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Una manina ripulisce la carriera truffa di Kaufmann

Un curriculum fasullo che qualcuno sta provando a cancellare. Una carrierona inesistente, servita per accaparrarsi denaro pubblico, che adesso si tenta di sverniciare. Altro che lo scandalo di certe lauree inventate e scoperte tardi. I titoli professionali di Francis Kaufmann sono una recita da premio Oscar. Un’opera da genio del male degno di grandi festival internazionali. Una pantomima da Academy awards. Peccato che nessuno se ne fosse accorto. Nessuno che avesse detto Kaufmann chi? Nemmeno nei felpati uffici del ministero della Cultura. Nemmeno coloro che, stando al curriculum, avrebbero dovuto essere compagni di set del grande cineasta, ora inquisito per l’omicidio della piccola Andromeda e di Anastasia Trofimova.
È una millantazione kolossal, la sua. Un piano minuziosissimo che lo ha fatto apparire collaboratore di Paolo Sorrentino, in Youth – La giovinezza. Presente nel cast tecnico di Heaven, regia di Tom Tykwer su sceneggiatura di Krzysztof Kieslowski (con Cate Blanchett e Remo Girone). Produttore esecutivo di Ridley Scott in Tutti i soldi del mondo e in Ore 15,17: attacco al treno di Clint Eastwood. Al fianco di Beyoncé e Idris Elba nel thriller Obsessed. Sceneggiatore e produttore di 3 metros sobre el cielo, adattamento spagnolo del romanzo di Federico Moccia. Una super carriera cinematografica, dunque.

Oggi, però, la notizia è un’altra, ancora più stravagante. «Se non fosse una tragedia sarebbe una commedia perfetta», ha detto Sergio Castellitto, commentando la bizzarria dei finanziamenti ministeriali a un film mai girato, per giunta da un presunto criminale. La notizia di oggi trasforma la tragicommedia in un thriller. Nelle ultime ore, qualcuno sta cancellando le tracce di questa carrierona. Una manina sta nascondendo i falsi titoli professionali con i quali lo Zelig dei set ha inventato il suo profilo da cineasta. Mentre Kaufmann è nelle carceri greche in attesa di estradizione per il duplice omicidio di Villa Pamphili, parecchio lavoro attende la polizia postale per smascherare l’azione di questa manina. A rivelarlo è Franco Bechis, il direttore della testata online Open, già autore dello scoop che qualche giorno fa ha rivelato il finanziamento di 863.000 euro ottenuti dal film Stelle della notte mai realizzato dal sedicente regista americano che si firmava Rexal Ford. Fondi pubblici ottenuti grazie all’assegnazione priva di controlli e di verifiche disposta dalla legislazione del tax credit attuata dal ministero della Cultura ai tempi di Dario Franceschini.
L’invidiabile carriera di Kaufmann nel cinema era stata messa a punto nella versione professionale del sito Imdb, una specie di Bibbia dell’industria cinematografica, di proprietà di Amazon. Lì, Rexal Ford, uno dei nominativi con cui il finto regista si era accreditato, compariva, insieme a Matteo Capozzi, attivo sui profili social, e a Michael Sterling, firmatario delle lettere di presentazione, come direttore esecutivo della fantomatica Tintagel films Llc, la società di produzione che non ha sede a Malta, bensì a Canterbury, in Gran Bretagna. Anche questo, però, risulta falso perché nessuna azienda con quel nome compare nel registro delle imprese del Regno unito. Tuttavia, il piano era studiato nei minimi dettagli. Con una sofisticata tecnica di hackeraggio, i nomi dei tre direttori della Tintagel erano stati inseriti nelle schede dei film citati e presentati come credenziali negli uffici giusti. Ma il falso è kolossal perché negli sterminati titoli di coda originali dei film ai quali Kaufmann millantava la partecipazione, dove si elencano anche i nomi degli elettricisti e dei fonici, né Rexal Ford né Matteo Capozzi né Michael Sterling comparivano mai.

Ora, nella notte tra il 24 e il 25 giugno le 48 collaborazioni eccellenti a film e lungometraggi si sono dimezzate. «Una manina evidentemente collegata alla rete di Kaufmann», scrive Bechis, «è intervenuta e ha modificato la scheda della Tintagel Films su Imdb pro. Rexal Ford è rimasto tra i direttori, ma nella sua scheda sono state cancellate la metà delle produzioni che erano indicate fino al giorno prima. Sparita la partecipazione da produttore esecutivo nella versione spagnola di Tre metri sopra il cielo. Ripulite le schede originali dei film che così non erano più hackerate». La stessa ripulitura è stata realizzata sul profilo di Matteo Capozzi, «sparito del tutto con tutti i film cui avrebbe partecipato. Cancellata la sua scheda, sparita ogni traccia».
È un lavoro di ripulitura sofisticato in corso d’opera. Le partecipazioni diminuivano col passare delle ore, cancellate una ad una, certosinamente. È stato fatto un hackeraggio al contrario, opposto a quello che in fase di costruzione della falsa carriera aveva infilato i diversi avatar di Kaufmann nelle opere da esibire. Un’operazione che svela l’esistenza di una rete tuttora attiva, in possesso di strumenti raffinati, complice della persona che, secondo gli indizi in possesso degli inquirenti, avrebbe ucciso la propria compagna e la propria figlioletta.
Secondo Pupi Avati, maestro di tutti i generi cinematografici, la tragicommedia con elementi thriller ha, purtroppo, anche amari risvolti horror: «Occorreva che un mostro uccidesse la propria figlia e la propria compagna perché i grandi media si occupassero del disastro in cui si trova il cinema italiano. Che fu grande fino a quando i politici non lo ritennero cosa propria».

 

La Verità, 26 giugno 2025

Il dissing Germano-Giuli e le questioni di grana

Altolà, un ministro non può attaccare un cittadino. Non può farlo sebbene quello stesso cittadino abbia usato espressioni insultanti nei confronti del ministro stesso. E lo abbia fatto pubblicamente, nella più istituzionale delle sedi, il Quirinale, davanti al Presidente delle Repubblica. È la morale discendente dalle ultime dichiarazioni di Elio Germano, il più militante e il più premiato – no, non c’è un nesso – degli attori italiani. L’ultimo capitolo del dissing tra l’artista insignito del David di Donatello, il sesto della carriera, per l’interpretazione dell’ex segretario comunista nel film Berlinguer – La grande ambizione, e il ministro della Cultura Alessandro Giuli registra l’ennesima dichiarazione di Germano: «È inquietante che un ministro attacchi un cittadino, facendone nome e cognome», ha scandito a un evento organizzato dal quotidiano Domani. Invece, dal canto suo, il cittadino gode di licenza d’insulto e d’insindacabile libertà di sfregio. Ha potuto constatarlo chi ha seguito qualche giorno fa la cerimonia per la consegna dei David svoltasi al Quirinale alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, dove tutto è iniziato (7 statuette su 14 candidature per Vermiglio di Maura Delpero, zero premi su 15 nomination per Parthenope di Paolo Sorrentino, assente per un malessere).
Presentato da Geppi Cucciari come «l’unico ministro i cui interventi possono essere ascoltati al contrario, e a volte migliorano. Ora c’è il momento più atteso da Google translate, la parola al ministro», Giuli aveva parlato della «precarietà e della confusione del settore», sottolineando che «il disegno correttivo del tax credit aveva recepito le richieste di chi ha bisogno di chiarezza e trasparenza» e che «ora il settore deve essere riconfigurato». Subito dopo aveva preso la parola l’attore premiato nei panni di Berlinguer. «Fatico a seguire il ministro Giuli. Sentirci dire che le cose vanno bene è fastidioso», aveva premesso, sprezzante, Germano, prima di perdere il controllo. «Invece di piazzare i loro uomini nei posti chiave, come i clan, si preoccupassero di fare il bene della nostra comunità, mettendo le persone competenti nei posti giusti». Insomma, il ministro si comporta come un mafioso, mentre per far adeguatamente il suo mestiere dovrebbe promuovere le persone che piacciono a noi. In serata, su Rai 1, altra tirata sui «movimenti operaio, studentesco e femminista», la Costituzione e l’uguaglianza tra palestinesi e israeliani.

Era prevedibile che, a stretto giro, arrivasse la replica del ministro. «La sinistra pensava che la cultura fosse roba loro. Avevano intellettuali e li hanno persi, si sono poi affidati agli influencer, ora gli sono rimasti i comici», ha osservato Giuli a un convegno di Fdi. «C’è una minoranza rumorosa che si impadronisce perfino dei più alti luoghi delle istituzioni italiane, il Quirinale, per cianciare in solitudine, isolati. Mi riferisco a Elio Germano».

Già, forse non era necessario specificare nome e cognome. Fin dai tempi di La nostra vita, regia di Daniele Luchetti, premiato al Festival di Cannes 2010 come miglior attore, l’abitudine di Germano al proclama militante sul red carpet è cosa nota. Non c’è suo riconoscimento che non sia incorniciato in qualche predicozzo civile. Come quest’anno, è accaduto anche nel 2023, in sodalizio con Michele Riondino, entrambi premiati per le loro interpretazioni in Palazzina Laf (regia dello stesso Riondino). Dal Giovane favoloso in poi, il kolossal di Mario Martone del 2014 in cui Germano era Giacomo Leopardi e Riondino il fedele amico Antonio Ranieri, i due intrecciano interpretazioni e lotte politiche, recitazione e militanza. Anche ieri, intervistato da Repubblica, Riondino ha difeso il compagno, accusando l’«attivismo istituzionale contro un attore, rappresentante della cultura italiana». Germano, non il ministro.

Ciak e bandiere rosse. Primi piani e retorica comunista. Niente di nuovo davanti alle cineprese, verrebbe da dire. Il cinema va così da decenni, almeno in Italia. Sennonché qualcosa si vorrebbe cambiare. Ma ai circoli intellettuali che da sempre lo governano non sta bene. E, dunque, giù le mani dal nostro giocattolo. Questa compagnia di giro, questa cinematografia ideologizzata, è abituata da decenni ad avere tutto. Senza controlli né verifiche. I soliti registi, i soliti attori, spesso i soliti film, con i soliti finanziamenti pubblici che garantivano la produzione e l’uscita nelle sale. Che spesso e malvolentieri rimanevano desolatamente deserte. La coppia formata da Luchetti regista e Germano attore protagonista l’abbiamo ritrovata all’opera in Confidenza (anno 2024): 6 milioni e mezzo di budget, quasi tre di fondi ministeriali e 1,5 di incasso al botteghino. Con l’arrivo del «governo delle destre» questi automatismi si sono inceppati. Il bel mondo della settima arte è indispettito. Contrariato. Offeso. Come si può non lasciare mano libera al genio, alla poesia, al grande cinema? Se le sale chiudono è colpa del governo, dicono fingendo di crederci. Fino al prossimo premio. E al prossimo proclama.

 

La Verità, 13 maggio 2025

«Il pubblico ha meno pregiudizi dei critici»

Incontro Paolo Sorrentino, ultimo Premio Oscar italiano, in un hotel di Bari durante una pausa del tour promozionale di Parthenope, il film in cui, attraverso la vita della protagonista, abbozza una meditazione sullo scorrere del tempo e il rapporto con la bellezza e l’amore.
È soddisfatto di come sta andando il film al botteghino?
«Molto, non è scontato di questi tempi. Sono felice delle reazioni di molti spettatori che lo vedono come una rappresentazione della grande avventura della vita. Non come un film bello o brutto, ma come un’emozione profonda nella quale specchiarsi e rinvenire le domande che ci corrispondono. È un lavoro con una trama emotiva e sentimentale».
Si aspettava questo successo dopo l’accoglienza della critica?
«Ero molto preoccupato perché la critica non è stata benigna. Migliore quella italiana, più aspra quella anglosassone. Fa parte del gioco».
I critici sono più freddi sui temi esistenziali?
«Non so se questa sia la chiave giusta. Ci sono due modi per vivere un film: esaminarlo nelle sue diverse parti o immergersi nel flusso dei sentimenti che affronta. Il primo modo appartiene alla critica, il secondo al pubblico. Questo fa sì che questo film piaccia di più al pubblico. Se è vero che la nostra cultura è la somma dei nostri pregiudizi, come dice Alessandro Piperno, allora, secondo me il pubblico ha meno pregiudizi».
Che cosa ha innescato questa meditazione sul tempo?
«Sono entrato in un’età in cui si comincia a interrogarsi su come è passato il tempo e come scorrerà successivamente. Mi sembra il tema dei temi… quando uno guarda alla propria vita… Trovo commovente lo scorrere del tempo, la cosa più decisiva che accade a ognuno di noi».
Chi è Parthenope?
«Una donna libera, che si ostina nel mantenimento della sua libertà. Questo la rende un personaggio epico, in un’accezione moderna dell’epico. Non rinuncia alla spontaneità e alla bellezza della seduzione».
È una donna in ricerca che non si accontenta delle risposte che offre una città caleidoscopica come Napoli?
«È una donna che si lascia vivere, quando è giovane. Forse per questo a molti risulta emozionante, ci si lascia andare a quella vertigine di estasi che tutti abbiamo provato in gioventù. Quando entra nell’età della responsabilità guarda la città più da fuori, senza lasciarsi sopraffare. E le capita di andare via».
È anche una donna che non si compromette e resta sempre un po’ distante?
«Sì. Avendo questa vocazione all’antropologia guarda la sua vita da fuori. Però a Capri si lascia andare…».
Per usare le sue chiavi interpretative, sa cos’è l’irrilevante, ma le sfugge il decisivo?
«Secondo me sa anche cos’è il decisivo, come di solito lo sanno le donne. È una generalizzazione, certo, ma mi pare che le donne sappiano sempre come stanno le cose».
Per malizia?
«No, per una forma istintiva di conoscenza della vita che le donne hanno più degli uomini».
L’intelligenza emotiva vince su quella razionale?
«È come se i presentimenti delle donne siano più vicini alla realtà di quanto lo siano i presentimenti degli uomini. La mia è una sensazione».
Parthenope non si convince a fare l’attrice, delusa dall’incontro con Greta Cool alias Sophia Loren…
«Non è Sophia Loren, ci tengo a dirlo, ma la rappresentazione di una diva di quegli anni».
In tanti abbiamo riconosciuto lei.
«Contro il mio parere, visto che l’ho creata io».
Lei è soddisfatto di essere un artista?
«Sono molto fortunato e privilegiato. Faccio un lavoro molto divertente che la maggior parte del tempo non percepisco nemmeno come lavoro».
Parthenope cerca invano una complicità d’intelligenza con lo scrittore John Cheveer: a lei il mondo della letteratura ha dato le soddisfazioni che cercava?
«Sì, ho scritto nel tempo libero, non frequento il mondo della letteratura. Hanno tutti ragione è nato nell’attesa che Sean Penn fosse libero da impegni, per non ciondolare un anno a casa in pigiama. Mi ha dato soddisfazione, è un libro che ha avuto successo e ancora viene letto».
Anche con la contestazione Parthenope non si coinvolge: lei ha partecipato ai movimenti studenteschi?
«No, sono stato adolescente negli anni Ottanta quando erano diventati più occasionali».
Il suo interesse per la politica è diminuito perché mancano figure come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi o, magari da cittadino, fa credito a qualcuno?
«Da regista è abbastanza calato. Da cittadino ho grande ammirazione per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Anche per Mario Draghi. Per il resto la scena politica m’interessa meno del passato».
Le elezioni americane l’hanno appassionata?
«Più che appassionarmi a una parte o all’altra mi sono preoccupato nel vedere che un Paese tanto importante era così coinvolto in dinamiche che hanno poco a che fare con la democrazia».
Adesso è più preoccupato?
«Francamente sì».
Non per le guerre nel mondo, però?
«Tendo a fidarmi quando una persona mostra equilibrio, saggezza e prudenza, doti che non ravviso in Donald Trump. Questo non c’entra con l’essere di destra o di sinistra».
Per la protagonista del film c’è la possibilità dell’amore e vediamo il triangolo incestuoso con il fratello e il fidanzato e il rapporto con il cardinal Tesorone: non lo sa proprio gestire questo sentimento.
«Secondo me, invece lo gestisce bene. L’amore, per definizione, è abbastanza ingestibile perché è una dinamica travolgente e quando si è travolti non si gestisce nulla. Mi sembra che il repertorio dei suoi incontri sia simile a quello di tanti di noi. Ha a che fare con le varie facce dell’amore, anche quella sordida quando incontra il camorrista. Poi è tentata dalla seduzione di una persona che, in teoria, sarebbe l’anti-seduzione come il cardinale. Ci capita di essere attratti da persone che non pensiamo possano attrarci. S’imbatte nell’amore impossibile per John Cheveer che è omosessuale. Poi c’è l’amore giovanile con il primo fidanzatino e un altro amore impossibile per il fratello, nel triangolo della nostalgia. Ho provato a raccontare le diverse imprevedibilità dell’amore».
Non è gestibile perché è un dono che ci supera?
«Non so  definire l’amore. Faccio dire al cardinale quella frase sulla sua grandezza per cui tutti provano a insegnarci a gestirlo. Ma siamo come squali che girano intorno alla preda, senza riuscire ad afferrarla».
Invece,
il rapporto tra Parthenope e il cardinale come lo definirebbe?
«Mi sembra una gentilissima, delicata, meravigliosa schermaglia di seduzione tra due esseri umani pienamente liberi e coscienti. La seduzione è bellissima perché è l’unico duello in cui si può giocare senza farsi del male».
Fino
a prima dell’atto.
«La seduzione ha a che fare con il prima, non con il sesso, che è una conseguenza marginale e non deve necessariamente accadere. Il cardinale è abilissimo perché è allenato a sedurre le anime».
Mette in relazione il miracolo di San Gennaro con il contatto fra il cardinale e Parthenope: hanno qualche ragione a risentirsi i cattolici devoti al santo?
«Per me no. Io so qual è il mio approccio alla religione, sempre rispettoso. Il fatto che metta in scena dinamiche inusuali non vuol dire che siano irrispettose, sono legate alla realtà. Il mondo è pieno di religiosi che seducono uomini e donne. E sul sangue di san Gennaro non ho detto niente di nuovo, i credenti lo reputano un miracolo, i non credenti un non miracolo».
Da The Young Pope al dissoluto cardinal Tesorone, è più incuriosito dalla Chiesa che da Gesù Cristo?
«Sì».
Però la dipinge spesso corrotta.
«Lo nego. In The Young Pope e The New Pope non era corrotta».
Molto trasgressiva?
«In mondi in cui le regole sono rigide è inevitabile trasgredire. Nelle serie mi sono sforzato di raccontare l’incredibile capacità della Chiesa di navigare da 2000 anni in acque sempre molto agitate».
I suoi conterranei si sono risentiti per l’invettiva di Greta Cool?
«I miei conterranei sanno benissimo che siamo legati alla città, ma allo stesso tempo anche autocritici».
L’antropologia è vedere, la possibilità che rimane quando tutto il resto viene a mancare, dice il professor Marotta. È per questo che l’antropologo Sorrentino vorrebbe essere invisibile?
«Sì, perché così potrei vedere veramente. Anche quello che la gente adesso non mi lascia vedere».
È incuriosito da qualcosa in particolare?
«Mi è sempre piaciuto irrompere nelle case. Se fossi invisibile potrei farlo nel migliore dei modi. Nelle case vivono i segreti».
Che cosa le fa dire che i ragazzi di oggi sono migliori di quelli del suo tempo?
«Un po’ quello che vedo quando li incontro per questo film. Poi ho due figli giovani. Mi sembra ci siano tanti luoghi comuni su di loro. Quando lo ero io, giovane, si diceva che stavamo sempre davanti alla tv, ora si dice che sono sempre davanti al telefonino. Anche se in parte è vero, a me pare che questi ragazzi sappiano ritagliarsi degli spazi per vedere le cose della vita e andarci dentro».
Mostrando così mostruoso il figlio del professor Marotta voleva rappresentare lo scandalo del dolore?
«Non ha molta importanza cosa volevo rappresentare io, lo ha di più cosa ci vede lo spettatore».
Però è una scena cercata, che fa sobbalzare
sulla poltrona.
«Ho un’idea molto ampia di bello. E quell’essere umano lì mi sembra bellissimo e stupefacente, e può essere evocativo per lo spettatore. Nel momento in cui lo devo spiegare perde di senso».
A me ha fatto pensare al
mistero del dolore.
«È qualcosa che appartiene a una generazione che ha avuto figli con dei problemi, facendoli diventare dei tabù. In casa c’era qualcosa di cui non si parlava e che non si poteva mostrare all’esterno. Marotta è un professore universitario degli anni Ottanta. Oggi non è più così».
Perché sembra spesso annoiato?
(Ride) «Lo sono come tutti. Alle volte lo sono, altre no».
La noia è un derivato dello snobismo?
«Non penso».
Convive bene con il successo?
«Sì, è un fatto che ha molti lati positivi e pochissimi negativi».
Che cosa le fa dire che «Dio non ama il mare»?
«Avevamo finito di girare alle 4 di notte e a Lanzetta, stanchissimo, è uscita quella frase, come uno sberleffo. Non le darei troppa importanza, cazzeggiavamo come ragazzi sul muretto».
Fa il paio con «Il mare mi ha deluso»
di un pensoso Renato Carpentieri in È stata la mano di Dio.
(Ride a lungo)
Che cosa appassiona Paolo Sorrentino?
«Gli esseri umani. Per il mio lavoro mi occupo di esseri umani. Quando trovo quelli che mi piacciono ci faccio i film».

 

La Verità, 9 novembre 2024

I film «da Oscar» floppano e costano milioni al Mibac

I conti non quagliano. Spiace per il cinema italiano, elegante e sofisticato. Spiace anche per certi nostri registi e autori, così raffinati. E anche per gli attori da proclami festivalieri. Ma, con buona pace di Nanni Moretti, tutto il sistema necessita di una revisione. Di un ricalcolo, verrebbe da dire. Eccone un assaggio. Volare, il primo film in cui, dopo decenni di titubanze attoriali, Margherita Buy si è messa alla prova come regista ha ricevuto dal ministero della Cultura – fra tax credit, con criteri predefiniti, e contributi selettivi, cioè assegnati dalla commissione di giornalisti – circa 1.262.000 euro, incassandone 674.000 euro, la metà. Il totale non basta certo a coprire il costo totale dell’opera di 3.770.000, ma questi sono affari del produttore. Confidenza, l’ultimo film diretto da Daniele Luchetti con un super cast composto da Elio Germano, Vittoria Puccini e Isabella Ferrari ha ottenuto oltre 2,7 di fondi ministeriali, incassandone 1,5 milioni. Lubo di Giorgio Diritti, autore celebratissimo dalla critica, finanziato con 2,5 milioni tra tax credit e fondi assegnati dalla commissione (senza contare i 164.000 per la redistribuzione internazionale), ha portato a casa al box office la bellezza di 145.000 euro.
Sono solo alcuni esempi dello status quo. Se la legge varata dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano è «pessima», come ha sentenziato il Moretti descamisado della serata finale della Mostra di Venezia, è davvero difficile trovare un aggettivo plausibile per quella in vigore con Dario Franceschini, precedente titolare del ministero della Cultura. Tanto più che, mentre quest’ultima continua a produrre le sue nefandezze, la normativa voluta dal suo ingenuo successore non è ancora operativa. E, dunque, risulta un filo prematuro stabilire quali siano i suoi effetti. Quelli, invece, comprovati da cifre e numeri di costi, incassi e fondi pubblici sono da ascrivere al sistema vigente, ovvero della legge delle quattro effe: Film Finanziati che Fanno Flop. È questa, infatti, la costante di una certa gestione pubblica della cinematografia nostrana. È cronaca e storia recente. Abbiamo visto le tabelle con i costi dei film, i contributi alla produzione, le presenze in sala (cfr. anche La Verità del 12 settembre scorso).

Ora, però, c’è un piccolo aggiornamento allo stato delle cose. Claudio Plazzotta di Italia oggi si è preso la briga di andare a vedere quanto hanno incassato i 19 film che compongono la lista delle opere fra le quali il prossimo 24 settembre la commissione dell’Anica (Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive ndr) sceglierà quella che rappresenterà l’Italia nella corsa agli Oscar. A onor del vero, non bisogna prendere quella lista come oro colato perché, in buona parte, si tratta di autocandidature che si ottengono versando la modesta cifra di 500 euro. Ma tant’è. Rappresentatività a parte, per i 15 film già visti in sala – 4 devono ancora uscire e, tra questi, Parthenope di Paolo Sorrentino e Vermiglio di Maura Delpero che, verosimilmente, si contenderanno la candidatura – «il box office complessivo è di 8,2 milioni di euro, con una media di incassi di circa 550.000 euro» a opera. Insomma, un bilancio imbarazzante. Sia per la qualità artistica e la penetrazione sul pubblico di molti osannati artisti. Sia, soprattutto, per le casse del ministero della Cultura.

Nel 2023 in Italia sono stati prodotti 348 film, sette in meno dei 355 del 2022, ma sempre in numero di gran lunga superiore a quelli realizzati in Francia o in Gran Bretagna. Molti di questi non approdano alle sale o, se le raggiungono, vi rimangono pochi giorni, prima di essere ritirati per assenza o scarsità di pubblico. Vengono ugualmente realizzati per ambizione artistica e autoriale, molto spesso con il sostegno dei fondi ministeriali. Più ancora che nel caso dei flop di star popolari e celebrate, che comunque, un minimo di spettatori li attraggono, quando si parla di opere «d’essai», la forbice tra incassi e finanziamenti pubblici è particolarmente divaricata. Anche perché, in questi casi, i contributi possono superare il 50% del costo complessivo del film. Esemplificando ancora: L’altra via di Saverio Cappello ha ricevuto 356.416,46 euro di tax credit e 270.000 di contributi selettivi e ha incassato 7.000 euro in totale. Accattaroma di Daniele Costantini ha avuto 214.606 euro di tax credit, raggranellandone 3.000 (tremila) al botteghino. Taxi monamour di Ciro De Caro ha ottenuto 724.000 euro fra tax credit, contributi selettivi e contributi autonomi recuperandone appena 8.000 dai biglietti venduti.
Nei prossimi giorni diverranno operativi i nuovi criteri di assegnazione dei contributi ministeriali per il cinema italiano varati dall’ex ministro Sangiuliano e aggiornati nella composizione della commissione di esperti dal suo successore, Alessandro Giuli. Risulta difficile immaginare che possano essere peggiori di quelli che hanno prodotto la situazione attuale.

 

La Verità, 18 settembre 2024

Una serie sull’ombelico del cinema italiano

Fazismo e Vanity Fair, che sono la stessa cosa; veltronismo e festival del cinema, idem: Call my agent – Italia, remake della francese Dix pour cent, diramata da Netflix e ambientata in un’agenzia cinematografica di promozione dei migliori attori e artisti del bigoncio, è la nuova serie che piace alla gente che piace. Sono tutti in visibilio, gli addetti ai lavori, perché funzionano la sceneggiatura, la regia, il cast farcito di guest star, da Paola Cortellesi a Pierfrancesco Favino, da Stefano Accorsi a Paolo Sorrentino, ognuno nella parte di sé stesso, ognuno che – senza prevaricare i veri protagonisti del racconto che sono, appunto, i loro agenti – dà il titolo all’episodio. Prodotta da Sky studios e Palomar, con la regia di Luca Ribuoli e la sceneggiatura di Lisa Nur Sultan, Call my agent – Italia ha entusiasmato i critici al completo. E se qualcuno (Marco Giusti) ha pignoleggiato sulla costruzione della storia, radicata nella Roma cinematografica e nel quartiere Prati delle sedi Rai, è perché alla fine Sky non poteva troppo indugiare sul contesto logistico, geografico, infine culturale di quel demi-monde che ha nella tv pubblica il suo epicentro. Insomma, l’agenzia Cma, dove Maurizio Lastrico (lo sfigato Gabriele), Sara Drago (l’isterica lesbica), Michele Di Mauro (lo squalo) e Marzia Ubaldi (la saggia) si affannano tra casting, set, premi e paranoie delle star sarebbe poco credibile perché poco incentrata nel suo proprio brodo di coltura. L’obiezione è sensata e coglie, forse, il tentativo di sottrarsi agli effetti nefasti dell’autoreferenzialità. Missione impossibile.

Qualche giorno fa, rispondendo a un lettore che non trovava attraente nessun film italiano in programmazione, Daniele Luttazzi scriveva: «Il cinema italiano deve spiegare, a questo punto, perché il pubblico dovrebbe uscire di casa per andare a vedere i film della solita compagnia di giro. Favino, Servillo, Abatantuono, De Sica, per dire, li ha già visti: la loro gamma emotiva quella è, da anni non hanno altro da aggiungere». Dieci attori e dieci attrici, più o meno, sempre gli stessi, fanno tutto o quasi (tra le poche eccezioni, Pupi Avati che gli attori li sceglie a modo suo e guarda caso entra di rado nell’italica premiopoli). Se già è asfissiante al cinema questa compagnia di giro, figurarsi quanto possono esserlo le paturnie dei suoi componenti nel backstage degli agenti. Non basta certo l’autoironia a rompere la gabbia del narcisismo. Ciò detto, la serie è godibile e furba. Ma il momento migliore è la tirata di Sorrentino sull’«entusiasmo immotivato, il sentimento più orrendo dell’essere umano»: sarà perché sembra presa dalla vita vera?

 

La Verità, 24 gennaio 2023

Cattelan cerca la felicità cazzeggiando

Tanti anni fa, forse troppi perché Alessandro Cattelan possa ricordarlo, c’era un gioco per bambini che si chiamava «Fuoco fuochino». Considerato il suo linguaggio pop ludico, è un gioco che all’eterno golden boy della tv italiana potrebbe piacere. Consisteva nel nascondere un oggetto e farlo trovare al rivale, guidandolo con espressioni come «acqua» «diluvio» «alto mare» quando si era distanti dal tesoro, o «fuochino» e «fuoco» se ci si stava avvicinando. In Una semplice domanda (Fremantle) su Netflix, Cattelan cerca la felicità ponendo una serie di domande e cercando risposte dialogando con persone che potremmo definire realizzate (Roberto Baggio, Paolo Sorrentino, Gianluca Vialli, Geppi Cucciari, Elio, Francesco Mandelli). L’idea non è male e il modo di realizzarla ha tratti divertenti perché la cifra di Cattelan è il cazzeggio e anche qui riesce a parlare di argomenti tosti buttandola sul ridere. A casa di Baggio (la sua malinconia), dopo essersi sottoposto a una breve seduta di meditazione buddista si fa confidare la difficoltà di ricominciare una vita dopo la fama, il successo e qualche rimpianto. La cornice sono migliaia di stampi di anatre da caccia di cui il Divin codino è collezionista. In un altro episodio Cattelan si chiede con aria compunta se «nei momenti bui possiamo davvero trovare la felicità in Dio?». E subito dopo, da ragazzo cresciuto a pane e tv, annuncia euforico: «Benvenuti a 4 religioni», un mini talent con rappresentanti dell’islam, dell’ebraismo, dell’induismo e un prete, che aggiudica il titolo di miglior religione. Dal canto suo, Sorrentino (la sua ironia) rivela che gli piace «la religione cattolica» perché è ben congegnata in quanto i divieti e le regole creano le premesse di una vita rassicurante. Poi certo, «credere in Dio è un’altra cosa». Già… Fuochino o annegamento imminente? Ma ecco «la prova Aldilà». C’è felicità nel dolore? chiede Cattelan a Vialli mentre giocano a golf, «grande metafora della vita». Da quando ha scoperto di avere il cancro, Vialli (la sua ritrovata ingenuità) ha realizzato che il tempo è molto più prezioso, che alle sue figlie vuole trasmettere ciò  che conta e che è arrivato il momento di «fare le cose che mi piacciono, lasciando perdere le stronzate». Annunciando di aver imparato la lezione, Cattelan si butta in piscina con cinque ragazze per fare la sirena con una monopinna di nylon. Fate voi… Poi, con Geppi Cucciari, si chiede se l’amore renda felici. Due le ipotesi considerate: un corso per fidanzati in vista del matrimonio in chiesa e una coppia di attori porno. Buttarla in ridere è anche un po’ buttarla in vacca?

 

La Verità, 23 marzo 2022

Altro Oscar a Sorrentino? Magari anche no

Con tutto il rispetto, abbiamo già dato. Al cinema di Fellini, a Napule è di Pino Daniele, al calcio di Diego Armando Maradona. Con tutto il rispetto, Paolo Sorrentino ha già avuto: l’Oscar per il miglior film internazionale a La grande bellezza. Da allora abbiamo visto Youth, le serie sui papi, Loro in due parti. È stata la mano di Dio è un’opera più personale e intima, meno estetizzante e gigiona. Tra la «realtà scadente» di Fellini e la «creatività e la fantasia falsi miti» di Antonio Capuano, quale sia la scelta del regista partenopeo è chiaro dalla prima scena: una «giunonica» Luisa Ranieri sale sulla Rolls Royce di un distinto signore che si spaccia per San Gennaro. Stavolta però Sorrentino dosa i sogni perché c’è di mezzo la sua adolescenza, segnata dalla perdita dei genitori. Meglio sbizzarrirsi nel grottesco vesuviano, antipode immaginario di Gomorra. Se la realtà è scadente, meglio il cinema: così Fabietto diventa Fabio e vede pure ’o monaciello che porta bene.

È stata la mano di Dio rimarrà bello e riuscito anche senza Oscar. È entrato nella short list, può infilarsi nella cinquina. E, nonostante Scompartimento n. 6 e Il capo perfetto, può agguantare la statuetta, ribadendo il cliché dell’Italia «molto pittoresca» che piace non solo a Hollywood. Sorrentino sta nell’Olimpo, vicino a Roberto Mancini e Mario Draghi. Dissentire dal secondo Oscar è una sassata contro la vetrina. È non rassegnarsi all’ovvietà di Maradona miglior calciatore di sempre. Io gli ho sempre preferito Johan Cruijff. Portate pazienza.

 

Oggi, 30 dicembre 2021

Oggi mi ha chiesto di fare il controcanto a Paolo Mereghetti, critico cinematografico del Corriere della Sera, a proposito della candidatura di È stata la mano di Dio come miglior film internazionale.

 

Addio alla Carrà, Grande Sorella Televisione

Raffaella Carrà, che ieri a 78 anni ci ha lasciati a causa di un male di cui pochi sapevano, trasferendosi «in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre» (Sergio Japino, annunciandone la morte), è stata una di quelle persone, rare anche nel mondo dello spettacolo, nelle quali, per una felice congiunzione degli astri, si combinano armonicamente virtù e doti che solitamente confliggono tra loro. È il tocco lieve della natura, l’impronta della grazia. Se si riflette sui doni di tanti artisti, si scopre che gran parte di loro esprimono un carattere originale, favorito da sensibilità e doni particolari e perciò rivolti a platee più raffinate o, al contrario, a pubblici più popolari. Raffaella Carrà, vero nome Raffaella Maria Roberta Pelloni, era invece l’artista di tutti. Una star globale, si potrebbe dire. Una figura universale, in grado di abbracciare l’audience più larga e composita. Nazionalpopolare e raffinata. Showgirl intelligente. Energia travolgente ma equilibrata. Ballerina, cantante, presentatrice, attrice, perfetta per i musical, mosse i primi passi con Lelio Luttazzi e con Domenico Modugno. È passata da Hollywood respingendo Frank Sinatra («Non volevo essere la pupa del gangster»). Icona pop, amata dai gay. La risata larga e contagiosa. Il caschetto biondo che si rovescia all’indietro. Il body glitterato. Il ballo trascinante, spesso su motivi orecchiabili. Ma che musica, maestro, Rumore, Com’è bello far l’amore da Trieste in giù, Ballo, ballo. Una presenza entrata nell’immaginario italiano, e non solo, senza mai diventare eccessiva. «Ho più paura che la gente dica: “Ancora lei!”, piuttosto che: “Dov’è andata a finire?”». All’opposto di Pippo Baudo pensava che dalla televisione bisognava saper stare lontano. Bisognava anche solo guardarla. E guardare la gente per strada, per capire meglio chi sono quelli che schiacciano i tasti del telecomando e alla fine devono scegliere te, tra tante opzioni. E così, dosandosi, sapendo sparire per anni, anche aiutata dall’ansia di prestazione (come Fiorello) e dal timore di non riuscire a mantenere i suoi standard di successo, ma poi ritornando senza però mai invadere stucchevolmente i media, riservata e persino timida, lontana dalla mondanità sebbene protagonista di storie d’amore importanti con Gianni Boncompagni e Japino, Raffa è entrata nell’album di famiglia. Compagna divertente ma sobria. Presenza affidabile. Donna che non tradisce. Una garanzia per decenni. Grande sorella della televisione: Canzonissima, Milleluci, Fantastico, Carràmba, Sanremo

Aveva vent’anni quando si presentò a un provino davanti a un compiaciuto dirigente: «Lei è fortunata. La vede quella scalinata? La scenderà ogni settimana con un abito meraviglioso e una benda sugli occhi. Nell’ultima puntata se la toglierà per annunciare i premi della Lotteria Italia». Lei lo guardò e replicò: «Grazie, ma odio le scale, in giro ci sono almeno ottomila ragazze più belle di me e questa cosa può farla chiunque. Lei forse non lo sa, ma io sono bravissima». Era questo il piglio molto emiliano di una ragazza cresciuta tra Bologna e Bellaria, nella gelateria della nonna, con una madre energica e precocemente separata. «La vita è una partita a carte e a me piace avere il mazzo in mano», rivelò in una delle ultime interviste a Malcom Pagani di Vanity Fair. Ma lei era tutto meno che la fiera delle vanità. Piuttosto: lavoro, applicazione, volontà. Da coreografa che voleva diventare s’impose come ballerina. Nel 1971, una delle prime edizioni di Canzonissima, dopo un paio di puntate il Tuca tuca con Enzo Paolo Turchi fu censurato dalla Rai. Ci volle Alberto Sordi per sdoganarlo e far ricredere anche l’Osservatore romano che aveva puntato il dito. E l’immagine dell’Albertone nazionale che le sfiora giocosamente l’ombelico è tra i fotogrammi della memoria di chi non è più giovanissimo. In un Fantastico di vent’anni dopo toccò a Roberto Benigni violare un altro tabù con la celebre scena della «patonza». Raffa stava al gioco borderline sempre con autoironia e senza mai essere volgare. Era stata confidente delle casalinghe, complice delle donne e delle massaie con quel Pronto, Raffaella? che, inventato da Boncompagni, all’inizio degli anni Ottanta aveva inaugurato la tv di mezzogiorno. Prima c’era il telescopio, adesso milioni di telespettatori erano catalizzati nel tentativo d’indovinare quanti fagioli conteneva quel vaso trasparente. Una telesagra paesana, forse. Ma anche qui, la Carrà stava al gioco senza darsi importanza, un’italiana come noi. Continuò a esserlo anche dopo la parentesi in Mediaset (allora Fininvest), un paio d’anni prima di tornare in Rai. Ma soprattutto, prima di ricominciare in Spagna. Dove scoprì il format di Carràmba!, i ricongiungimenti familiari che la fecero sciogliere in lacrime e, con lei, milioni di telespettatori che la seguivano il sabato sera. Era stato Japino a segnalarglielo, ma fu Brando Giordani, allora direttore di Rai 1, a toccare le corde giuste e convincerla, facendo incazzare il suo compagno. Ebbe grandi ospiti e grandi ascolti, nonostante un certo snobismo della critica, che la adombrò: si ricorda molto di più una critica cattiva e gratuita che un bel complimento. E ancor più si ricordano certi attacchi feroci. Come quando, a proposito della storia con Japino, di dieci anni più giovane, ci fu chi scrisse: «La bella incontra la bestia». «Furono cattivi, anzi mostruosi». Però, niente: volontà, applicazione e lavoro. Non era tipo da farsi troppi problemi nemmeno di fronte alle avance di dirigenti e produttori: la cura Carrà ara «lo smataflone, detto in bolognese. Un sonoro ceffone capace di smontare ogni ardore di sopraffazione sessuale». Quando Paolo Sorrentino le chiese il permesso di usare A far l’amore comincia tu per La grande bellezza era scettica. «Pensavo ai soliti 20 secondi in un film commerciale, non avevo capito si trattasse di Sorrentino». Ma poi quando il film vinse l’Oscar «ero gonfia come un pavone».

Quando una volta chiesero a Fruttero e Lucentini se Gabriele D’Annunzio sarebbe andato ospite della Carrà risposero: «Sarebbe lui la Carrà!».

 

La Verità, 6 luglio 2021

Il Vaticano? Un girone dantesco per Sorrentino

Dopo The Young Pope Paolo Sorrentino aveva due strade: mettere ordine nel calderone del Vaticano orfano(?) di Pio III-Lenny Belardo (Jude Law) o accentuare il disordine creativo. È fuor di dubbio che egli abbia imboccato la seconda, quella più estrema, eccentrica, febbrile. In The New Pope, la serie originale Sky da ieri sul canale Atlantic e on demand, creata e diretta dal regista premio Oscar, prodotta da The Apartment – Wildside, parte di Fremantle, la specificità del Vaticano c’è, ma è quasi un pretesto. Pre-testo. Un punto di partenza per le licenze e licenziosità poetiche, etiche, estetiche del regista-sceneggiatore-produttore esecutivo. La Cappella Sistina, piazza San Pietro e i giardini vaticani sono il luogo per eccellenza; il contrario del non luogo contemporaneo e della società liquida, come fa intendere il sempre più strategico (e stratega) cardinal Voiello (Silvio Orlando) parlando della diversità dei tempi della Chiesa. La Santa Sede è il luogo del Logos e Sorrentino lo sa o, per lo meno, lo intuisce. Intuisce che la Chiesa è un’istituzione dell’altro mondo, una realtà umana attraversata dal divino, e ne è affascinato, soprattutto per l’estetica di liturgie e riti. Tuttavia, faticando a penetrarne il mistero e a dare verticalità al racconto, la messinscena si dibatte tra vero, verosimile, falso, onirico, fantasy, virtuale, allucinato, psichedelico…

Così The New Pope è più di un sequel di The Young Pope, con personaggi nuovi e sganciamenti narrativi. E le situazioni nelle quali lo spettatore viene introdotto sono spin off del reale. Francesco II che apre il Vaticano ai migranti e parla di Chiesa povera, lo è di Bergoglio anche se muore precocemente, citando papa Luciani. Mentre la situazione in cui si vengono a trovare Lenny Belardo e John Brannox (John Malkovich) è un lungo parallelismo dei due pontefici attuali. Con le licenze che dicevamo. E con le licenziosità, parola del moralismo novecentesco, con il quale il regista continua a giocare muovendo le suore infoiate, la realpolitik di Voiello, il dandismo di Malkovich. Il quale, più che interpretare papa Giovanni Paolo III, gli presta le proprie mollezze, accettando l’iniezione dialettica dello stesso Sorrentino che, sempre per gioco, gli mette in bocca discorsi pregnanti e sincopati da guru moderno, nel terzo episodio ce ne sono ben due. Perché l’altra novità di The New Pope sono i tempi dilatati della narrazione che innesta la sintassi felliniana con accenni lynchiani. Il risultato finale è un Vaticano dantesco assolutamente imprevedibile, fucina di esotiche sorprese, rigorosamente da non prendere sul serio.

 

La Verità, 11 gennaio 2020

«Rischiatutto» al posto di «Dieci cose», perché no?

Domenica pomeriggio Fabio Fazio è stato ospite dell’Arena di Massimo Giletti su Rai 1 per promuovere Rischiatutto e un paio d’ore più tardi si è autopromosso insieme con il Signor No nel suo Che fuori tempo che fa (dove ha lanciato anche il programma di Mika, dal 15 novembre su Rai 2 e Le parole della settimana di Massimo Gramellini, da sabato su Rai 3: en plein di promozioni aziendali dopo le accuse di tirare la volata ai programmi di Sky). Da Giletti Fazio ha detto che Rischiatutto andrà in onda nella rete dove lavora dal 1985 per «una decisione presa dalla direzione generale in accordo con la direttrice di Rai 3, Daria Bignardi». Infatti, la Bignardi aveva voluto garanzie da Campo Dall’Orto al momento della nomina. Però, visto come stanno andando le cose, sarebbe sbagliato cambiare idea? E posto che il giovedì di Rai 1 è bello solido, perché non piazzare Rischiatutto 2.0 al sabato sera spostando Dieci cose al giovedì su Rai 3? Fazzismo per veltronismo…

SkyTg24 monitora l’Italia sismica. È partita ieri «Italia trema», l’inchiesta di SkyTg24 voluta dalla direttrice Sarah Varetto a due mesi dalla catastrofe in Abruzzo per sottolineare che ci ricordiamo del rischio sismico puntualmente dopo le tragedie. Gli inviati del canale all news sono andati nei luoghi colpiti da terremoti, cominciando da Reggio Calabria (devastata nel 1908), per poi passare a Napoli, «zona rossa» tra due vulcani attivi, fino all’esempio virtuoso di Norcia. Sei reportage in onda alle 20.20 e in replica alle 23.20.

Rai ente pubblico con lo zampino di… Non si è saputo più niente dell’inquadramento della Rai nella Pubblica amministrazione ipotizzato dall’Istat che ha improvvisamente recepito una direttiva europea allarmando giustamente i vertici di Viale Mazzini. Il Cda ha rimandato la palla al governo perché eviti l’equiparazione ai Comuni e alle Asl imponendo alla Rai di assumere dopo pubblici concorsi e di assegnare appalti dopo gare, anch’esse pubbliche. Non si è saputo più nulla: solo ci si ricorda che Valerio Fiorespino, già responsabile risorse umane licenziato dalla Rai, da settembre è capo del Dirm, dipartimento Istat dalla dicitura interminabile.

Chi interpreterà Berlusconi per Sorrentino. Venerdì l’ospite di Edicola Fiore era Paolo Sorrentino, reduce dalla «State dinner» alla Casa Bianca e Fiorello non ha perso l’occasione per sfruculiarlo. «È stata una cosa molto divertente, che non farò mai più», ha sintetizzato il premio Oscar citando David Foster Wallace. Altrettanto fulminante la gag di Fiore: «Sapete, Sorrentino sta pensando di girare un film su Berlusconi. Per interpretarlo, sul set si è presentato Silvio, ma dopo il casting la parte è andata a Renzi». Applausi.

 

La Verità, 25 ottobre 2016