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I chierici dell’atlantismo danno il pass al dissenso

Il fastidio, il disappunto, l’insofferenza, l’irritazione, la contrarietà: scegliete voi il sostantivo che più vi aggrada, la sostanza non cambia. La postura psicologica, l’atteggiamento mentale e il senso di superiorità con cui i sacerdoti della cultura, intellettuali autorevolissimi, titolari di cattedre accademiche e giornalistiche, analizzano il dibattito in corso sulla guerra in Ucraina è sempre la medesima. Man mano che le posizioni pacifiste conquistano consensi il disappunto dei benpensanti si fa gradualmente più intollerante. Gli esempi virtuosi sono Enrico Mentana, che si onora «di non invitare chi sostiene o giustifica l’invasione russa in Ucraina», e Bruno Vespa, che «ha sempre tenuto la barra dritta», lo elogia Aldo Grasso sul Corriere della Sera. Tutti gli altri conduttori di talk, rimandati al tribunale dell’ortodossia teleatlantica. «C’è chi insegue il prof. Orsini e chi intervista il presidente Zelensky e queste sono differenze sostanziali», rincara il critico televisivo del principale quotidiano nazionale. Dietro la difesa del contraddittorio c’è «un senso di abbandono e di incombente catastrofe», si allarma. Perciò è più che mai urgente «porre un confine tra la libertà di opinione e il circo con le ballerine russe». Cioè, chi dissente non è quasi mai attendibile, è impresentabile, inadatto (unfit) al vero dibattito democratico.

In alcuni casi, come nella campagna che Il Foglio persegue da giorni, l’insofferenza verso gli «altrimenti pensanti», come si chiamavano i dissidenti nell’era dell’Unione sovietica, si carica di moral suasion nei confronti del troppo liberale Urbano Cairo. Suvvia, è così bravo come editore del Corriere della Sera, «che a sfogliarlo ogni mattina si sente di nuovo il profumo della classe dirigente», cosa aspetta a mettere in riga i feudatari di La7 «descamisada»? La strategia della persuasione non disdegna i toni del bullismo verso gli irregolari. Nelle redazioni dei giornali seri, almanacca Giuliano Ferrara, «non esplodono i narcisismi comici di professori della serie B promossi nella serie A della Grande Storia per il loro quarto d’ora di fama». Però, «l’editore dovrebbe riflettere», consiglia il fondatore del Foglio, perché «siccome da nessuna parte spuntano le bischerate putiniane e i negazionismi tipici dei talk show di fattura nazionale italiana», qui è in gioco «la tenuta mentale e morale di un mezzo di comunicazione di larga udienza e influenza». In buona sostanza, se non si fa pulizia di questi impresentabili «anarcosituazionisti», faremo presto a mollare La7 al suo destino di televisione inaffidabile.

È la demonizzazione del dissenso, prosecuzione dell’arte della guerra nel campo dell’informazione. «In termini psicoanalitici si tratta di una proiezione inconscia dell’aggressività degli spettatori», spiega Massimo Recalcati. «È in piccolo quello che accadde con la guerra. Esiste una torbida attrazione umana per lo scontro, la violenza, il conflitto, la lotta a morte, la contrapposizione bellica. L’aspetto preoccupante», prosegue il cattedratico sulla Stampa, «è che sempre più la nostra televisione si presta ad alimentare questa logica primitiva facendo molto spesso scivolare dietro le quinte i contenuti del dibattito». Detto in modo più diretto, la televisione è diventata un territorio per spiriti primordiali e istinti belluini. E tutto in nome dell’audience, qualcosa di riprovevole e deprecabile. Quasi quanto i sondaggi che evidenziano in modo corale la contrarietà degli italiani all’invio di armi in Ucraina. Si manifesti con gli ascolti tv o nei rilevamenti degli istituti di ricerca, l’orientamento dell’opinione pubblica resta un fatto superfluo.

Sospettati d’intelligenza con il nemico, da settimane i conduttori dei talk show sono costretti a giustificare il proprio lavoro e gli editori devono spiegare ad autorità politiche esterne come la commissione di Vigilanza sulla Rai e quella di controllo sui Servizi segreti (Copasir) perché nelle loro televisioni si invitano Tizio o Caio. È inquietante ciò che sta accadendo a #Cartabianca di Bianca Berlinguer dopo che l’idea d’invitare il professor Alessandro Orsini ha scatenato il fuoco di fila di numerosi esponenti di un partito che si chiama democratico. Siamo alla «morte dei talk», scrive in un lungo articolo su The Post International Carlo Freccero: «Oggi si processa il concetto stesso di dissidio e conflittualità».

«Penso che il talk show per l’approfondimento giornalistico per un’azienda che fa servizio pubblico non sia l’ideale», ha scandito l’amministratore della Rai Carlo Fuortes davanti alla Vigilanza. «È un format più adatto all’intrattenimento, ai temi leggeri, non a quelli importanti». Per i temi importanti, gli esperti devono essere approvati da codici deontologici e super-organismi. Difendere il criterio del conflitto delle interpretazioni, per esempio invitare ospiti filorussi e anti-Nato, per Recalcati equivale a «invitare a un dibattito sulla pedofilia un pedofilo praticante», o «sulla Shoah uno storico negazionista». Siamo davvero arrivati a questo? Davvero il pubblico televisivo non ha sufficiente maturità per valutare e pesare le diverse posizioni? L’allarme diffuso durante la pandemia contro la partecipazione ai talk show di no-vax ha impedito all’Italia di essere uno dei Paesi con la più alta percentuale di vaccinati al mondo?

La pax culturale e la tregua del buon senso richiedono l’allineamento dei disturbatori. Accantonata quando bisognava schierarsi con l’Ucraina o con la Russia, improvvisamente rispunta la complessità. I se e i ma riaffiorano per fare la radiografia al dissenso. I custodi dell’atlantismo vogliono distribuire il pass di quello accettabile. Allo scopo, potrebbero creare una nuova commissione da aggiungere a quella di Vigilanza. E chiamarla Sorveglianza ed esclusione. Ovviamente, in nome della democrazia.

 

La Verità, 17 maggio 2022

«Macché spie, il rischio è demonizzare il dissenso»

Non indossando l’elmetto, Corrado Formigli si attira le critiche e le ironie dei media più atlantisti, ma il suo Piazzapulita su La7 è uno dei talk più problematici del panorama televisivo nostrano. Ospita voci diverse e innesta il dibattito in studio con immagini e reportage dal fronte, «40 o 50 minuti ogni puntata», sottolinea: «è il nostro marchio di fabbrica».

Come vanno gli ascolti dall’inizio della guerra?

«Fino a prima dell’invasione dell’Ucraina la nostra media era del 5,7% di share. Dal 24 febbraio a oggi si è assestata sul 6,3%, per noi un risultato eccellente».

Questa crescita ha un motivo preciso?

«Intanto, la mia passione personale per il tema. Fin dai tempi dei programmi di Michele Santoro ho sempre fatto l’inviato di guerra. Per Piazzapulita ho realizzato reportage su Kobane, in Siria, su Falluja e Mosul, in Iraq… Poi, ma non certo in secondo luogo, la passione, l’esperienza e le capacità di Gabriele Micalizzi, Alessio Lasta e Luciana Colluccello sono stati un altro nostro punto di forza. Siamo l’unico talk che propone reportage sul campo».

Però la guerra non si vede moltissimo.

«Non è proprio così, raramente si sono visti tanti cadaveri per le strade e missili schiantarsi sugli edifici. A Kramatorsk un pezzo di missile ha sfiorato la macchina sulla quale viaggiava Luciana Colluccello. È una guerra che si combatte con ordigni lanciati a distanza. Stare in prima linea con la fanteria vorrebbe dire rischiare la vita. Ma il nostro primo problema è un altro».

Quale?

«Evitare le fake news. I canali Telegram mostrano il conflitto girato dai soldati e bisogna sminare la propaganda per far affiorare i fatti. L’esempio dell’immagine della donna con il ventre marchiato da una svastica è significativo. Micalizzi aveva trovato quella foto a Mariupol, perciò si è pensato fosse opera del battaglione Azov. Qualche giorno dopo la stessa immagine è ricomparsa vicino a Kiev, collegata alle torture di Bucha, quindi gli autori potevano essere russi. Alla fine, non sappiamo chi ha commesso quella violenza, ma solo che quella donna è stata uccisa e mutilata».

Come scegliete gli ospiti delle puntate?

«Distinguiamo tra competenza e battaglia delle idee. In tema di diplomazia, di geopolitica o di strategia militare cerchiamo ospiti che abbiano esperienza sul campo. Alberto Negri è uno dei più importanti inviati di guerra degli ultimi 30 anni, il generale Vincenzo Camporini è stato capo di Stato maggiore della Difesa, Riccardo Sessa è stato ambasciatore in Cina e in Iran, per citarne alcuni. Sul piano delle idee, quando Michele Santoro e Paolo Mieli si confrontano esprimono visioni diverse, ma il loro dibattito è utile al telespettatore, oggi senza bussola».

Le capita di pagare qualche ospite?

«La stragrande maggioranza viene a titolo gratuito, altri te li assicuri in esclusiva per un certo tempo. È come un patto di fedeltà che anche il pubblico apprezza. Ma si tratta sempre di cifre modeste, corrisposte in cambio di una competenza e di un tempo che ti danno».

Sono mai stati contestati dal pubblico o da qualche esponente politico?

«La reazione più violenta l’ho registrata riguardo al professor Alessandro Orsini. Il giorno dopo, il mio telefono era intasato da commenti alla sua partecipazione provenienti da alti livelli della politica, della cultura e del mondo universitario. Perché fai parlare Orsini? Non sai chi è? Erano supposizioni ipotetiche, mai circostanziate».

Una volta invitato qualcuno ha mai avuto la sensazione che potesse trattarsi di un agente segreto?

«Macché. Orsini no di certo, lo conosco da diversi anni. Ma secondo lei un agente sotto copertura usa i talk show per fare propaganda? Perché accada ci vorrebbero un conduttore imbecille, un pubblico privo di capacità di discernimento e che gli altri ospiti fossero sotto anestetico».

Qualche telespettatore le ha contestato l’invito a Steve Bannon.

«L’ho trovato surreale. Stiamo parlando dell’ex capo stratega del presidente americano Donald Trump. Io non scelgo tra buoni e cattivi. Se fosse utile a comprendere ciò che c’è nella mente di Vladimir Putin inviterei pure il diavolo».

C’è qualcuno che vorrebbe intervistare e non le è ancora riuscito?

«Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino, ci ha già detto no due volte, mentre ho apprezzato l’intervista che gli ha fatto Christiane Amanpour sulla Cnn. Un altro che sto cercando di invitare è Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore della Novaja Gazeta, il giornale dove scriveva Anna Politkovskaja».

L’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes ha detto alla commissione di Vigilanza che i talk show non sono più adatti a una corretta informazione: cosa ne pensa?

«Penso che quelli fatti bene lo siano e quelli fatti male non lo siano. Trovo che usare la parola talk show in generale come metro di ogni nequizia sia sbagliato».

Che opinione ha dell’interesse del Copasir e della Vigilanza riguardo ai meccanismi dell’informazione?

«Per conto mio la Vigilanza andrebbe abolita. In tutto l’Occidente è un unicum che una commissione di politici indichi i criteri di fattura di un programma televisivo, di invito degli ospiti e se vadano pagati o meno. La ritengo una realtà di sapore sovietico».

In guerra si demonizza il nemico, nell’informazione si demonizza o ridicolizza il dissenso?

«Il rischio lo vedo molto forte. Non sto dicendo che chi dissente non abbia spazio perché ne ha. Il problema è ciò che avviene dopo: l’attacco concentrico dei soliti politici che guardano troppo la tv anziché fare cose più utili e del plotoncino dei social che si erge a tribunale dei talk. Quando questo attacco viene amplificato dai giornali si crea un clima avvelenato».

Piazzapulita mette di fronte bellicisti e pacifisti: può dire quali si dimostrano più intolleranti verso le posizioni altrui?

«Mi sono stupito quando Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari internazionali, con la quale avevo un accordo di partecipazione a quattro puntate, ha criticato su un giornale il fatto che avessi invitato il professor Carlo Rovelli, un grande intellettuale nonché uno dei maggiori fisici mondiali, su posizioni pacifiste».

Il Foglio ha scritto che Urbano Cairo appare un editore bifronte: governativo e bellicista con il Corriere della Sera, problematico o polifonico con La7. Cosa ne pensa?

«Se un editore è polifonico tanto di cappello, Cairo non ha bisogno che Il Foglio gli insegni il mestiere. L’articolo al quale si riferisce mi descriveva come putiniano dopo una puntata con Roberto Saviano e la figlia di Anna Politkovskaja. È il solito tentativo di etichettare qualcuno come serve a chi scrive. Quell’articolo citava un sondaggio sulla popolarità di Putin all’82% tra gli italiani, mentre si trattava di un rilevamento del suo gradimento presso i russi fatto dal Levada Center, un istituto di ricerche non governativo, di cui ho intervistato il direttore, Denis Volkov. Rifiuto la riduzione in burletta dei talk show. Non capisco perché invitare una sera Santoro è un crimine, ma delle sei puntate in cui ho mostrato la distruzione di Mariupol nessuno ha scritto una riga. Quelli che sostenevano il potere del telecomando e sminuivano la capacità della televisione di orientare i consensi ai tempi di Berlusconi premier oggi fanno esattamente il contrario».

Oltre a riproporre Santoro ha scoperto Orsini e la professoressa Donatella Di Cesare, invitato Bannon, ospitato il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio…

«Orsini l’ho lanciato perché ne avevo colto la forza dirompente, ma l’ho lasciato ad altri perché non amo costruire il programma su un solo ospite. Come detto, si citano solo gli ospiti che servono a costruire lo schema senza ricordare gli altri, Paolo Mieli, Mario Calabresi, Stefano Cappellini, Maurizio Molinari, la lista è lunga. Se invito Evgeniy Popov, deputato russo e, insieme con Vladimir Solovev, uno degli anchorman più influenti, mi serve per far capire come funziona la propaganda russa. Non conosco altre vie per capire cosa c’è nella testa di Putin se non parlare con le persone che gli sono vicine. Credo che il pubblico italiano comprenda questa operazione».

Che cosa pensa di #Cartabianca e della pressione cui è sottoposta Bianca Berlinguer?

«Penso che un editore abbia il diritto di cambiare o spostare nel palinsesto un programma sulla base di una sua valutazione. Vale sia nel pubblico che nel privato. Ma se il cambiamento, come mi pare stia avvenendo per #Cartabianca di Bianca Berlinguer, segue l’attacco proveniente da una parte politica, da un esponente del governo, da qualche componente della Vigilanza, a quel punto l’odore di censura è molto forte».

L’ha convinta Enrico Letta che ha intervistato giovedì sera?

«Ho colto la sua posizione gelida nei confronti di Giuseppe Conte, il quale pone un problema di unità della maggioranza. E, in secondo luogo, mi pare abbia iniziato un percorso di riallineamento alla nuova strategia del premier Draghi, meno schiacciata su Washington».

Per tornare alla domanda?

«Credo che Letta colga la nuova posizione più macroniana di Draghi con un certo sollievo perché agevola il rapporto con un pezzo importante della base del partito, contraria all’invio di armi in Ucraina».

Che cosa pensa della conversione atlantica del Pd?

«Credo che si fosse allineato a Draghi anche a scapito del necessario dibattito interno. Ha conquistato nuovi consensi ma spostandosi verso il centro, trascura temi come lo ius soli e i diritti civili che, personalmente, condivido».

Qual è la sua lettura della visita del premier alla Casa Bianca?

«Penso sia un uomo capace di comprendere la posta in gioco. Parla con Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Ursula von der Leyen. Credo abbia tentato di far capire che il negoziato è una condizione vitale per la sopravvivenza dell’Europa».

Alcuni osservatori vedono nelle sue mosse l’ambizione alla carica di segretario generale della Nato.

«Secondo me vuole rimanere abbastanza a lungo dov’è».

Si candiderà?

«No. Nel 2023 potrà coagularsi una coalizione di forze e Draghi potrebbe essere candidato a guidarla».

Così la politica continuerà a delegare la guida del Paese?

«Se Giorgia Meloni otterrà una grande maggioranza deciderà il centrodestra, se invece si concretizzerà una situazione più complessa Draghi sarà ancora un’opzione. L’alternativa è tra Meloni e Draghi, non vedo terze possibilità».

 

La Verità, 14 maggio 2022

Il candore di Vincino, genio «di facili costumi»

Se n’è andato il «vignettista di facili costumi». Se n’è andato, con il suo tratto tagliente, lo sguardo sulfureo, il disegno sguincio. Di colpo. Senza preavviso. «Era malato da tempo», si legge nei notiziari della scomparsa. Ma il tempo, per Vincino, era un accidente, un complice, lo scherzo di un perenne presente che lo faceva saltare avanti e indietro nei racconti, le memorie, le anticipazioni visionarie più ardite. Era un alleato che gli permetteva di essere ovunque e da nessuna parte, pur standosene sempre lì, sulle tribune di Montecitorio, a scrutare mosse e contromosse di mostri e mostriciattoli del Palazzo. Vincenzo Gallo all’anagrafe, palermitano di nascita (il 30 maggio 1946) e romano d’adozione, anzi «romano del Colosseo», architetto di laurea con il minimo dei voti, Vincino era sognatore dissimulato, cialtrone sottile e sublime, dall’andatura dinoccolata di barbone aristocratico: l’autore di satira più poetico e irriverente dell’ultimo mezzo secolo.

«Vignettista di facili costumi» l’avevano etichettato a metà degli anni Ottanta allorché era stato chiamato a collaborare con il settimanale Il Sabato, vicino a Comunione e Liberazione. Targa rilucidata dieci anni dopo, quando Giuliano Ferrara l’aveva coinvolto alla nascita del Foglio che ieri ne ha annunciato la morte con un tweet mutuato da un ritratto del fondatore: «È stato la nostra speranza, il nostro specchio, la nostra risorsa d’acqua e di alcol e di fumo».

Cresciuto nella Palermo di Vito Ciancimino dominata dalle cosche, chiamato a Roma da Lotta continua, fu fondatore, direttore e firma nobile di testate iconoclaste della sinistra non comunista e radicaleggiante, da Il Male a Cuore, da Zut a Il clandestino, da Linus a Tango fino a Radio radicale, in compagnia di giornalisti, disegnatori e penne sulfuree come Sergio Saviane, Vauro Senesi, Andrea Pazienza, Pino Zac, Sergio Staino. Una cricca di dissacratori, idealisti esagerati, autori di fulminanti copertine con finte prime pagine dei quotidiani e titoli-beffa: «Arrestato Ugo Tognazzi: è il capo delle Brigate rosse»; «Anche Panatta ha i servizi deviati». Dotato del candore malizioso dei siciliani di alto lignaggio, di quell’etichetta s’era fatto un vanto, un pennacchio di libertà, irriverenza, irriducibilità, anticonformismo indomito. «Mi chiamavano dalla destra e dalla sinistra e non sapevano come etichettarmi», mi raccontò in un’intervista per questo giornale del 18 marzo scorso (qui). Quella targa era la patente di libertà anche dalle sue stesse convinzioni, grazie a quel candore che gli permetteva di cambiare idea e ricominciare, sempre irridente e affettuoso, come testimonia il recentissimo Mi chiamavano Togliatti. Autobiografia disegnata a dispense (Utet). E come non accade mai ai politici per i quali nutriva profonda diffidenza: «Li vedi nei talk show? Ripetono le solite cose, mai nessuno che si convinca di quello che dice l’altro».

La sua libertà lo era anche dalle militanze e dalla mitizzazione degli anni d’oro, i Settanta di Lotta continua, e gli permetteva di collaborare al Corriere della Sera dove, come a Vanity Fair, l’aveva chiamato Carlo Verdelli: un autore di satira che collabora con le testate dell’establishment? «Io nasco nell’establishment», mi aveva risposto senza fare una piega, «mio padre dirigeva i cantieri navali di Palermo».

Se n’è andato, con il suo candore acuminato e la sua burla malinconica.

La Verità, 22 agosto 2018

«Io, tronista per Tempi, sogno di fare lo zampognaro»

Alessandro Giuli è uno che ama il folclore, la filosofia, la storia delle religioni e si dice contento per il ritorno dei giovani all’agricoltura. Ma la sua passione più insana è quella per la zampogna laziale: «Roba seria», assicura. «Il mio maestro, Alessandro Mazziotti, si è esibito al Bolscioi di Mosca e in tutti i maggiori teatri europei. Il giornalismo? Stupendo. Fosse per me farei lo zampognaro. Ma dubito che la mia famiglia sarebbe contenta». Quarantadue anni, già vicedirettore del Foglio con Giuliano Ferrara, è padre di una bimba avuta dalla sua compagna che lavora a SkyTg24. A breve tutta la famiglia si trasferirà a Milano. Due mesi fa la sua nomina alla direzione di Tempi ha colto tutti di sorpresa.

Che cosa ci fa un giornalista di destra al vertice del giornale storicamente vicino a una parte di Comunione e Liberazione?

«I giornalisti di destra che hanno avuto rapporti con il giornale vicino a una parte di Cl sono più d’uno. Giuliano Ferrara firmò l’editoriale del primo numero, ha collaborato Mattia Feltri, che non è di sinistra, e io stesso, mediatore Ubaldo Casotto, anche lui vicedirettore del Foglio, da non ciellino e non cattolico, ho provato il gusto di scrivere per Tempi. Per diventarne direttore doveva succedere qualcos’altro. Con due nuovi azionisti che non vengono da quel mondo sono cambiati la missione e il progetto editoriale. Il che non significa che sia venuto a de-ciellinizzare Tempi, ma a provare a dilatarne la presenza nel dibattito pubblico. I 5.000 abbonati e i lettori che lo comprano in edicola continueranno a trovarci le battaglie di sempre, umanistiche prima che confessionali».

Come ci sei arrivato?

«Su richiesta di Valter Mainetti, editore anche del Foglio di cui ero condirettore, concorde col suo socio alla pari, Davide Bizzi».

Com’è cambiato l’assetto societario?

«Ora Mainetti e Bizzi sono i proprietari. In continuità con la società precedente, nel Cda è rimasto Samuele Sanvito, con un diritto di tribuna».

Valter Mainetti, ad di Sorgente Group, editore del Foglio e Tempi

Valter Mainetti, ad di Sorgente Group, editore del Foglio e Tempi

A chi si rivolge il nuovo Tempi?

«A un mondo conservatore che non teme di definirsi tale. In un’epoca di dissipazione e rottamazione dirsi conservatori ha qualcosa di eroico. La prima cosa che vorrei conservare è l’interesse nazionale».

Vasto programma.

«Se ci pensi, oggi tutti cercano un patrocinio internazionale. Vorrei fare un giornale che piacerebbe a Enrico Mattei».

Il grande capo dell’Eni…

«Voleva difendere la nostra indipendenza energetica, e quindi politica, nello scacchiere della Guerra fredda».

Un giornale sovranista?

«Si può essere sovranisti in modo liberale, senza essere leghisti travestiti da italiani».

Hai una soglia di vendite?

«È presto per parlarne. Abbiamo l’ambizione, e sta già succedendo, di farci leggere da una fascia di giovani che va dai neodestristi vicini ad Alain de Benoist ai moderati di Stefano Parisi. In quest’area ci sono il mondo berlusconiano e quello che guarda a Giorgia Meloni. Detto questo, ho portato Walter Veltroni a scrivere di cinema letteratura e musica, per rievocare il gusto del primo Foglio di ospitare posizioni lontane».

Il servizio di cui vai più fiero?

«La copertina sull’età del lupo».

Perché?

«Intanto, era bella. Poi sono riuscito a inserire nello stesso contesto il simbolo della nostra età inselvatichita, l’animale più simile all’uomo nei suoi tratti di nobiltà carnivora, monogamica e di branco. Infine, mi pare di aver gettato un po’ di luce sulla possibilità di occuparsi della natura senza essere fondamentalisti dell’ambiente o sradicati moderni».

E la lunga intervista a Daria Bignardi, direttore di Rai 3?

«È venuta dall’idea di una sua collaboratrice delle Invasioni Barbariche. Ho accettato volentieri per due ragioni. La prima, perché conosco Daria Bignardi e la apprezzo nonostante la diversa formazione. La seconda, perché nella logica della rinnovata apertura di Tempi ci può stare anche un servizio sull’eterno dibattito intorno alla Rai».

Tra le ragioni non ci sarà pure la tua collaborazione con la rete?

«Se è per questo, sono da tempo quasi un arredo della Rai. Ero consulente di Politics. Sono spesso ospite di Lineanotte, Agorà, Mi manda Raitre».

Lo sottolineano anche i lettori nelle lettere.

«Il piano editoriale contempla il volto sempre più stanco del direttore che occupa gli ultimi spazi tv per promuovere il giornale».

Paga?

«Paga, paga. Diciamo che le copie in edicola sono inferiori a quelle degli abbonamenti, ma in questi due mesi sono cresciute del 60%».

Anche Amicone andava in tv.

«Meno. Nell’ultimo anno, da consigliere comunale, quasi per niente. Io sono uno scienziato della presenza televisiva».

Mi dai l’algoritmo?

«Come tutti i piani è biodegradabile e con data di scadenza. Si va forte all’inizio, variando la presenza per reti e orari per parlare a pubblici diversi. E si cerca di collegare l’ospitata a un servizio del giornale. Lo so, rischio l’effetto tronista».

Visto dall’interno, perché Politics ha fatto flop?

«Ti rispondo alla D’Alema: mancava l’amalgama. Nonostante la qualità dei professionisti in campo».

Nel penultimo numero di Tempi c’erano lunghi articoli sul Pakistan e aulla guerra dei Copti: fanno vendere?

«Però in copertina c’erano le donne smutandate sulla scalinata del Vittoriano. Comunque sì, fanno vendere. Tempi ha una grande tradizione di reportage sui luoghi sensibili delle persecuzioni religiose e culturali. Rodolfo Casadei è uno dei primi cinque inviati in Italia su questi quadranti geopolitici. Gli abbonati si aspettano queste inchieste e sono severi nel giudicarle. L’ultima numero è sui Regni dimenticati, dal libro di Gerard Russell per Adelphi, con un’intervista a Alberto Negri autore de Il musulmano errante».

La copertina dell'ultimo numero di Tempi

La copertina dell’ultimo numero di Tempi

Su Tempi c’è molto Foglio, Giuliano Ferrara, Pietrangelo Buttafuoco…

«E Sandro Fusina, Guia Soncini. Arriverà anche Carlo Rossella. Stile old Foglio».

La tua permanenza lì era impossibile?

«Il giornale era cambiato ed era giusto che cambiassero anche i dirigenti. Sono stato un grande elettore di Claudio Cerasa direttore. Ho colto prima di altri i tratti dell’enfant prodige».

Il divorzio è stato per un casus belli o per incomunicabilità crescente?

«È stata una separazione consensuale, senza episodi cruenti. Non è andata come in altri casi nel mondo del giornalismo disallineato rispetto al principato renziano. Si è conclusa una storia d’amore, ma non mi sento vittima del renzismo».

Sul Foglio hanno scritto e scrivono da Marianna Rizzini a Ubaldo Casotto, non c’era spazio solo per te?

«La mia giornata era così. Arrivavo in redazione la mattina con il mio cane Rufus, facevo le mie proposte, scrivevo quando c’era bisogno e spazio, avevo una rubrica cui ero molto affezionato. È stata anzitutto una mia scelta non interferire con una linea editoriale più al passo con i tempi».

Al passo coi tempi vuol dire allineati al nuovo capo?

«Vuol dire al passo con i tempi. Partendo dal presupposto che non è il mio tipo, ho riconosciuto a Renzi alcuni meriti».

Da quali giornali inizi al mattino?

«Dal Fatto e dalla Verità».

Giornali corsari.

«Giornali contundenti».

Che cosa pensi della Rai di Antonio Campo Dall’Orto?

«Ha il difetto dell’astrazione, il pregio della visione e la difficoltà di una struttura che è come una foresta pietrificata».

Irriformabile?

«Servirebbe una dittatura commissaria per riformarla. Campo Dall’Orto forse è troppo educato».

Come si fa a staccarla dalla politica?

«Bisogna? Se non la si privatizza credo sia meglio lottizzarla bene, con regole cencelliane».

Antonio Campo Dall'Orto: per Giuli è troppo educato per riformare la Rai

Antonio Campo Dall’Orto: per Giuli è troppo educato per riformare la Rai

Che cosa guardi in tv quando non ci sei?

«Documentari di storia antica e sugli animali, molti cartoni animati con mia figlia. Meno le partite della Roma».

Contenuti inattuali.

«Essendo assalito dall’attualità, cerco di astrarmene. Più che guardare la tv, leggo».

Gli ultimi tre libri?

«Castor di Claudia Santi, un libro di storia delle religioni. Faccio parte della Società italiana di storia delle religioni… A che servono i Greci e i Romani di Maurizio Bettini. E Quando non morremo, un libro del 1911 di Mario Palmarini che descrive l’arrivo di un papa francescano che sbaracca il Vaticano. Anticipatore».

Lo dici in senso positivo?

«Lo dico incuriosito dal momento che sta vivendo la Chiesa».

Storia delle religioni e della Chiesa da non cattolico?

«Secondo certe convenzioni potrei essere definito pagano. In realtà, penso che il sacro animi il mondo».

Perché la foto del tuo profilo Twitter è un lupo?

«Mi sembra preferibile a un’inutile foto di sé stessi. Sono romano e il lupo è l’animale fondativo di Roma. Anche se vado in tv per ragioni aziendali, non amo l’esposizione. Le foto private sono private. Non sono su Instagram e sul profilo Facebook non c’è nulla di personale. Bisogna presumere di avere cose molto interessanti da dire per parlare di sé».

Chi è il personaggio in effige sul profilo di Whatsapp?

«È Callimaco Esperiente, nom de plume di Filippo Buonaccorsi, grande umanista della seconda metà del Quattrocento, fondatore con Pomponio Leto dell’Accademia romana. Ha avuto una vita avventurosissima. Studioso di storia antica e arti magiche, promotore delle lettere italiane nelle corti europee. Aveva il nasone anche lui…».

Concordi con Galli della Loggia quando dice che la destra si propone solo come anti sinistra?

«Sarebbe un passo avanti visto che con Gianfranco Fini si proponeva come una sinistra in ritardo».

Ti accontenti di poco.

«La verità è che la destra è morta con Tommaso Staiti di Cuddia. Galli della Loggia vede qualcosa che non è vera destra».

Vede disorientata l’area cui si rivolge anche Tempi. Spesso i media di quest’area si distinguono per piglio «anti». Si può creare un percorso costruttivo?

«Viviamo l’età dell’odio. Basta guardare sul web lo stile grillino di tanti antigrillini. Ci sono due partiti della nazione, quello di Grillo e quello degli anti Grillo. Quando ci troveremo di fronte al rischio concreto, ci sarà una reazione generale per cui i volenterosi governativi si opporranno agli apocalittici grillini. In questa situazione le categorie di destra e sinistra sono superate, diluite in entrambe gli schieramenti».

 Che cosa succederà tra Berlusconi, Salvini e Giorgia Meloni?

«Troveranno un modus vivendi. Berlusconi non butta via mai niente. E, finché può, anche se non lo dice, cerca di radunare tutti gli spezzoni».

Sicuro?

«Berlusconi ha la sindrome di Fatuzzo, il capo del partito dei pensionati col quale nel 2004 saltò l’alleanza e per quella manciata di voti perse le elezioni. È l’unico vero bipolarista inclusivo perché declina la vocazione maggioritaria in senso onnicomprensivo. Berlusconi ha trasformato i fascisti in moderati, pure troppo. Renzi ha trasformato i socialdemocratici in comunisti, pure troppo».

 

 

Sgarbi a Renzi: «Occupare le tv non porta consenso»

Ha visto Vittorio Sgarbi, anche Il Foglio licenzia.

«Francamente, non sapevo del licenziamento di Alessando Giuli, m’informerò».

Qualcosa le posso dire anch’io: Giuli era condirettore, un giornalista di destra non allineato e in dissidio non solo politico con Claudio Cerasa. È stato progressivamente messo ai margini fino alla decisione di fare a meno di lui alla scadenza del contratto.

«Se è andata così, mi spiace molto. Finora non ho percepito nessuno dei licenziamenti di cui si è parlato come volontà diretta di Renzi. All’inizio, quello di Belpietro mi era sembrato un fatto di arroganza della proprietà. Essendoci una storica sintonia tra Belpietro e Feltri, quell’avvicendamento avrebbe potuto avvenire in modo diverso. Subito non l’avevo attribuito al tentativo di pilotare l’informazione nella campagna referendaria. Poi ho parlato con Belpietro e ho capito che c’era dell’altro».

Il licenziamento di Giuli, di cui ieri ha dato notizia La Verità, è solo l’ultimo di una serie che comprende quello di Maurizio Belpietro da Libero, il siluramento di Bianca Berlinguer dal Tg3 e la sostituzione di Massimo Giannini alla conduzione di Ballarò con un talk show che fa meno ascolti. (Sgarbi risponde al telefono in una pausa del festival letterario Babele a Nord Est di cui è direttore artistico, da ieri in corso a Padova). «Non mi sono parsi l’esito di un atto di autorità del premier. Poi, certo, chi c’è dentro, ha altri argomenti. Mi auguro che non siano avvenuti solo per la campagna in favore del Sì al referendum. Cioè, mi riservo di pensare che le motivazioni siano più complesse».

Forse, in qualche caso non c’è un diktat diretto, ma la sudditanza o l’acquiescenza di chi gestisce giornali e telegiornali.

«Certi casi mi sembrano più clamorosi, altri più subdoli».

È una delusione dal Foglio che ha sempre vantato la propria indipendenza e ospita firme che vanno da Sel a Cl?

«Ho sempre trovato il Foglio di Giuliano Ferrara un giornale politico nonostante l’apparenza saggistica e la qualità delle firme. Il giornale più ricco. All’inizio berlusconiano, poi filoberlusconiano, poi un po’ bigotto durante la campagna contro l’aborto, ora renziano con Cerasa. A differenza di molti giornali che si fingono indipendenti mentre sono molto politici, il Foglio, da indipendente, ha sempre scelto una parte per avere una tutela di cui, invece, non ha bisogno. Come volesse essere adottato».

L’adozione è pienamente avvenuta.

«Dichiararsi non indipendente è un modo di rispondere alle critiche per un licenziamento».

Tornando al renzismo, secondo lei non pecca d’intolleranza? Guardi anche il boicottaggio ai talk show scomodi di La7.

«A un certo punto, a margine dello spostamento della Berlinguer, si è letto che tutta la stampa e la televisione erano allineate alle posizioni del Sì. Invece non siamo arrivati a questo. Il No prospera. E poi c’è un altro fatto sottovalutato…».

Scintille tra Matteo Renzi e Bianca Berlinguer a «Politics» di Rai 3

Scintille tra Matteo Renzi e Bianca Berlinguer a «Politics» di Rai 3

Dica.

«Chi punta a occupare le tv non sempre ottiene il risultato sperato. La dittatura della comunicazione non porta consenso. Il monopolio non è garanzia di vittoria. L’efficacia della comunicazione non è un fatto di quantità. La Lega vinse senza televisione. Le porto un esempio famoso. Quando, all’inizio degli anni ’90, ad un confronto tv, De Mita parlò un quarto d’ora nel suo politichese, e Bossi dopo aver a lungo ascoltato gli rispose “ma tachete al tram”, stravinse Bossi. Puoi comprarti il Sì di Libero, del Foglio e dell’Unità, ma poi magari vince il No anche se privo di un organo ufficiale. Questo lo dico senza voler giustificare nulla».

Il boicottaggio riguardava i programmi di La7, dove il premier non può influenzare nomine di conduttori e direttori.

«Certo, certo».

Perché il renzismo è così intollerante con giornalisti e commentatori?

«Non ho questa sensazione. Non ce l’avevo nemmeno con Berlusconi. È una filosofia che funziona sul Fatto demonizzare l’avversario, creando mostri del male assoluto. Io ho quasi tenerezza per Renzi perché lo vedo debole sul piano dei contenuti e della politica. Lo vedo sopraffatto dai No. Essendo uno che, come e più di Berlusconi è uomo del fare, in un Paese immobile come il nostro lo vedo sconfitto dagli ostacoli, dalle scelte conservatrici. Renzi mi appare come un San Sebastiano che prende frecce da tutte le parti. Questo non significa che condivida la sua riforma della Costituzione. Tutt’altro».

Nel mondo renziano c’è una sopravvalutazione dell’immagine? Che cosa pensa della cena alla Casa Bianca e del parterre di ospiti che il premier si è portato?

«Una sceneggiata segno di debolezza. Alcide De Gasperi non avrebbe avuto bisogno di andare con Totò da Harry Truman. Questo parterre di ospiti è anche un errore di comunicazione».

Una parte della delegazione italiana che ha partecipato alla «State dinner»: Roberto Benigni, Bebe Vio e Raffaele Cantone

Alcuni degli invitati italiani alla «State dinner»: Roberto Benigni, Bebe Vio e Raffaele Cantone

Si spieghi.

«I cittadini italiani che li vedono salire sull’aereo di Stato per andare a cena con il presidente americano s’incazzano. Se Benigni fosse andato col suo aereo privato, forse avrebbe avrebbe bonificato l’abuso. Questa trasferta così annunciata non porta nessun consenso. Forse ne fa perdere. Magari, se avessero usato un aereo di linea in seconda classe… Se uno fa un errore di comunicazione come questo qualcosa che non mi torna. Vuol dire che è in un momento di difficoltà».

Addirittura.

«Sono convinto che vincerà il No. Rastrellare consensi illustri come quelli di Benigni, di Armani, degli industriali rientra nella logica dei poteri forti che quando c’è un governo, per loro convenienza sperano che duri. Credo che Renzi sia entrato in un vortice di antipatia difficile da ribaltare, perché ormai prevale l’onda di malumore diffuso che somiglia a quella vista quest’estate in occasione delle vacanze con aereo privato di Paolo Bonolis».

Che cosa pensa della tendenza a voler impedire il dissenso e a sistemare amici ovunque?

«È la filosofia di Amici miei, altro sintomo di debolezza. Stare con quelli di cui posso fidarmi anziché con quelli che hanno merito non è una psicologia da leader, ma da persona sulla difensiva. Se credo che la Berlinguer non sia dalla mia parte, non la sostituisco con un altro, ma tento di ottenerne la neutralità. A Santoro Berlusconi ripeteva: “Si ricordi che lei è servizio pubblico”. Invece, lui sceglie gli amici, che non sono amici perché sono d’accordo con lui, ma sono d’accordo con lui perché sono amici. È il rovesciamento della celebre formula amicus Plato sed magis amica veritas (“Platone mi è amico ma mi è più amica la verità” ndr)».

Una degenerazione già vista e che lei conosce.

«Quando Berluscnoni piazzava Previti, Urbani o Letta aveva comunque una considerazione del valore professionale delle persone scelte. Nel caso di Renzi l’unica discriminante è il fatto amicale. Questa operazione non è mai vittoriosa. Il consenso deriva dalla capacità di persuasione. Berlusconi diceva sempre che il presidente del Consiglio non ha potere. Poi ci siamo accorti che quando è arrivato Renzi ha fatto più cose. Come dimostrano i casi di Cossiga, Napolitano e Mattarella, penso che il potere non sia quello che hai per contratto, ma quello che riesci a ottenere con la persuasione».

Carlo Freccero dice che siamo entrati nell’era della post democrazia, nella quale è decisiva la propaganda.

«La propaganda si esplica attraverso la retorica che è il sintomo della mancanza di capacità di persuasione, quella che, per esempio, Renzi aveva dimostrato in occasione della riforma del jobs act. La persuasione è il contrario della propaganda perché ha come obiettivo convincere nel merito chi è contrario. Jung, padre della psichiatria moderna, ha scritto che il limite della Trinità cristiana è non aver inglobato il diavolo facendo la quaternità. Renzi divide il mondo in amici e nemici e si trincera dietro ai suoi. Invece, avrebbe dovuto lasciare al suo posto la Berlinguer e chiederle di essere equa».

 

La Verità, 19 ottobre 2016

 

La piega della spiega presa dal neogiornalismo

È una questione di gradini, di autorevolezza. Di conoscenza più o meno approfondita della materia. Ma può anche essere una questione di spocchia. Di tirarsela un filo. Ci si apposta un po’ più su e si guarda il resto del mondo dall’alto. Almeno per quella materia lì, per quello spicchio di realtà, pur piccolo. Il virus, la moda, sta contagiando noi giornalisti. Ce ne sono tante, di mode passeggere che s’infiltrano nei nostri articoli, nei nostri post, titoli eccetera. L’ultima è questa qui di spiegare qualcosa a qualcuno. Chi spiega sta un gradino più in alto di chi legge. C’è qualcuno un po’ più ignorante che va istruito, va edotto, va introdotto ai segreti di qualcosa che noi conosciamo bene. I giornalisti diventano un po’ professori, insegnanti di qualcosa. Ci può anche stare, ma è meglio esser consapevoli di questa piega della spiega…

Un conto è un libro, qualcosa che richiede un impegno e ha un intento esplicitamente pedagogico e affettuoso, tipo Il vangelo spiegato a mio figlio: racconti insoliti prima della buonanotte (Marta Brancatisano), oppure Le pensioni spiegate a mia nonna (Giuliano Cazzola), o anche Internet spiegato a mia nonna (Francis Mizio). Qualche volta un certo paternalismo condito di ironia può funzionare. Ed è bene accetto se il discente stima il docente per la sua competenza, vedi “Le serie tv spiegate a Giuliano”, ciclo di articoli di Mariarosa Mancuso sul Foglio, con lieve sentore di autoreferenzialità. Sempre sullo stesso giornale, Ferrara verga “Renzi spiegato facile a D’Alema”, dove quel “facile” dal tono volutamente sarcastico avrà fatto arricciare il baffo dell’ex lider Maximo, maestro riconosciuto di sarcasmo. In altri casi l’intonazione è da secchioni, tipo “L’Isis spiegato bene (a Milano)”, che annuncia che “un pezzo di redazione del Post discute dello Stato islamico”. Spiegato bene, non male… Lo stile da nerd ha vinto, spopola anche tra i giornalisti, si contamina con un certo, mai sopito, intento moraleggiante. Che si ritrova anche in altre formule e in altri titoli che hanno dentro il “Cosa insegna” questa faccenda eccetera (autocitazione), oppure “Perché” una certa cosa funziona così o colà…

È la moda del nuovo giornalismo intellettuale con tendenza cattedrattica, in qualche caso pontificante. Giornalisti-professori, giornalisti-docenti, giornalisticheselatirano (qui comincerebbe un lungo paragrafo sui giornalisti-ospititelevisivi, ma prima o poi ci arriverò). Forse è anche l’esplosione delle nuove tecnologie e dei social media che ha prodotto questo salto di qualità. Per capirci, su Facebook e Twitter che oggi compie dieci anni sono tutti giornalisti. E siccome le notizie le danno tutti, anche chi non ha titoli, allora i giornalisti diventano columnist, docenti, insegnanti di qualcosa. Per carità, meglio il giornalismo secchione, e magari un po’ pedante, di quello approssimativo e superficiale. È sul tirarcela, su un certo sussiego, che conviene vigilare. Lo dico anche a me stesso: una volta il giornalismo s’incaricava soprattutto di dare notizie. E la sfida dovrebbe rimanere principalmente sul terreno dell’informazione.

Vedere Spotlight e Truth per tenerci con i piedi per terra…