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«Ho cambiato rivoluzione, cerco quella del cuore»

È stato il capo militare di Prima linea, l’organizzazione terroristica che dal 1974 al 1983 rivendicò 101 attentati e l’uccisione di 16 persone. In carcere si è convertito al cristianesimo. Ha avviato il processo di dissociazione dalla lotta armata che ha portato a ricostruire trame e responsabilità di quella delirante stagione. Maurice Bignami, figlio di Torquato, ex capo partigiano e storica figura del comunismo bolognese, nato nel 1951 a Neully-sur-Seine dove i suoi genitori ripararono, marito di Maria Teresa Conti, sposata nel carcere Le Vallette di Torino, è persona scomoda per l’intera galassia postsessantottina. Ha da poco pubblicato Addio rivoluzione. Requiem per gli anni Settanta (Rubbettino): autobiografia e bilancio documentatissimo nel quale spiega le ragioni della sua abiura, condensata nell’espressione «esuli dal terrore e dal comunismo».

Ci incontriamo in un bar vicino alla Stazione Termini di Roma. Il tono della voce testimonia pudore e ponderazione, la complessità del pensiero il rifiuto di adagiarsi su facili certezze.

Quali condanne ha subito e perché?

«In primo grado sono stato condannato a tre ergastoli e ad altre centinaia di anni di reclusione. In appello, quando la nostra dissociazione era già consolidata, gli ergastoli sono caduti con l’eccezione di uno, comminato per l’uccisione di due carabinieri durante una rapina a una banca di Viterbo. Sarebbe caduto anche quello se Il Manifesto non avesse scritto, anche a firma di Rossana Rossanda, che non bisognava fidarsi di me perché, in occasione di un convegno con alcuni dissidenti sovietici, avevo teorizzato la nobiltà dell’abiura. Ricordiamoci che nel 1987 c’era ancora l’Urss».

Alla fine quanti anni ha scontato?

«Venti, con la buona condotta. Senza quella campagna avrebbero potuto essere dieci. “Persino i suoi amici”, sottolineò, equivocando, il magistrato, “dicono che non ci si deve fidare di lei, quindi…”. Detto questo, forse con un filo di snobismo accetto il paradosso di esser stato il promotore del movimento di dissociazione nelle carceri e al contempo l’ultimo a uscirne, nonché l’unico a non riavere i diritti politici».

Vent’anni per quell’omicidio e per cos’altro?

«Ero uno dei dirigenti di Prima linea. C’erano il responsabile della parte logistica e quello della formazione, io ero il capo militare dell’organizzazione».

Che cosa significa che «si può essere ex terroristi, mai ex assassini» come ha scritto?

«Si può essere ex di qualsiasi opinione politica. Esiste una corrente di pensiero che considera la possibilità del ricorso alla violenza. Senza scomodare Niccolò Machiavelli, dal regicidio alle guerre di religione, dal marxismo al leninismo, le differenze riguardavano solo il quando e il come praticare l’omicidio politico».

Invece, ex assassini non si diventa?

«Se hai oltrepassato la soglia dell’assassinio non puoi cancellarlo».

Le opinioni riguardano le idee, l’omicidio la carne.

«Anche chi stava dall’altra parte della collina, un carabiniere, un rappresentante delle forze dell’ordine, se ha ucciso non lo può cancellare. Lui ha ragione, io torto, ma la ferita te la porti addosso a prescindere».

Questa consapevolezza è condivisa nella sinistra post-terroristica?

«Lo spero per tutti gli ex compagni, lo so per alcuni di loro, come gli ex brigatisti Alberto Franceschini e Franco Bonisoli. Chi è stato fortunato e ha fatto incontri significativi, ha trovato quell’angolo nascosto del cuore che ci ha permesso di rinascere come uomini nuovi, maturando una consapevolezza diversa della nostra storia».

La sua comincia con l’educazione paterna, «un’intossicazione del bene per eccesso di dosaggio» che, scrive, non si può non fare propria. Negli ultimi anni suo padre sosteneva che i principi erano giusti ma gli uomini sbagliati, lei il contrario.

«Questo è il nocciolo. Ed è ciò che non mi è stato perdonato: l’autocritica radicale. Chi ha scelto la dissociazione ha messo in crisi il dogma dei principi sacri e inviolabili, corrotti solo dalla loro realizzazione storica».

Un’abiura che non è stata tollerata?

«Lo scontro con la Rossanda fu emblematico perché lei stessa, protagonista della rottura con il Pci, si riteneva l’anima antistalinista: salvo poi comportarsi con noi come la peggiore stalinista».

Nel libro smonta l’immagine del Sessantotto allegro e spensierato. Scrive che comandavano i musi lunghi e che le comuni erano «i luoghi più tristi, noiosi e ideologici sulla faccia della terra».

«C’era una liberazione chimica: l’anticipazione di una libertà intesa come fare ciò che piace senza render conto a nessuno. La nostra è stata la prima generazione che ha rinunciato a trasmettere qualcosa alle successive. Abbiamo praticato una cesura, vibrato un colpo d’ascia, impedendo qualsiasi eredità morale. Che cosa ha prodotto il Sessantotto? Ci sono un libro, un film, un’opera d’arte memorabili? Niente».

La musica rock? La pop art?

«La pop art è nata prima. Per un breve periodo il movimento ha politicizzato il rock, che poi ha proseguito per tutt’altre strade. In Italia il Sessantotto è durato vent’anni, altrove pochi mesi».

Perché, considerato che è la sua terra d’origine, non è riparato in Francia come altri?

«Avevo la nazionalità francese, ma come persona mi ha salvato restare in Italia. Il cambiamento avvenuto in carcere mi ha impedito la via di fuga imboccata, per esempio da Cesare Battisti. Non mi è mai neanche passata per la testa. Pochi mesi prima avevano arrestato quella che sarebbe diventata mia moglie. Anche l’influenza della lettura dei classici è stata fondamentale».

In che senso?

«Non si può mentire a sé stessi. Avevo vissuto un’esperienza drammatica storicamente importante. Andare a Parigi a fare l’intellettuale perseguitato voleva dire chiuderla con una fuga meschina, una menzogna».

I classici?

«Dopo poche settimane in isolamento padre Ruggero, il cappellano che ci avrebbe sposato, mi portò I promessi sposi. Era una rilettura, ma quanto significativa, non solo nelle pagine dell’Innominato».

Perché scrive che un romanzo più che un saggio è lo strumento per parlare dei fatti di sangue di cui è responsabile?

«Perché solo romanzandolo si può raccontare l’orrore senza impattare i sentimenti di carnefici e vittime. Solo la finzione permette di essere realistici, di entrare nella crudezza di certi eventi e narrare la carne ferita».

Perché nel giugno dell’84 consegnaste le armi al cardinale di Milano Carlo Maria Martini?

«La Chiesa era il nostro unico interlocutore e ci considerava affidabili. In quei giorni 40 magistrati avevano firmato un documento che paventava un’imminente ripresa del terrorismo. Era una manovra per frenare la pacificazione alla quale stavamo lavorando. Noi e la Chiesa eravamo gli unici a volerla. Consegnando le armi riconoscevamo le nostre responsabilità e favorivamo le indagini».

Che cosa può dirci dei suoi incontri con i familiari delle vittime?

«Ne ho avuti alcuni… Le posso raccontare un fatto che spiega certe dinamiche. Con suor Teresina, un’amica di Oscar Luigi Scalfaro, si era instaurato un rapporto di complicità. Lei arrivava in carcere e diceva: “Mi serve un milione”. Non chiedevo per chi e per cosa e lei non diceva. Mi attivavo, quei soldi potevano servire a qualche famiglia che aveva perso a causa nostra chi portava a casa lo stipendio. Era un atto concreto e sconvolgente oltre le parole e le emozioni. Un gesto sconvolgente, più per chi lo accettava che per noi, che ci tirava fuori da quell’inferno privato».

Con questo libro dice addio alla rivoluzione della lotta armata perché ne è cominciata un’altra?

«Il contrario della rivoluzione non sono la reazione, l’immobilismo, la rassegnazione, ma la politica. Citando Joseph Ratzinger: “Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale… Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica” (Liberare la libertà. Fede e politica nel Terzo millennio, Cantagalli, Siena, 2018 ndr)».

Tutto nasce dalla rivoluzione del cuore?

«Chiamiamola con il suo nome: conversione. Però, mantenendo sempre un pizzico d’ironia per evitare formule manichee come: “Sei più rivoluzionario adesso di allora”, oppure: “Sei più buono oggi di allora”. Non c’è nulla di acquisito una volta per tutte».

Come avvenne questo cambiamento?

«Il giorno del matrimonio ci condussero in una cella con un tavolo facente funzione di altare. Percorremmo corridoi tra le guardie che battevano il pavimento con il manganello e cantavano Faccetta nera. Padre Ruggero celebrava a occhi socchiusi, mentre io li tenevo ben aperti e, man mano che la funzione procedeva, vidi trasformarsi i volti dei presenti, quello di Teresa, dell’avvocato che ci faceva da testimone, anche delle guardie. Eravamo tutti colpiti e succubi di quella situazione. I musi si erano distesi e avevano acquisito un che di fanciullesco, un’espressione molto fuori posto. Fu il primo di altri fatti».

Che possibilità ha di riavere un ruolo pubblico chi si è macchiato di crimini così violenti?

«La più grande vittoria dello Stato sarebbe stata riportarci alla politica. Non necessariamente in ruoli istituzionali. Stavamo lavorando alla possibilità di un’amnistia dei reati associativi che avrebbe permesso il ritorno alla partecipazione democratica della generazione che aveva combattuto lo Stato con le armi. Sarebbe stata una vittoria delle istituzioni. L’avvento di Mani pulite distrusse i partiti nostri interlocutori, lasciando paradossalmente in vita solo gli eredi dei due totalitarismi: il Pci e l’Msi».

Oggi per voi lo spazio pubblico è impraticabile?

«Trovare le modalità è un fatto di opportunità e misura. Per questo ci dispiace tremendamente di aver fatto la lotta armata. Ma, se possibile, ci dispiace ancor di più non aver fatto fin da subito la democrazia».

 

La Verità, 11 luglio 2020

«Chef Rubio farebbe bene a rileggersi Pasolini»

Rita Dalla Chiesa è nata e vissuta in caserma, con la sua famiglia e il disprezzo per le forze dell’ordine non lo tollera. Ben oltre la polemica con chef Rubio – per il quale le colpe dei fatti di Trieste sono di «un sistema stantio che manda a morire giovani impreparati fisicamente e psicologicamente» – «la figlia del generale» torna sull’argomento con grande lucidità. Ma qui, purtroppo, non siamo dentro un film con John Travolta.

Perché c’è questo disprezzo nei confronti delle forze dell’ordine?

Non l’ho mai capito. Ho vissuto il Sessantotto, ho visto gli sputi e le monetine contro i militari. Siccome erano figli del sud e si mantenevano facendo i carabinieri o i poliziotti, quello stipendio era considerato una forma di assistenzialismo, l’equivalente del reddito di cittadinanza di oggi. Mi sembra di vedere una scia di ex terrorismo.

In che senso?

Risuonano le stesse parole degli anni di piombo: due di meno, due sottoterra… Anche quando hanno ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega a Roma…

È frutto di una cultura precisa?

Temo di sì. Una persona che si rivolge a un poliziotto o a un carabiniere lo fa perché da loro si sente protetta. Lei era bambino, io ricordo gli sputi e le urla al funerale di Antonio Annarumma. Ora passo per fascista perché difendo le forze dell’ordine, ma io le difendo come loro difendono noi cittadini.

Chef Rubio è un caso estremo o esprime una mentalità diffusa?

Diciamo che è un caso non così estremo come vorrei che fosse.

Si pensa che poliziotti e carabinieri siano inetti e approssimativi?

Se fosse così non ci sarebbero tutti gli arresti che ci sono e le carceri sarebbero vuote. Nessuno considera che si pagano i corsi di aggiornamento e che non possono usare le manette anche quando colgono un delinquente in flagrante perché sarebbero additati come torturatori. Viviamo in un Paese più preoccupato di difendere i delinquenti di chi cerca di assicurarli alla giustizia.

Come giudica lo scandalo della benda sugli occhi di uno dei due accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Cerciello?

Quando arrivarono i genitori di quel ragazzo dall’America il gregge, come lo chiamo io, si è dimenticato che era morto un uomo e che sua moglie era vedova. E si è preoccupato della benda: poverino quel ragazzo… Peccato che avesse appena collaborato all’uccisione di un poliziotto.

Se poliziotti e carabinieri reagiscono sono fascisti, se non reagiscono sono incapaci e se muoiono sono impreparati?

Sono nata e vissuta in caserma, so cosa c’è dietro le divise, i turni di notte, i natali passati in servizio. Li ho visti tornare con le divise strappate… Li vedo anche ora quando quelli che vengono fermati, magari giovani col macchinone, li guardano con sufficienza.

Però la tragedia di Stefano Cucchi non ha giovato alla stima verso le forze dell’ordine.

Certo. Anche quello che è successo nella scuola Diaz al G8 di Genova: sono fatti terribili dei quali vergognarsi e me ne vergogno io per prima. Ma grazie a Dio sono episodi, non la normalità. I nostri militari erano odiati anche prima di Genova e di Cucchi.

Rubio dovrebbe rileggere la poesia scritta da Pier Paolo Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia nel 1968 in cui simpatizzava per i poliziotti, «figli di poveri»?

Certo. E non solo quella. Anche certe lettere di mamme e di poliziotti che ricevo spesso. O un articolo di Antonio Ruzzo sul Giornale che raccontava gli stati d’animo dei militari disprezzati per la divisa.

Il fatto che percepiscano stipendi modesti e lavorino con attrezzature obsolete dimostra che si sottovaluta l’importanza del loro compito?

Non so come le istituzioni possano farlo. Mancano i soldi per la benzina e per i giubbotti antiproiettile e certe missioni si trasformano in una roulette russa. Se ci sono sette giubbotti e capita all’ottavo di essere colpito?

Un uso maggiore delle manette darebbe più sicurezza?

Per la cattura in flagrante dovrebbero scattare in automatico. Le manette non servono per umiliare, ma a proteggere chi compie azioni di polizia. Trovo che le forze dell’ordine siano poco supportate dai cittadini che le vedono come una realtà separata e dallo Stato che si gira dall’altra parte. Salvo poi fare un uso smodato delle scorte.

Spieghi.

Quando fa comodo si ricorre a questi uomini per salvare la pellaccia di potenti o presunti tali. Ma quando emerge la necessità di attrezzature adeguate, si gira la testa dall’altra parte. E se lo facessero i poliziotti nel momento del pericolo?

Come valuta la revoca della scorta al capitano Ultimo?

Non capisco come le autorità si siano potute rimangiare quanto già deciso dal Tar del Lazio a giugno. Non capisco questo accanimento contro un ufficiale dei carabinieri al quale dobbiamo molto. C’è qualcosa che non mi torna. Non mi sembra che la mafia faccia sconti a nessuno. Perché non si prendono sul serio le minacce di cui è oggetto? Mica passano in giudicato o vanno in prescrizione…

Cosa pensa del reddito di cittadinanza all’ex brigatista Federica Saraceni condannata a 21 anni per l’omicidio di Massimo D’Antona?

So bene com’erano quegli anni, quando mio padre ha combattuto le Brigate rosse… È giusto che quando una persona ha pagato il suo conto con la giustizia deve potersi rifare una vita. Ma chi si è messo contro lo Stato ora non può chiedere aiuto allo Stato. Non ci sto.

 

Panorama, 16 ottobre 2019

 

 

«Veneriamo la tecnologia come una religione»

L’anagrafe conta fino a un certo punto. Paolo Giordano ha 35 anni ed è il più giovane vincitore del Premio Strega. Lo conquistò nel 2008, a 25 anni, con La solitudine dei numeri primi, il suo primo romanzo, che quell’anno vendette oltre un milione di copie e divenne un film con la regia di Saverio Costanzo. In Divorare il cielo (Einaudi) torna a raccontare una storia di formazione di un gruppo di ragazzi, ultratrentenni come lui, che passano dalla fede religiosa al credo ecologista alla rivoluzione digitale. L’anagrafe conta fino a un certo punto: «Dovrei sentirmi più vicino ai millennials», riflette. «Invece, mi rendo conto di essere più affine al sistema di pensiero dei miei genitori». Lo incontro in un locale di Torino.

Divorare il cielo è un romanzo sul bisogno di credere in qualcosa?

«È un romanzo sulla difficoltà di scegliere in che cosa credere. E sulla forte instabilità che ha una forma di credo oggi. Non solo per un fatto antropologico, ma anche per la complessità del mondo contemporaneo. Credo sia una difficoltà di molti».

È un romanzo sulle ideologie o sul desiderio di dare un significato all’esistenza che accomuna tutti?

«Sono refrattario a tutto ciò che ha a che fare con le ideologie, perciò mi sembra impossibile definirlo un romanzo ideologico. Sicuramente c’è un tratto anagrafico comune a persone che vivono a cavallo del millennio. Il che non vorrebbe dir niente se non fosse per il cambiamento radicale che è avvenuto. Veniamo da un secolo d’ideologie dominanti e siamo entrati in un nuovo secolo, dominato dalla polverizzazione o dall’atomizzazione. Delle ideologie non ho alcuna nostalgia, dell’attitudine a credere un po’ sì».

Secondo lei i millennials come cercano il senso della vita?

«Non è facile capirlo. Ho 35 anni e dovrei essere vicino ai millennials, invece, come struttura di pensiero, mi sembra di essere più affine ai miei genitori. Sono curioso di vedere come recepiranno il libro i più giovani, quando li incontrerò nelle scuole. Forse vediamo più differenze di quelle che in realtà ci sono».

Trenta o quarant’anni fa c’erano la Chiesa, i partiti, lo sport. Ora, mentre questi riferimenti appaiono più lontani, si affermano nuovi maestri e nuovi luoghi. Il cambiamento è stato in meglio?

«Non vorrei che il libro fosse inteso come una dichiarazione sui padri e sulle madri. La mia riflessione è sul bisogno di maestri più che sul fatto che quelli che ci sono hanno fallito oppure no. Il mondo ha accelerato, tenergli dietro è difficile per chiunque».

Però glielo chiedo: padre e madri hanno fallito o no?

«Forse non tutto è passato da una generazione all’altra. Lo dico anche a proposito di come ci si oppone a un sistema, di come si coltiva il proprio pensiero all’interno di un solco. I personaggi del libro sono un po’ tutti gettati nel mondo».

Non mettere radici profonde genera instabilità.

«Un progresso così rapido e complesso come quello di questi decenni ha fatto invecchiare rapidamente certi ancoraggi, mettendoci di fronte a tante opportunità anche morali, per cui oggi tutto risulta più difficile. I protagonisti del libro a un certo punto si danno regole precise. Il rispetto della natura diventa il comandamento massimo, per il quale sono disposti al sacrificio. Ma quando emerge un desiderio nuovo come quello di un figlio, che la natura da sola non appaga, si allontanano dal solco. Le generazioni più giovani vivono dentro questa discontinuità, questa incertezza. Io stesso la vivo».

Il mondo collegato alla rivoluzione digitale è la nuova religione dei millennials, un credo fatto di like, visibilità e narcisismo in tutte le sue varianti?

«Sono d’accordo sul fatto che un certo tipo di tecnologie siano oggi oggetto di venerazione. Se dovessi scegliere una fede dominante, direi proprio quella, con tutto il corollario di personalità carismatiche che ruotano lì attorno. Steve Jobs su tutti. Nel romanzo avevo idea di approdare lì fin dall’inizio, ma per arrivarci con senso sono dovuto partire da lontano. Nel momento in cui i ragazzi scappano e trovano l’ennesimo nascondiglio, in Germania, la loro attenzione si rivolge proprio al Web, ad Amazon… Inoltre, non è un caso che la prima frattura fra Bern e Cesare (il giovane e l’adulto della storia ndr) avvenga per l’acquisto di un computer».

È casuale che i protagonisti abbiano genitori distanti non solo geograficamente?

«Non è casuale. Anche se la narratrice viene dal quadro più borghese e solido possibile. Una costante dei miei libri è il tentativo di definire che cosa sia famiglia. Temo si stia tentando di definirla in un recinto molto stretto, mentre io la vedo come una realtà diramata ed estendibile».

Non è più il luogo dell’educazione e della testimonianza?

«Lo è, ma non necessariamente nella struttura tradizionale, che si dimostra non al passo con i tempi».

Il passo dei tempi ci sta dando un uomo più felice?

«Forse no. Ma di sicuro ci chiede una forte versatilità e adattabilità. Il cambiamento è molto più epocale e rapido di quanto ci accorgiamo. Quand’ero studente, 15 0 20 anni fa, i figli di separati erano anomalie. Tra i genitori dei ragazzi di oggi ci sono famiglie ricomposte, monogenitoriali, sovrabbondanza di padri e madri. Alla politica e al buon senso comune sta decidere se trattarle come errori o rendere più elastici i bordi delle definizioni. La rigidità con cui il sistema si oppone o le esclude genera solo stati di sofferenza».

I rapporti tra i ragazzi vengono messi alla prova dal desiderio di essere padri e madri. Perché anche questo oggi è complicato?

«Perché il futuro spaventa di più. L’incertezza è anche economica. C’è un senso di precarietà diffuso che aumenta il grado di responsabilità».

Per avere un figlio ricorrono alla fecondazione eterologa, imbattendosi in ambienti e medici ambigui.

«In Italia, fino a pochi anni fa, sulla fecondazione assistita c’era un vuoto legislativo che veniva colmato da persone animate dalle loro convinzioni o da obiettivi più ambigui; più spesso da una strana commistione delle due cose. Se la politica non pensa a regolamentare certe esigenze reali, chi le avverte e agisce di conseguenza rischia di passare per criminale. Come accadeva ai tempi dell’aborto clandestino».

Cosa pensa del ricorso alla gestazione per altri?

«Non ho una linea tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Per me l’unico criterio discriminante è la sofferenza delle persone».

Oggi facciamo nascere figli in tutti i modi oppure li sopprimiamo se indesiderati. Questo ventaglio di opzioni in contraddizione tra loro è vero progresso o sintomo di egoismo?

«Non lo so. Ho un atteggiamento iper laico su questi argomenti. Penso che il punto sia la grande impreparazione di tutti noi riguardo alle tante possibilità che abbiamo. Riportare il dibattito indietro, a livello politico e ideologico, è assurdo. Credo che dobbiamo educare il nostro senso critico per saper entrare nelle situazioni reali».

Dopo l’esperienza religiosa, i ragazzi del romanzo diventano ecologisti insurrezionalisti. Ha tratto ispirazione dai movimenti NoTav che hanno base a Torino? È un credo credibile?

«Se il romanzo fosse stato ambientato in Piemonte, sì, quei ragazzi avrebbero partecipato alle azioni NoTav. Le cause ecologiste sono territorializzate. In Puglia ci si batte contro l’abbattimento degli ulivi. Io non prendo parte, non l’ho mai fatto, sono sempre diviso. M’interessava capire dove un giovane oggi può investire le sue energie di protesta».

Protesta che sconfina nella violenza e nel terrorismo. A tratti viene in mente Pastorale americana.

«È un libro scritto negli anni dell’ultima ondata di terrorismo. C’è la genesi di un terrorista, di un integralista».

Pur di credere in qualcosa si può diventare terroristi: la società contemporanea non ha spazi che rispondano alla ricerca di senso?

«In modo significativo, non saprei. Ci sono tanti palliativi».

Tipo?

«Lo yoga in palestra, le diete bio, le vacanze ecosostenibili, le grandi camminate in montagna. Anche l’idea di mettere al mondo dei figli può diventare una forma di appagamento spirituale. Oppure, l’ambizione di costruire un piccolo mondo immune dalle regole del mercato. Avendo sgretolato i grandi sistemi spirituali, la ricerca di un credo si distribuisce e si frammenta».

Che giudizio dà dei media?

«Sono un disastro. Hanno abdicato alla responsabilità di fare da guida. Famiglia, fecondazione, ambientalismo sono questioni capitali: visto che la politica latita, mi aspetterei dai media una funzione di supplenza, un lavoro che aiutasse a creare consapevolezza e discernimento. Non vedo niente del genere».

La letteratura che ruolo può avere?

«Può provare a dissodare le coscienze. Può far sorgere domande scomode. Se una cosa non ti tocca personalmente è facile tirare la riga della moralità: di qua sì, di là no. La letteratura aiuta ad attraversare questa linea, a spostarla o a toglierla del tutto».

C’è chi ritiene che le serie tv siano la letteratura del futuro: concorda?

«Le serie mi piacciono, ma non le amo. Non sottoscrivo l’identificazione tra serie e romanzi. La narrazione televisiva sfrutta il romanzesco e i romanzi devono fare i conti con la serialità, ma la struttura è diversa. Le possibilità di profondità che il romanzo consente sono inavvicinabili anche dalle serie più riuscite. Credo che l’impegno di leggere un romanzo, se lo è davvero, offra un premio molto maggiore».

Tornando a Divorare il cielo, il suo bisogno di credere ha trovato casa?

«Se la domanda secca è se credo in Dio, la risposta è sì. Ma…».

La domanda è se ha trovato qualcosa che risponda alla sua ricerca di felicità?

«Diciamo che ci sto lavorando».

 

La Verità, 24 giugno 2018