Mencarelli ci porta nella ribellione di un padre
Ci sono pochi autori che ti attraversano l’anima come Daniele Mencarelli. Forse c’è solo lui. Perché è questo che fa anche con l’ultimo romanzo, Fame d’aria (Mondadori), il quarto dopo la trilogia autobiografica composta da La casa degli sguardi, esordio pluripremiato e amato da pubblico e critica, Tutto chiede salvezza, Premio Strega giovani e ispirazione di una fortunata serie Netflix e, infine, Sempre tornare, Premio Flaiano. Da poeta qual è, Mencarelli parla al cuore, senza preamboli. Mette al centro il dramma della persona. Nei primi tre era sé stesso, alle prese con le dipendenze più devastanti, provocate dall’urgenza di un senso, dall’indomita ricerca della felicità, dall’insopportabilità del dolore degli altri. Senza patteggiamenti: niente basta a colmare il nostro desiderio, niente lenisce la solitudine del cuore in cerca di un perché.
In Fame d’aria il protagonista è Pietro, un padre cinquantenne che percorre l’Italia con suo figlio, Jacopo, affetto da una forma estrema di autismo. Esausta di chilometri la Golf sulla quale viaggiano si ribella e i due sono costretti a fermarsi per ripararla in un paesino del Molise. Il pezzo di ricambio arriverà solo lunedì e l’imprevista sosta nella locanda di Agata diviene obbligata. Nel borgo in via d’estinzione ci sono anche una farmacia e Oliviero, il meccanico in pensione che si occuperà della Golf. Infine, c’è Gaia, una ragazza tornata a casa per accudire la madre malata. Fine. Non c’è altro, non succede niente… Eppure, sarà una sosta fondamentale. A volte siamo costretti a fermarci. Per sedare, per riparare la nostra ribellione. Come si deve riparare un’auto che non vuole saperne di proseguire.
Nel vuoto assoluto di quel borgo Mencarelli fa accadere tutto. Jacopo non parla, emette sempre lo stesso lamento. Per qualsiasi cosa ha bisogno di Pietro. Vivono in simbiosi. Il padre lo lava, lo pulisce, lo veste, lo soccorre quando fugge sotto la pioggia. Ma è un padre esasperato. Che non si aspetta nulla. Che rifiuta la compassione e tronca le domande con una formula che spiega che suo figlio è affetto da autismo a basso funzionamento: «Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso». Pietro è carico di rabbia contro il mondo che non si accorge. Contro Dio che sembra non rispondere. L’ultima parola ce l’ha il dolore. La vita ne è intrisa. Intrisa di solitudine. A differenza della moglie, fisicamente distante, che è riuscita ad accettare quella situazione, lui continua a sbattere contro quel perché.
Ridotta all’osso, la storia di Fame d’aria è tutta qui, nella rabbia e nelle domande di Pietro. Nell’incapacità di una misura più grande. Nell’impossibilità della carità. Un padre si dibatte nel profondo e coltiva un progetto, cercando di nasconderlo, senza riuscirci. È una storia con qualcosa di recondito e di non detto che s’insinua tra le pieghe del dramma. Una storia che fa venire alla mente certe ribellioni bibliche, certi commoventi rifiuti del destino. Mencarelli non si perde in descrizioni. Scarnifica il racconto. Rende essenziali i dialoghi. In quel borgo destinato allo spopolamento, dove il progresso si è fermato e non s’intravede un futuro, simbolicamente anche l’unica chiesa è chiusa. Però lì, dove non succede niente, c’è comunque il cielo, contro il quale si alza la ribellione di Pietro. E ci sono delle persone semplici che la vedono e la raccolgono. Come sembra raccoglierla anche il cielo…