Il candore di Vincino, genio «di facili costumi»

Se n’è andato il «vignettista di facili costumi». Se n’è andato, con il suo tratto tagliente, lo sguardo sulfureo, il disegno sguincio. Di colpo. Senza preavviso. «Era malato da tempo», si legge nei notiziari della scomparsa. Ma il tempo, per Vincino, era un accidente, un complice, lo scherzo di un perenne presente che lo faceva saltare avanti e indietro nei racconti, le memorie, le anticipazioni visionarie più ardite. Era un alleato che gli permetteva di essere ovunque e da nessuna parte, pur standosene sempre lì, sulle tribune di Montecitorio, a scrutare mosse e contromosse di mostri e mostriciattoli del Palazzo. Vincenzo Gallo all’anagrafe, palermitano di nascita (il 30 maggio 1946) e romano d’adozione, anzi «romano del Colosseo», architetto di laurea con il minimo dei voti, Vincino era sognatore dissimulato, cialtrone sottile e sublime, dall’andatura dinoccolata di barbone aristocratico: l’autore di satira più poetico e irriverente dell’ultimo mezzo secolo.

«Vignettista di facili costumi» l’avevano etichettato a metà degli anni Ottanta allorché era stato chiamato a collaborare con il settimanale Il Sabato, vicino a Comunione e Liberazione. Targa rilucidata dieci anni dopo, quando Giuliano Ferrara l’aveva coinvolto alla nascita del Foglio che ieri ne ha annunciato la morte con un tweet mutuato da un ritratto del fondatore: «È stato la nostra speranza, il nostro specchio, la nostra risorsa d’acqua e di alcol e di fumo».

Cresciuto nella Palermo di Vito Ciancimino dominata dalle cosche, chiamato a Roma da Lotta continua, fu fondatore, direttore e firma nobile di testate iconoclaste della sinistra non comunista e radicaleggiante, da Il Male a Cuore, da Zut a Il clandestino, da Linus a Tango fino a Radio radicale, in compagnia di giornalisti, disegnatori e penne sulfuree come Sergio Saviane, Vauro Senesi, Andrea Pazienza, Pino Zac, Sergio Staino. Una cricca di dissacratori, idealisti esagerati, autori di fulminanti copertine con finte prime pagine dei quotidiani e titoli-beffa: «Arrestato Ugo Tognazzi: è il capo delle Brigate rosse»; «Anche Panatta ha i servizi deviati». Dotato del candore malizioso dei siciliani di alto lignaggio, di quell’etichetta s’era fatto un vanto, un pennacchio di libertà, irriverenza, irriducibilità, anticonformismo indomito. «Mi chiamavano dalla destra e dalla sinistra e non sapevano come etichettarmi», mi raccontò in un’intervista per questo giornale del 18 marzo scorso (qui). Quella targa era la patente di libertà anche dalle sue stesse convinzioni, grazie a quel candore che gli permetteva di cambiare idea e ricominciare, sempre irridente e affettuoso, come testimonia il recentissimo Mi chiamavano Togliatti. Autobiografia disegnata a dispense (Utet). E come non accade mai ai politici per i quali nutriva profonda diffidenza: «Li vedi nei talk show? Ripetono le solite cose, mai nessuno che si convinca di quello che dice l’altro».

La sua libertà lo era anche dalle militanze e dalla mitizzazione degli anni d’oro, i Settanta di Lotta continua, e gli permetteva di collaborare al Corriere della Sera dove, come a Vanity Fair, l’aveva chiamato Carlo Verdelli: un autore di satira che collabora con le testate dell’establishment? «Io nasco nell’establishment», mi aveva risposto senza fare una piega, «mio padre dirigeva i cantieri navali di Palermo».

Se n’è andato, con il suo candore acuminato e la sua burla malinconica.

La Verità, 22 agosto 2018