«Sono un Don Chisciotte che stronca gli intoccabili»
Leggere Stroncature di Davide Brullo è aprire uno scrigno di preziosi. In mezzo ai quali, certo, si confondono anche pietre fasulle. Ma sono poche. Definizioni fulminanti. Ritratti al vetriolo. Scudisciate lisergiche. Da Alessandro Baricco a Gianrico Carofiglio, da Roberto Saviano a Gianfranco Ravasi, nessuno è risparmiato. Leggere Brullo, poeta, scrittore, critico, firma delle pagine culturali del Giornale, residente a Riccione, è anche scoprire un mondo. Una concatenazione alternativa. Un sottosuolo di trame. Un ribollire critico. Innanzitutto Pangea, «rivista avventuriera di cultura e idee», da lui fondata nel 2017. Bengodi di controletture e irregolarità collegato con Intellettualedissidente.com, altro sito incandescente che si presenta «contro tutti, contro noi stessi». Infine c’è Gog, editrice che pubblica gli autori di questo emisfero. Come nel caso di Stroncature, il cui sottotitolo è: «il peggio della letteratura italiana (o quasi)». Alla fine del tour underground, ripartiamo dal via.
Davide Brullo è un Mowgli della letteratura, il personaggio di Kipling con cui si identifica perché sciolto da vincoli d’appartenenza e da timori reverenziali?
«Magari. Brullo è un verbo greco molto raro testimoniato nei Cavalieri di Aristofane. Bru bru è l’espressione dei bambini che chiedono da bere. Vengo dal mondo della poesia e questo verbo-cognome mi piace molto».
Come il protagonista del Libro della jungla lei è un cucciolo di scrittore che tira fendenti per difendersi dagli agguati della natura ostile?
«Mowgli è una figura mitica che non sta da nessuna parte. Caccia le bestie, ma non vuole stare nemmeno con gli uomini. Grazie a uno stratagemma sconfigge chi è più forte di lui e diventa il re della jungla, domando le forze ostili».
Ovvero i potentati dell’editoria?
«Sì. Anche gli scrittori che rifiutano il dialogo e preferiscono le querele anziché la disfida sulle pagine dei giornali. O i direttori che ti scaricano perché non vogliono difenderti in battaglie meramente culturali».
Per esempio?
«Per queste stroncature il direttore di Linkiesta Christian Rocca mi ha gentilmente scaricato».
Altra ipotesi da lei formulata: Brullo è «un dandy nonostante si creda un samurai»?
«Mi mancano sia il denaro che l’estro modaiolo dell’essere dandy. Che nello stile di queste stroncature ci siano snobismo ed elitismo è indubbio».
Perché scrive che stiamo vivendo nell’era del politicamente scorretto?
«Siamo massacrati dal politicamente corretto, ma bisogna distinguere. Della politica si può dire il peggio con violenza inaudita. Anzi, se non lo fai sei un cretino. In campo culturale lo stesso atteggiamento non è accettato. È come se tutto fosse avvolto in un grande profilattico di cristallo, non si può rompere le palle».
Cioè, «in Italia si può essere politicamente scorretti ma non culturalmente anarchici»?
«Esattamente. Siccome si ritiene che i lettori siano cretini, allora tutto è giustificato. Pubblichiamo un libro di Dario Franceschini, poi un giallo di Walter Veltroni… che male vuoi che faccia».
Francesco Permunian li chiama libroidi.
«Non solo quelli di politici e cantanti. Nell’acquiescenza diffusa anche scrittori ritenuti autorevoli continuano a produrre libroidi o mattoni».
La stroncatura è un genere da eroe solitario, da cavalier perdente?
«Per sua natura ha bisogno di un’individualità accesa, forse infuocata, certamente sconfitta. Di un debole che cerca di abbattere i titani. Dopodiché cosa c’è di più bello che incarnare don Chisciotte?».
È un genere che rimanda a duelli ottocenteschi.
«Anche del primo Novecento, quando nasce la terza pagina e subito se le scrivono di santa ragione. Giuseppe Ungaretti sfidava a duello chi non la pensava come lui. Al netto del narcisismo è una tempra da riscoprire. La scrittura nasce come lotta, come polemica, altrimenti è inutile».
Definisce Baricco una specie di «Vincenzo Mollica della letteratura» perché eccede in aggettivazioni. Però lo vedrebbe ministro della Cultura.
«Considerato che la politica è ridotta ad avanspettacolo devo ammettere che Totem era una bella trasmissione. Per altro Baricco è più fotogenico del ministro attuale».
Mi era parso di capire che il giovamento stesse nell’inevitabile rarefazione della sua produzione letteraria.
«Meglio un romanzo di Baricco che un saggio di Franceschini. Anche se Baricco mi ha sempre dato l’idea di uno che attraverso la letteratura voglia raggiungere un trono e poco gli importi della letteratura in sé stessa».
Sulle Consapevolezze ultime di Aldo Busi osserva che non basta scrivere un tango di subordinate per pagine e pagine per ritenersi pari «al sub-dio», anagramma dello stesso. Ce ne fossero di Busi…
«Le stroncature hanno diverse gradazioni. Un conto è stroncare Eugenio Scalfari e Baricco, un altro un grande scrittore come Busi. Il quale, in quel libro, piscia fuori dal vaso. Per restare nella metafora, altre sue stronzate sono molto più belle».
In Conversazione con Tiresia Andrea Camilleri cita «un Montalbano qualsiasi» e sottolinea di esser «stato regista teatrale, televisivo, radiofonico…». Non si può concedere un briciolo di vanagloria a un novantenne?
«La letteratura è spietata: Goethe ha dato il meglio dopo gli Ottanta».
È troppo spietato quando scrive che Gianrico Carofiglio vorrebbe essere un autore alla Michael Mann, ma le sue storie si avvicinano al Maresciallo Rocca?
«Dei giallisti italiani non se ne può più. Se penso che dall’altra parte dell’oceano c’è un “cane demoniaco della letteratura poliziesca” come James Ellroy… I nostri giallisti sembrano giocare con i lettori, piuttosto che affondare il pugnale nella storia italiana. Basterebbe studiare Alessandro Manzoni: con Storia della colonna infame ha inventato il genere giudiziario».
In che senso Elena Ferrante è «l’emblema della banalità del bene»?
«La cosa grave è che sia l’indegna rappresentante della letteratura italiana nel mondo soprattutto anglofono. Una letteratura che si riassume in Sud Italia, storia di una famiglia, scritta banalmente bene».
È massimalismo scrivere che «c’è più sapienza in una canzone qualsiasi dei Thegiornalisti che in una pagina qualunque di Paolo Giordano»?
«Divorare il cielo è il romanzo di uno che con il primo libro è candidato a essere uno dei grandi scrittori italiani. Invece scrive una sciocchezza inaudita, nella quale non c’è rischio né nella costruzione del romanzo né in ciò che viene romanzato».
Voleva scrivere la Pastorale italiana.
«Ma o sei Philip Roth o scrivi il Doctor Faustus. Altrimenti diventi il commentatore del coronavirus in Italia».
Scrive che il lettore di M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati a pagina 300 si dice: me ne mancano altre 500 e non ho ancora scoperto nulla di nuovo. Invidia il successo di Scurati?
«Il successo è l’unica cosa di cui sono contento per Scurati. Quanto al resto non trovo nulla di invidiabile perché è stato totalmente vampirizzato dal tema, di fronte al quale ci sarebbe voluto il talento di Curzio Malaparte. È un’ottima idea tuffarsi nel periodo più tragico e folgorante del Novecento italiano. Ma al lettore resta l’impressione di una sfida perduta e tragicamente banalizzata».
Umberto Galimberti «è un fatale chiosatore di cliché», in realtà è considerato una philostar.
«Mi piace di più l’insegnamento di Eraclito che scelse di allontanarsi dai cittadini di Efeso e giocare con i bambini all’ombra del tempio di Artemide. Per poi ritirarsi definitivamente nei boschi».
Definisce il presidente del Pontificio consiglio della Cultura Gianfranco Ravasi «l’Arci-arcivescovo». Il suo Breviario dei nostri giorni soffre di «bulimia citatoria» inclinata dalla parte delle mode.
«Di fronte a un tema di capitale importanza, Dio, Ravasi mi appare un impresario della cultura enciclopedica. Prediligo figure marginali ed eroiche come Sergio Quinzio. E consiglio la lettura del Quinto evangelio di Mario Pomilio».
Che effetto le fa Francesco sulla copertina di Vanity Fair?
«Preferisco il Beato angelico che dipinge nelle celle nascoste dei monaci, certo di avere come unico spettatore Dio e nessun’altro».
In risposta a L’ora del blu, raccolta di poesie di Eugenio Scalfari, propone la lettera di rifiuto che Einaudi avrebbe dovuto scrivere per evitargli «l’effetto stridente da pittore della domenica che si creda Cézanne».
«Se il romanzo è spietato la poesia non perdona. Mi ha sempre incuriosito come uomini di successo, potenti, capi d’azienda, prima o poi sentano la necessità di pubblicare le loro poesie, benché grottesche».
Roberto Saviano non è un giornalista né un romanziere, ma ha solo creato il genere «pummarola western». Se il paragone è con Fedor Dostoevskij si salvano in pochi…
«Chiunque scriva si mette al confronto con alti ideali. Dopodiché non è vero che la letteratura italiana non ha grandi scrittori. Li ha, ma studiano al posto di andare in tv».
Il sottotitolo del libro è «Il peggio della letteratura italiana (o quasi)». Cosa c’è in quel quasi?
«Il libro è una selezione delle stroncature che ho scritto. L’ipotesi iniziale era un’antologia di 500 pagine. Per fortuna ridotta».
Che spazio c’è oltre la nebbia avvolgente del pensiero unico?
«Ci sono moltissime isole di resistenza. Piccole zattere dove alcuni corsari leggono libri insoliti e fanno risorgere dall’oblio autori dimenticati».
Da che cosa è nata Pangea?
«Innanzitutto dall’esigenza molto terrena di continuare a sopravvivere con il giornalismo dopo il fallimento della Voce di Romagna, il quotidiano nel quale lavoravo. In secondo luogo, dalla mia passione di raccontare storie, leggere e commentare libri che mi paiono indispensabili».
Perché ha tradotto i Salmi e il Libro della Sapienza?
«Perché mi sono laureato in Letteratura cristiana antica e sono affascinato dalla Bibbia, che mi pare il libro fondamentale della nostra tradizione letteraria».
L’ultimo suo articolo è su Clemente Rebora: nell’epoca dei selfie qual è l’attualità di un poeta che teorizzava il suo stesso annullamento?
«L’attualità di Rebora sta proprio nella sua assoluta inattualità. Uno che nel 1930 decide di incenerire sé stesso per la ricerca di qualcosa di più grande».
In chiusura le chiedo di farsi violenza elogiando qualche scrittore.
«Filippo Tuena e Gian Ruggero Manzoni sono due romanzieri straordinari e poco considerati rispetto al loro valore. Tra i poeti, che vanno scovati nelle miniere della nostra letteratura, cito Francesca Serragnoli e Alessandro Celi».
Servono riflettori potenti?
«E un desiderio folle per avventurarsi nel sottosuolo».
La Verità, 9 gennaio 2021