restare all’esibizione televisiva dell’altra sera, legittimo è anche il confronto ravvicinato con i numeri dell’intervista a Giorgia Meloni, il giorno prima ospite di Quarta Repubblica su Rete 4, che ha portato il programma di Nicola Porro dal 3,2 (del break pubblicitario) al picco dell’8,9% di share. Insomma, il percorso contrario.

Per quanto si sforzi, e rafforzi il suo burocratese con quella mimica manuale molto convessa, la neosegretaria dem non riesce a bucare la nebbia di un linguaggio da agenda della globalizzazione, farcito di «conversione ecologica», «trasformazione digitale», riduzione «delle diseguaglianze sociali, territoriali e di genere». Il confronto con le metafore di Pier Luigi Bersani, ospite a Dimartedì, è risultato impietoso non solo per l’originalità espositiva («togliere le intermediazioni come i giornalisti per rivolgersi direttamente al popolo è come voler prendere l’acqua con le mani»), ma pure in termini numerici. La sovrapposizione tra Schlein e Bersani è durata solo pochi minuti, subito dopo le 22. Ma a quell’ora l’ex segretario e più volte ministro, esponente di una sinistra riconoscibile pur se ormai d’antan, parlava a 1,7 milioni di spettatori (9% di share), picco del talk di Giovanni Floris e audience quasi doppia di quella della povera Elly. Per la cronaca, va precisato che Dimartedì supera abitualmente di un paio di punti di share Cartabianca. Perciò è il caso di dire che l’avvento della segretaria multigender non ha portato aria nuova nella ripartizione delle platee dei talk show, anzi. Tuttavia, la sua disfatta si fa ancora più rotonda per la sconfitta a distanza con l’imitazione di lei stessa proposta da Paolo Kessissoglu (6%) che la dipinge incerta, stralunata e alla perenne ricerca di pause rigeneranti dalla stressante vita di segretaria. Anche Berlinguer ha provato a metterla a suo agio, evitandole le domande ch’ella aveva già espunto da precedenti interviste su maternità surrogata, diritti Lgbtqia+ e la compagna Paola, nonostante fosse appena esploso il caso del ritiro del patrocinio della Regione Lazio al Roma Pride. Ma Schlein è parsa ugualmente in affanno, protesa nello sforzo di risultare persuasiva. Il suo è già diventato un cammino in salita e ogni giorno di più dà l’impressione di essere capitata in un gioco più grande di lei. Per questo i più feroci detrattori sostengono che sia già finita. Forse dobbiamo ascoltare il suo consiglio e metterci comodi e attendere che anche lei se ne accorga.

 

La Verità, 8 giugno 2023

 

«La sinistra vince se tiene lontani i big nazionali»

Buongiorno Giovanni Diamanti, scriviamo insieme il suo curriculum vitae?

«Consulente politico e socio fondatore di Quorum e Youtrend, due marchi di un’unica agenzia di comunicazione, analisi politica e sondaggi. L’ho fondata a 22 anni con Lorenzo Pregliasco, Davide Policastro, Roberto Greco e Matteo Cavallaro. Tra le varie cose, sono professore a contratto di Marketing politico all’Università di Padova e di Storytelling politico alla Scuola Holden di Torino».

Studi, letture, passioni?

«Laureato in Sociologia. Le passioni sono la storia dei partiti politici, il calcio, il tennis e il cinema».

Storytelling politico come materia di una scuola di scrittura mi giunge nuova.

«È un ramo della comunicazione legato al racconto e alla narrazione. Spesso le storie personali dei leader raccontano i loro valori più dei fatti».

Ma la Holden è una scuola per scrittori, chi frequenta il suo corso?

«La Holden ha una proposta formativa ampia. I frequentatori sono studenti appassionati di comunicazione politica».

Segreti del mestiere appresi da papà Ilvo, immagino: che cosa in particolare?

«In realtà, mio padre è uno studioso, un politologo, mentre io ho iniziato a impegnarmi nelle campagne elettorali prima dei vent’anni, facendo un percorso diverso. In comune abbiamo la passione e lo studio della politica. Le nostre attività si toccano sul lato dei sondaggi, ma Demos e Youtrend sono agenzie concorrenti, con specificità diverse».

Altri maestri?

«Ne ho avuti tanti. Da Nando Pagnoncelli, amico di famiglia, ho imparato a capire quanto il dato sia da studiare e non da utilizzare. E poi nella professione cito Filippo Sensi».

Mitico «nomfup» di Twitter.

«Profilo tuttora attivo, anche se più istituzionale. Nel 2014 con Matteo Renzi, Sensi portò il Pd al 40% con una campagna costruita sul derby tra speranza e paura. Ero all’inizio e lui mi diede molti amichevoli consigli».

Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino?

«Velardi è un amico dal quale ho imparato molto. Anche se sono della generazione successiva, appartengo alla vecchia scuola, poco digitale».

Quali sono gli strumenti principali del suo lavoro?

«Non lavoriamo sul day by day per suggerire le dichiarazioni giornaliere. Il nostro cassetto degli attrezzi sono i sondaggi, i focus di gruppo, il clima d’opinione, il profilo del candidato e le analisi delle rassegne stampa per elaborare un piano strategico di medio e lungo periodo».

 

Nei giorni scorsi Giovanni Diamanti ha trovato visibilità oltre la cerchia degli addetti ai lavori come consulente di Giacomo Possamai, il nuovo sindaco di Vicenza, unica città conquistata dalla sinistra alle recenti amministrative. 34 anni, barba e occhiali hipster, zero iperboli, salti ubiqui tra riunioni e call ma piedi ben piantati per terra, molta prudenza nel rispondere, nella carriera dello «spin doctor di Possamai» c’è molto più di ciò che fa immaginare la sua giovane età.

 

Il curriculum prosegue con la lista delle campagne vincenti.

«Beppe Sala a Milano nel 2016, Roberto Gualtieri a Roma nel 2021, l’anno scorso Damiano Tommasi a Verona, adesso le comunali di Vicenza. Prima due campagne di Vincenzo De Luca, due di Nicola Zingaretti per le primarie e alle ultime europee. Anche Pierfrancesco Majorino ed Elisabetta Gualmini alle europee».

Sconfitte?

«In quelle di Majorino c’eravamo noi. Alle primarie a Milano del 2016 arrivò terzo, ma fu comunque un grande risultato, tanto che Sala ci chiamò subito dopo. Anche alle ultime regionali abbiamo lavorato con Majorino. Sconfitta anche alle comunali di Genova del 2017, sempre con il centrosinistra».

Perché la vittoria a Vicenza ha fatto scalpore?

«Il primo motivo è perché è l’unico successo del centrosinistra. Il secondo, perché è l’effetto di una convinzione errata: cioè che Vicenza sia storicamente di centrodestra, mentre i dati dicono che è contendibile».

È lei ad aver suggerito a Possamai di non far arrivare Elly Schlein?

«Non credo alle idee magiche dei guru. Sicuramente era un’idea che rientrava nel piano strategico presentato un anno fa, quando ancora lei non c’era».

In questo caso, non vederla arrivare è stato vincente?

«È stato vincente impostare una campagna vicentina, che parlasse di temi vicentini e con persone vicentine. Elly Schlein, come qualunque altro leader nazionale, sarebbe uscita da questo schema».

Anche Damiano Tommasi a Verona era un outsider e anche lì avete ribaltato il pronostico.

«Verona e Vicenza sono campagne d’identità cittadina contrapposta alla visione nazionale. Ma ci sono anche differenze: Tommasi era un candidato civico puro che parlava di valori, Possamai è un leader storico di partito che ha proposto un progetto chiaro di città».

La ricetta comune è tenere lontani i leader nazionali?

«In questi casi, sì. Ma le campagne elettorali sono abiti cuciti su misura sui candidati e sulle città. L’esempio più chiaro è Roberto Gualtieri a Roma che nel 2021 godeva di un prestigio personale. Nel suo caso coinvolgere figure nazionali era un valore aggiunto».

Altrimenti, in periferia, la loro presenza afferma paradossalmente la distanza dalla gente comune?

«Non direi così. A Vicenza volevamo fare una campagna opposta a quella dell’avversario. Richiamare qualunque leader nazionale avrebbe riportato la contesa nello scontro tra centrodestra e centrosinistra. Invece, per noi il progetto vicentino voleva dire ripensare le alleanze. Non c’è stato il campo largo, ma il lavoro delle liste civiche che si sono alleate al Pd, senza timore di guardare anche al centrodestra, per esempio coinvolgendo Matteo Tosetto, storico esponente di Forza Italia e vicesindaco uscente».

La sinistra vince dove il Pil è più alto?

«Da Milano a Padova, passando per Bergamo, Brescia, Verona e Vicenza ora c’è una filiera di amministrazioni di centrosinistra. Forse ha leader di maggiore qualità. Il centrodestra dovrebbe interrogarsi sul fatto di non toccare palla in questi territori. È la sfida principale che deve affrontare nei prossimi anni. E che, va detto, sembra aver iniziato ad affrontare, visto che in queste ultime elezioni ha vinto ovunque, forse più per la forza della coalizione che dei suoi candidati».

Per Alessandra Ghisleri, Schlein non ha ancora trovato un’identità forte: che cosa sbaglia e che cosa azzecca la segretaria Pd?

«Ha capacità comunicativa e predisposizione a rompere gli schemi. Deve riuscire a far capire qual è la sua idea del Pd. Oggettivamente, ha avuto poco tempo, ma l’identità e il posizionamento è uno storico problema del partito».

Era sbagliato aspettarsi che, essendo stata eletta dai non iscritti, ampliasse i consensi anche alle urne?

«Penso sia il suo primo obiettivo, ma credo si dovrà misurarla alle europee dell’anno prossimo».

È un corpo estraneo, anche pensando alla squadra che ha scelto?

«Non la definirei così. Sicuramente ha un approccio diverso dai predecessori e vuole aprire in modo più netto all’esterno».

Fa bene a insistere sui diritti delle minoranze?

«Non so se le giovi. È un tema che può mobilitare fortemente, ma che deve andare di pari passo ad altre questioni».

Come giudica la sua comunicazione, troppe supercazzole?

«Giudichiamola tra qualche mese».

Le avrebbe consigliato l’intervista a Vogue?

«Sono scelte che bisogna vivere da dentro, conoscere la strategia e lo scopo. La comunicazione è qualcosa di complesso di cui bisogna conoscere l’articolazione».

Strategicamente era la testata giusta?

«Si coglie il tentativo di comunicare in modo non tradizionale. Se funziona o no lo si capirà nel medio e lungo periodo. Quando Renzi si vestiva da Fonzie per andare ospite di Maria De Filippi molti lo perculavano, ma per altri era un genio».

Giova alla sinistra la campagna sul ritorno del fascismo? Porta consensi?

«Forse può mobilitare, ma non si fa solo ciò che porta consenso. François Mitterand s’impegnò per l’abolizione della pena di morte e, quando i suoi consiglieri gli fecero notare che i francesi erano per il mantenimento, rispose che non gli importava perché quello era un obiettivo giusto».

Era Mitterand.

«Certo. Se il Paese vuole risposte sul lavoro e tu gli parli di cultura o di scienza, non sembri in sintonia. Bisogna trovare un equilibrio tra temi popolari e temi giusti».

Nella squadra di centrodestra ci sono punti deboli?

«Vedo Giorgia Meloni molto forte, mentre non vedo una classe dirigente dello stesso livello. Questo è il primo elemento. Poi torvo che nella coalizione ci sia un po’ di vuoto nell’area classica, liberale e moderata. Forza Italia si è indebolita, Fdi è un partito conservatore, la Lega un partito identitario, manca l’attenzione alle classi liberali e produttive che, infatti, guardato al terzo polo».

C’è qualche lacuna nella comunicazione?

«Manca un po’ di coordinamento. Ma non ho visto grandi strafalcioni o divisioni su questioni importanti».

Sbaglia Marco Travaglio quando dice che Meloni vince perché è di moda?

«Non capisco cosa significhi. Uno vince quando convince di essere il candidato migliore o quando ha una proposta che mobilita. Giorgia Meloni vince perché si è costruita una sua credibilità e porta avanti diverse posizioni in sintonia con il clima d’opinione prevalente nel Paese».

Ha punti deboli?

«La ritengo ancora un po’ troppo ideologica su alcuni temi, alla lunga questo sarà un problema. In alcune conferenze stampa non mi è sembrata sempre brillante».

Come mai la tendenza verso posizioni conservatrici o di destra si registra in tutta Europa?

«C’è un clima d’opinione in cui prevale una forte rabbia sociale, ben interpretata da chi utilizza determinati toni. Ma sono tendenze che si modificano abbastanza rapidamente. Per esempio, subito dopo la fine della prima ondata del Covid, si diceva che i sovranisti iniziavano a indebolirsi».

Cicli di breve durata?

«Sì, però è evidente che oggi il ciclo è questo».

Durerà più Meloni o Schlein?

«Al tempo di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi i cicli duravano un ventennio. Ultimamente le leadership hanno archi più brevi, poco più un biennio, come abbiamo visto con Renzi, Luigi Di Maio, Matteo Salvini. Meloni non è ancora entrata in fase di erosione. Di sicuro entrambi hanno di fronte uno scoglio: Meloni, la gestione del Paese in una fase non facilissima; Schlein, la guida di un partito nel quale le leadership durano poco. Schlein è appena arrivata, Meloni è stabile da un po’: nessuna delle due ha il lavoro più stabile e tranquillo del mondo».

 

La Verità, 3 giugno 2023

«La sinistra non propone nulla, sa solo dire no»

Due anni e mezzo fa, dopo un periodo di penombra da pensatoio, Marcello Pera aveva ritrovato visibilità e attenzione dei media. Ma quando lo intervistai chiedendogli se, di fronte allo stato dell’Italia, si sentiva come il poliziotto richiamato dalla pensione per risolvere un caso disperato, abbozzò: «Non sto rientrando in politica», disse. Invece, ora l’ex presidente del Senato, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo, siede a Palazzo Madama nelle file di Fratelli d’Italia. «Sì, ha avuto ragione lei», concede. «Solo sul fatto che fossi in pensione non ce l’aveva. In questi anni mi sono dedicato a studiare la riforma dello Stato, un tema che mi sta a cuore».

Dopo il confronto fra la premier e le opposizioni di qualche giorno fa, come procede la riflessione su presidenzialismo o cancellierato?

«Ho visto che proseguono le audizioni per iniziativa di Giorgia Meloni al fine di trovare un testo condiviso. Mi auguro che quanto prima lo si trovi».

Se oggi dovesse tenere il discorso sullo stato dell’unione dell’Italia che immagine userebbe?

«L’immagine positiva di un Paese che sta crescendo e che ha voglia di lavorare».

Qualcuno ha parlato di un Paese infiammato, in preda a un’infezione.

«Non vedo niente di tutto questo. Vedo invece una presidente del Consiglio sempre più autorevole, in Italia e fuori. Poi c’è la contestazione della sinistra che continuando ad agitare la bandiera scolorita dell’antifascismo si mostra incapace d’immaginare un programma di governo. Perciò cerca ogni occasione per innescare una manifestazione di protesta o l’altra. È la dimostrazione di grande debolezza».

Questa infiammazione viene accesa da chi paventa il pericolo del ritorno del fascismo?

«È un’arma sempre più spuntata. Quando la premier va in giro per il mondo e in Europa nessuno si attarda su questi problemi di retroguardia».

L’ultimo appiglio è la nomina di Chiara Colosimo alla presidenza della Commissione Antimafia perché ritratta in una fotografia con un condannato per la strage di Bologna.

«È il tentativo di trasformare un piccolo caso nella dimostrazione di un teorema. A che serve una polemica che dura un giorno?».

È soprattutto il mondo intellettuale a ribadire queste accuse?

«Trovo che il mondo intellettuale di sinistra sia pigro, incapace di produrre idee nuove e invece molto ripetitivo di formule e parole d’ordine che non hanno seguito nella società civile. Nessuno in Italia si infiamma per la rinascita del fascismo. Ci sono temi ben più concreti. Per esempio, qualche giorno fa al Senato si è parlato del ponte sullo stretto di Messina e mi chiedo come il Pd abbia potuto votare contro una struttura che modernizza e unifica il Paese, liberando la Sicilia dalla condizione insulare».

Qualche esponente istituzionale come il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano o il presidente del Senato Ignazio La Russa potrebbe essere più misurato nelle sue esternazioni?

«Probabilmente sì. È anche vero che, insomma, sono persone sempre attese al varco e qualsiasi espressione usino viene sezionata e utilizzata per altri fini. Nelle sue iniziative, il ministro Sangiuliano si mostra sempre aperto alla discussione e non fazioso».

Sembra anche a lei che il conflitto sia più acceso sul terreno della cultura e dell’antropologia che su quello dell’attività di governo in senso stretto?

«Tra i due schieramenti ci sono differenze culturali e politiche non sanabili in materia di legislazione etica, sulla quale il governo pone giustamente dei confini che non possono essere superati. La ministra Eugenia Roccella fa bene a insistere su questo punto: un governo conservatore non può violare i principi della tradizione. Di più: non usare gli altri come mezzo di soddisfazione dei propri desideri è un principio laico. Che, nel caso della pratica dell’utero in affitto, viene palesemente violato dalla trasformazione delle donne in incubatrici».

Il dibattito non avviene in Parlamento perché la maggioranza è blindata e l’opposizione manca di leader all’altezza?

«L’opposizione mostra di non avere progetti concreti alternativi. Salvo alcuni no pregiudiziali, nulla viene elaborato e portato in Parlamento dalla sinistra. L’esempio più macroscopico è quello delle riforme istituzionali. Sulle quali il Pd è arretrato anche rispetto alle stesse posizioni del suo recente passato. È come se rinnegasse la necessità di fare queste riforme e avesse scelto come unica alternativa il dire no».

Come giudica la novità rappresentata da Elly Schlein?

«Personalmente trovo che questa novità non sia ancora sbocciata. Non si sia palesata. Non ho capito a che tipo di partito Elly Schlein stia lavorando. Ridurlo alle battaglie per i diritti delle minoranze, al gender, le famiglie arcobaleno e la maternità surrogata mi sembra troppo poco per un partito di opposizione di tradizione socialista. Davvero troppo poco».

Le è piaciuto il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni?

«Sì, mi è piaciuto. Ma mi ha anche un po’ stupito perché Mattarella ha parlato di diritti individuali diversi dai diritti delle etnie, cioè comunitari o sociali. Questa è una tipica e classica posizione liberale, che stavolta ho sentito propugnare da un uomo di cultura cattolica».

L’autore dei Promessi sposi era contrario alla difesa delle radici e della nazione?

«Non credo, è uno dei padri del Risorgimento italiano. Quindi, come per Manzoni anche per altre figure dell’epoca, la nazione e la patria erano punti fermi irrinunciabili».

In Marzo 1821 l’Italia è vista «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor».

«È l’elogio della patria, madre di tutti gli italiani. L’elogio della nazione italica, un tipico concetto risorgimentale».

La parola tabù è «etnia». Si può difendere la propria identità senza che significhi propugnare «una supremazia basata sulla razza»?

«Sarebbe come dire che una persona che ami la patria e sia perciò un patriota sia necessariamente un suprematista. Non è così. La parola etnia fa riferimento alla storia. Non c’è nulla che riguardi la razza. È come quando, per esempio, si parla, con espressione analoga, di genio italico. È un modo di far riferimento alla caratteristica di un popolo».

Perché parlando di cucina, di ristoranti, di musica, persino di arredamento, l’aggettivo etnico rappresenta un valore aggiunto?

«Perché indica la ricchezza di elementi che qualificano le specificità di un popolo che non hanno nulla di negativo in sé. Tuttavia, come accade, se si parte dal presupposto che una data persona è fascista, qualsiasi espressione usi se ne trova la conferma. Alla fine osservo che la discussione su questi temi è così misera da interessare solo qualche personaggio di bassa levatura».

L’infiammazione diffusa nell’organismo del nostro Paese attraversa le piazze e le istituzioni culturali. Che cosa pensa delle proteste dei giovani di Ultima generazione?

«Sono manifestazioni assai minoritarie che ci sono sempre state ora su un tema ora su un altro. Salvo condannarne le modalità e perseguire i reati quando siano commessi, il resto lo lascerei perdere».

Anche la discussione sulle cause dell’alluvione ha un retroterra ideologico: da una parte ci sarebbe il cambiamento climatico dall’altra l’incuria del territorio.

«È così. In molti dibattiti vedo più ideologia che scienza. Su questi argomenti sappiamo molto poco e tanti scienziati seri come il professor Franco Prodi si affannano a dire che non abbiamo evidenze specifiche forti. Purtroppo questo messaggio di prudenza scientifica non passa perché l’ideologia è prevalente. Oggi l’ecologia è una nuova religione, un atto di fede».

Un altro fronte è la protesta contro il caro affitti condotta dai giovani delle tende. Con i precedenti governi gli affitti erano a buon mercato?

«Non lo erano neanche allora e le famiglie si sono sempre arrangiate. I costi degli affitti per gli studenti sono un oggettivo problema delle nostre università. Occorrerebbero atenei con degli alloggi, ma questo desiderio si scontra con il fatto che le nostre università costano poco e non offrono molto in termini di servizi».

La contestazione di una trentina di attivisti ha impedito di presentare un libro al Salone del libro, il bellissimo Una famiglia radicale di Eugenia Roccella, ma si ripete che il governo non tollera il dissenso.

«Cosa del tutto falsa, perché il ministro Roccella è persona preparata e che merita rispetto soprattutto quando espone le sue idee e chiede un confronto. In quell’occasione un gruppo minoritario e senza particolare valore ha rifiutato di confrontarsi. Ancora una volta mi hanno stupito quelle forze politiche che hanno utilizzato ciò che è avvenuto per dimostrare la natura fascista del governo. Eugenia Roccella porta un messaggio molto semplice e condiviso anche dai laici, e cioè che le donne dovrebbero essere rispettate e non usate».

La mancanza di tolleranza del dissenso da parte del governo sarebbe dimostrata dal tentativo di rimpiazzare l’egemonia culturale della sinistra.

«Se così fosse sarebbe un’operazione legittima, non vedo perché l’egemonia debba essere solo di sinistra. Ma anche in questo caso si ripropone il pregiudizio, ovvero che l’intellighenzia e la cultura siano solo di sinistra. Questo è un paradosso però, perché se sei un uomo di cultura non dovresti sottrarti al dibattito come ha proposto la Roccella».

Si riferisce all’intervento del direttore del Salone Nicola Lagioia?

«Si è comportato in maniera ambigua. Poteva essere più coraggioso e sentire meno il fiato che ha sul collo della cultura di sinistra di riferimento».

Lo spoil system e le nomine in Rai sono un modo per affermare questa nuova egemonia?

«Avevo ancora i pantaloni corti che già si parlava di spoil system».

L’attuale squadra di governo è in grado di reggere culturalmente questo tipo di conflitti?

«Suggerirei all’attuale classe di governo di essere più consapevole di sé e più coraggiosa. Bisogna elaborare posizioni e difenderle. Soprattutto liberarsi dall’idea, che è solo italiana, per cui essere conservatori equivale a essere nostalgici. Talvolta ho l’impressione che anche nell’ambito della destra quando si parla di cultura si individuino figure degne solo tra gli intellettuali di sinistra. E questo è un errore perché è falso».

 

La Verità, 27 maggio 2023

 

 

L’afflizione democratica per la Rai di Lilli e Corrado

C’è molta preoccupazione a La7 per la libertà della Rai. Le nuove nomine e gli abbandoni di Fabio Fazio e Lucia Annunziata hanno gettato i volti noti della tv di Urbano Cairo nell’afflizione più profonda. È un’afflizione democratica, ovviamente, per le privazioni di cui saranno vittime i telespettatori che pagano il canone. Non una preoccupazione editoriale perché, di solito, quando un concorrente s’indebolisce, ci si frega le mani. No: dalle parti di Otto e mezzo e Piazzapulita è tutto un interrogarsi e macerarsi per il degrado della democrazia perpetrato dalle nomine appena licenziate dal Cda Rai. Venendo al sodo, giovedì è andata in onda la maratona dell’indignazione per l’avvento di Tele-Meloni. Fresca di trasferta in quel posticino simbolo di trasparenza e pluralismo che è il meeting di Bilderberg, Lilli Gruber ha dispensato il suo verbo democratico intervistando Giovanna Vitale di Repubblica e l’ex presidente della Rai Roberto Zaccaria, angosciati per l’incombere della dittatura. Sì, è vero, la lottizzazione c’è sempre stata, ma quando la faceva lui, Zaccaria, il lupo abitava con l’agnello e il leopardo giaceva col capretto. Ci è voluto il solito Marco Travaglio per evidenziare l’ipocrisia delle lamentazioni. Soprattutto quelle di fonte dem perché, a conti fatti, con le nuove nomine Fratelli d’Italia ottiene cinque caselle, la Lega sette, il M5s tre, mentre il Pd ne mantiene nove (Mario Orfeo al Tg3, Stefano Coletta ai palinsesti, Simona Sala a Radio 2, Silvia Calandrelli a Rai Cultura, Elena Capparelli a RaiPlay, Paolo Del Brocco a Rai Cinema, Andrea Vianello a San Marino tv, Maria Pia Ammirati a Rai Fiction e Luca Milano a Rai Kids). Eppure la consigliera Francesca Bria, issata in Cda dall’ex ministro Andrea Orlando, ha votato contro alzando alti lai di protesta. Insomma, quello che si dice avere la botte piena e la moglie ubriaca. Un gioco di prestigio che, quando si tratta della tv di Stato, al Pd riesce sempre facile. Come ha confermato di lì a poco la segretaria del partito Elly Schlein parlando di «occupazione a spallate della Rai» una volta che il testimone della maratona è passato nelle mani di Corrado Formigli. Il quale, in lutto per Lucia Annunziata costretta alle dimissioni perché processata a causa di una parolaccia, ha sorvolato sul fatto che il suo Mezz’ora in più era già stato rinnovato per la prossima stagione. È così: un certo giornalismo stenta a metabolizzare il nuovo scenario fornendo versioni scomposte, tinte di preoccupazione democratica. Magari perdendo la memoria sui fatti di casa propria. Quando un aggiornamento su Massimo Giletti?

 

La Verità, 27 maggio 2023

Vogue, il cinema: la sinistra si rifugia nell’immaginario

Ha ragione Carlo Freccero nella sua riflessione su Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti pubblicata da Dagospia: la sinistra ha perso, il cinema ha vinto. O forse pareggiato. Detta in sintesi, tralasciando tutto l’armamentario morettiano di canzoni canticchiate in auto, di tic linguistici, di mini lectio magistralis sul cinema (la lunga citazione di Breve film sull’uccidere di Krzystzof Kieslowski) è questa la tesi dell’ex direttore di Rai 2. Ma è chiaro che si tratta di una vittoria consolatoria, ecco perché, in sostanza, di un pareggio. Cioè, di una fuga, una ribellione, un rifiuto della realtà che solo il cinema può permettere. In qualche modo, lo aveva teorizzato Bernardo Bertolucci riproposto dal suo allievo più fedele, il Luca Guadagnino di Chiamami col tuo nome e la serie We are who we are, capisaldi della gettonatissima cinematografia woke, in un’intervista concessa a Marco Giusti: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Ecco, c’è tutto: il motore, la sorgente dell’arte non è la realtà, ma il cinema stesso. È così anche in quest’ultima prova dell’autore di Caro diario.

Come sottolineato dai critici più accorti, l’ispirazione del Sol dell’avvenire è 8 e ½ di Federico Fellini. Anche qui il protagonista è un regista in crisi che stenta a trovare il bandolo. Ma nel lavoro del più autarchico dei nostri cineasti, l’autoreferenzialità si dispiega in tutta la sua potenza, dalla voce monocorde ed esortativa che abbiamo imparato a conoscere con Michele Apicella, alle ridondanze della propria filmografia (il giro per il quartiere Prati in monopattino, il pallone calciato verso il cielo, le comparsate amichettistiche, l’amore per i dolci, la pallanuoto, i sabot…). Tuttavia, ciò che più conta è la ribellione, l’insurrezione ideologica: «La storia non si fa con i se… e chi l’ha detto?». È il punto di svolta del film. Freccero cita il Giorgio Gaber di «La mia generazione ha perso», ma Moretti non ci vuole stare, e con lui il suo alter ego, il regista che sta girando un film sulla storia della sinistra, quella nella quale per un certo periodo il Moretti militante, il Moretti cittadino, provò a entrare con i girotondi: «Con questi leader non vinceremo mai». La stessa sinistra su cui si era macerato in Palombella rossa e Aprile: «D’Alema, di’ una cosa di sinistra». A Fabio Fazio che gli chiedeva se pronuncerebbe di nuovo quella frase, il regista ha risposto: «Sudo, sudo». Nel Sol dell’Avvenire c’è questo sudore, questo impaccio. Come sarebbe stata diversa la storia se, nel 1956, al momento dell’invasione di Budapest, i dirigenti del Pci si fossero ribellati all’Orso sovietico. Se avessero tirato su la testa, rifiutato di allinearsi, stracciato l’acquiescenza. Tutto sarebbe andato diversamente e il mondo progressista sarebbe andato incontro al futuro radioso rappresentato dal Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo con tutti i suoi attori sorridenti, inebriati, sognanti, estasiati.

Non è andata così e non è un dettaglio. Un’oligarchia si era già impadronita dei sogni di riscatto del proletariato. E, nonostante il revisionismo cinematografico di Moretti (e del Veltroni di Quando), il Pci obbediva alla nomenklatura del Cremlino. Per definire l’epopea sovietica di quegli anni non va scordato che al sostantivo «socialismo» si abbinava l’aggettivo «reale». I sogni stanno a zero. Non è la sinistra ad avere perso, ma la realtà. Dodici anni dopo l’invasione di Budapest altri carri armati invasero Praga per stroncare la Primavera di Dubcek. E fu in seguito a quella repressione che Jan Palach scelse di immolarsi davanti alla statua di San Venceslao.

Se la realtà fa obiezione non resta che rifugiarsi nel cinema. Anche in Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores c’è un regista in crisi (interpretato da Toni Servillo). Si fa cinema sul cinema. O televisione sul cinema. Come in Call my agent, la serie imperniata su un’agenzia alle prese con i tic e le ossessioni degli attori. Il cinema è la bolla della realtà, nella quale si può dar libero sfogo all’invenzione. «Il cinema può risolvere qualsiasi dramma perché non ha debiti col reale», scrive Freccero. E così può diventare il doppione riveduto e corretto della storia. Il luogo dei sogni, dell’utopia, dell’immaginario. La riserva nella quale metabolizzare le sconfitte. Si vive nell’immaginario e dell’immaginario. Lo si scambia, lo si confonde, con il reale. È così che si fa politica. È così che si fa comunicazione. È così che si mantiene l’egemonia. Quando Elly Schlein, che ha debuttato in società in una cena a casa Baglioni tra registi e cantautori, incarnando trent’anni dopo la trama della Terrazza di Ettore Scola, concede la sua prima intervista da segretaria del Pd a Vogue – non al Manifesto o a Repubblica o a Micromega (Rinascita chiuse nel 1991) – afferma ciò che è realmente. Delinea il suo universo di riferimento, le classi sociali a cui si rivolge, il suo modo di fare politica e di parlare a quella che considera la sinistra. Non c’è da scandalizzarsi per la frequentazione del lusso, né da stracciarsi l’eskimo in preda a rigurgiti novecenteschi e pauperistici. C’è solo da prendere atto che il cerchio si è chiuso. E che la simpatica Elly è diventata ciò che è: «un personaggio perfetto di un film di Guadagnino».

 

La Verità, 1 maggio 2023