«Io, tronista per Tempi, sogno di fare lo zampognaro»
Alessandro Giuli è uno che ama il folclore, la filosofia, la storia delle religioni e si dice contento per il ritorno dei giovani all’agricoltura. Ma la sua passione più insana è quella per la zampogna laziale: «Roba seria», assicura. «Il mio maestro, Alessandro Mazziotti, si è esibito al Bolscioi di Mosca e in tutti i maggiori teatri europei. Il giornalismo? Stupendo. Fosse per me farei lo zampognaro. Ma dubito che la mia famiglia sarebbe contenta». Quarantadue anni, già vicedirettore del Foglio con Giuliano Ferrara, è padre di una bimba avuta dalla sua compagna che lavora a SkyTg24. A breve tutta la famiglia si trasferirà a Milano. Due mesi fa la sua nomina alla direzione di Tempi ha colto tutti di sorpresa.
Che cosa ci fa un giornalista di destra al vertice del giornale storicamente vicino a una parte di Comunione e Liberazione?
«I giornalisti di destra che hanno avuto rapporti con il giornale vicino a una parte di Cl sono più d’uno. Giuliano Ferrara firmò l’editoriale del primo numero, ha collaborato Mattia Feltri, che non è di sinistra, e io stesso, mediatore Ubaldo Casotto, anche lui vicedirettore del Foglio, da non ciellino e non cattolico, ho provato il gusto di scrivere per Tempi. Per diventarne direttore doveva succedere qualcos’altro. Con due nuovi azionisti che non vengono da quel mondo sono cambiati la missione e il progetto editoriale. Il che non significa che sia venuto a de-ciellinizzare Tempi, ma a provare a dilatarne la presenza nel dibattito pubblico. I 5.000 abbonati e i lettori che lo comprano in edicola continueranno a trovarci le battaglie di sempre, umanistiche prima che confessionali».
Come ci sei arrivato?
«Su richiesta di Valter Mainetti, editore anche del Foglio di cui ero condirettore, concorde col suo socio alla pari, Davide Bizzi».
Com’è cambiato l’assetto societario?
«Ora Mainetti e Bizzi sono i proprietari. In continuità con la società precedente, nel Cda è rimasto Samuele Sanvito, con un diritto di tribuna».
A chi si rivolge il nuovo Tempi?
«A un mondo conservatore che non teme di definirsi tale. In un’epoca di dissipazione e rottamazione dirsi conservatori ha qualcosa di eroico. La prima cosa che vorrei conservare è l’interesse nazionale».
Vasto programma.
«Se ci pensi, oggi tutti cercano un patrocinio internazionale. Vorrei fare un giornale che piacerebbe a Enrico Mattei».
Il grande capo dell’Eni…
«Voleva difendere la nostra indipendenza energetica, e quindi politica, nello scacchiere della Guerra fredda».
Un giornale sovranista?
«Si può essere sovranisti in modo liberale, senza essere leghisti travestiti da italiani».
Hai una soglia di vendite?
«È presto per parlarne. Abbiamo l’ambizione, e sta già succedendo, di farci leggere da una fascia di giovani che va dai neodestristi vicini ad Alain de Benoist ai moderati di Stefano Parisi. In quest’area ci sono il mondo berlusconiano e quello che guarda a Giorgia Meloni. Detto questo, ho portato Walter Veltroni a scrivere di cinema letteratura e musica, per rievocare il gusto del primo Foglio di ospitare posizioni lontane».
Il servizio di cui vai più fiero?
«La copertina sull’età del lupo».
Perché?
«Intanto, era bella. Poi sono riuscito a inserire nello stesso contesto il simbolo della nostra età inselvatichita, l’animale più simile all’uomo nei suoi tratti di nobiltà carnivora, monogamica e di branco. Infine, mi pare di aver gettato un po’ di luce sulla possibilità di occuparsi della natura senza essere fondamentalisti dell’ambiente o sradicati moderni».
E la lunga intervista a Daria Bignardi, direttore di Rai 3?
«È venuta dall’idea di una sua collaboratrice delle Invasioni Barbariche. Ho accettato volentieri per due ragioni. La prima, perché conosco Daria Bignardi e la apprezzo nonostante la diversa formazione. La seconda, perché nella logica della rinnovata apertura di Tempi ci può stare anche un servizio sull’eterno dibattito intorno alla Rai».
Tra le ragioni non ci sarà pure la tua collaborazione con la rete?
«Se è per questo, sono da tempo quasi un arredo della Rai. Ero consulente di Politics. Sono spesso ospite di Lineanotte, Agorà, Mi manda Raitre».
Lo sottolineano anche i lettori nelle lettere.
«Il piano editoriale contempla il volto sempre più stanco del direttore che occupa gli ultimi spazi tv per promuovere il giornale».
Paga?
«Paga, paga. Diciamo che le copie in edicola sono inferiori a quelle degli abbonamenti, ma in questi due mesi sono cresciute del 60%».
Anche Amicone andava in tv.
«Meno. Nell’ultimo anno, da consigliere comunale, quasi per niente. Io sono uno scienziato della presenza televisiva».
Mi dai l’algoritmo?
«Come tutti i piani è biodegradabile e con data di scadenza. Si va forte all’inizio, variando la presenza per reti e orari per parlare a pubblici diversi. E si cerca di collegare l’ospitata a un servizio del giornale. Lo so, rischio l’effetto tronista».
Visto dall’interno, perché Politics ha fatto flop?
«Ti rispondo alla D’Alema: mancava l’amalgama. Nonostante la qualità dei professionisti in campo».
Nel penultimo numero di Tempi c’erano lunghi articoli sul Pakistan e aulla guerra dei Copti: fanno vendere?
«Però in copertina c’erano le donne smutandate sulla scalinata del Vittoriano. Comunque sì, fanno vendere. Tempi ha una grande tradizione di reportage sui luoghi sensibili delle persecuzioni religiose e culturali. Rodolfo Casadei è uno dei primi cinque inviati in Italia su questi quadranti geopolitici. Gli abbonati si aspettano queste inchieste e sono severi nel giudicarle. L’ultima numero è sui Regni dimenticati, dal libro di Gerard Russell per Adelphi, con un’intervista a Alberto Negri autore de Il musulmano errante».
Su Tempi c’è molto Foglio, Giuliano Ferrara, Pietrangelo Buttafuoco…
«E Sandro Fusina, Guia Soncini. Arriverà anche Carlo Rossella. Stile old Foglio».
La tua permanenza lì era impossibile?
«Il giornale era cambiato ed era giusto che cambiassero anche i dirigenti. Sono stato un grande elettore di Claudio Cerasa direttore. Ho colto prima di altri i tratti dell’enfant prodige».
Il divorzio è stato per un casus belli o per incomunicabilità crescente?
«È stata una separazione consensuale, senza episodi cruenti. Non è andata come in altri casi nel mondo del giornalismo disallineato rispetto al principato renziano. Si è conclusa una storia d’amore, ma non mi sento vittima del renzismo».
Sul Foglio hanno scritto e scrivono da Marianna Rizzini a Ubaldo Casotto, non c’era spazio solo per te?
«La mia giornata era così. Arrivavo in redazione la mattina con il mio cane Rufus, facevo le mie proposte, scrivevo quando c’era bisogno e spazio, avevo una rubrica cui ero molto affezionato. È stata anzitutto una mia scelta non interferire con una linea editoriale più al passo con i tempi».
Al passo coi tempi vuol dire allineati al nuovo capo?
«Vuol dire al passo con i tempi. Partendo dal presupposto che non è il mio tipo, ho riconosciuto a Renzi alcuni meriti».
Da quali giornali inizi al mattino?
«Dal Fatto e dalla Verità».
Giornali corsari.
«Giornali contundenti».
Che cosa pensi della Rai di Antonio Campo Dall’Orto?
«Ha il difetto dell’astrazione, il pregio della visione e la difficoltà di una struttura che è come una foresta pietrificata».
Irriformabile?
«Servirebbe una dittatura commissaria per riformarla. Campo Dall’Orto forse è troppo educato».
Come si fa a staccarla dalla politica?
«Bisogna? Se non la si privatizza credo sia meglio lottizzarla bene, con regole cencelliane».
Che cosa guardi in tv quando non ci sei?
«Documentari di storia antica e sugli animali, molti cartoni animati con mia figlia. Meno le partite della Roma».
Contenuti inattuali.
«Essendo assalito dall’attualità, cerco di astrarmene. Più che guardare la tv, leggo».
Gli ultimi tre libri?
«Castor di Claudia Santi, un libro di storia delle religioni. Faccio parte della Società italiana di storia delle religioni… A che servono i Greci e i Romani di Maurizio Bettini. E Quando non morremo, un libro del 1911 di Mario Palmarini che descrive l’arrivo di un papa francescano che sbaracca il Vaticano. Anticipatore».
Lo dici in senso positivo?
«Lo dico incuriosito dal momento che sta vivendo la Chiesa».
Storia delle religioni e della Chiesa da non cattolico?
«Secondo certe convenzioni potrei essere definito pagano. In realtà, penso che il sacro animi il mondo».
Perché la foto del tuo profilo Twitter è un lupo?
«Mi sembra preferibile a un’inutile foto di sé stessi. Sono romano e il lupo è l’animale fondativo di Roma. Anche se vado in tv per ragioni aziendali, non amo l’esposizione. Le foto private sono private. Non sono su Instagram e sul profilo Facebook non c’è nulla di personale. Bisogna presumere di avere cose molto interessanti da dire per parlare di sé».
Chi è il personaggio in effige sul profilo di Whatsapp?
«È Callimaco Esperiente, nom de plume di Filippo Buonaccorsi, grande umanista della seconda metà del Quattrocento, fondatore con Pomponio Leto dell’Accademia romana. Ha avuto una vita avventurosissima. Studioso di storia antica e arti magiche, promotore delle lettere italiane nelle corti europee. Aveva il nasone anche lui…».
Concordi con Galli della Loggia quando dice che la destra si propone solo come anti sinistra?
«Sarebbe un passo avanti visto che con Gianfranco Fini si proponeva come una sinistra in ritardo».
Ti accontenti di poco.
«La verità è che la destra è morta con Tommaso Staiti di Cuddia. Galli della Loggia vede qualcosa che non è vera destra».
Vede disorientata l’area cui si rivolge anche Tempi. Spesso i media di quest’area si distinguono per piglio «anti». Si può creare un percorso costruttivo?
«Viviamo l’età dell’odio. Basta guardare sul web lo stile grillino di tanti antigrillini. Ci sono due partiti della nazione, quello di Grillo e quello degli anti Grillo. Quando ci troveremo di fronte al rischio concreto, ci sarà una reazione generale per cui i volenterosi governativi si opporranno agli apocalittici grillini. In questa situazione le categorie di destra e sinistra sono superate, diluite in entrambe gli schieramenti».
Che cosa succederà tra Berlusconi, Salvini e Giorgia Meloni?
«Troveranno un modus vivendi. Berlusconi non butta via mai niente. E, finché può, anche se non lo dice, cerca di radunare tutti gli spezzoni».
Sicuro?
«Berlusconi ha la sindrome di Fatuzzo, il capo del partito dei pensionati col quale nel 2004 saltò l’alleanza e per quella manciata di voti perse le elezioni. È l’unico vero bipolarista inclusivo perché declina la vocazione maggioritaria in senso onnicomprensivo. Berlusconi ha trasformato i fascisti in moderati, pure troppo. Renzi ha trasformato i socialdemocratici in comunisti, pure troppo».