Tag Archivio per: teatro

«Gaber uomo libero, la sinistra doveva ascoltarlo»

Per una volta si può dire «il marito di». Riccardo Milani lo è di Paola Cortellesi e, anche se lui, giustamente, recalcitra con un sonoro «no» quando lo provoco, da lunedì competeranno al botteghino. Ha ragione: C’è ancora domani, diretto e interpretato da sua moglie alla prima regia, pluripremiato alla Festa di Roma, è in vetta agli incassi, mentre Io, noi e Gaber, pure passato a Roma, è «solo» un documentario (prodotto da Atomic con Rai Documentari e Luce Cinecittà, distribuito da Lucky Red) che andrà nelle sale come evento speciale il 6, 7 e 8 novembre.

Giorgio Gaber ci manca da vent’anni e ritrovarlo ora nei monologhi in tv e a teatro («Fisicamente non ce la faccio a essere di destra. Ma come mi fanno incazzare quelli di sinistra…», ai tempi della candidatura di Ombretta Colli in Forza Italia), al fianco di Enzo Jannacci, Mina e Celentano e nei ricordi di chi l’ha frequentato, è un regalo oltre che per i suoi cultori anche per il grande pubblico. Il cinema di Milani, da Buongiorno Presidente! a Come un gatto in tangenziale, ha l’ambizione di coniugare contenuti e linguaggio pop e dunque non c’era regista migliore per raccontare un artista che è stato coscienza critica e grande uomo di spettacolo.

Questo documentario è un’idea sua, della Fondazione Giorgio Gaber o di qualcun altro?

«Con la figlia, Dalia Gaberscik, ci eravamo già sfiorati in passato, poi due anni fa mi ha chiamato: “Nel 2023 saranno vent’anni dalla morte di mio padre e vogliamo fare qualcosa. Sappiamo quanto gli vuoi bene, facci una proposta”. Da lì è partito tutto».

Lei è romano, Gaber milanese: come lo ha intercettato?

«Già da piccolo ascoltavo Goganga, Torpedo blu, La ballata del Cerutti, Il Riccardo. Poi il suo corpo con quel modo di muoversi si è abbinato a quelle canzoni orecchiabili. Più tardi, diciottenne, ascoltavo i testi del Teatro-canzone. Con quelle riflessioni e le loro durezze arrivavano tanti segnali che riguardavano la nostra vita, il movimento, la politica. Era un punto di riferimento. Provavo a far mia una sua costante: il coraggio, la capacità di seguire la propria strada, anche con una certa rabbia, se necessaria».

Era solo ascolto o anche rapporto personale?

«Era il rapporto di chi andava sempre ai suoi spettacoli quando veniva a Roma. Aspettavamo i suoi concerti e i suoi pezzi come si aspetta una parola importante. Su Gaber ci si divideva molto. Aveva amici, estimatori ma anche detrattori sia a destra che a sinistra. Io apprezzavo la sua semplicità di dire le cose senza filtri o strategie di comunicazione».

A sinistra c’erano anche altri cantautori di riferimento.

«Stimavo molto Francesco De Gregori, Fabrizio De André, Franco Battiato. Ma la parola di Gaber aveva un’autenticità diversa perché era diretto, mescolava ironia e rabbia. Polli di allevamento fu una mazzata sui denti: ci aveva detto che eravamo passati da movimento a moda».

L’omologazione di Quando è moda è moda.

«Fu quasi un’offesa personale, la denuncia che tutto aveva preso un’altra piega. Come sarebbero andate le cose se avessimo ascoltato di più Gaber? Avremmo imparato a giudicare un’idea per quello che era a prescindere dalla sua provenienza di destra o di sinistra, senza essere ideologici».

In quella canzone denunciava i vezzi delle élite, «le parole nuove sempre più acculturate… che per uno di onesti sentimenti quando ve le sente in bocca avrebbe una gran voglia che vi saltassero i denti».

«Un testo attualissimo».

Facciamo che l’io del titolo del documentario sia lei: chi è Gaber per Riccardo Milani?

«Un uomo libero. Credo sia la definizione più giusta».

Gliene sottopongo altre: un grande anticonformista, un benefico scocciatore dell’anima, la coscienza critica della sinistra.

«Tutte hanno qualcosa di giusto. Gaber è stato anche un musicista, un cantante, un conduttore tv, un uomo di teatro che ha inventato un genere. Un grande intellettuale. Che sapeva essere al tempo stesso colto e pop, un passo avanti e un passo indietro».

Il noi del titolo chi rappresenta?

«Tutti noi che dobbiamo fare i conti con lui. Le persone che poi ho incontrato nel mondo della tv, del cinema, del teatro e della politica. È un resoconto che possiamo fare adesso, per capire come il nostro Paese si è trasformato e si sono avverate certe sue previsioni».

Tipo il rimescolamento di destra e sinistra?

«Alcune abitudini che nella sua famosa canzone erano prettamente di destra sono diventate di sinistra e viceversa. Oggi il culatello è consumato anche a sinistra».

Il documentario rischia di mettergli il timbrarlo come uomo della sinistra?

«Non direi. È un lavoro attraverso il quale la sinistra può confrontarsi con lui e rivedere la propria evoluzione».

Ci sono Michele Serra, Fabio Fazio, Ivano Fossati, Claudio Bisio, Pierluigi Bersani, Mario Capanna, naturalmente Sandro Luporini…

«Tutte persone che si misurano con loro stesse e gli errori del passato».

Non ho notato grandi autocritiche.

«Già allora Gaber poteva farci aprire gli occhi. Adesso Fazio ammette che era ridicolo dividere il mondo in due e forse all’epoca non lo pensava. Poi ci sono lo sguardo di un cattolico come Massimo Bernardini, il pensiero di Paolo Dal Bon, Mogol che ricorda che quei militanti fecero piangere De Gregori…».

Mogol non fa autocritica da sinistra.

«Lui e Battisti erano etichettati come fascisti solo perché non facevano canzoni impegnate. Erano anni di follia generale. Io l’ho voluto dire nel cinema, ma vale per la musica, il teatro: la qualità di un prodotto si valuta senza affibbiare etichette».

Qual è il lascito di Gaber?

«Forse la critica al consumismo non legato all’essenziale. La difficoltà della generazione dei padri di trasmettere a quella successiva questa autenticità. E poi l’invito a non delegare, la famosa partecipazione, e ad avere un’identità forte».

Ma la sua generazione ha perso o no?

«Penso che da allora alcune istanze giuste siano arrivate. Se guardiamo alla società di oggi non possiamo non vedere una forte deriva consumistica».

Il lascito può essere anche il primato della sfera esistenziale su quella politica? È la persona nella sua totalità a giudicare anche la politica e non il contrario?

«Ho sempre pensato che nella sfera esistenziale ci dev’essere anche la politica. Viviamo in una comunità. Gaber metteva in guardia dal delegare troppo. Fino a qualche anno fa i votanti erano il 75%, ora siamo al 50%. Cioè, c’è un 25% che non esercita più nemmeno una sana delega».

Quali sono le sue tre canzoni preferite?

«C’è solo la strada, Quando è moda è moda e La libertà».

Ce n’è una o un verso che l’ha ferito di più?

«Mi ripeto “la strada è l’unica salvezza”. Penso che oggi sia fondamentale vivere la società in cui siamo in modo non personalistico, intimistico».

Da lunedì il suo documentario contenderà gli spettatori a C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi in vetta al botteghino.

«Ma nooo».

Certo, non ci può essere gara… Vi aspettavate questo successo o vi ha sorpreso?

«Paola è molto stupita e io sono molto felice per lei. Per il cinema italiano è qualcosa di importante. Il valore di un film è anche l’impatto che ha sul pubblico in un preciso momento. Il fatto che alla fine della proiezione il pubblico applauda in modo spontaneo significa che il film riaccende una scintilla di senso civico, rimasta sopita in molti di noi».

Paola ha recitato in alcuni suoi film: che esperienza è dirigere la propria moglie?

«Non so cosa dire, mi piace molto come attrice perché sa essere tante cose e arrivare al cuore e alla mente delle persone».

Aveva intravisto il suo talento di regista?

«Sì, avevo intuito che è in grado di dirigere un film. E che ha la cifra per parlare a un pubblico trasversale, di bambini e adulti».

Possiamo dire che difficilmente non vi portate il lavoro a casa?

«Invece possiamo dire che molto facilmente non ce lo portiamo. Non frequentiamo feste, terrazze e salotti. Andiamo alle anteprime solo degli amici e a teatro paghiamo il biglietto».

Le avrà chiesto consigli per la regia.

«Zero, non ho voluto sapere nulla. Quando abbiamo fatto film insieme ha visto sul set come lavoravo, stop. Così avrà fatto anche con gli altri registi con cui ha lavorato».

Non le ha chiesto faccio così o colà?

«Non sapevo nemmeno la storia, salvo che era in costume. Ho visto il film finito».

Stento a crederlo. Il successo di questo film dà ragione a Pierfrancesco Favino quando dice che dobbiamo credere di più nelle storie italiane interpretate da italiani?

«Ho sempre pensato che dall’estero arrivano grandi film, ma anche film brutti e sopravvalutati. La scelta degli attori dipende dai produttori e dai registi. Pierfrancesco ha fatto bene a porre un problema d’identità, invitando ad avere maggiore attenzione per la nostra creatività».

Che cosa pensa dei finanziamenti del ministero dei Beni culturali al nostro cinema?

«Penso che sanità, istruzione, ricerca e cultura siano i pilastri portanti di ogni Paese civile. Il cinema appartiene al nostro patrimonio e va trattato come tale. Poi è possibile che negli anni scorsi qualche errore sia stato commesso e qualche finanziamento sia stato sbagliato. Una volta individuate, le distorsioni vanno eliminate».

In un momento come questo converrebbe ridurre le produzioni e concentrare le risorse?

«Dev’esserci spazio anche per chi il cinema deve rinnovarlo. È giusto investire nel futuro. Altra cosa è disperdere le risorse in tanti film che incassano pochissimo. A volte si promuovono prodotti che un pubblico non l’avranno mai».

O hanno 29 spettatori in sala.

«Magari poi si riscattano sulle piattaforme. Bisogna individuare gli sprechi e anche qualche errore consapevole».

Il cinema italiano è autoreferenziale, espressione di un ristretto circolo di registi, registe, attori e attrici?

«Non lo so. Non ho mai fatto parte di nessun circolo. Amo il mio mestiere cercando di raccontare storie che trovino il pubblico. Qualità vuol dire anche essere popolari. L’autorialità a tutti i costi può rivelarsi dannosa».

Ha già in mente il suo prossimo lavoro?

«Sto montando il film con Antonio Albanese e Virginia Raffaele che uscirà a gennaio e s’intitola Un mondo a parte».

Quale sarebbe questo mondo?

«Un minuscolo paesino di montagna».

Gaber cantava: «Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva,
la pittura lo esigeva, la letteratura anche: lo esigevano tutti». Sbagliava?

«Non sbagliava. Penso che la qualità di un film non dipenda dall’appartenenza politica di chi lo realizza. Purtroppo ci sono stati anni in cui il cinema è stato giudicato con questo parametro. Ed è stato un errore».

 

La Verità, 4 novembre 2023

 

 

 

La dissonanza di Ferretti: «Sono grato a Berlusconi»

Le premesse sono obbligatorie: «Noi siamo scomodi, cantavamo Spara Juri (Juri Andropov ndr) e oggi non potremmo ricantarla», dice Giovanni Lindo Ferretti, storico front man dei Cccp – Fedeli alla linea, oggi con basette e baffi austroungarici. E poi, parlando della mostra-evento del prossimo autunno (dal 12 ottobre nei Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia, per i 40 anni del primo ep Ortodossia): «Sarà bella come la storia dei Cccp, quindi potrà stare sulle palle a molti. Noi abbiamo sempre travalicato i confini della destra e della sinistra».

Il giorno dopo la morte di Silvio Berlusconi, il «gruppo punk filosovietico» tuttora mito di schiere di fan si ritrova a Palazzo Masdoni di Reggio Emilia, ex sede Pci, per annunciare la pubblicazione del catalogo e dare appuntamento a un gala «Punkettone di parole e immagini» (il 21 ottobre, sempre a Reggio Emilia). I Cccp che si rivedono nella vecchia sede comunista fanno gongolare il sindaco Luca Vecchi. Però è impossibile sfuggire alla coincidenza temporale con la scomparsa dell’inventore della tv commerciale e del centrodestra. E allora, sollecitato dal parallelismo tra i quarantennali del punk e del berlusconismo, Giovanni Lindo Ferretti gela gli entusiasmi: «Forse Berlusconi è morto per darci una mano», premette. «Personalmente, devo riconoscere che nell’ultimo anno le uniche parole significative che ho sentito da politici sulla guerra in Ucraina le ha dette lui. So bene che così accontento una parte e scontento un’altra. Ma fosse per me la registrazione di quelle frasi rubate la metterei nella mostra», provoca il fondatore, con Massimo Zamboni, della band. «Difficile negare che con il vertice di Pratica di mare con la Merkel e Bush, Berlusconi ci abbia dato vent’anni di pace e benessere in Europa…».

Nessuno replica e così si può parlare della mostra-evento i cui ideatori sono soprattutto Zamboni e Annarella Giudici, quest’ultima quasi come «un’esecutrice testamentaria dei Cccp… Io e Danilo Fatur non avremmo voluto essere qui», prosegue Giovanni Lindo. «Quando me ne hanno parlato ho detto: “Aspettate che io muoia e sarete più liberi”. Ma lei ha sistemato tutto e l’idea di allestirla nei Chiostri di San Pietro ha finito per convincermi». Un grande appuntamento con la storia di questo «gruppo teatrale primitivo che abusava della musica» e che, come primo atto dell’esibizione, tirava un filo spinato tra il palco e il pubblico: «Noi dovevamo salvarci la vita mica scalare le classifiche», spiega Ferretti in una frase qual era la temperie dell’epoca.

Quarant’anni dopo non si parla di reunion, sia perché non si sono mai sciolti, sia perché rifare i Cccp ora sarebbe problematico oltre che caricaturale. «Io sono la donna della famiglia e in una famiglia a un certo punto ognuno va per la propria strada», osserva Annarella Giudici. «Poi a Natale e Pasqua ci si ritrova come per allestire questa mostra». Che partirà dall’incontro di due ragazzi di Reggio Emilia a un festival nella Berlino d’inizio anni Ottanta che si chiamava «Geniali dilettanti». «La somma delle ambivalenze è sempre stata la nostra caratteristica», sottolinea Zamboni. Le formule statiche non hanno mai appartenuto ai Cccp e ora gli sconfinamenti di Ferretti fanno meno obiezione ai suoi compagni che ai giornalisti specializzati. «Conferma che gli antifascisti di seconda e terza generazione la fanno sorridere come disse in un’intervista?», gli chiedono. «C’è una disciplina di gruppo e la mia voce non è così libera come quando sono da solo. Ma è giusto così. Mio fratello a 14 anni si è iscritto di nascosto alla Fgci in questo palazzo. Ma tra il Pci della mia adolescenza che io venero e la sinistra di oggi c’è una cesura enorme. Da figlio di una famiglia cattolica, reazionaria e antifascista, vedere certi antifascisti contemporanei mi fa incazzare. Togliatti ha decretato la fine della guerra civile parecchi decenni fa».

 

La Verità, 14 giugno 2023

«Mio padre Gaber, uno di sinistra non della sinistra»

Di sinistra, ma coscienza critica della sinistra. Del conformismo e di quello che poi avremmo chiamato pensiero unico. Senza però mai atteggiarsi, né adagiarsi nel ruolo: l’inventore del Teatro canzone era sempre un passo avanti. E, ora che non c’è più da vent’anni, quanto manca, a tutto campo. Basterebbero i titoli delle canzoni e degli spettacoli – Far finta di essere sani, Libertà obbligatoria, E pensare che c’era il pensiero, citando poco e alla rinfusa – per dire quanto Giorgio Gaber è attuale oggi, e precursore era allora. La figlia Dalia Gaberscik ha creato e dirige l’agenzia di comunicazione Goigest (Gianni Morandi, Jovanotti, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti tra i suoi artisti) ed è vicepresidente della Fondazione Gaber. Ma soprattutto è la custode dell’opera del padre. Per la conservazione della quale annuncia una collaborazione con la Rai.

Chi era Giorgio Gaber?

«Mio papà, semplicemente. Ho avuto presto la percezione che era un papà fuori dal comune».

Vent’anni senza di lui che mercoledì prossimo di anni ne compirebbe 84: che cosa le manca di più?

«Mi manca il riferimento delle decisioni personali e professionali. Anche sul piano artistico sono orfana, come lo sono tutti quelli che l’hanno stimato. Però abbiamo la fortuna che il suo lavoro è ancora eccezionalmente attuale».

Quanto è stata importante nella sua vita la poliomielite contratta da piccolo?

«Abbastanza, direi. Ha formato il suo temperamento, la serietà nell’affrontare le cose. È stata decisiva nella formazione di musicista, lo ha reso tenace nella costruzione dei suoi spettacoli».

Suo padre gli regalò una chitarra perché esercitandosi sciogliesse la mano colpita dalla malattia. Lui ci prese gusto e una volta disse: «Tutta la mia carriera nasce da questa malattia».

«È andata così».

Chi era l’uomo di spettacolo Giorgio Gaber?

«Una persona semplice e curiosa. Molto ambiziosa nel voler trovare forme d’innovazione e stimoli intellettuali. Quindi, un grande lavoratore».

Cosa significa, concretamente?

«Che non si fermava mai. La sua ricerca di temi da trattare, di cui scrivere o da mettere al centro delle conversazioni con Sandro Luporini non aveva pause. Se a una cena ricorreva un argomento capivo a cosa si stava interessando».

Un uomo di sinistra mal tollerato dalla sinistra?

«Un uomo di sinistra, non della sinistra».

Cosa vuol dire?

«Che nasce di sinistra e ha un’attitudine artistica e comportamentale che richiama i valori della sinistra, senza una necessaria appartenenza alla partitica della sinistra».

Ebbe una prima stagione artistica, quella di Torpedo blu, Il Riccardo… che cosa lo fece virare verso la canzone impegnata?

«Credo che l’incontro decisivo fu con Paolo Grassi quand’era sovrintendente del Piccolo teatro di Milano. Fino a quel momento mio padre apriva gli spettacoli di Mina, un’esperienza non semplicissima perché il pubblico aspettava Mina. Ma lui ci è stato e, sera dopo sera, ha instaurato una relazione artistica prioritaria e unica con il pubblico. Fino a iniziare a pensare, con l’incoraggiamento di Paolo Grassi, di poter chiudere con la tv. Quel rapporto lo incoraggiò a rinunciare a tutto, a fronte di un mestiere difficile come il teatro. All’inizio, non sempre agli spettacoli del Signor G c’era il pienone».

L’hanno influenzato anche la canzone francese e Jacques Brel?

«Lo affascinavano molto e sicuramente hanno influito, ma la passione per il teatro nasce con Mina».

Però non indossò mai il sussiego esistenzialista.

«No. Il teatro era solo il posto dove avevano maggiore capacità di penetrazione le cose che voleva dire».

Che rapporto aveva con le donne?

«Erano anni abbastanza affollati, per usare un suo paradigma. C’era la rivoluzione femminista e mia mamma era molto impegnata. Ma loro si fidanzarono da piccolini, 19 anni lei 24 lui. L’ho sempre visto follemente innamorato. Il rapporto con il mondo femminile è sempre transitato da una donna molto diversa dall’universo tradizionale, impegnata per il divorzio e l’aborto in anni molto caldi».

In Chiedo scusa se parlo di Maria canta: «La libertà, Maria, la rivoluzione, Maria, il Vietnam la Cambogia, Maria, la realtà». Le donne interrompono le astrattezze ideologiche e riportano alla realtà?

«Direi di sì. Mentre il mondo parlava della rivoluzione pensava fosse altrettanto importante parlare del rapporto tra un uomo e una donna».

In un altro brano canta: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione».

«Era un invito a essere concreti perché troppa ideologia finiva in chiacchiere da bar. Chiacchieriamo e pontifichiamo pure, ma se non siamo concreti rischiamo di essere dei ciarlatani, nel senso di ciarlare e basta».

In che cosa può essere considerato un precursore?

«Basta rileggere i temi affrontati con Luporini, temi dai quali per tanti anni i cantautori si sono tenuti lontano. Come le riflessioni sul rapporto di coppia, di un’attualità sconvolgente».

«Al bar Casablanca con una gauloise, la nikon, gli occhiali. E sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali»: anno 1974, vide già la nascita dei radical chic?

«Potrebbe essere senz’altro così. Era un bar di Viareggio, frequentato da intellettuali».

In Io come persona, 1995, descrive «un tempo indaffarato e inconcludente», ma evoca la reazione e la responsabilità dell’io.

«La maggior contemporaneità è quando si addentra nell’analisi della persona. Abbiamo molte testimonianze di giovani che ce lo confermano. Mentre quando affronta la politica anche con pezzi ironici a volte cita figure che i miei figli ignorano, nelle questioni che riguardano l’animo umano mi sembra non ci siano rivali. S’inoltrava in un territorio unico».

È qualcosa che andrebbe protetta e tramandata ai giovani?

«Ci stiamo lavorando, raccogliendo tutti i materiali che in questi vent’anni abbiamo trovato. In collaborazione con la Rai stiamo definendo un progetto di organizzazione di tutto questo materiale».

Vedremo dei programmi tv?

«Per ora è un progetto finalizzato al recupero e alla conservazione».

Come lavoravano lui e Luporini?

«Facevano lunghissime chiacchierate. Mio padre andava in tour durante l’inverno, poi all’inizio dell’estate si ritrovavano a Viareggio, prima all’hotel Maestoso, poi al Plaza e negli anni Ottanta a casa nostra. Erano chiacchierate su tutto, che duravano dal primo pomeriggio fino a dopo cena».

Destra-sinistra è un brano del 1994: aveva già capito che erano categorie che non coglievano più l’essenza delle cose?

«Direi proprio di sì».

Non era una riflessione indotta dalla scelta di Ombretta Colli di candidarsi in Forza Italia?

«È un pezzo nato ben prima. Penso che in teatro l’avesse proposta già nel 1992-’93. Registrava le canzoni quando gli pareva. Al contrario di quello che succede oggi, lui usava il disco per fermare quello che aveva già avuto una vita a teatro».

Però tornò a votare per lei dopo anni che non lo faceva…

«È vero. Disse che il voto va dato alle brave persone e siccome pensava che sua moglie lo fosse, decise di votarla: “Non mi perdonerei mai se non fosse eletta per un voto”».

Fu criticato?

«Moltissimo. L’hanno messo in croce. Molti dei suoi ex amici della sinistra gli hanno anche chiesto di separarsi; perché qualcuno che ti chiede una cosa del genere non penso sia un tuo vero amico».

C’era qualche intellettuale in cui si riconosceva? Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco…

«Direi di no. La loro ricerca scandagliava tutti, da Borges a Pessoa a Rilke, per rubare anche a mani basse, ma dichiarando sempre il debito dalle fonti. Di italiani non ricordo di aver mai visto citato nessuno».

Il potere dei più buoni, 1998, fu un’altra profezia del buonismo terzomondista ecologista a caccia di visibilità?

«Era un sentimento omologato che faceva nascere dei sospetti sull’originalità del sentimento stesso».

Sembrano profili cuciti da un sarto, come in Si può e Il conformista.

«Non c’era un destinatario singolo. Fotografava una tendenza, un sistema di pensiero».

Per che cosa perdeva la pazienza?

«Detestava la superficialità, il tirar via le cose, il fatto di non esser seri. Diceva che voleva essere ricordato come una persona seria, la poliomielite l’aveva formato. Una cosa che diceva sempre della tv, anche a Celentano: tu provi due ore una cosa che vedranno 13 milioni di persone, io tre mesi una cosa che vedranno 300.000 persone».

Era una provocazione?

«Certo, erano grandi amici. Volle tornare in tv proprio ospite di Celentano con il quale si volevano bene».

Ha mai fatto una litigata furiosa?

«Non era un litigatore, uno che si metteva a urlare. I suoi silenzi erano punitivi e più che sufficienti, lo dico da figlia».

C’è qualcosa o qualcuno che non gli piacerebbe dell’Italia di oggi e qualcosa o qualcuno che apprezzerebbe?

«Domanda difficile. Non so cosa penserebbe degli influencer… L’approccio del successo facile non gli piacerebbe. È morto nel 2003, ma per ciò che è successo nell’intrattenimento e nella comunicazione son passati tre secoli».

Vuole raccontarci qualcosa di poco conosciuto della sua vita?

«Quando, a causa dei problemi di salute, non poteva più esibirsi a teatro, io e Paolo Dal Bon, ora presidente della fondazione, lo convincemmo a incidere un disco. Il successo di La mia generazione ha perso, che fu primo in classifica, lo spiazzò perché si accorse che il lavoro destinato al teatro lo aveva fatto arrivare a un numero limitato di persone».

Ho letto su .Con un articolo di Enzo Manes che racconta la sua partecipazione al Meeting di Rimini e l’inizio di un carteggio con don Luigi Giussani.

«Avvenne a fine anni Novanta. A proposito di persone serie, era incuriosito da gente che aveva voglia di riflettere e pensare. Confrontava quel mondo con la deriva del movimento studentesco che l’aveva affascinato ai suoi tempi».

Fu contestato dalla Pantera?

«Non ricordo. Ricordo uno scontro nel camerino del teatro Lirico con gli autoriduttori che volevano imporre esibizioni di persone qualsiasi».

Era incuriosito dalla gente del Meeting pur da posizioni diverse?

«Più di una semplice curiosità era un interesse sincero verso il mondo dei cattolici, interlocutori che lo soddisfacevano sul piano intellettuale e della passione per il ragionamento. Certo, con posizioni diverse, come sull’aborto e il divorzio».

Chi era suo padre?

«Un grande. Da ragazzina non capivo i contenuti degli spettacoli, ma vedevo la faccia delle persone quando uscivano dai teatri e capivo che era un’artista e una persona speciale. Sulla sua tomba abbiamo scritto “Artista”. Anche se lui forse avrebbe preferito “Una persona per bene”».

 

La Verità, 21 gennaio 2023

«Il mio libro porno riscatta la maternità perduta»

Altro che intervista, per raccontare Franco Branciaroli servirebbe un romanzo. Infatti, l’ha scritto lui: il primo, a 74 anni. Oltraggioso. Estremo. Disturbante. Volgare. Poco autobiografico, però. Branciaroli ha 50 anni di teatro nelle corde vocali, ha lavorato con Aldo Trionfo e Carmelo Bene, con Luca Ronconi e Giovanni Testori; senza dimenticare il cinema con Tinto Brass. Nel romanzo, scritto in una lingua che a qualche critico ha ricordato quella di Carlo Emilio Gadda e Alberto Arbasino, c’è altro. Il titolo, La carne tonda (Nino Aragno editore), descrive il corpo di una donna incinta, ossessione erotica di un impiegato import-export milanese in pensione. Poi ci sono un ex compagno di scuola dalle numerose e indecifrabili identità, un amico con moglie malata di sclerosi multipla e altri personaggi minori. Più che un pugno, è un calcio nello stomaco. Il campionario di perversioni e acrobazie alternato alle chiacchiere da bar su comunismo, Papa, maschilismo islamico, metamorfosi di Milano e prestanza dei neri compongono l’anatomia di una rivolta, pornografica e scorretta. Nella quale, alla fine, vince la maternità.

Perché, Branciaroli, un romanzo adesso e di questo tenore?

«Il perché è una voglia di libertà creativa. In teatro non sei completamente libero perché dipendi dai direttori, dal regista e dall’autore dell’opera che si mette in scena. Tu sei solo un attore. Per realizzare un tuo progetto dovresti essere anche autore e regista. Con il passare degli anni questo stato può alimentare una sorta di frustrazione. Il vantaggio della letteratura è la libertà assoluta. Con una risma di fogli e due biro puoi fare quello che vuoi».

Si è scoperto scrittore a 74 anni?

«Rispondo con un esempio. Paragoni a parte, questo è bene sottolinearlo, Theodor Fontane ha scritto Effi Briest a 70 anni. Prima aveva scritto nulla d’importante. Solitamente ho un altro modo di sfogarmi. Quando non basta più, tutto quello che hai letto e pensato, può trasformarsi in un’altra forma espressiva. Che per me è la scrittura».

Qual è la molla di questo sfogo?

«L’idea è che cos’è una donna gravida. La maternità è la vera protagonista della storia. Infatti, l’ho dedicato a mia madre».

È viva?

«No, si chiamava Angela».

Se lo fosse cosa direbbe di questo romanzo?

«Glielo nasconderei. Se lo scoprisse si sconvolgerebbe per le parti pornografiche. Però farei presto a spiegarle come va il mondo. Questo libro è in linea, il Pil di internet è la pornografia».

I critici hanno molto apprezzato lo stile.

«Questo modo di scrivere non so da dove arriva. La lingua è dentro, un dono, un mistero. Io ho imparato prima il dialetto dell’italiano. Sono lombardo, come Gadda e Arbasino. Testori scrive pensando ai suoni. Il romanzo è tutto al presente, il protagonista non è uno che racconta, è uno che fa. Non so perché molti ridano quando gli attori scrivono. Ho letto e mandato a memoria migliaia di pagine di capolavori, non capisco lo stupore. Nella scrittura trovo una forma di voluttà artistica, spero di produrla anche nei lettori».

Gliel’hanno accettato subito o ha subito qualche rimbalzo?

«So che c’è stato qualche rifiuto, ma non me ne sono occupato direttamente. Ho trovato un editor che l’ha proposto ad Aragno, editore di lusso, che pubblica senza l’affanno delle vendite. Mi ha telefonato Aragno in persona, dicendomi che lo pubblicava perché gli piaceva lo stile. Lo benedico».

È un romanzo contro?

«Indubbiamente. Ma è soprattutto un romanzo a favore della carne, che di questi tempi è molto bistrattata».

Non c’è contraddizione in un cattolico che scrive un romanzo pornografico?

«Nessuna contraddizione. Se superiamo il moralismo, vale la massima che dice: “Ho conosciuto dei farabutti che erano anche dei moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse farabutto”. Dopodiché questo paradosso è cristiano perché è l’esaltazione della carne. Il cristianesimo è l’unica religione che esalta la carne, l’incarnazione. Come scrive Michel Henry: “La carne è il dolore”».

Non mancano gli eccessi.

«Paragoni a parte, sottolineo, di quelli di Philip Roth, nessuno dice nulla».

Da chi è bistratta la carne?

«In particolare dal femminismo notarile, a causa del quale il sesso si trasforma in un contratto, un protocollo. Non ci rendiamo conto che il politicamente corretto è il trionfo dello spirito bianco».

Deprime la carne e la rende standard?

«Esatto. L’amore, la carne, il sesso: tutto diventa meccanico, solipsistico. Alla sinistra americana la vita carnale fa orrore. È costruzionista. Ma questa è la dimostrazione patetica dell’origine bianca del movimento».

Il bianco eterosessuale però ne è spesso il bersaglio.

«Solo il bianco ha questi problemi. È dei bianchi essere politicamente corretti».

Scrive negri e negre al posto di neri e nere.

«Così si esprime il protagonista, non io… Ne fa una questione di pronuncia. “Negra con quella gr così potente” è più bello da pronunciare. È una geografia, “nera si può dire di una scarpa”. Rasenta la pesantezza e la volgarità, però è vitale. Racconto il ceto medio degli anni d’oro, prima che diventassimo tutti transgender, vegetariani, vegani, green. La classe media soprattutto americana è questa roba qui».

I neri sono più prestanti: invidia non razzismo?

«Il libro è un’esaltazione della potenza sessuale dei neri. Rappresentano il futuro e generano invidia. Il protagonista immagina che l’Europa diventerà tutta nera».

Per opporsi al dominio della Cina?

«Ma soprattutto per procreare. Raddoppieremmo la popolazione nel giro di 15 anni».

Scenario apocalittico.

«La carenza di nascite è il problema di tutti, anche della Cina. È vero che l’assenza di procreazione diminuisce la popolazione, ma aumenta la quota di vecchi. Chi li mantiene?».

I mussulmani prolificano, noi abbiamo l’aborto, la pillola, i preservativi, i gay. Ci domineranno anche numericamente?

«È il pensiero del protagonista. Ma è un fatto evidente che non nasce più nessuno. Nella visione del romanzo, il parto si trasforma in amplesso, esperienza di piacere. La maternità senza dolore si rivitalizza».

Scrive culattoni invece di gay.

«È il linguaggio di quella classe media milanese».

Romanzo reazionario?

«Definirlo reazionario è un equivoco femminista, mentre esalta le donne. Non che me ne freghi niente, ma è uscito così. Caso mai è un cicinin apocalittico. Tra reazionario e conservatore c’è differenza. Il reazionario vuole distruggere ciò che c’è, il conservatore vuole mantenerlo. Il romanzo è né questo né quello, più complesso di quel che sembra».

Quanto c’è di autobiografico?

«Non molto, le parti dell’infanzia, il bar di famiglia. Il resto è inventato o aggiustato».

Ci sono anche i fotoromanzi, stagione rimossa.

«Da bambino ero addetto alla vendita dei fotoromanzi e delle sigarette. Quelle osterie erano come dei drugstore. Stavo su un seggiolone con i Grand Hotel e i pacchetti di sigarette che si scartocciavano per venderne 5 o 10. I fotoromanzi erano la possibilità di sognare. Pubblicavano foto a tutta pagina dei divi di Hollywood che ritagliavo e conservavo».

Lei ha una moglie affetta da sclerosi multipla.

«Sì, ho una moglie così. Lì la vicenda è estremizzata. Ho immaginato cosa può passare una persona che ha difficoltà economiche, che io non ho, davanti a un problema del genere. È una condizione nella quale i soldi sono ancora più discriminanti: da uno standard normale alla disperazione. Non abbiamo un’organizzazione pubblica all’altezza, devi fare da solo. Lo Stato non si occupa di questi cittadini. Il contributo pubblico è di 350 euro al mese, più 700 per l’accompagnatore. Uno che ha una persona così e lavora, come fa?».

Che cos’è per lei la ricchezza?

«È fondamentale. Se lavori, avere una persona così vuol dire badanti. Ma nel nostro Paese sono considerate un lusso come le cameriere perché il loro costo non è detraibile dalle tasse. Detraibili sono le infermiere, che però costano 200 euro al giorno. Le badanti poi hanno dei retrovita complessi, figli e mariti distanti, nei quali ti coinvolgono. In Italia i disabili sono 4 milioni, aggiungici i parenti: non capisco perché non facciano un partito».

In questi mesi è in tournée con Umberto Orsini, 88 anni, con una storia di due amici: è una sintesi della sua carriera, lei ha spesso stretto grandi sodalizi artistici?

«L’opera di Nathalie Serraute, madrina del nouveau romance francese, s’intitola Pour un oui ou pour un non e si basa sugli equivoci del linguaggio che, con la sintassi rozza dei messaggini, riportano a galla vecchi malintesi fino a generare a catena la crisi del rapporto. È un gioco molto sofisticato e divertente».

Dicevamo dei suoi sodalizi con i mostri sacri del teatro: erano fratelli maggiori, maestri, padri?

«Sono esperienze fatte in età diverse. Trionfo l’ho incontrato quando ero molto giovane. Dirigeva Carmelo Bene e me e nel Faust di Christopher Marlowe. Carmelo era più vecchio ma di poco, il fratello maggiore e complice».

Luca Ronconi?

«Il maestro, ascoltandolo imparavo cose che non sapevo. Un maestro senza volerlo essere, tra i maggiori a livello mondiale. Molti fanno teatro, ma non lo conoscono in profondità».

Giovanni Testori?

«Lui era un autore, ho provato la sensazione di un drammaturgo che lavorava apposta per me. Un’esperienza eccitantissima: c’è uno che scrive delle opere pensando a te».

Cosa comportava la complicità con Carmelo Bene?

«A parte il principio di obesità dovuta all’alcol, abbiamo trascorso due anni in tournée. Un giorno si presentò al ristorante con un occhio nero, regalo del fidanzato di un’attrice che aveva tentato di sedurre. Invano. Oltre all’insuccesso, le botte. Anche il fidanzato era un attore. “Ma Carmelo”, gli dissi, “non sapevi che ha l’asma, ti bastava metterti a correre e non ti avrebbe mai preso”».

Questo romanzo è un copione per Tinto Brass?

«Qualche scena potrebbe esserlo. Ma il cinema è crudele perché quando si inizia un film bisogna firmare le polizze assicurative. Se non si è in ottima salute non ti fanno più fare niente».

Come ha vissuto il periodo acuto della pandemia?

«Malissimo. Prima dei vaccini dovevo proteggere e controllare tutto e tutti, un disastro. Chi è già malato e vecchio non doveva prendere il virus. Sono rimasto chiuso un anno, non dormivo, ho sfiorato la depressione. Fortuna che ho un piccolo pezzo di terra. Parlavo con le piante…».

 

La Verità, 5 marzo 2022

«Non azzeriamo, puntiamo sul buono che c’è»

Marco Paolini è cambiato. È difficile dire come, trovare l’aggettivo giusto. Addolcito no, ammorbidito neanche. Mite, forse… Ma resta un cambiamento non definibile. Qualcosa di diverso s’intravede nel modo di fare teatro e televisione. Qualche spigolo si è arrotondato, certi integralismi sono smussati. Cos’è successo? Il 17 luglio 2018, a causa di un attacco di tosse che l’ha distratto mentre guidava in autostrada, con la sua station wagon ha investito la 500 di una donna che viaggiava sull’altra corsia. Dopo due giorni la donna è deceduta. Quasi un anno dopo il drammaturgo di tanti memorabili spettacoli ha parlato di quel tragico accadimento in un’intervista a Gian Antonio Stella del Corriere della Sera: «Tutti sappiamo… che una distrazione, un errore, una svista, possono provocare danni irreparabili. Tutti gli amici hanno provato a tenermi su ripetendomelo. Ma non hai modo di prepararti a questo. Quando succede… Undici mesi dopo quel giorno non è cambiato molto. Posso provare a capire me stesso. Ma non riesco a perdonarmi».

Dopo una lunga assenza dalle scene, lentamente Paolini ha ripreso in mano il suo mestiere di attore. Qualche spettacolo a teatro, spesso con un compagno o una compagna. Ora il ritorno in televisione, insieme con Telmo Pievani, «scienziato evoluzionista», in un programma intitolato La Fabbrica del mondo, di cui stasera Rai 3 manda in onda l’ultima di tre puntate. È un racconto denso e tortuoso che intreccia documenti, ricerca scientifica, performance teatrali, interviste con studiosi, affabulazione, ecologia. Paolini conserva intatte le doti di contastorie, ma ci aggiunge la spezia dell’autoironia. Per esempio, mostra anche i suoi comportamenti ecologicamente scorretti, un’auto alimentata a gasolio, il pane e salame…

Da dove viene il titolo La Fabbrica del mondo?

«Da un’idea che, a sua volta, viene dai piedi».

In che senso?

«Stavamo cercando un posto da dove proporre questo lavoro sull’agenda 2030 dell’Onu. Dopo una lunga ricerca su consiglio di alcuni amici sono arrivato alla fabbrica della Marzotto a Valdagno. Era la metafora perfetta del pianeta».

Perché?

«Quando è nata da un progetto dell’Ottocento era all’avanguardia, ora è obsoleta. Una vecchia fabbrica con le colonne in mezzo e i montacarichi, andrebbe rasa al suolo e rifatta altrove, più moderna. Ma non si può perché è nella città costruita intorno a lei per gli operai».

Dov’è la metafora?

«Dobbiamo partire dall’esistente, dal buono e dal meno buono di quello che abbiamo fatto, provando a migliorare. Non possiamo azzerare tutto e ricominciare. Sarebbe una tentazione nichilista e ideologica».

Ma il titolo?

«Potevamo usare la parola “Casa”, ma in casa si sta più attenti. Invece nel posto di lavoro si sporca, si fa rumore, si rompono le cose. Abbiamo scelto Fabbrica del mondo perché l’uomo e ogni specie vivente con le loro attività modificano il pianeta».

Fabbrica è qualcosa che esclude l’eredità, il dono, la creazione?

«Io non amo la visione progressista dei premi per chi è andato più avanti. Non ho il mito dello sviluppo uguale progresso. La puntata di stasera è tutta dedicata all’eredità».

E poi c’è il suo Noè, il primo manutentore del creato.

«Noè fa e mugugna. Ha diritto al mugugno. Che è diverso dal rutto davanti alla tv. Noè che mugugna mentre fa è nobile. Non giudica il proposito, ma ne verifica la fattibilità».

Il proposito è?

«Consegnare ai nostri figli un mondo accettabile. Ma temo che non sarà così. L’agenda del 2030 è vanagloria? È una somma di buoni propositi? Se guardiamo alla Cop26 (la conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2021 ndr) dobbiamo dar ragione a Greta Thunberg. Si è fatto molto teatro: l’assenza plateale dei cinesi, il sonno di Joe Biden… Eppure 300.000 ragazzi sono sfilati a Glasgow. L’enciclica Laudato si di Francesco mette sullo stesso piano l’ecologia dell’ambiente e l’ecologia delle reti. Si parla solo del primo, invece sembra che il Papa abbia letto Tim Berners-Lee, il fondatore di Internet».

Greta e papa Francesco sono i suoi nuovi punti cardinali?

«Le voci di Greta e di Francesco non sono le mie. Serve un linguaggio diverso dalla politica e da quella dei profeti. I profeti a teatro fanno male».

Detto da lei… La seconda puntata s’intitolava «Il peso delle cose»: al fondo c’è un’idea di ragione che vuole perimetrare la realtà anziché porre domande lasciando la possibilità che esista qualcosa di più grande?

«Ho sempre preferito i poeti ai filosofi. Per una ragione: il filosofo inventa una parola nuova per definire una cosa, il poeta scrive libri di parole vecchie per dire la stessa cosa e farcela sentire senza volerla battezzare. Non è detto che un genio sia interessante quando parla di religione. La scienza è un ambito nel quale, se possibile, le cose sono misurabili. E dove non lo sono ancora si presume che lo diventeranno. Fuori da questo non è scienza, ma con tutto il rispetto, saperi, visioni, religioni. L’ambito della Fabbrica è soprattutto quello dei mondi investigati dalla scienza».

Il punto d’arrivo è che «i benesseri sono a scadenza»?

«La sostenibilità non è compatibile con un ritmo di crescita che ogni vent’anni raddoppia il peso sulla terra dei materiali di produzione, utilizzo e smaltimento. Si dice che con la tecnologia e piantando alberi ridurremmo il Co2. Invece alla Fabbrica del mondo osserviamo che le piante sono già il 90% di ciò che respira sulla terra. Se cerchiamo la soluzione senza ridiscutere lo stile di vita secondo me non andiamo lontano».

La soluzione è la decrescita felice?

«No. Non lo chieda a un attore. Tutti noi che abbiamo costruito il benessere attuale l’abbiamo fatto in buona fede, rispettando le leggi. Ma forse senza conoscere i costi nascosti di quello che facevamo. Abbiamo abbandonato il mondo contadino e lavorato per stare meglio dei nostri padri. Ma i nostri figli non staranno bene come noi».

Una certa ecologia incolpa l’essere umano di tutti i mali. Il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani ripete che «il pianeta è progettato per 3 miliardi di persone».

«È un’affermazione che circola nei forum di economia. Il ragionamento sotteso al discorso sul peso delle cose è che noi, 7,8 miliardi di essere umani, pesiamo lo 0,01% della biomassa. Quindi, contesto l’affermazione di Cingolani: non siamo tanti come numero, sono le cose che riteniamo indispensabili a produrre la catasta che ci soffoca».

Quindi la decrescita?

«No. Nella puntata di stasera Loretta Napoleoni fa l’apologia di Elon Musk e Jeff Bezos, mentre Noam Chomsky li stigmatizza come bambini ricchi che giocano con i razzi e dice che quei soldi andrebbero spesi meglio. Anche Cristoforo Colombo fu preso in giro perché voleva scoprire le Indie, ma poi s’imbatté nell’America. L’azzardo di Musk e Bezos può aprire a economie e realtà che non immaginiamo».

Cosa pensa del fatto che si fanno sempre meno figli?

«La stessa cosa che dice papa Francesco. Ho grande rispetto per cani e gatti, ma mi è difficile abiurare alla condizione di adulto, colui che genera o si prende cura di chi non ha famiglia. Non possiamo esimerci dal pensare alla generazione che viene dopo di noi».

Fabbrica del mondo è un programma stimolante, ma con alcune pecette ideologiche?

«Lo so, le vedo anch’io, siamo uomini con un’idea».

L’Agenda 2030 le ispira così tanta fiducia?

«La immagino come la storia della Sagrada Família che Antoni Gaudí progettò sapendo che non ne avrebbe visto la fine. Parlando del pianeta si dice che tocca ai cinesi disinquinare. No, tocca agli americani che sono più ricchi. E l’Europa sta a guardare? Gaudí non si e chiesto a chi toccava, ha cominciato. Il linguaggio dell’architetto è poetico. Se quello della transizione ecologica resterà burocratico non affascinerà nessuno. Credo in un grande complotto positivo che avvii un progetto che altri termineranno».

Lei ha un’auto diesel e ama pane e salame.

«E, d’istinto, spero di morire prima di doverci rinunciare. Alex Langer al posto di rivoluzione e transizione preferiva parlare di conversione ecologica. Un processo che implica un atto di fede, ma in Italia, se parli in modo ispirato ti prendono in giro, perciò meglio dire le cose a mezza voce. Non ho ricette, i miei punti di riferimento non sono Serge Latouche o Thomas Piketty. Semmai Gael Giraud, il gesuita ispiratore della Laudato si. I beni essenziali non devono essere per forza o pubblici o privati. Possono essere amministrati dalle comunità».

Speranze smontate dalla globalizzazione?

«Con la pandemia anche i globalizzatori si stanno rendendo conto che quel mercato è troppo fisso. La dimensione della comunità è quella dei nostri padri, che hanno fatto la ricostruzione nel dopo guerra e il boom economico. Se continuiamo a ragionare come albergatori, artisti, artigiani, ristoratori, operatori del turismo, insegnanti facciamo poca strada».

In questo programma usa di più il linguaggio dell’autoironia?

«Non è certo un’orazione civile. Sono argomenti che implicano scenari distopici. Non voglio puntare il dito contro qualcuno se non anche contro me stesso. Non ho preso la patente ecologista per farlo, non mi sento “ista” di niente».

Prevale l’affabulazione sulla denuncia?

«Sono stanco delle immagini di ghiacciai che si sciolgono e di mammiferi marini spiaggiati. Quest’estate torrenti e fiumi della Carnia e del Veneto sono stati invasi da migliaia di topi morti. Ma non li abbiamo mostrati perché non c’interessa spaventare. La narrazione si appoggia su dati scientifici, sapendo che gli scienziati non sono uomini migliori dei politici e degli artisti».

Qualcosa l’ha cambiato?

«Sono stato zitto a lungo. Non ho scritto. Ho fatto esercizio di silenzio. Poi è arrivato il Covid che per me fa piazza pulita di quello che ho fatto prima. Nello spettacolo che si chiama Sani! racconto la storia di Rosina che dopo il terremoto del Friuli fa ricostruire la casa uguale a quella di prima. Però l’interruttore delle scale è finito su un’altra parete e lei, d’istinto, continua a cercarlo sul solito muro. Dopo il Covid non si può continuare come prima perché il mondo si è spostato. Vale anche per il teatro. Il Covid ci mette davanti a una nuova sfida, a un adattamento, a qualcosa che non si capisce, ma è oltre la nostra vita».

Il suo Covid è cominciato con quell’incidente?

«Devo sopportarmi a parlare e solo così ci riesco».

È riuscito a perdonarsi?

«Istintivamente, devo dire di no. Cerco di vivere senza darmi una risposta definitiva».

 

La Verità, 22 gennaio 2022

Le domande irrisolte di Vitaliano Trevisan

La morte di Vitaliano Trevisan, avvenuta venerdì nella casa di Campodalbero, frazione di Crespadoro (Vicenza), il paesino alle pendici delle Prealpi dove viveva in totale solitudine, è una di quelle situazioni di fronte alle quali bisogna mettere da parte mediazioni, formule e risposte di maniera. Lo richiedono l’inesausta ricerca e la profondità del dolore che hanno impregnato l’esistenza di questo grande autore e drammaturgo, dotato di scrittura e lineamenti spigolosi, smorzati solo dagli occhi color ghiaccio. La penso così: se una persona, che vive in modo radicale il bisogno di un senso, non incontra qualcosa o qualcuno che la sappia abbracciare nella sua totalità, difficilmente scampa alla sofferenza e all’incomprensione. Quando una volta gli chiesi che cosa lo teneva lontano dal suicidio mi rispose: «I farmaci, nel senso ampio del termine».

Considerato uno dei maggiori scrittori italiani dell’ultimo ventennio, Trevisan fu scoperto a fine anni Novanta da Giulio Mozzi che trovò negli scaffali di una libreria il suo Trio senza pianoforte – Oscillazioni, antologia di racconti pubblicata da un piccolo editore vicentino. Fu Mozzi a far uscire da Theoria Un mondo meraviglioso e poi a spedire il manoscritto dei Quindicimila passi – Un resoconto a Einaudi che offrì il primo contratto a quell’autore semisconosciuto. Nella storia di Thomas, omaggio a Bernhard, con la quale Trevisan vinse il premio Lo Straniero e il Campiello Francia, si dispiega la ribellione all’educazione cattolica e al perbenismo della provincia italiana. Sono temi che ritorneranno in Tristissimi giardini (Laterza) e soprattutto nel bellissimo e torrenziale Works, (Einaudi), 660 pagine concluse da una frase con la quale si prende gioco delle formule vigenti: «Tutto ciò che può incriminarmi è frutto d’invenzione». Più che un’autobiografia, Works «è un mémoire centrato sul tema del lavoro» che squaderna i tanti mestieri provati – geometra, cameriere, lattoniere, gelataio in Germania, costruttore di barche a vela, spacciatore di fumo, portiere di notte – prima di consacrarsi interamente alla scrittura per la narrativa, il cinema e il teatro.

Anarchico e allergico a tutte le chiese, Trevisan è stato una smentita vivente delle favole consolatorie che ci raccontiamo quotidianamente sui media. Il Nordest florido e ottimista. La letteratura come impegno civile per riparare gli umani e il mondo. La comunità intellettuale elevata a guida dei ceti medi riflessivi dai salotti tele-editoriali. Sceneggiatore e attore di Primo amore, diretto da Matteo Garrone, autore di Il lavoro rende liberi e Oscillazioni, interpretati a teatro da Toni Servillo, non si lascia bene con entrambi: «Avevano degli ego troppo grandi per me». Meglio va con Andrée Ruth Shammah e Alessandro Haber, che portano in tournée il suo Una notte in Tunisia, e con Roberto Herlitzka e Anna Paiato. Un fatto è certo, Trevisan non opera ipocrite separazioni tra vita e letteratura, tra esistenza e arte.

Gli faranno l’autopsia e si potrebbero avere conferme, come molti temiamo, che la sua fine sia dovuta a un gesto estremo, contraddizione lacerante del nome che portava: «È un nome che deriva dal greco <colui che dà la vita>», mi rivelò, «e mia madre me lo diede perché si era appassionata a un personaggio di un film sull’antica Roma che si chiamava così». Parlando di lui, Ferdinando Camon disse: Trevisan è uno che ha domande troppo acute, troppo alte, per restare in piedi, in equilibrio, su una base piccola e stretta. Nell’incipit di Black Tulips, il romanzo che uscirà postumo da Einaudi, scrive: «… Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un’arte – arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere – è trattenere un frammento per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio. No, non sempre; comunque». Equilibrio faticoso, precario, instabile. Equilibrio come sopravvivenza, come non soccombenza. Non certo equilibrio perbenista e conformista, il più lontano da lui.

Sbandate, deragliamenti, ricoveri in psichiatria, rapporti affettivi torbidi e tormentati. Come quello con l’ultima compagna che, non si è capito bene perché, nell’ottobre scorso lo aveva fatto internare con un Aso (Accertamento sanitario obbligatorio) nel reparto psichiatrico di Montecchio Maggiore (Vicenza). Dov’ero andato a trovarlo per poi raccontare su questo giornale il forte disagio e lo stato di prostrazione in cui versava. Fortunatamente, quella reclusione non si era prolungata. Una volta tornato a Crespadoro l’aveva condivisa in un drammatico reportage su Repubblica. E aveva poi ripreso a postare su Facebook malinconici frammenti della sua quotidianità. Non si hanno notizie di lettere o messaggi di addio ritrovati vicino al suo corpo senza vita. Qualcuno però ha ricordato un passaggio del suo Una notte in Tunisia: «Docili, su un fianco come gli animali, è così che si dovrebbe morire, senza lamentarsi, senza darsi troppo pensiero».

 

La Verità, 9 gennaio 2022

 

A parziale integrazione di questo articolo va aggiunto che nella casa di Campodalbero i carabinieri hanno trovato un biglietto d’addio di Vitaliano Trevisan che conferma il gesto volontario: «Sono stanco e non ne posso più. Nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla».

«Litigo con quelli che amo. Anche con Dio, ma…»

Travolgente, istintivo, spudorato. Privo d’inibizioni e remore. Uno che non distingue tra vita e arte e dice sempre quello che gli passa per la testa. Pronto a rivelare vizi e debolezze. È Alessandro Haber: 120 film e oltre 50 opere teatrali. Nato a Bologna nel 1947, da padre ebreo rumeno e madre cattolica. Per Pupi Avati è «il migliore attore italiano in circolazione». Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini), scritto con Mirko Capozzoli, è la sua autobiografia pubblicata da Baldini+Castoldi. Un flusso di coscienza di 430 pagine intrise di sfuriate, sesso, notti di poker, tradimenti. Tutto improntato alla sincerità più totale. A volte, pure troppa.

Stefano Bonaga la definisce «un uomo evento» che mette in scena sé stesso, Alessio Boni «il cinghiale». Lei come si definisce?

«Tutt’e due insieme: un cinghiale evento. Sì, ho un po’ l’indole del gorilla e mi piace mangiare con le mani. Tra l’uomo e l’artista privilegio l’artista, perché davanti alla macchina da presa sono me stesso».

Ama più le donne o il mestiere di attore?

«Per me recitare, anche se non amo questo verbo, è come fare l’amore. Le donne venivano dopo il lavoro e si sentivano trascurate. Anche per questo mi hanno mollato. Giustamente».

Quante sono state le potenziali donne della sua vita se non avesse avuto in testa il cinema?

«Ne ho avute tante, ma quasi sempre capivo se erano storie che potevano durare o no. Lo capivo dalla dolcezza, dalle forme, dallo sguardo… Se provo un sentimento lo manifesto, può essere un gioco, una fantasia… Dopo un po’ di anni con la stessa, la passione declina. Avrei voluto imitare mio padre e mia madre che sono stati insieme tutta la vita e hanno visto crescere le rughe dell’altro. Invece ho tradito».

E lo è stato. Per lei è peggio esser traditi da una donna o il telefono che non squilla?

«Se il telefono non squilla vuol dire che non lavoro e non raggiungo quelle piccole felicità che mi fanno stare bene. Allora vado in crisi anche con le persone che mi stanno vicino. Se devo scegliere, preferisco il tradimento di una donna».

Da giovane amava il mestiere anche più della politica e delle manifestazioni?

«Nel Sessantotto avevo 21 anni e i miei sogni cominciavano a concretizzarsi. Partecipando alle manifestazioni temevo di essere coinvolto in qualche disordine e di rovinarmi la faccia. Tifavo per il Sessantotto e la sinistra, certo; come si tifa per una squadra di calcio. Ero concentrato a cercare i registi, i ruoli, a telefonare…».

Scrive che il lavoro lo ha salvato: da cosa?

«Potevo fare la fine di Gigi Baggini, l’attore fallito interpretato da Ugo Tognazzi in Io la conoscevo bene. Se non avessi avuto talento non so la mia mente e il mio corpo come avrebbero reagito».

L’ambizione di essere Marlon Brando si capisce, ma Gigi Baggini?

«Era un fallito che elemosinava una parte, una figura che mi ha devastato. Sperando di essere ingaggiato si esibisce in un tip tap che soddisfa solo il cinismo dei presenti. È stato un monito, perciò l’ho citato in tre film. Anche nella serie di Carlo Verdone il mio cameo è lui».

Con il suo talento avrebbe potuto avere ancora più successo: cosa l’ha frenata?

«Forse il mio carattere, se fossi stato uno che conta fino a dieci… Se fossi nato dieci anni prima, magari i mostri del cinema sarebbero stati cinque (I 4 riconosciuti erano Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi ndr). Però ho avuto le mie soddisfazioni. A teatro reinvento i personaggi, anche i critici riconoscono che il mio Zio Vanja ha qualcosa di unico».

In La cena delle beffe diretta da Carmelo Bene si fece dare 70 ceffoni veri.

«Sfido qualsiasi attore a prenderli. Tornaquinci era un personaggio che non volevo fare. Il copione prevedeva che dovevo prendere una sberla, io proposi di farmene dare 70. Bene approvò: “Grande Haber, geniale”. Divenne una delle scene di culto. Quello che me le dava diceva che gli faceva male la mano. Capisce? Lui a me. Io non le sentivo perché quando sei sul palco non senti niente. Alla fine delle repliche avevo un callo sul viso».

Chi era Carmelo Bene?

«Un artista, un poeta unico. O l’amavi o ti stava sul cazzo. Era di un altro pianeta. Un trascinatore, anche un uomo fragile, con tutti i suoi difetti, in questo ci assomigliamo. A me la perfezione mi fa cagare».

Qual è l’episodio che ricorda con più piacere?

«Quello che avvenne sul set de Il conformista di Bernardo Bertolucci, con Stefania Sandrelli e Jean-Louis Trintignant. Il primo giorno di prove fu rinviato perché morì la bambina di 10 mesi di Trintignant. Due giorni dopo iniziammo a girare. Io ero un cieco ubriacone di idee socialiste e dovevo raccontare una barzelletta sul Duce, prima di essere malmenato da un fascista. Trintignant assisteva, assorto nei suoi pensieri. Allo stop di Bertolucci scoppiò l’applauso e mentre le comparse si complimentavano sentii battermi sulla spalla: “Merci, vous êtes vraiment un grand acteur” (Grazie, lei è davvero un grande attore ndr). Con quello che stava passando in quel momento, Trintignant si era congratulato con un attore sconosciuto».

Poi però quella scena…

«Fu tagliata al montaggio per esigenze di produzione. M’incazzai a morte. Bertolucci era molto imbarazzato: “Ti sono debitore”, mi disse».

La ripagò?

«Mai. Anni dopo, quando lo rividi, gli ricordai la promessa. “Mi fai dei ricatti?”, si arrabbiò. Non ci siamo salutati per un po’, poi abbiamo fatto pace. Forse non c’erano i ruoli… Abitavamo vicino, negli ultimi anni lo vedevo in carrozzella e con me era sempre gentile. E poi va bene così anche questo scontro-incontro. Quando ti capita di mandare affanculo Bertolucci?».

Perché secondo lei alcuni registi che la elogiavano non l’hanno chiamata?

«Con Mario Monicelli ho fatto cinque film, ma avrei potuto farne otto se non fossi stato impegnato a teatro. Con Pupi Avati ne ho fatti otto, ma avrebbero potuto essere undici».

Nanni Moretti?

«È vero, nonostante le promesse con lui ho fatto solo Sogni d’oro. Io lo adoro Nanni, mi fa tenerezza. Adesso il carattere si è addolcito. All’epoca gli piaceva che la corte lo ossequiasse. Quando giocavamo a pallone voleva fare il regista anche lì, ma se era il caso, io lo mandavo affanculo. È venuto a vedermi a teatro e qualcosa mi aspettavo… A volte è come per il ristorante sotto casa: non ci vai proprio perché è lì e ti scapicolli dall’altra parte della città, ma magari si mangia meglio lì sotto».

Pupi Avati invece la prese subito per Regalo di Natale.

«Andai nel suo ufficio: “Sono anni che mi fai complimenti, dimostrami che ti piaccio sul serio”. Telefonò al fratello e mi disse: “Sei nel prossimo film”. Non finirò mai di ringraziarlo».

Adesso è quasi un suo attore feticcio.

«Coglie la musicalità e le sfumature, valorizza gli attori. È uno dei più grandi in Italia e forse in Europa. Anche lui ha fatto qualche film meno riuscito, come tutti. Non ha ottenuto tutto quello che meritava perché non fa parte della sinistra cinematografica e gliel’hanno fatta pagare. Io non guardo gli schieramenti, rispetto il talento. Le emozioni non sono di destra o di sinistra».

Chi è il più grande con cui ha lavorato?

«Ci pensavo oggi. Voglio regalare il libro ad Avati e riflettevo sulla dedica. Vorrei metterlo con Monicelli e Nanny Loi. Devo trovare una poetica che racconti…».

Questa trinità?

«Esatto. Ognuno ha la propria personalità, ma io li vedo insieme. Straordinariamente intelligenti anche se narrativamente diversi però accomunati dalla stessa sensibilità».

Qual è stato il suo più grande errore?

«Quando dissi di no a Vittorio De Sica. Che idiota. Quando mi chiamò per Il giardino dei Finzi-Contini dissi che conoscevo a memoria il libro ed ero perfetto per interpretare il protagonista. Ma siccome Giorgio Bassani l’aveva chiamato Celestino per gli occhi azzurri, io non ero adatto. De Sica mi propose di fare Bruno Lattes, ma io m’impuntai e rifiutai. Salvo pentirmene presto, ben prima che il film vincesse l’Oscar».

Perché quando le offrono una parte le capita di chiederne un’altra?

«È successo con Moretti per Sogni d’oro. Rifiutai la sua proposta, gli chiesi d’interpretare lo sceneggiatore sfigato e lui accettò. Ho sempre guardato ai ruoli non ai soldi. Stamattina il direttore artistico del Quirino di Roma mi ha offerto di fare l’avvocato di Testimone d’accusa, il giallo di Agatha Christie. Nel film di Billy Wilder lo fa Charles Laughton. Ma è un personaggio che non evolve. Io prediligo figure più complesse. Così gli ho detto di no, lui mi ha dato ragione. A volte produttori e registi se ne approfittano perché sono un drogato di teatro e dopo un po’ vado in astinenza. Hanno ragione».

Il suo più grande amico nel cinema?

«Giovanni Veronesi. Poi Alessandro Capitani e Nicola Guaglianone. Quelli storici sono Pietro Valsecchi, Massimo Ghini, Rocco Papaleo e Giuliana De Sio. Ennio Fantastichini, Flavio Bucci e Monica Scattini li ho persi».

Cosa vuol dire che «Dio è il mio protagonista»?

«Non sappiamo se c’è o no. Questo mistero ti turba perché non sei sicuro che ci sia. Probabilmente sì, basta guardarsi attorno, la natura… Quando qualche volta lo bestemmio è per stimolare l’idea che ci dev’essere. Non è così stupido da offendersi. Io litigo con le persone alle quali voglio bene non con gli sconosciuti. È un’entità che non vedi, ma speri che ci sia».

Tornando al mestiere, non ama la dizione, la recitazione con il diaframma… C’è il metodo Haber?

«Non lo so. Il perbenismo della dizione non mi convince, un piccolo difetto dimostra che sei vero, credibile. Se non riscrivo i personaggi faccio una lettura. Anthony Hopkins ha vinto l’Oscar come migliore attore per l’interpretazione di The Father – Nulla è come sembra. È un’opera proposta ovunque. Io l’ho fatto per tre anni a teatro e Florian Zeller, l’autore del libro, mi ha detto che la mia interpretazione contiene sfumature che lui stesso non immaginava».

Perché, invece, nella vita vera è difficile fare il padre?

«A teatro lo so fare, nella realtà i critici mi stroncherebbero. Di solito i figli hanno soggezione del padre, mia figlia Celeste no. Se alzo la voce mi ribatte e io m’incazzo come una furia, ma dopo un minuto mi sciolgo come un marron glacé. Forse va bene così».

 

La Verità, 13 novembre 2021

«L’11/9 ha tolto agli Usa il piano anti-pandemia»

Vent’anni dopo, ma Alexandre Dumas e i suoi moschettieri non c’entrano. C’entrano invece le Torri gemelle e Giancarlo Marinelli: scrittore, drammaturgo, direttore artistico dei Classici del Teatro Olimpico di Vicenza. E c’entra il suo 11, pubblicato da La nave di Teseo nel ventennale della tragedia che ha cambiato la storia e proprio mentre gli Americani ritirano le truppe da Kabul. Un romanzo visionario che, attraverso le storie di alcuni protagonisti, illumina il retrobottega dell’attentato, matrice della globalizzazione del terrore. «Vent’anni dopo, nella quantità alluvionale di materiale che ho raccolto», rivela Marinelli seduto in una piazza della sua Este, «mi ha stupito un fatto che riscatta almeno parzialmente George W. Bush. In quei giorni il presidente americano stava per presentare un piano anti pandemia di 7 miliardi di dollari. Uno stanziamento che avrebbe dovuto essere rifinanziato ogni anno. Naturalmente dopo l’11 settembre fu costretto a dirottare quel denaro nella lotta contro il terrorismo internazionale». E oggi, con la crisi pandemica… «Uno dei motivi del ritiro così repentino dall’Afghanistan è la scarsità di fondi a disposizione. La priorità è fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica interna. E la concorrenza della Cina e della Russia». Nel racconto di Marinelli, oltre a Bush figlio compaiono Henry Kissinger e Condoleezza Rice, lo scrittore e drammaturgo ferocemente antiamericano, Harold Pinter, la madre di Osama Bin Laden, Alia Ghanem, la prima vittima rinvenuta dai pompieri, il prete omosessuale Mychal Judge. Ma il vero protagonista della trama è Konstantin Petrov, un ragazzo estone con la passione della fotografia, vigilante notturno al ristorante in cima alla Torre nord, al quale dobbiamo le ultime immagini del World Trade Center. Le scatta solitamente al tramonto per postarle sul suo profilo Fotki, antenato di Facebook, dove tuttora si trovano. Petrov lo fa anche la sera del 10 settembre 2001. La mattina dopo timbra il cartellino di uscita poco prima dello schianto degli aerei. Morirà un anno dopo, in un incidente stradale.

Perché un romanzo sull’11 settembre?

«Per due ragioni. La prima è che, come sempre, mi piace affrontare i grandi temi della storia. Perciò ho sentito l’esigenza di raccontare la prima tragedia vissuta da ragazzo. Stavo andando a consegnare la tesi di laurea e quel giorno…».

Aveva 27 anni.

«Mentre ero in macchina con il cellulare scarico e l’autoradio guasta, vedevo un sacco di persone invadere la strada. Allora ho riacceso il telefono e ho sentito un messaggio di mia madre che diceva di fermarmi in un posto sicuro o di tornare a casa perché stava venendo giù il mondo. Il secondo aereo si era appena schiantato».

L’altra ragione del romanzo?

«Per raccontare questa grande tragedia avevo bisogno di una chiave d’accesso, che ho trovato nelle foto di Petrov. Una decina d’anni fa a una fiera mi avevano chiesto un omaggio espositivo dell’11 settembre. Vidi quelle foto e… Il racconto dell’11 settembre è prigioniero di un certo gigantismo, aerei, grattacieli, terrorismo. Le istantanee di Petrov mi regalavano uno sguardo intimo. Così la mia storia è cosparsa di piccoli oggetti, una penna, un orecchino perduto, una forcina per capelli. Poi c’è anche una terza ragione».

Sentiamo.

«Ha a che fare con un certo senso di colpa legato alla mia critica dell’America. Ho sempre pensato che il sistema di vita degli americani fosse distante dal mio. È sicuramente un’avversione ideologica. Perciò mi sono ritrovato in Harold Pinter, il drammaturgo che la vigilia della tragedia in una conferenza all’università di Firenze parla dell’America come del vero “Stato canaglia” da attaccare. Quello che succede il giorno dopo mi ha fatto riavvicinare a un popolo che non ho mai amato».

11 è un romanzo visionario pronto per il teatro?

«Dovevo produrlo già l’anno scorso, ma con il Covid… Il testo di riferimento è Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman. Son partito da lì, ma non so cos’è diventato: un radiodramma, un’opera per il teatro, per il cinema, forse un romanzo. Ci sono tanti frammenti attaccati, da vivisezionare e slegare…».

Come ne esce George W. Bush?

«Ho trovato straordinario che, dopo l’annuncio dell’attacco, sia rimasto per otto minuti in quella classe elementare. Penso sia diventato presidente degli Stati uniti in quel momento. Tra gli scolari una bambina non gli toglie gli occhi da dosso. Anni dopo, arruolandosi nei marine, racconterà che guardando Bush si era accorta che qualcosa non andava e, tuttavia, si era sentita protetta. Fino a quel momento George W. era considerato un ubriacone raccomandato, ma quella tragedia lo emancipa dall’ombra del padre. Al contrario, qualche giorno fa abbiamo sentito Joe Biden blandire l’opinione pubblica e giustificarsi citando la dolorosa morte del figlio».

Kissinger divide il mondo fra quelli che sparano, la destra, quelli che soccorrono, la sinistra, e le vittime e i famigliari, la maggioranza.

«È una frase che gli presto io, ma credibile nella sua visione. Per me Kissinger ha un’intelligenza molto europea. Mi duole dover dire che è una frase datata, che fotografava l’America del 2001. Oggi che la sinistra sia quella che cura è tutto da verificare».

Come le è venuta la Condoleezza Rice pianista che a un certo punto aiuta un prete gay a confezionare particole?

«In America può succedere. La Rice è l’incarnazione del sogno americano, a differenza di Kamala Harris non proviene da una famiglia altolocata. Con le sue luci e ombre è stata una grande pianificatrice. Il prete è la prima vittima certificata, omosessuale dichiarato e non praticante. Anche lui incarna la visionarietà della realtà».

Poi c’è la madre di Osama Bin Laden.

«Ho trovato commovente che nell’unica intervista rilasciata nel 2018 abbia detto che suo figlio era stato traviato dalle cattive compagnie».

Per dire quanto può essere distorto l’amore materno?

«E anche quanto rifiuti di arrendersi».

Harold Pinter?

«Non è un autore che amo. E il suo attacco all’America del giorno prima evidenzia la sottile ipocrisia degli intellettuali: non sarà mai che qualcuno attua ciò che preconizzo. Gian Antonio Cibotto diceva che ci sono intellettuali militanti, ma non intellettuali militari. Invece tre ore dopo che Pinter auspica un attacco all’America, Bin Laden lo realizza. Da quel giorno la sua produzione artistica si spegne e lui comincia ad avere problemi alle corde vocali. È come se ingoiasse la sua voce fino a morire per un tumore all’esofago, come in una sorta di nemesi dantesca».

L’arte, la politica e la Chiesa non escono bene: siamo disarmati?

«Escono bene gli uomini se proviamo a staccarli dalle categorie che rappresentano. Il vero protagonista è Petrov, l’esule estone che ama la fotografia. È l’occhio puro che guarda all’America come a un mondo irraggiungibile e che forse è meglio non raggiungere, pena la disillusione».

Allora come oggi l’Occidente è assente?

«Mi chiedo se siamo davvero affini agli americani. L’Occidente contempla America ed Europa insieme? Penso che le Torri gemelle, e prima la guerra in Jugoslavia, abbiano evidenziato una distanza. Vent’anni dopo c’è prima l’America e poi arriva l’Europa. Detto questo, preferisco morire tutta la vita americano piuttosto che vivere un giorno da cinese».

Vent’anni dopo la sintesi del dibattito sull’esportazione della democrazia è che è possibile in Europa, Giappone e India, non nei Paesi islamici?

«Se a un islamico moderato dico che sono cristiano la sua replica è: “Allora sei infedele”. Chi non è islamico non è un’altra cosa, ma è un infedele, cioè il male. Ciò detto, le chiacchiere stanno a zero. Anche quelle sull’integrazione».

Cosa pensa della narrazione dei talebani cambiati?

«Come si fa a parlare di talebani moderati. È come dire “sole piovoso”. Più che un ossimoro è un’assurdità. Non a caso se lo dici a loro si offendono».

L’ha colpito di più l’immagine dei bambini consegnati ai marines oltre il muro di Kabul o del giornalista tv sorvegliato dai talebani con il mitra?

«L’immagine che più mi ha colpito è una ragazza di Kabul che vede in lontananza cinque talebani e si tira su il velo per coprirsi. Era abituata a stare a viso scoperto. Come le sue coetanee che andavano a scuola con i ragazzi. Sarà stato fallimentare, ma per una libertà così valeva la pena rimanere altri 20 anni».

Condivide il pensiero di Luca Doninelli secondo cui «la letteratura è muta di fronte alla tragedia», alla pandemia, all’Afghanistan?

«Sì, il mio libro è un tentativo di risposta. Rispetto al mondo intellettuale de sinistra resto un cane sciolto. La vera letteratura è quella che sa dire qualcosa di fronte ai grandi fatti della storia. Io ci provo, ma è vero come dice Doninelli che non lo facciamo più. Secondo me, non per mancanza di coraggio, ma per mancanza di altezza».

I talebani hanno culturalmente vinto? Talebano è diventato un aggettivo corrente, sinonimo di estremismo e integralismo.

«Dobbiamo riconoscere che qualcuno li ha sdoganati, tanto che non ci fanno più orrore. Li ha sdoganati la Cina. Dinanzi a uno Stato che ha l’arroganza di comprare qualsiasi cosa, che si porta via il bambino dal ventre delle donne, a un colosso inattaccabile sulle cause del coronavirus, i talebani risultano sopportabili. A loro giova l’incubo cinese, un governo pandemico al quale ci siamo assuefatti. La posizione veramente estrema e costruttiva è la disponibilità alla mediazione. Come insegna Petrov le foto belle vengono quando ci sono le nuvole e le penombre, non quando il sole acceca o è buio».

Un esempio di cultura talebana è il politicamente corretto con le sue imposizioni linguistiche?

«Altroché. Se la legge Zan fosse in vigore questo libro andrebbe al rogo. Quando si arriva a dire che il principe azzurro è un molestatore perché non ha chiesto il permesso a Biancaneve di svegliarla, allora non c’è riparo. Il politicamente corretto è il Corano del linguaggio. Per fortuna gli uomini sono più forti del talebanismo».

Un altro esempio è nell’impossibilità a manifestare perplessità sugli obblighi politico-sanitari attuali?

«In parte sì. Trovo che il generale Figliuolo vada ringraziato perché ha riportato un po’ d’ordine nel bailamme delle primule. Il vaccino o lo facciamo o no. Alla prima lezione di filosofia ti insegnano che qualunque male non lo sconfiggi se non ne capisci l’origine. Così siamo condannati a ricaderci. Se non si capisce da dove è partito il focolaio in ogni momento può riaccendersi».

 

La Verità, 4 settembre 2021

 

«Il conformismo made in Usa ci sta ingabbiando»

Ho dormito poco», confida Anna Galiena quando, protetta da grandi occhiali da sole, compare nel giardino del Teatro Olimpico di Vicenza. Qui è in scena con due spettacoli: La signora Dalloway, tratto dal romanzo di Virginia Woolf, regia di Giancarlo Marinelli, anche direttore artistico del 73° ciclo dei classici del teatro, e Noi. Dialoghi shakespeariani di cui, oltre alla traduzione e all’adattamento, firma regia e interpretazione. Come possano riposare tranquilli attori e attrici dopo le «prime» è in effetti un piccolo mistero. «Io mi aiuto con la meditazione», confida ancora Galiena, «ma non sempre ci riesco». Attrice poliedrica di teatro, cinema e televisione, negli Stati Uniti membro dell’Actors studio di Elia Kazan, protagonista in Francia e in Italia per i migliori registi, nel monologo tratto dal Bardo si sdoppia al femminile e al maschile su amore, morte, potere, lussuria, gelosia. Negli aristocratici panni di Clarissa Dalloway è, invece, il perno della giornata londinese che culminerà nella festa funestata dal suicidio di Septimus, tormentato reduce di guerra.

Come ci si prepara a due spettacoli nello stesso cartellone?

«Si passa tutto il tempo in compagnia delle proprie battute. Per La signora Dalloway ho lavorato principalmente in gruppo. Per Shakespeare che aveva molto testo mi mettevo distesa a terra su un tappetino, ogni battuta una postura. Muovere il corpo serve a memorizzare e toglie la tensione dello stare in piedi, davanti a un tavolo».

L’ha imparato all’Actors studio?

«L’ho frequentato tre anni, fino al 1983. Io e Francesca De Sapio, che ora è una fantastica insegnante, eravamo gli unici membri italiani e potevamo frequentare i corsi, non solo da osservatori. Dal 1989 un’altra gestione ha eliminato la selezione».

A New York è rimasta fino al 1984…

«Quando sono tornata a Roma, dove ho avuto un secondo shock culturale».

Il primo qual era stato?

«Arrivata in America avevo scoperto che non c’era il dibattito. Non si parlava, si faceva. Ero abituata ai grandi discorsoni per rifare il mondo. Invece lì non c’era passato, non c’era cultura, c’erano individualismo e tante persone sole nei caffè».

Però si faceva.

«E si faceva veramente senza metterti ostacoli. Non mi hanno mai chiesto da dove venivo o chi mi spingeva. C’era una pubblicazione con l’agenda settimanale dei provini. La consultavi, ti presentavi, salivi sul palco e se andavi bene ti prendevano. La competizione era sfrenata. Tornata a Roma ho trovato un ambiente fatto di clan, in cui tutti parlavano e si lamentavano».

Di cosa?

«Del fatto che non si teneva conto del curriculum, per esempio. Manager e produttori mi dicevano di lasciar perdere le cose americane. Squadravano il fisico, chiedevano se ero fidanzata, mi invitavano a cena. Un paio di volte ero lì lì per usare le mani».

Motivo?

«Un produttore che non c’è più mi aveva convocato per discutere di una sceneggiatura. Come sono entrata, ha chiuso a chiave l’ufficio. “E no!”, l’ho riaperto… E siccome di là c’era la segretaria si è calmato».

Basta dire di no?

«In una certa maniera».

Però era scossa?

«Mi dicevano: “Qui funziona così, devi appartenere a una scuderia, a un produttore, a un politico… Oppure devi avere una famiglia ricca che ti manda alle feste finché incontri qualcuno”. Io ero seguita da Fausto Ferzetti, un bravo agente, ma stavo già pensando di andarmene di nuovo. Invece accadde che, per un film per la tv, un’attrice svedese aveva dato forfait all’ultimo momento e siccome nel curriculum le misure corrispondevano, mi proposero di tentare. Si girava fuori Roma, presi il trenino e mi presentai alla prova costumi».

E il copione?

«Era semplice. Andai senza tante prove, unica istruzione di un cameraman: “Aò regazzi’, mica stai a teatro, devi guarda ’a machina”. Dopo quella volta presero a chiamarmi. Certi funzionari che avevano le loro protette s’interrogavano: “Ma questa chi c’ha dietro?”».

Funzionava così… La seconda molestia?

«Di un altro produttore, anche lui non c’è più. L’avevo incontrato a New York a un piccolo festival… Mi convoca e come entro si alza e, diciamo, mi abbraccia. Sono scappata urlando».

Ha avuto una carriera più lenta?

«Le scorciatoie non m’interessavano. Se valgo qualcosa voglio che sia riconosciuto. C’è chi la coscienza non ce l’ha… Per educazione e scelte personali, io ce l’ho in abbondanza».

Come giudica le denunce dilazionate?

«L’abuso di potere esiste in tanti campi, non solo nel cinema o nel teatro. Le denunce ben vengano anche postume. Parlarne subito non è facile, si può essere ancora turbate, ci si vergogna…».

Anche se nel frattempo si sono girati un po’ di film con quel produttore?

«Il do ut des smonta la denuncia».

Perché c’è voluto il regista francese Patrice Leconte per consacrarla con Il marito della parrucchiera?

«Dopo tre anni in Italia non ero contenta. O appartenevi al giro di amicizie giuste e ai salotti chic oppure stentavi. Ormai avevo deciso di tornare a New York dove avevo ancora il mio appartamentino, ma Ferzetti mi mandò da Yves Boisset che stava per girare La fata carabina tratto da Daniel Pennac. Non sapevo il francese, imparai qualche frase di circostanza, ma al provino, con mia sorpresa aprirono il curriculum: “Lei ha lavorato con Kazan!”. Cominciammo a parlare di teatro… E trascorsi l’estate con le cuffie nelle orecchie per imparare il francese».

Poi?

«Arrivarono altre offerte e Leconte vide una mia foto nell’ufficio di un direttore del casting e mi volle incontrare. Dopo Il marito della parrucchiera in Italia tutti i film tra i 20 e i 40 anni li offrivano a me».

Ma…

«Cominciai a dire dei no. Non tutte le parti erano per me. Rifiutai Arriva la bufera di Daniele Luchetti, con il quale poi girai La scuola. Feci Il grande cocomero di Francesca Archibugi, Senza pelle di Alessandro D’Alatri. In Francia declinai La regina Margot di Patrice Chéreau, che non mi chiamò più».

I francesi sono più permalosi?

«E più presuntuosi. L’isola felice non c’è».

La lista dei registi importanti è lunga, con chi si è trovata meglio?

«Con Leconte c’era un’intesa perfetta sul set. Feci un corso di parrucchiera di tre settimane dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio. C’era cura del dettaglio, un’attenzione al mestiere che avevo visto solo negli Usa. In Italia si privilegia la dizione pensando sia quella a trasmettere le emozioni».

Invece conta anche la corporeità?

«Siamo corpo, mente, emozioni, non puro spirito. I registi italiani curano le intonazioni, quelli americani forse eccedono nel senso inverso».

Come andò sul set di Senso ’45 di Tinto Brass?

«All’inizio la sceneggiatura era bellissima, ambientata nella Venezia di fine guerra. Avevo letto la novella di Camillo Boito e ricordavo il film di Luchino Visconti, molto romantico. Brass mi conquistò facendomi vedere le sue prime opere, Il disco volante, La vacanza con Vanessa Redgrave, dove nessuno si spogliava. Poco alla volta, la sua ossessione per l’erotismo prese il sopravvento. Accettai il nudo, non le inquadrature ginecologiche. Usò delle comparse per la corsa in spiaggia girata a Ostia anziché al Lido. Anche la scena dell’orgia fu modificata al montaggio, fino a sconfinare nella pornografia».

Il rapporto si incrinò?

«Purtroppo sì. Non feci nessuna pubblicità, partecipai appena alla conferenza stampa. I critici dissero che sarebbe stato un bel film senza quei dieci minuti di eccessi».

Tra cinema, teatro e televisione qual è il linguaggio che predilige?

«A quattro anni le suore mi misero su un palcoscenico».

Le suore?

«Eravamo cinque fratelli, per la donna che ci seguiva mentre i miei genitori erano al lavoro l’asilo delle suore era il più comodo. Ero bionda e riccia, ma con una parrucca castana diventai una Madonna perfetta. Che parlava spagnolo, perché erano suore spagnole. Mi piacque molto».

Quando si avvicinò al cinema?

«Alla New York university fondata da Martin Scorsese, dove finanziavano un cortometraggio di 20 minuti. Il regista mi aveva visto a teatro e mi propose di essere la protagonista».

Tra cinema e teatro?

«Se dovessi sceglierei davanti a una pistola opterei per il palcoscenico».

La Signora Dalloway è una metafora del presente, apparenza glamour e sostanza nichilista se non disperata?

«Ha ragione Marinelli, è un testo molto attuale. La tegola che ci è arrivata addosso con la pandemia è servita a ridimensionarci. A chiederci che cosa vale davvero e che cosa invece è superfluo. In una società consumistica e sempre connessa, in realtà c’è pochissimo ascolto dell’altro».

Ogni personaggio della Wolf rappresenta un mondo.

«L’ideologia, l’edonismo… Questa situazione inedita ci invita a chiederci dove sono io e dov’è l’altro».

Nel mondo dello spettacolo gli stereotipi politicamente corretti tipo il premio neutro gender del Festival di Berlino stanno diventando esasperanti?

«È tutto uno slittamento della mentalità americana che ho visto 45 anni fa. E non solo per le battaglie femministe».

La guerra dei sessi è la strada migliore per la parità alle donne?

«In Italia e in Europa uomini e donne si sono sempre cercati, vivono insieme, si abbracciano – un po’ meno con il Covid. In America i sessi sono più separati, a volte antagonisti. Però, siccome non si può farne a meno, ci si unisce, ci si sposa. Ma è come se fossero compromessi temporanei. C’è solitudine, separatezza».

Concorda con Carlo Verdone che ha detto che il politicamente corretto frena la creatività perché ogni gag deve superare l’esame delle minoranze?

«In America negli anni Settanta le battute sugli ebrei o sui neri si dicevano sottovoce, ma spesso erano loro stessi i primi a riderne. Poi la faccenda è peggiorata e nell’84 son venuta via. Ora anche qui rischiamo di costruirci un’altra gabbia».

È questo il pericolo?

«Sì, ma noi resistiamo. Gli uomini di buona volontà continuano a lavorare, a scrivere, a rischiare. Come si dice a Napoli: “Scherzando Pulcinella dice o’ vero”».

 

La Verità, 3 ottobre 2020

«Franceschini latita e io finirò in galera»

Luca Barbareschi è nel camerino del teatro Eliseo dove, tra poco, andrà in scena con Il cielo sopra il letto, diretto e recitato da sé medesimo e con Lucrezia Lante della Rovere. Sempre tra poco, ad aprile, l’Eliseo potrebbe chiudere a causa dell’indagine per traffico di influenze disposta dalla Procura della Repubblica di Roma. Secondo l’accusa, in occasione della finanziaria del 2017 sarebbero state esercitate pressioni illecite per far arrivare al teatro 4 milioni di euro. Barbareschi si sarebbe rivolto a Luigi Tivelli compensandolo con 70.000 euro per la sua attività: «Mi sono affidato a un lobbista per sollecitare il Parlamento a fare una legge sulla cultura. È reato?», si difende lui. Ora, dopo l’avviso di garanzia, per rispetto del pubblico, degli abbonati e degli artisti, il proprietario e direttore artistico dell’Eliseo garantirà il completamento della stagione, nella quale, alla fine, avranno recitato attori come Umberto Orsini, Gabriele Lavia, Anna Bonaiuto, Glauco Mauri, Elena Sofia Ricci, Alessandro Haber, Lunetta Savino, Renato Carpentieri, Silvia d’Amico, Ivano Marescotti… L’Eliseo, comunque, è più di questo, operando nella produzione teatrale, della fiction televisiva e del cinema (tra gli ultimi film, L’ufficiale e la spia di Roman Polanski, Gran premio della giuria alla Mostra di Venezia).

Lei, Barbareschi, invece quando andrà in galera?

«Presto, se le accuse saranno confermate».

Che cosa le contestano?

«Il reato di traffico di influenze».

Che sarebbe?

«Il tentativo di convincere i politici a sostenere, tramite apposite leggi che stanzino fondi per la cultura, le attività dei teatri e degli enti lirici. Se indagano me dovrebbero indagare tutti i sovrintendenti italiani. Perché, dai dirigenti della Biennale di Venezia a quelli della Scala fino a quelli dei teatri più piccoli, tutti trascorriamo le nostre giornate per sensibilizzare i politici alle necessità dei nostri enti».

Gli altri sovrintendenti forse non pagano un lobbista per fare una legge che finanzi il loro teatro.

«Peccato, dovrebbero farlo. Ho pagato una società che si chiama Reti e ha come sua attività seguire le procedure legislative alla Camera e al Senato. Per fortuna l’ho fatto perché questo prova che c’è totale trasparenza. Chi ha verificato ha constatato che non c’è stato nessun passaggio di denaro tra me e il povero Tivelli o altri funzionari statali. Ma l’attività di lobbying è necessaria perché non posso trascorrere le mie giornate in Parlamento».

A cosa serve?

«Come ho detto, a sensibilizzare le istituzioni a finanziare teatri e fondazioni. È la politica a decidere, sono i parlamentari nella loro sovranità a legiferare. Anche in queste settimane bastava un emendamento nella legge di bilancio che viene controfirmata dal presidente della Repubblica. L’obiettivo è stabilire una regola aurea per il Fus (Fondo unico per lo spettacolo ndr) che, in base alle produzioni e allo sbigliettamento, stabilisca l’entità del sostegno».

Che cosa ostacola questo processo?

«Non lo chieda a me. Avevo suggerito un testo che poteva andare bene per tutti gli enti. Sarebbe stato presentato al Senato da uno schieramento trasversale composto da esponenti del Pd, di Forza Italia e Fratelli d’Italia e con l’appoggio della Lega».

Invece?

«Il giorno stesso in cui doveva essere votato mi è arrivato l’avviso di garanzia».

Perché è indispensabile una legge?

«Perché oggi i finanziamenti vengono distribuiti a macchia di leopardo. Chi ha buoni rapporti con il ministro competente, il sindaco o l’assessore ottiene il denaro, chi è nuovo e non li conosce non becca nulla».

Lei non è nuovo né privo di conoscenze, non sarà un perseguitato.

«Chissà. La invito a leggere la lista dei finanziamenti degli altri Tric (Teatri di rilevante interesse culturale ndr) per il 2018».

Lista (non completa) dei finanziamenti del Fus sommati a quelli degli enti territoriali. Teatro Biondo di Palermo: euro 5.256.620; Fondazione teatro Bellini di Napoli: euro 1.877.490; Fondazione teatro Due di Parma: 1.792.499; teatro dell’Elfo di Milano: euro 1.758.689; teatro Franco Parenti di Milano: euro 1.720.635; teatro di Bari: euro 1.347.872; Teatro Eliseo di Roma: euro 810.181.

Magari gli enti locali delle altre città sono più prodighi del comune di Roma.

«L’Eliseo è all’ultimo posto anche nella classifica dei finanziamenti ministeriali».

È meno attivo?

«Vuole scherzare? La nostra attività è superiore sia per numero di eventi che per qualità e trasversalità della proposta».

Vuol dire che è un trattamento ad personam contro di lei?

«Sicuramente sono una figura scomoda. Nessuno mi dava la direzione artistica di nulla. Alla fine, nel 2014 ho acquistato questo teatro per 5,6 milioni e l’ho fatto ristrutturare spendendone altri 7. Bene: da quell’anno i finanziamenti del Fus sono crollati da 1,3 milioni al mezzo milione attuale. E questo mentre si preparavano le celebrazioni del centenario, commemorate anche da un francobollo del ministero dell’Economia e delle finanze con la dicitura “Patrimonio artistico e culturale italiano”. Sa come si chiama questo comportamento?».

Dica.

«Callosotomia sociale, è una definizione dello scienziato Andrea Moro. La callosotomia è un’operazione chirurgica nella cura dell’epilessia di separazione dei due emisferi cerebrali. Nella persona che la subisce l’emisfero destro e quello sinistro non comunicano, rendendo per esempio impossibile ritrovare con la mano destra un oggetto toccato con la mano sinistra».

Ma nel 2014 Dario Franceschini, lo stesso ministro di oggi, si era dimostrato sensibile alla riapertura del teatro?

«Certo. Aveva condiviso l’idea del rilancio dopo il fallimento della precedente gestione e si era esposto per garantire le finalità artistiche dell’Eliseo».

E adesso?

«Non risponde agli appelli dei lavoratori che gli scrivono per evitare la chiusura e la perdita del posto di lavoro. E non rispondono al telefono nemmeno il suo capo di gabinetto, Lorenzo Casini, e il segretario generale, Salvo Nastasi».

Che cosa dovrebbe fare Franceschini?

«Sarebbe bastato che avesse dato l’ok all’emendamento del Def che prevedeva un aumento di soldi per tutti i Tric italiani, non solo il mio».

Ho letto un suo messaggio in cui parla di antisemitismo e pronuncia il «J’accuse» di Émile Zola durante il caso Dreyfus. Eccesso di vittimismo?

«È chiaro che sono provocazioni. Ma c’è sconforto. In questo Paese chi lavora fuori dagli schieramenti prestabiliti non viene accettato. Se a dirigere l’Eliseo ci fossero Emma Dante o Mario Martone stia sicuro che non lo lascerebbero chiudere».

È rassegnato?

«Mai nella vita. Sto cercando di sensibilizzare in tutti i modi l’opinione pubblica. La cosa più deprimente è il silenzio di tanti colleghi che recitano all’Eliseo o nelle fiction e nei film che produco, che non dicono una parola. Anche a Venezia lo spettacolo è stato deprimente. Quando Lucrecia Martel, presidente della giuria, ha attaccato il film di Polanski tutti si sono nascosti, salvo poi precipitarsi per i selfie al momento della consegna del Leone».

Diceva che non si rassegna.

«Sono pronto a sfidare chiunque in un dibattito televisivo su come possano funzionare teatri ed enti culturali in Italia. Sono pronto a raccontare tutto, a partire dai trattamenti di favore di cui godono altri istituti più allineati del mio. Ma sono sicuro che non si presenterebbe nessuno. Finora mi hanno ospitato Massimo Giletti a La7 e Silvia Toffanin a Canale 5, mentre la Rai mi ha cancellato da tutte le trasmissioni come fossi un appestato».

Lista delle ospitate disdette in programmi Rai per la promozione di Il cielo sopra il letto dopo l’arrivo dell’avviso di garanzia: Vieni da me, Rai 1 (3 dicembre); La vita in diretta, Rai 1 (9 dicembre); Chi è di scena, Rai 3 (10 dicembre); Telethon, Rai 1 (14 dicembre); Tg3 Linea notte, Rai 3 (18 dicembre); Caffè Unomattina, Rai 1 (21 dicembre).

Senza o quasi televisione come pensa di sensibilizzare l’opinione pubblica?

«Ho fatto pubblicare una petizione su Change.org intitolata “Lasciate vivere il teatro Eliseo” che in pochissimi giorni ha già superato 1700 firme. La invito a leggere la lista di artisti, registi e scrittori che hanno sottoscritto l’appello».

Lista dei firmatari internazionali dell’appello: David Mamet, Roman Polanski, David Hare, Abraham Yehoshua, Radu Mihaileanu, Emir Kusturica.

Ultima domanda, Barbareschi: chiuderà l’Eliseo?

«Se non succede qualcosa temo di sì. Non possono costringermi a tenere aperto un Teatro di rilevante interesse culturale senza darmi i fondi per farlo. Chiederò il cambio di destinazione d’uso e ne farò un centro congressi o dei ristoranti».

Un delitto.

«Penso alla storia di questo teatro, alle persone che ci sono passate, da Igor Stravinski a Giorgio De Chirico, da Vittorio Gassman a Luchino Visconti a Eduardo de Filippo, alla nascita de Il mondo di Mario Pannunzio e alle lettere di Silvio D’Amico a Giulio Andreotti. È un patrimonio culturale e artistico come dice quel francobollo. Anche il Valle, un altro teatro romano, ha chiuso definitivamente dopo essere stato occupato per anni dagli attori impegnati contro i governi Berlusconi con il plauso dei giornali militanti da Repubblica in giù. Ma ha chiuso dopo semplici proteste improduttive. Io ho continuato a lavorare e proporre, senza accusare nessuno. Adesso però sono indagato e accuso le istituzioni. Perché far chiudere i teatri è un crimine culturale. Il punto d’arrivo finale di questi metodi sono le dittature comandate dalle magistrature che bruciano i libri».

 

La Verità, 24 dicembre 2019