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Come trattare i drammi della «nera» con rispetto

Infanticidio. Mauro Grimoldi, psicologo giuridico e autore di Dieci lezioni sul male: i crimini degli adolescenti (Raffaello Cortina Editore), ha appena pronunciato questa parola, quando il campanello di Porta a Porta annuncia l’ingresso in studio di Claudia Roffino, autrice a sua volta (con Barbara Di Clemente) di un altro libro, intitolato Una vita in dono (99 Edizioni), nel quale ha raccontato la sua storia di persona adottata poco dopo la nascita. Argomento della conversazione era la «violenza immotivata» di cui sono protagonisti adolescenti e giovani, dal caso del diciassettenne di Paderno Dugnano che ha sterminato genitori e fratello, a quello di Chiara, la ventiduenne di Traversetolo che dopo aver partorito, si dice da sola, due neonati, li ha soppressi e occultati nel giardino di casa. Oltre a Grimoldi, c’erano la psicologa giuridica Anna Maria Giannini, Pino Rinaldi, l’autore e inviato di Chi l’ha visto? cui nel novembre 1998 Ferdinando Carretta confessò di aver ucciso i genitori e il fratello, Concita Borrelli, cronista e consulente del programma, e Umberto Brindani, direttore di Gente, il settimanale che ha intervistato il compagno di Chiara. In pochi minuti di testimonianza, Roffino ha offerto una nuova prospettiva ai presenti, spiegando l’opportunità offerta dal «parto in anonimato» affinché una vita possa essere accolta, precisando che quello della sua madre biologica non è stato un atto di abbandono perché l’ha affidata alle istituzioni affinché qualcun altro la crescesse e, ancora – pur dicendo di non aver avvertito il bisogno di cercarla – sottolineando che la vera persona sola non era lei, bensì la donna che l’aveva generata. Un racconto che ha segnato la discussione, poi virata sugli altri delitti «immotivati» di questi giorni, perpetrati da ragazzi minorenni. Un tema che interroga alla radice la civiltà che stiamo costruendo e che non può certo esaurirsi al primo talk show. Un dramma, per addentrarsi nel quale sono necessarie la sensibilità umana e la padronanza professionale che, sia Vespa che i suoi ospiti, lontani da ogni morbosità, hanno mostrato di avere. Impressionante, a seguire, il reportage sui sottopassi degradati di Roma, teatri di stupri e violenze, con annesso appello del conduttore al sindaco di Roma Roberto Gualtieri.

Post scriptum Occupandosi dei lati oscuri della morte di Amedeo Matacena e dell’omicidio di Maria Campai, la donna uccisa nel box da un diciassettenne reo confesso a Viadana, Chi l’ha visto? del 2 ottobre ha avuto su Rai 3 1,7 milioni di telespettatori e l’11,1%, a un punto di share dalle reti ammiraglie di Rai e Mediaset.

 

La Verità, 4 ottobre 2024

Bianca, Lilli e Marco: 50 sfumature antimeloniane

Alla faccia dell’egemonia culturale delle destre (quante mai saranno?). E anche alla faccia di TeleMeloni.

Da quando, una decina di giorni fa su Rete 4 c’è stato il passaggio di testimone da Nicola Porro a Bianca Berlinguer, i due principali talk show del cosiddetto access primetime, sono diventati entrambi antigovernativi. A Otto e mezzo su La7, che lo è sempre smaccatamente stato, si è aggiunto Prima di domani, questo il titolo al posto di Stasera Italia, che invece lo è moderatamente. Ci sta, si dice in questi casi, con espressione abusata. La maggioranza comanda ed è giusto ci sia chi le fa il contropelo. È il compito dell’informazione cane da guardia del potere, e avanti con il resto della retorica in argomento. Perfetto. Però, poi, fermiamo i piagnistei sull’occupazione dei media, sull’egemonia meloniana e bavagli vari. Anche perché, facendo zapping sempre in quella fascia oraria, su Rai 3 troviamo Il cavallo e la torre di Marco Damilano che non si lascia scappare un oppositore-che-è-uno al governo in carica, convocandolo da ogni parte del globo, si chiami Carola Rackete o Richard Gere. Tanto per (sgra)dire. A «riequilibrare» lo sbilanciamento sinistro del palinsesto post tg non bastano certo i Cinque minuti di Bruno Vespa. Togli due piatti dal tavolo e il programma è già finito.

Insomma, a quell’ora è difficile trovare un racconto alternativo a quello dei giornaloni. Anzi, adesso anche su Rete 4 si vedono i soliti noti: Stefano Cappellini e la new entry Concita De Gregorio di Repubblica, Peter Gomez e Gad Lerner (altri neo-acquisti) del Fatto quotidiano, Veronica Gentili, iena e blogger del Fatto, Oscar Farinetti, imprenditore dichiaratamente progressista, senza citare gli ospiti politici molto bipartisan, da Giovanni Donzelli e Carlo Fidanza di Fdi, a Carlo Calenda di Azione, Matteo Renzi di Italia viva e Debora Serracchiani del Pd. Insomma, lo spostamento del baricentro è evidente e voluto. Bianca Berlinguer fa bene a non snaturarsi, nonostante il passaggio con autori e Mauro Corona al seguito sul canale Mediaset. Ma gli ascolti non le danno completamente ragione, assestandosi fra il 3 e il 4% di share. Perché il pubblico della rete dove Mario Giordano e Paolo Del Debbio superano abitualmente e agevolmente il 6% comincia a mostrarsi tiepido. Per ascoltare il contropelo alla Meloni, a quel punto, tanto vale spostarsi direttamente su La7. Sarà per questo che, negli ultimi giorni, Bianchina sta cavalcando i casi della crisi dell’impero Ferragni e della morte della ristoratrice di Sant’Angelo Lodigiano, promossi dalle campagne del Fatto e poi deflagrati sui social?

 

La Verità, 19 gennaio 2024

In «Cinque minuti» Vespa verga l’editoriale del Tg1

Qualcuno si aspettava che quella inaugurata lunedì da Bruno Vespa su Rai 1 sarebbe stata una striscia d’opposizione? Che i Cinque minuti che vengono dopo il Tg1 diventassero uno spazio di contestazione dell’azione di governo? A leggere i primi commenti delusi sulla nuova rubrica sembra che fossero queste le aspettative. Almeno di chi pensa che quello spicchio dell’arancia vada gustato separatamente, come se non fosse impaginato subito dopo il telegiornalone, il media più ufficiale del bigoncio. Difficile potesse essere un controcanto, un contrappunto, uno spazio di controinformazione, qualsiasi cosa che fosse contro. Con il suo Porta a Porta, Vespa è già titolare della Terza camera dello Stato e questo interstizio tra le news e il game che lo segue («Buon Amadeus») è un poggiolo o, se volete, una cabina armadio della camera.

Sigla con la canzone di Maurizio Arcieri dei New Dada, per dar l’idea di non prendersi troppo sul serio, studio molto illuminato, padrone di casa e ospite seduti su due sgabelli e posizionati frontalmente attorno a un tavolo, su poche immagini visibili in un vidiwall che sta di fronte ai telespettatori, s’innesta la prima domanda all’invitato: nella puntata d’esordio, come da tradizione, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, la seconda sera il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sulla tragedia di Cutro e le sue dichiarazioni (share del 23,6 e del 22,5% con 5,2 e 4,7 milioni di telespettatori). È uno spazio d’informazione istituzionale che affronta il principale fatto della giornata e che, incastonato al termine del tg ne è, in realtà, il vero editoriale. Per questo avrebbe potuto anche intitolarsi «Il Punto», ma sarebbe stato meno originale. Invece con quella sigla Vespa ha voluto esprimere anche una lieve insofferenza per l’esiguità dello spazio che non consente troppa elaborazione dei contenuti. Bisogna andare al sodo, per non sovrapporsi alla striscia di Rai 3 e non togliere pubblico al Tg2 in fase di avvio. I vincoli ci sono e, dunque, è sbagliato fermarsi a gustare solo quello spicchio. Gli approfondimenti giornalistici, brevi o lunghi che siano nei palinsesti Rai guardano principalmente in un’altra direzione e, dunque, questi Cinque minuti hanno un loro perché. Vespa non è Enzo Biagi e il paragone con Il Fatto mostra quanto i tempi siano cambiati. L’inclinazione moderata del conduttore è nota. Il moderatismo è anche un modo di fare il giornalista senza indossare i panni del missionario. L’Italia spaccata dell’èra berlusconiana è andata in archivio.

 

La Verità, 2 marzo 2023

Ritirata di Zelensky: solo un testo letto da Amadeus

Ritirata sul fronte di Sanremo. Battuta d’arresto dei bellicisti a oltranza. Sul campo di battaglia dell’Ariston lo schieramento pacifista registra un piccolo, ma simbolico successo. Se sia merito della Rai o di Volodymyr Zelensky lo capiremo meglio nei prossimi giorni. Il leader ucraino non manderà un videomessaggio come previsto finora, ma un testo che verrà letto da Amadeus. Una lettera al posto di un discorso registrato. L’artiglieria leggera invece dei carri armati. Una raffica di mitra anziché gli ordigni dei Leopard. Non siamo alla resa, ma la de-escalation è evidente. La notizia arriva all’ora di pranzo dalla conferenza stampa di apertura del Festival di Sanremo e provoca sconcerto e delusione nelle formazioni atlantiste. A darla è Stefano Coletta, direttore dell’Intrattenimento prime time della Rai, incaricato dall’ad Carlo Fuortes di tenere i rapporti con le autorità ucraine. «Siamo in contatto quotidiano con l’ambasciatore in Italia Yaroslav Melnyk», annuncia misurando le parole il solitamente ciarliero capo dei varietà della Tv di Stato. L’impaccio è evidente. Come lo è l’arretramento della Rai che finora si era proclamata compatta nella difesa dell’ospitata del leader ucraino.

Basso profilo

«Nel pomeriggio del 2 febbraio l’ambasciatore ha comunicato che il presidente avrebbe preferito inviare un testo, che sarebbe stato letto da Amadeus», precisa Coletta. Una scelta di basso profilo, che avrà un impatto certamente inferiore a quello del video in divisa militare di Zelensky. Calcolo dei benefici e attenzione a non inimicarsi l’opinione pubblica italiana, alla fine dei conti gli uomini di Kiev sembrano autori aggiunti del Festival: niente videomessaggio, ma un testo affidato al conduttore. Il quale, interpellato su tutta la vicenda, nega che avrebbe fatto volentieri a meno di questa grana. Com’è noto, era stato lo stesso Zelensky a manifestare a Bruno Vespa il desiderio di essere ospitato a Sanremo. Con un passato da attore consumato, il presidente ucraino sa bene che nella società dello spettacolo ogni avvenimento, anche il più drammatico, viene comunicato con il linguaggio dello showbiz. Per questo, finora il suo tour aveva inanellato i Grammy Awards e il Festival di Cannes, la Mostra di Venezia e i Golden Globe. Alla collezione mancava Sanremo. Ma ora il display della war speech avverte a sorpresa che «qualcosa è andato storto» e bisogna aggiornare il programma.

Levata di scudi

Sebbene Giorgia Meloni abbia confermato la linea di sostegno a Kiev adottata dal precedente governo, la maggioranza degli italiani rimane contraria all’invio delle armi. Detta in breve, ne ha le tasche piene di un conflitto che si ripercuote sulla vita quotidiana di tutti. Perciò, la notizia dell’ospitata di Zelensky aveva scatenato un dissenso diffuso e trasversale. Perché il servizio pubblico deve offrire una platea di 15 milioni di persone come la serata finale del Festival, la più affollata dell’anno televisivo, al leader ucraino richiedente nuovi armamenti? Ragioni di opportunità e motivi di contenuto lo sconsigliavano. Da quando è trapelata la notizia, il fronte contrario ha coinvolto da Pier Silvio Berlusconi, editore figlio del capo di un partito di governo, a intellettuali come Aurelio Picca e Carlo Freccero, fino a politici di schieramento diverso come Matteo Salvini, Carlo Calenda e Gianni Cuperlo. In alcuni casi la critica principale riguardava il contesto scelto: non si parla di guerra e morte tra i lustrini e le paillettes. Ma la questione è più profonda. Se ci si strappa le vesti per difendere l’indipendenza del popolo ucraino perché la volontà prevalente di quello italiano dev’essere ignorata? Anche la Rai avrebbe potuto averne un contraccolpo d’immagine, finendo per alienarsi una fetta rilevante di pubblico, per altro già nervoso per l’eccesso di messaggi gender di cui sarà disseminata la kermesse.

Atlantisti delusi

Sui contenuti del testo che arriverà già tradotto in italiano «saremo più puntuali nei prossimi giorni», ha chiarito il solito Coletta. Che subito dopo ha precisato: «Mi sembra complicato poter censurare il presidente. Il controllo di noi dirigenti è preventivo alla messa in onda di ogni programma, ma sorrido all’idea di un dirigente Rai che possa censurare un presidente». Però la decisione è presa: i ghost-writer di Kiev allentano la presa sulla postazione dell’Ariston. Mentre non si registrano rilevanti prese di posizione sul fronte politico, forse deciso a non seguire l’altalena di decisioni tra canzonette e proclami di guerra, contrarietà e malumore attanagliano gli editorialisti con l’elmetto. Non aspettavano che di vedere l’ex Servitore del popolo reclamare nuovi armamenti indossando la t-shirt dell’esercito. Invece dovranno accontentarsi del lettore Amedeo Umberto Rita Sebastiani (in arte Amadeus) in smoking scintillante. A meno che, alla fine, qualche autore non pensi che se la leggesse Chiara Ferragni, magari con una spallina scivolosa, potrebbe fare anche più audience. Buona visione.

 

La Verità, 7 febbraio 2023

«Zelensky a Sanremo puro atto di propaganda»

Carlo Freccero, cosa significa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ospite del Festival di Sanremo?

«Significa che siamo di fronte a un atto di propaganda».

Cioè?

«È sempre stato necessario far accettare al popolo un’azione impopolare come la guerra, le cui vittime sono sempre i popoli. Indipendentemente dagli schieramenti, guerra significa morte. Di solito non si scherza a un funerale».

Nel caso del popolo italiano, in maggioranza contrario all’invio di armi all’Ucraina nonostante l’informazione spinga in questa direzione, la propaganda fallisce?

«È interessante osservare il comportamento del pubblico su due argomenti. Sui vaccini ha assecondato la linea governativa, mentre sulla guerra dissente apertamente. Questo avviene per due motivi. Il primo è la paura di un conflitto nucleare che suscita una reazione di rifiuto dettata dall’istinto di sopravvivenza. Il secondo motivo è che nel nostro Paese c’è povertà e noi abbiamo già destinato molti soldi all’Ucraina. La guerra sta provocando disagi all’economia e alla nostra vita quotidiana».

Questo potrebbe essere egoismo?

«La guerra è la forma di egoismo più atroce. Ormai non si parla solo dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Vladimir Putin, ma di equilibri internazionali e dello scontro fra America e Russia. La maggioranza degli italiani non vive come Joe Biden alla Casa bianca, ma in case fredde e con spese che si  moltiplicano».

L’errore di questa ospitata è il contesto o il contenuto?

«Entrambi. Innanzitutto perché sollecitare l’invio di più armi significa elevare la tensione e aumentare il pericolo. La Russia ha già fatto presente che se si alzerà l’asticella sarà costretta a usare armi pesanti. Anche le persone che ritengono necessaria la partecipazione alla guerra non ne condividono la spettacolarizzazione a Sanremo. La metafora dell’Orologio dell’apocalisse segna 90 secondi alla fine del mondo».

Spieghi.

«L’Orologio dell’apocalisse è il Bollettino degli scienziati atomici ideato nel 1947 da un gruppo di studiosi della California, idonei a esprimere un giudizio sul pericolo nucleare. Oggi l’Orologio indica una distanza di soli 90 secondi alla mezzanotte. Neanche durante la Guerra fredda eravamo così vicini al disastro irrimediabile».

Zelensky all’Ariston è la spettacolarizzazione della guerra?

«Mentre non c’è spazio per la trattativa e per la diplomazia, tutto è affidato all’azione delle armi e l’Ucraina è diventata un cimitero a cielo aperto».

Proprio questo giustifica l’invito al suo presidente?

«È tutto più complesso. Questa guerra è un esempio di reductio ad Hitlerum di Putin analoga a quella condotta contro Saddam Hussein e Gheddafi. Ricordiamo le armi di distruzione di massa di Saddam simboleggiate dalla fialetta agitata da Colin Powell nell’assemblea delle Nazioni unite. Tutti sanno che quelle armi non esistevano, però nell’immaginario Saddam è rimasto un crudele dittatore».

I morti ucraini esistono.

«A questo proposito vorrei ricordare la frase sfuggita nel 2014 a Victoria Nuland, all’epoca segretario di Stato aggiunto, quando le fu fatto presente che l’Europa non poteva tollerare un colpo di Stato nazista in Ucraina: “Che l’Unione europea si fotta”, disse. Da quel colpo di Stato, la guerra dell’Ucraina contro le popolazioni russofone del Donbass non si è mai interrotta. Tutti conoscono la strage di Odessa, oggi derubricata da Wikipedia a incendio incidentale. Prima dell’intervento di Putin anche i giornali mainstream riportavano correttamente le provocazioni ucraine, ma appena iniziata l’invasione l’informazione è stata colta da amnesia sugli otto anni precedenti».

Zelensky è intervenuto al Festival di Cannes, alla Mostra del cinema di Venezia e ai Golden Globes: dov’è lo scandalo?

«Nel frattempo la guerra si è trasformata in pericolo nucleare e Sanremo viene usato per allargare il conflitto. Zelensky chiederà altre armi, invece bisogna dire basta».

Dire basta significa pace senza giustizia?

«Questo è argomento delle diplomazie».

Il presidente ucraino è un ex attore comico e un ottimo comunicatore.

«Non un comunicatore, ma un attore che cura molto le sue apparizioni. Il fatto interessante è che mescolare guerra con spettacolo è, in qualche modo, in continuità con la propaganda pandemica».

In che senso?

«I virologi chiedevano di vaccinarsi contro il Covid sulle note di Jingle bells. Ora Zelensky ex attore arriva al palco del Festival di Sanremo a chiedere armi. Da tempo Sanremo sembra occuparsi, più che di musica, di look transgender presunti trasgressivi. Anche a questo riguardo Zelensky è idoneo perché sono noti i suoi balletti con tacchi a spillo, nudo e lingua fuori, in perfetto stile Måneskin».

Non li ho visti.

«Li trova su Telegram».

Pierferdinando Casini ha ironizzato sulla necessità di far intervenire anche Putin per la par condicio…

«Promuovere la propaganda e l’allargamento della guerra su un palcoscenico ultra popolare come l’Ariston va contro la maggioranza dell’opinione pubblica italiana. La democrazia non conta più nulla? Infine, la cultura della guerra, se non ricordo male, è contro la nostra Costituzione».

Il Cda Rai ha convocato il direttore dell’Intrattenimento Stefano Coletta per spiegare l’invito: cosa si aspetta?

«Oltre a Coletta, sarebbe interessante ascoltare Bruno Vespa che si è prestato a fare il Beppe Caschetto di Zelensky».

 

La Verità, 31 gennaio 2023

Vespa avvisa i vertici Rai: se non mi trattate bene…

Felpato, felpatissimo, guardingo, circospetto, sensibile a ogni refolo che soffi nel triangolo Viale Mazzini, Saxa Rubra, Via Teulada dove ha sede lo studio di Porta a Porta. Bruno Vespa centellina le dichiarazioni, dosa le sillabe. Una parola è poca e due sono troppe. Non si resta per 25 anni titolari della cattedra Rai più seguita, dopo aver scalato la redazione del Tg1 fino ad arrivare a dirigerlo, se non si possiedono spiccate doti diplomatiche. In totale fanno sessant’anni nella tv pubblica. Di cui è «il padre nobile», ha scritto ieri il Messaggero, dando notizia che ci sarebbero contatti in corso con Mediaset per un suo trasferimento nelle televisioni del Biscione. Trattativa clamorosa e riservatissima che si starebbe svolgendo ai livelli più alti, Silvio Berlusconi, Gianni Letta, Fedele Confalonieri, riferisce sempre il quotidiano romano. Che aggiunge tiepide, anzi, tiepidissime conferme dell’entourage delle tv berlusconiane – «contatti ci sono stati», non si sa quando, però – e una misuratissima esternazione del conduttore giornalista scrittore: «Finché mi trattano bene in Rai, resto». Quanto a Mediaset «sono molto gentili». Un capolavoro di diplomazia, quello dell’anchorman. Un messaggio a chi di dovere, scolpito in quel «finché mi trattano bene».

Sia in Viale Mazzini che a Cologno Monzese il settore dell’informazione è fluido. Carlo Fuortes, il nuovo amministratore delegato della tv pubblica, ha deciso di applicare la riforma per aree produttive ideata dal suo predecessore Fabrizio Salini. Alla direzione degli Approfondimenti, da cui dipende anche Porta a Porta, si è appena insediato quel Mario Orfeo che nel 2017, direttore generale Rai con Matteo Renzi a Palazzo Chigi, deliberò una revisione al ribasso del contratto di Vespa: 300.000 euro in meno e durata di due anni con opzione per il terzo al posto dell’abituale quadriennale. Visti i precedenti, appare molto verosimile che il titolare della Terza camera del Paese abbia voluto far sapere che, finché lo trattano correttamente, dalla Rai non si muove. Di sicuro a Mediaset lo tratterebbero bene perché sono «molto gentili». Parlando di informazione, anche a Cologno si registrano assestamenti. Pur mantenendo testate e loghi ma razionalizzando le redazioni, Tg4 e Studio aperto passeranno sotto la gestione di TgCom24 di Andrea Pucci e Paolo Liguori. E non è escluso che qualche cambiamento avverrà anche sul fronte dei talk show. Da ultimo, ma tutt’altro che ultimo, Berlusconi ambisce al Quirinale e la vicinanza di un conoscitore delle stanze romane come Vespa, che il Cav stesso paventò di candidare al Colle, potrebbe rivelarsi utile.

 

La Verità, 23 novembre 2021

«Per ripartire ci vorrebbe lo sprint delle maggiorate»

A Bruno Vespa le ciambelle riescono sempre bene. Chi l’avrebbe detto che un libro su settant’anni di seduzione sarebbe stata una grande idea per l’estate di questo terrificante anno bisestile? Dopo mesi di morti e mortificazioni il suo Bellissime! (Rai Libri, 288 pagine, euro 19) sembra scritto apposta per favorire la ripresa post coronavirus. Il sottotitolo annuncia «le donne dei sogni italiani dagli anni ’50 a oggi». Sogni maliziosi, dal buco della serratura, vietati ai minori. Fomentati da grandi star e starlette, icone del cinema, protagoniste dell’italico costume. La ricostruzione dei Cinquanta e il boom dei Sessanta veleggiavano sulle sinuosità di Gina Lollobrigida e sul décolleté di Sophia Loren. L’antidoto all’ideologia si arrampicava sulla scala dell’innocente Laura Antonelli. La globalizzazione surfava sugli sguardi della silente Monica Bellucci.

La rinascita post coronavirus lieviterà sulle curve di Diletta Leotta e gli ammiccamenti di Bélen Rodriguez?

(Risata) Il confronto è difficile. La ricostruzione e il boom sono stati raccontati dal cinema del neorealismo e della commedia che ha coinvolto tutti i grandi registi italiani. In questa galleria femminile, persone di tutte le età possono trovare la scena più familiare. Non ci sono semplici ragazze copertina, ma protagoniste di svolte della società italiana. Quando incontrai Valeria Marini capii perché se n’era innamorato un uomo come Federico Fellini.

Come le è venuta l’idea di Bellissime!?

Antonio Riccardi, direttore editoriale di Rai Libri, mi ha fatto alcune proposte e ho scelto questa. Tante di queste signore le conosco personalmente. Da Sophia Loren a Valeria Marini, ho attraversato diverse generazioni. Purtroppo, non sono riuscito a ospitare Marisa Allasio che abbandonò presto il cinema, avendo però fatto in tempo ad accendere la mia adolescenza.

Non teme di esporsi alle accuse di sessismo?

Spero di no. Il sessismo è quando un uomo fa prevalere l’ideologia maschilista sulla natura e l’utilizzo delle donne. A Porta a Porta faccio da sempre il contrario.

Le femministe come accoglieranno questo libro?

Non vedo perché dovrebbero accoglierlo male. Tutti gli anni ci divertiamo al Festival di Sanremo dove ci sono vallette e ospiti femminili senza che si parli di festival sessista.

Però si è scatenato un putiferio per mezza parola di Amadeus?

Amadeus era scivolato su un vocabolo… Spero che qui non ci siano vocaboli sbagliati.

Maggiorata è una parola passata dall’automobilismo al costume: dalla maggiorazione del motore alla maggiorazione delle curve della carrozzeria femminile.

Quand’ero ragazzo le 500 Abarth erano una forzatura del motore. Quando nel dopoguerra comparvero le maggiorate erano tutte frutto di madre natura: i chirurghi estetici non esistevano.

L’Italia della Lollobrigida e della Loren era più scanzonata di quella di oggi?

Era più povera, ma con una voglia di crescita e di futuro che oggi si è persa. Già prima del Covid l’Italia non cresceva da 20 anni. Siamo l’unico Paese europeo in questa situazione. Ci siamo seduti, impigriti. Temo che, soprattutto nel Mezzogiorno, larghi strati di popolazione si siano adagiati a vivere con cassa integrazione e reddito di cittadinanza.

Anche se riconosce la grande prova d’attrice della Loren di Una giornata particolare lei parteggia per la Lollobrigida?

No, sono amico di entrambe. Gina è orgogliosa di aver fatto tutto da sola. Quanto a Sophia, le sue prove artistiche hanno fatto dimenticare che è stato Carlo Ponti a lanciarla. Quando venne a Porta a Porta in occasione dei 150 anni dell’unità d’Italia, alzò l’abito lungo chiedendomi se poteva ancora farlo. «Con quelle gambe può fare ciò che vuole», le risposi. Magari avessimo ancora attrici di quel calibro.

Che cosa succederebbe se Alberto Moravia dicesse oggi a Claudia Cardinale «le farò un’intervista molto particolare. Lei deve accettare di essere ridotta a oggetto»?
Oggi non gli salterebbe in mente di esprimersi in quel modo. Quella sì era una domanda sessista al 100%.
Sbaglio o Monica Bellucci non le sta simpatica?
Intanto, non la conosco personalmente. Ho sempre visto una certa freddezza nella sua recitazione. Mentre io sono piuttosto carnale.
Com’è cambiata la bellezza dai tempi della Loren?
C’è stata una certa evoluzione. Tuttavia, credo che una bella donna o un bell’uomo siano senza tempo. Marcello Mastroianni come lo dati? Laura Antonelli oggi sarebbe perfetta com’era allora.
Dalla Lollobrigida, anche fotografa e pittrice, alla Leotta, protagonista negli spot di intimo, quante categorie di differenza ci sono?
Sono generazioni ed epoche lontane. Gina Lollobrigida ha conosciuto davvero il mondo, anche più di Sophia che è sempre stata riservata. Gina ha frequentato Fidel Castro, il grande chirurgo Christiaan Barnard, l’astronauta dello sbarco sulla luna Neil Armstrong. La Leotta e Bélen, splendide ragazze, non sono ancora dei simboli. Appartengono a un mondo che non conosco così bene, anche perché stento a seguire la loro vivace vita privata.
La Loren non si rifece il naso ed è rispettata ancora oggi, Diletta Leotta è piuttosto costruita…
I fotografi, abituati a osservare i particolari, dicevano che Sophia non si poteva fotografare perché aveva il naso lungo e la bocca larga. Più che dai dettagli, a me sembra che il fascino s’irradi da tutta la persona. Sophia era quella e basta, non servivano aggiustamenti. Parlando di bocca larga, che cosa dovremmo dire di Julia Roberts?
Quanto conta la bellezza in politica?
La politica è ancora molto maschile. Trovo ingiusto quando la bellezza di una donna diventa causa di difficoltà e uomini invidiosi iniziano a chiedersi con chi è andata a letto. Purtroppo, non avviene solo in politica.
L’estetica dell’epoca berlusconiana si è identificata in Stefania Prestigiacomo e Mara Carfagna?
In Forza Italia ci sono donne di ogni tipo: non assegnerei a due di loro, pur molto brillanti, un carattere di rappresentatività. Forza Italia ha avuto una rappresentanza femminile superiore a quella dei partiti di sinistra che fino a un certo punto avevano il primato nelle battaglie in difesa delle donne.
Che idea si è fatto della querelle tra Vittorio Sgarbi e la Carfagna in Parlamento?
Sono amico di Vittorio, ma ogni tanto perde la brocca. Certe cose non si devono dire.
La sua rilettura del fatto non l’ha convinta?
Sì, quando l’hanno portato via sembrava una bella Deposizione… Ma hanno fatto benissimo a farlo. E lui è il primo a saperlo.
L’estetica del contismo in cosa si identifica?
In Conte stesso, un presidente del consiglio che si presenta bene e sfoggia sempre un abbigliamento perfetto. Cosa che piace anche a Berlusconi.
Il politicamente corretto ci lascerà ancora apprezzare le curve di una bella donna o appiattirà tutto?
Bisogna stare attenti. C’è stata anche una corrente di donne che ha detto: insomma, lasciateci il corteggiamento. Il confine tra la molestia e un complimento garbato è abbastanza netto.
L’omologazione politicamente corretta sta cancellando queste differenze? Come giudica gli assalti ai monumenti?
Certi eccessi oltraggiano le persone e la storia. La vicenda più emblematica è la cancellazione di Via col vento dal catalogo di Hbo.
Il vento iconoclasta domina.
È un vento pericoloso, che non distingue il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Non si può parlare di una vicenda o di una persona senza contestualizzarla nel tempo in cui è vissuta.
Come e quando finirà il governo Conte?
Credo che la sua sorte si deciderà sulla capacità di reagire all’autunno difficile che ci aspetta.

 

Panorama, 8 luglio 2020

«Salvini? Un bomber che viene tenuto in panchina»

Il primo preambolo dell’intervista a Bruno Vespa è composto da un paio di domande che lui rivolge a me e quando gli accenno alla rubrica degli Irregolari, «anche se», celio, «è difficile presentare Bruno Vespa come un irregolare», mi replica: «Eppure io sono un grande irregolare, unico giornalista moderato lungamente sopravvissuto in Rai». Questione risolta.

Il secondo preambolo riguarda il tassista che mi accompagna all’appuntamento. Quando vede Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare) (Rai Libri e Mondadori) mi dice: «Lei ha un bel libro…». E, dopo una pausa, «mi piace questa qui», indicando l’aquila romana che campeggia in copertina.

Perché questo libro?

«Sono da sempre un appassionato studioso del fascismo. Credo sia giusto chiedersi perché l’Italia si è consegnata a un regime come quello. È drammaticamente affascinante. Non il libro, ma quello che racconta: quando vedi che la crema dell’antifascismo ha invocato Benito Mussolini, qualche domanda è giusto farsela».

E la risposta è?

«La democrazia ha una vocazione al suicidio di cui non si rende conto. Quello che è successo dopo la Prima guerra mondiale ha dell’incredibile».

Parecchi autogol in serie.

«Bisognava capire che portare i soviet in Italia era una follia. E che era un grave errore mortificare i reduci già responsabilizzati da ruoli importanti mettendoli ai margini. Lo squadrismo fascista nacque anche da queste frustrazioni e dalla volontà degli agrari di proteggersi dalle prepotenze delle leghe rosse. Gli squadristi hanno fatto da brigante a brigante e mezzo e sappiamo com’è finita. Non cominciavano quasi mai per primi, ma le loro rappresaglie erano terribili».

Perché non c’è pericolo che torni il fascismo?

«Perché gli anticorpi sono molto forti. Però dobbiamo stare attenti che il desiderio di ordine e stabilità crescente non porti ad anestetizzare certi valori fondamentali. Quello che sta succedendo per esempio in alcuni Paesi dell’Est deve farci riflettere. I critici dei sistemi ungherese e polacco segnalano che l’ordine e il benessere conquistati hanno finito per autorizzare un lenimento di certe libertà democratiche».

I dati economici di quei Paesi posso avere una certa presa.

«Eccome. Ma questo in Italia non può accadere. A Matteo Salvini scappò quella frase sui pieni poteri che Mussolini pronunciò perché senza “non si farebbe una lira” e che ho messo in esergo al libro».

Ci credono davvero Franceschini e gli opinionisti di Repubblica quando paventano il ritorno del fascismo con Salvini?

«Fino in fondo no, anche perché tutti gli altri, da Nicola Zingaretti a Luigi Di Maio a Matteo Renzi, non ci credono. Insieme temono che un Parlamento salviniano possa portare a un presidente della Repubblica eletto per la prima volta da uno schieramento di centrodestra. Non è mai accaduto nonostante Silvio Berlusconi abbia governato per nove anni».

Il razzismo negli stadi, le cene con i fregi e i busti del Ventennio, le manifestazioni col saluto romano possono alimentare ombre sul futuro?

«Sono fatti gravi, ma marginali, e più se ne parla più si fa il gioco di queste realtà minuscole. Alle elezioni Forza nuova e Casapound raggiungono lo zero virgola. Per assolvere ai compiti della par condicio li devo invitare in trasmissione, ma la visibilità che così ottengono è enormemente superiore ai voti che prendono».

Se non ci sono reali pericoli di derive a cosa serve agitarne lo spauracchio?

«Non vedo elementi che giustifichino questi timori. Ciò che avviene in Germania, in Italia non sarebbe accettato. È vero, il malessere dei tedeschi orientali è qualcosa di molto serio. Penso siano pazzi a rimpiangere il muro visti i progressi che ha fatto il Paese nel suo complesso. Ma non essendo contenti, ottengono risultati elettorali importanti. Venendo all’Italia, credo che in tempi medi Salvini si staccherà sia da Marie Le Pen sia da Afd (la formazione di estrema destra Alternativa per la Germania ndr). Perché, se è certo che la Le Pen non è come il padre e che Afd ha dei settori che somigliano alla Csu bavarese, è altrettanto certo che, se Salvini vuol rientrare nei giochi europei deve avere altre alleanze. Giancarlo Giorgetti sta lavorando a questo. Un leader che ambisce a diventare premier non può avere quelle parentele europee».

La sinistra agita il pericolo del fascismo perché è a corto di argomenti?

«La storia insegna che tutti i sistemi in difficoltà o dichiarano una guerra o richiamano alle armi contro l’invasore. In democrazia l’invasore e Salvini. Se ci fosse un governo stabile, con un programma preciso e condiviso, tutto andrebbe in un altro modo. Il problema e che il M5s è dichiaratamente e orgogliosamente diverso sia dalla Lega che dal Pd».

È giustificata la creazione di una commissione speciale contro l’antisemitismo, il razzismo e l’odio?

«Sono un profondo ammiratore di Liliana Segre. L’ho incontrata a casa sua a Milano, l’ho intervistata per un mio documentario sul 1948. Solo per pudore non le ho chiesto di mostrarmi il braccio dove ha impresso il numero di matricola di Auschwitz. Liliana Segre ha dato prova della sua statura aprendo la porta della sua casa e dichiarandosi pronta a incontrare Salvini. Credo ci siano gli elementi perché le regole di quella commissione vengano scritte in modo da non prestarsi a equivoci».

Odio e razzismo sono monodirezionali? Si tace sul divieto di parlare a Fausto Biloslavo nella facoltà di sociologia di Trento e si dimenticano presto le liste di proscrizione di Gad Lerner. Parliamo di censori istruiti, non di anonimi haters.

«Quando alcuni anni fa bruciarono un mio libro a Genova nessuno si prese la briga di stigmatizzare quei comportamenti. Silenzio anche quando un odiatore di professione m’impedì di presentarlo urlando e spaventando il pubblico, fino a metterlo in fuga. Auspico che si concretizzi la ventilata iniziativa comune contro l’antisemitismo di Giorgia Meloni e Riccardo Pacifici, storica figura della comunità ebraica romana. Sarebbe un aiuto a mantenere la commissione entro confini non equivoci».

Quanto gli attacchi di Roberto Saviano, Lerner e Lilli Gruber giovano a Salvini?

«Molto».

Il peggior autogol di Salvini è stata la richiesta di pieni poteri o il Papeete prolungato?

«Nonostante Salvini l’abbia chiarita, la frase sui pieni poteri andava precisata meglio. Dopodiché questo Paese ha bisogno di un governo che governi davvero, altrimenti non si va da nessuna parte. Mi spingo a dire un governo di qualunque colore, purché sia operativo e non costretto a mediazioni paralizzanti».

L’errore del Papeete?

«Quando 45 anni fa, il giorno di Ferragosto, intervistai il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani durante una breve passeggiata su Via Nazionale, la deroga al protocollo fu considerata un evento. Il Papeete l’avrei limitato a piccole dosi».

Salvini è come certi calciatori promettenti che hanno ampio margine di miglioramento?

«Salvini è un goleador, quello che segna di più. Tant’è vero che si vuole evitare di fargli giocare la partita decisiva delle elezioni».

Dovrebbe darsi un profilo più istituzionale e accettabile da qualcuno dei poteri forti?

«Credo che questo periodo di opposizione lo aiuterà a migliorare il proprio profilo istituzionale in Italia e in Europa. Non a caso sta già cambiando linguaggio. La leadership dev’essere convincente, ma non gridata».

Che idea si è fatto dell’apertura al dialogo del cardinal Ruini nei suoi confronti?

«So che la mattina in cui è uscita l’intervista al Corriere della Sera a molta gente nei Sacri palazzi è venuto un colpo. Credo che la Chiesa debba dialogare. Così ha fatto con San Giovanni Paolo II che ha risolto la questione ebraica e si è aperto all’islam… I papi vanno nelle moschee e i cardinali non possono parlare con Salvini? Lo troverei singolare, considerando che nell’elettorato della Lega c’è qualche milione di cattolici».

Perché gli ambienti che si richiamano alla sinistra Dc demonizzano la Lega più della sinistra tradizionale?

«Succedeva anche con Berlusconi. Ricordo che una volta, quando lo seguii per Panorama durante la campagna elettorale del 1996, D’Alema mi disse: “Spiegami perché uno come te non può votare per noi”. Non feci in tempo a rispondere: “La sinistra democristiana? Ma io quelli li ammazzo”. Fece tutto lui, io non dissi una parola. Per onestà devo riconoscere che oggi la sinistra Dc è molto meno settaria di allora».

Se il Pd perde anche in Emilia Romagna che cosa accadrà?

«Non riesco a spingermi così avanti. Mancano quasi tre mesi che oggi, in Italia, sono quasi trent’anni».

Posto che Franceschini e Mattarella hanno ribadito che dopo il Conte bis c’è solo il voto, Renzi abbaierà senza mordere?

«Per Renzi è troppo presto per votare. Ha spinto per questo governo apposta, è all’inizio del guado».

Berlusconi è fuori dai giochi?

«Ho assistito a troppi funerali di Berlusconi per credere alla sua morte. Quando è uscita l’anticipazione del libro sulla creazione di Altra Italia, nel suo partito è scoppiato il putiferio perché in tanti temono la mossa del cavallo. Continuerei a non sottovalutarlo, anche Salvini, saggiamente, ha smesso di farlo».

Concorda con lo scenario delineato dal sociologo Luca Ricolfi di 1 più 4: la Lega oltre il 30% e altri 4 partiti, Pd, 5 stelle, Italia viva e Fratelli d’Italia tra il 10 e il 20?

«Il grande sinologo Edgar Snow diceva: “Più conosco la Cina e meno la capisco”. Più conosco la politica meno mi azzardo a fare previsioni numeriche. Sono un grande estimatore di Ricolfi, l’ultimo suo libro è illuminante. Ma un anno fa non c’era una persona che potesse prevedere che i rapporti di forza tra Lega e 5 stelle si sarebbero capovolti: dal 17 e 32 delle politiche al 34 a 17 delle europee».

Parlando di previsioni, che cosa le fa dire che dopo le prossime elezioni la coalizione degli italiani, nuovo nome del centrodestra, farà il governo con Renzi?

«È un paradosso non una previsione. La cosa divertente è che nel Pd hanno il sacro terrore che possa davvero avverarsi».

 

La Verità, 10 novembre 2019

 

Ma la vittoria dialettica di Renzi non basta

Innegabile: sul piano dialettico ha vinto Matteo Renzi. Ma anche se in un duello televisivo la dialettica è molto, in verità non è tutto. Ci sono altre componenti, altri messaggi che passano dal video al pubblico. La concretezza, per esempio, la tecnica di chi si lascia aggredire senza perdere la calma. Era noto che l’ex premier e fondatore di Italia viva disponesse di un vocabolario più esteso e di una malizia argomentativa superiore. Se n’è avuta ulteriore conferma nel Porta a porta dell’altra sera, ma c’è un ma… (Rai 1, martedì ore 22,50, share del 25.4%, 3,8 milioni di telespettatori).

Nello studio approntato per l’occasione con un grande desk a mezzaluna e il fermo immagine del vidiwall sui duellanti spadaccini, i due Matteo sfoggiano look quasi identici: giacca bluette e camicia bianca, unica differenza la tinta della cravatta e la spilla della Lega sul bavero di Salvini, come a sottolinearne l’appartenenza. È un indizio minimalissimo, ma c’è. La scherma si sviluppa su un copione prevedibile: secondo i sondaggi Italia viva è al 4-5% dei consensi, inevitabile che il Matteo di palazzo e giochi all’attacco. Il Matteo populista agisce di rimessa, tenta di parare i colpi sul Papeete, sulle assenze ai vertici internazionali e in Parlamento, sulle intemperanze e i cambi di schieramento giovanili, e tenta il contropiede con il linguaggio della concretezza e dei numeri. Renzi cita la riduzione dello spread, l’aumento dell’Iva scongiurato e il governo realizzato pensando al bene dell’Italia nonostante l’alleanza innaturale con il M5s. «Però ci ho sofferto molto», prova a persuadere. «È un genio incompreso», contrattacca Salvini, «ha fatto miracoli, portato la pace nel mondo e la ricrescita dei capelli, ma gli elettori non lo capiscono». Lui invece si specchia sul consenso dell’elettorato cui ammicca anche quella spilla sul bavero: «Io ho il 33% degli italiani, lei il 4», taglia corto Salvini. E quando Renzi gli rinfaccia di essere in politica dal 1993, «ei, Vespa, non aveva ancora fatto Porta a porta», il leader leghista replica, sornione: «Mi votano».

In sintesi, il Matteo di palazzo è più aggressivo e ideologico, il Matteo populista più fattuale e naif, ma anche un po’ monotematico. Attaccato a tutto campo si rifugia sull’immigrazione, suo cavallo di battaglia. E proprio su questo terreno si coglie la differenza tra i due. Renzi annuncia con forza il principio di accoglienza e il rifiuto a lasciar morire i migranti in mare, Salvini replica con i numeri delle morti ridotte grazie alla politica dei porti chiusi. Ideologia e dialettica da una parte, concretezza e semplicità dall’altra.

 

La Verità, 17 ottobre 2019

«I due Matteo e la sindrome da padreterno»

Buongiorno Enrico Mentana, il 19 ottobre Matteo Salvini ha convocato in piazza del Popolo a Roma una manifestazione del centrodestra mentre a Firenze Matteo Renzi sarà protagonista della prima Leopolda di Italia viva. Sta nascendo un nuovo bipolarismo?

Assolutamente no. Aldilà delle omonimie, sta tornando qualcosa di diverso che è il sistema proporzionale. Come abbiamo visto in quest’anno e mezzo si passa con una certa facilità da un’alleanza all’altra, con poche concessioni alla politica profonda e molte alla tattica.

Un Matteo è di destra, arrogante, vendicativo, egocentrico, iper ambizioso…

L’altro è Salvini. Diciamo che sono entrambi egocentrici, ma il loro carattere mi interessa poco. Mi sembra più rilevante il fatto che, a tre anni di distanza, abbiano commesso lo stesso errore di sentirsi troppo uomini forti in grado di fare a meno di tutti gli altri.

Uno è molto a suo agio nelle manovre di palazzo, l’altro predilige spiagge e spianate della bergamasca.

Ognuno è figlio della propria storia e del proprio movimento. Non importa dove si muovano meglio. Conta la somiglianza delle parabole di due uomini fortissimi, sbalzati dopo elezioni europee stravinte. Anche il rottamatore si era imposto contro il palazzo.

Da quale dei due comprerebbe un’auto usata?

Ho la fortuna di non avere la patente.

Quanto conta in politica la credibilità?

Ovvio che conta e che qui non se ne veda molta. Uno ha scandito «mai con i 5 stelle» e poi ha proposto l’alleanza con loro, l’altro diceva «basta con i 5 stelle» ma, vista la mala parata, ha offerto a Luigi Di Maio il posto di premier. Sembrano giocatori di biliardo che annunciano un tiro, ma mandano la palla in buca con un altro. Più che sulla tattica, la credibilità andrebbe misurata su tempi lunghi e proposte sostanziali.

I due Matteo si scontrano per polarizzare lo scenario e far fuori Giuseppe Conte e Di Maio?

Uno però parte da un decimo di consensi dell’altro e quindi ha più convenienza.

Le elezioni aspettano almeno fino alla tornata di nomine di primavera?

Molto di più.

Di sicuro c’è che il duello in tv avverrà da Bruno Vespa.

Sarò contento di vederlo, non sono geloso… L’ultimo duello elettorale andò in onda proprio da Vespa nel 2006 tra Romano Prodi e Silvio Berlusconi. L’epoca e l’epica dei faccia a faccia è finita insieme al bipolarismo; quando non si svolgono sotto elezioni sono partite quasi amichevoli.

Reduce da un’estate di maratone vincenti, Enrico Mentana continua senza fiatone la narrazione della stagione più tellurica della politica italiana. L’adrenalina è il miglior allenamento e consiglia massimo disincanto. Niente previsioni, dunque: «Fossi matto, chi avrebbe potuto prevedere un filotto così? L’uomo un mese e mezzo fa più potente d’Italia è finito in fuorigioco, il fondatore dei 5 stelle sponsorizza il governo con il Pd, il più acerrimo nemico dei grillini fa un’inversione a U e caldeggia l’alleanza con loro, il M5s molla il partner più a destra dell’arco costituzionale e abbraccia quello più a sinistra, il premier del governo più a destra del mondo occidentale lo rimane con quello più a sinistra dello stesso mondo occidentale. Azzardare previsioni oltre che inutile sarebbe stupido».

Da storyteller della politica, che titolo darebbe all’estate appena finita?

L’estate dei tradimenti. Stagione propizia.

Dopo la nascita di Italia viva, quanto il Conte bis è più fragile?

Non lo so, magari Conte e Renzi diventeranno complici, oppure si odieranno. Renzi era già il plenipotenziario dei gruppi del Pd. Alcuni parlamentari hanno cambiato casacca, magari è un elemento chiarificatore.

È cambiata la composizione del governo.

Da ala del Pd Renzi lo appoggiava, dall’ala del suo partito continuerà a farlo. Credo sia stato più difficile per i 5 stelle passare dall’alleanza con la Lega a quella con Leu.

Quindi Conte sbaglia a preoccuparsi?

Se il governo riuscirà a fare riforme condivise andrà avanti bene, altrimenti no.

Tornando alla credibilità di Renzi, in ordine cronologico: #staisereno a Enrico Letta, se perdo il referendum lascio la politica, #senzadime l’alleanza con il M5s, necessaria l’alleanza con il M5s, lascio il Pd.

L’ultima non è stata un’incoerenza, mentre delle altre mosse abbiamo già parlato a dismisura. D’incoerenze tattiche ce n’è un campionario. Dall’offrire il posto di premier a Di Maio dopo aver detto mai più con il M5s, a proclamare «mai con il partito di Bibbiano» prima di andarci al governo. Le incoerenze gravi sarebbero altre: promettere di abbassare le tasse e poi alzarle o annunciare la difesa della scuola laica e poi promuovere quelle confessionali.

Più che Emmanuel Macron il modello di Renzi è Frank Underwood di House of Cards?

È House of Cards che imitava la politica non il contrario. Non a caso è stato scritto da un consigliere di Margaret Tatcher (Michael Dobbs ndr). Mi stupisci lo stupore: in Parlamento c’è stato chi ha detto che Ruby Rubacuori era la nipote di Mubarak.

Percentuali motivazionali di Italia viva: le nomine delle partecipate, il mercato del centro politico, la difficoltà a passare per la cruna dell’ego, copyright Francesco Rutelli.

Parliamoci chiaro, questo signore ha scalato da fuori il più strutturato partito italiano. Avrà un ego spiccato, ma di politici senza ego ipertrofici ne ho conosciuti pochi. I posti si disprezzano quando non sono i tuoi, mai visto nessuno che abbia detto: li lascio agli altri.

Ho chiesto delle percentuali.

La politica è un mix di ambizioni personali e opportunità strategiche. Credo che Renzi abbia intravisto l’enorme spazio che c’è tra l’attuale governo e il precedente.

Quali errori ha commesso Salvini?

Principalmente credere di essere onnipotente. Lo stesso di Renzi tre anni prima, si chiama sindrome del padreterno. Credeva di avere in mano il gioco mentre aveva solo molte fiches. Entrambi non hanno previsto che tutti gli altri si sarebbero coalizzati contro di loro.

L’ errore principale è stato non votare Ursula von der Leyen?

Quella è stata la conseguenza. Su questo ha ragione Salvini, se l’avesse votata gli avrebbero dato del paraculo. Probabilmente ha pagato il rapporto con Vladimir Putin. Ma adesso, siccome si sta tornando alla Prima repubblica, potrebbe tornare anche il «fattore k» che allora escludeva i comunisti e stavolta potrebbe escludere la Lega. In entrambi i casi c’è di mezzo il rapporto con Mosca.

La richiesta di pieni poteri è stato un altro sintomo della sindrome da padreterno?

È stato il segnale di un linguaggio a cui era slittata la frizione. Altre volte aveva usato espressioni che avevano l’eco del passato. Credo che stavolta volesse solo superare le resistenze che gli impedivano di governare. Ma i social portano all’incontinenza, all’escalation per la quale credi di poter dire tutto. È stato un difetto di padronanza comunicativa e c’era chi aspettava solo quello. Aveva ottenuto la Tav e il decreto sicurezza bis, che altro voleva in pieno agosto?

Il nemico era Conte che in Europa portava avanti un’altra politica?

I fuori-onda di Piazzapulita tra lui e Angela Merkel bisognava mostrarli allora non adesso. Scontrandosi con Conte, Salvini si è dimostrato ingenuo. Quando Grillo, l’artefice del ribaltone, l’ha messo tra gli elevati, Conte è divenuto intoccabile e anche Di Maio, che pure l’avrebbe sacrificato, ha potuto far poco.

Il 22 luglio in un’intervista a Pietrangelo Buttafuoco ha detto che «nel tramonto delle idee Salvini è Maradona». Sono tornate le idee?

No. Maradona è stato trovato positivo all’antidoping della politica.

Le idee che tornano sono il nuovo umanesimo?

Non vedo nessuno in grado di farle tornare. Quando i 5 stelle passano dall’alleanza con il partito più a destra a quella con il più a sinistra non ci sono idee, ma geometrie variabili.

La vista di Conte quale reazione suscita nell’uomo Enrico Mentana?

Mi sembra l’epigono di una genia di grandi tecnici passati sulla scena pubblica. Sta come un pesce nell’acqua. Lo osservavo con Macron, è di quella pasta, sicuramente della stessa sartoria. Un Gianni Letta giovane.

La parola voltagabbana è stata rimossa?

Cosa c’entra con Conte? Non ha un partito…

È premier di due maggioranze opposte.

Le alleanze le ha cambiate il M5s.

Da antisistema a establishment, da grimaldello della scatola di tonno a tonno?

Hanno esaurito il repertorio da apriscatole: il decreto dignità, il reddito di cittadinanza, il taglio dei parlamentari. Cosa resta, lo stile sobrio, il lavoro onesto? In questo momento il M5s è il perno della legislatura, infatti è l’unico partito che resta al governo. Come nella precedente legislatura accadde al Pd e in quella ancora precedente al centrodestra.

Zingaretti ha fatto retromarcia su tutto per le pressioni interne e internazionali?

Zingaretti si è trovato in minoranza perché Renzi e Franceschini insieme controllavano i gruppi e il partito.

Come andranno le regionali?

Aspettiamo di vedere, cominciando dall’Umbria, se l’accordo tra 5 stelle e Pd è uguale, inferiore o superiore alla somma degli addendi.

Dopo le piroette di Conte e Renzi c’è da stupirsi se cresce il disprezzo per il ceto politico?

L’alleanza è stata rotta da Salvini. Se il marito se ne va di casa, non può pretendere dalla moglie che non ci entri nessuno. Il più forte è stato trovato positivo all’antidoping, ma anziché fermarsi ad aspettarlo il calcio è andato avanti.

Si capisce perché la disaffezione dalla politica lievita?

Per noi novecenteschi la politica era sangue e passioni, le nuove generazioni sono più disincantate. Oggi i partiti sono involucri di consenso dei leader che si rivolgono direttamente al popolo con lo smartphone. Salvini lo ha fatto meglio di tutti e ha sbaraccato una certa idea di politica. Se non sapesse tradurre in diretta su Facebook le sue parole d’ordine avrebbe gli stessi consensi?

Ora che l’Italia si è allineata all’Europa i parametri diventano flessibili e favorevoli?

È governata da una forza che in passato ha avuto il presidente della Commissione europea, Prodi, che ora ha il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ed è alleata dei 5 stelle, i cui voti sono stati decisivi per l’elezione della Von der Leyen. Mi sembra ovvio che ci sia un’apertura di credito. Conte ha lavorato per questo. Se non hai più come vicino di casa uno che vuole sfasciare tutto, usi meno chiavistelli.

Non c’è qualcosa di artificioso in questi parametri e barriere, qualcosa di lontano dalla vita reale?

Adesso si avvicina anche l’accordo sulla ripartizione dei migranti. Ribadisco: Salvini non è stato rapito, ha provato a dare la spallata, ma non è riuscito a restare in sella.

Come andrà a finire?

Nel 1994 Berlusconi fu disarcionato da Mani pulite e ci fu chi si illuse che, prima con il governo Dini e poi con la vittoria del centrosinistra, l’anomalia fosse debellata. Salvini non è un accidente della storia, un virus passeggero, ma è portatore di istanze reali. Se l’Europa funzionerà saremo tutti contenti, altrimenti tutti diranno aridatece…

 

Panorama, 25 settembre 2019