«Tutto ciò che ho imparato dall’Amica geniale»

Schivo, quasi ombroso, asciutto nelle risposte. Zero concessioni alle curiosità su vicende private. Zero esternazioni su temi politici ai quali sono avvezzi molti cineasti, suoi colleghi. Saverio Costanzo ha 43 anni, due figlie dal primo matrimonio con Sabrina Nobile e una filmografia di tutto rispetto (Private, In memoria di me, La solitudine dei numeri primi, Hungry Hearts). La sua immagine pubblica si condensa nel suo cinema e nel rapporto con il pubblico che ne deriva. La sua compagna è l’attrice Alba Rohrwacher, delicata voce narrante dell’Amica geniale, la serie evento tratta dalla tetralogia di Elena Ferrante e prodotta da Fandango, Wildside e Hbo per Raifiction e TimVision che da martedì sarà su Rai 1 (su TimVision e online su RaiPlay). Al centro della storia c’è l’amicizia speciale tra Lila Cerullo (Ludovica Nasti e Gaia Girace) e Elena Greco (Elisa Del Genio e Margherita Mazzucco) che, dal rione Luzzati della Napoli dei Cinquanta, le spinge a emanciparsi dall’ignoranza, dalla misoginia e dalla povertà. Figura propulsiva di questa parabola è la maestra Oliviero (Dora Romano), capace d’infondere fiducia e autostima, convincendo le ragazze a studiare e coltivare la passione per la lettura. Una storia semplice, ma epica e carica di energia, che è diventata un successo mondiale e alla cui regia Costanzo si è accostato con umiltà, dedizione e sensibilità artigianale. I primi episodi trasmessi da Hbo hanno raccolto grandi consensi dalla critica americana. Time ha inserito L’amica geniale tra le dieci serie consigliate.

L’attesa è finita, che cosa si aspetta dal debutto televisivo?

«Niente. Il nostro lavoro l’abbiamo fatto, d’ora in poi quello che accade non è nelle nostre mani».

Dopo La solitudine dei numeri primi si era ripromesso di non cimentarsi più con un best seller.

«Confrontarsi con un universo simbolico già conosciuto e apprezzato dal grande pubblico implica paragoni impegnativi. Dopo il romanzo di Paolo Giordano ho diretto Hungry Hearts tratto da Il bambino indaco che, rimanendo un’opera di nicchia consentiva una trasposizione abbastanza libera».

Che cosa l’ha convinto a tornare a occuparsi di un’opera molto popolare?

«La storia di Ferrante. Sarebbe stato sbagliato rinunciare alla possibilità di misurarsi con personaggi così ben architettati e profondi, incastonati in una storia così originale».

Come definirebbe il rapporto tra le due protagoniste?

«Molto speciale, ma anche molto comune come sono i rapporti di amicizia. Credo che il successo clamoroso della tetralogia sia dovuto alla capacità del lettore d’identificarsi con le dinamiche interne dei personaggi. Quando accade una cosa del genere è perché c’è una forte aderenza psicologica ai protagonisti della storia».

In che misura secondo lei è autobiografica?

«Il racconto di Ferrante si svolge in un flusso di coscienza. È un lungo monologo interiore che ha una forma autobiografica».

È nata qui l’idea della voce narrante?

«È nata anche qui, ma è stata soprattutto una scelta istintiva. La prima volta che mi sono trovato davanti al libro ho subito immaginato una voce narrante. Essendo però stata una decisione istintiva non saprei dire quali siano le motivazioni concrete».

Che cosa è stato più difficile nella riduzione di un’opera così acclamata?

«La cosa più difficile è stata restituire la densità letteraria del testo. Il cinema inevitabilmente semplifica ciò che la letteratura rende più complesso. Sono linguaggi diversi. Accorpare o cambiare l’ordine degli eventi può portare a rendere meno denso o ad appiattire il racconto. La difficoltà maggiore è creare sempre una tensione drammaturgica, un’energia che riempia lo spazio scenico e i dialoghi tra gli attori».

Invece, che cos’è stato facile?

«Nel cinema non c’è niente di facile. Il bello è stato poter vivere in questo universo femminile per tanto tempo».

Si pensa debbano essere le donne a raccontare storie femminili.

«Nell’arte non ci sono le pari opportunità come in politica. È un terreno nel quale non riesco a pensare in termini di maschile e femminile. Mi piace Virginia Woolf come Fëdor Dostoevskij. Un romanzo così non sarei stato in grado di scriverlo, ma da lettore lo capisco benissimo. Essere profondamente maschio non mi impedisce di avventurarmi dentro una storia femminile, non sarei una persona compiuta. Sono stato educato da femmine a volte anche invadenti, mi sento a mio agio più con le eroine che con gli eroi».

Come avete individuato le interpreti nelle varie età?

«Con un casting circoscritto alla Campania e ai dintorni di Napoli. È un po’ come una pesca, si getta la rete e si raccolgono incontri, persone, facce. Tirata la rete, si cerca di conoscere meglio queste persone e di immaginarle nel racconto».

Il fatto di essere padre l’ha aiutata a lavorare con attrici bambine?

«Mi ha aiutato nella pazienza».

Come si è svolto il rapporto con Elena Ferrante?

«È stato come un dialogo con una persona che sta a Shangai e Skipe non funziona. Un rapporto epistolare, ottocentesco, nel quale ci diamo del lei. Quando ho iniziato a occuparmi della serie avevo già letto i primi tre libri. Avevo provato a prendere i diritti di La figlia oscura, un suo libro precedente».

La collaborazione alla sceneggiatura come si è sviluppata?

«Avevamo scelto di disturbarla il meno possibile, il 95% del lavoro l’aveva già fatto. Quando c’è stata la necessità di coinvolgerla ha dimostrato un profondo senso del cinema e della scena. Non è mai stata difensiva o possessiva della sua storia. Sospetto desiderasse una trasposizione più infedele».

Pubblicherete il carteggio?

«Ci penseremo, le sue note sono molto interessanti le mie molto meno».

Di questa storia le è piaciuta la passione per l’umano e per la vita?

«Sì, certo. Leggendo mi sentivo come un bambino sulla montagna russa. A volte ho anche avuto paura a girare pagina. C’è qualcosa di miracoloso quando s’instaura un rapporto così fisico con la narrazione».

Perché è una storia così apprezzata?

«Per la sua universalità. Se si intercetta davvero un personaggio raccontandone i movimenti interiori il pubblico si riconosce, essendo l’umanità uguale. Nel profondo, siamo tutti la stessa cosa».

Quanto concorre al successo dei romanzi l’inafferrabilità della sua autrice?

«Secondo me per niente. Le speculazioni sull’identità non hanno avuto molto seguito. Non si leggono duemila pagine per la curiosità sull’autrice».

State lavorando già sulla seconda stagione?

«Con lo stesso team: Francesco Piccolo e Laura Paolucci».

In una recente intervista suo padre ha detto che rivede in lei il suo dna…

«Non parlo di mio padre, per scelta personale. Credo che certi rapporti vadano preservati, è una questione di rispetto per il lettore».

Parlando della maestra, decisiva nell’infanzia di Lila e Lenù, ha definito L’amica geniale un’opera anche politica.

«Quando abbiamo messo in scena la maestra Oliviero ho capito che l’ostinazione di questa donna diventava sentimentale. Guardandola con l’occhio di oggi mi accorgevo che non abbiamo più persone come lei. Avvertire cosa significa la passione di un’educatrice che forma le persone di domani è un fatto politico».

Perché secondo lei oggi non ci sono figure autorevoli come quella maestra?

«Per rispondere servirebbe un’analisi sociologica. Ho 43 anni e non conosco un mondo diverso da questo. Bisognerebbe chiederlo agli anziani».

Quando ha capito che il cinema e la regia erano la sua strada?

«Ho studiato sociologia perché volevo fare l’etnografo. M’interessavano i piccoli gruppi sociali, le piccole realtà. Quando nacquero le tecnologie leggere, anziché con il taccuino ho pensato di documentare le situazioni con una piccola telecamera. Ho cominciato a girare dei documentari. Sono stato un anno in un caffè italo americano di Brooklyn, poi in un reparto di terapia intensiva al Policlinico Umberto I traendone documentari di 15 o 20 ore per Internet. Gianluca Nicoletti acquistò Caffè Milleluci per Rai.it. Nella Striscia di Gaza capitai a casa di un signore che abitava con i soldati israeliani sul tetto. Quando gli proposi di realizzare un documentario, lui suggerì di fare un film perché un documentario poteva essere pericoloso. Ne nacque Private, il mio film d’esordio».

C’è qualcosa, una lettura, un viaggio, un incontro decisivo nella sua formazione?

«Un viaggio di tre mesi in India con due amici. Era il 1997, fu uno di quei momenti in cui ti rendi conto di ciò che ti manca per diventare quello che vuoi essere».

Cos’era?

«Avevo 21 anni, per la prima volta ho capito quanto contava la mia curiosità, che poi mi ha permesso di diventare ciò che desideravo».

Il suo cinema è molto attento all’animo umano. Che punti di riferimento ha?

«Il cinema mi sorprende sempre. Mi piacciono da Quentin Tarantino a Ingmar Bergman, da Federico Fellini a Stanley Kubrick, da Yasujiro Ozu a Woody Allen. Quando sei giovane, per formarti, cerchi di essere qualcun altro. Poi rifletti e a un certo punto ti rendi conto che quello che fai somiglia solo a te. E che lo devi accettare, nel bene e nel male».

Che rapporto ha con la politica?

«La seguo molto. Mi appassiono, ma non sono una persona che tende a schierarsi».

A differenza di molti suoi colleghi che prendono posizione pubblicamente.

«Io lo faccio con il lavoro, rivolgendomi al pubblico. Inoltre, tendo a cambiare idea. Affermare qualcosa vorrebbe dire che ho le idee chiare, mentre non è così».

Che cos’è per lei l’amicizia?

«Una grande ricchezza, ma anche un grande fardello. Perché un amico ti ricorda spesso quello che sei e che magari vorresti dimenticare».

 

La Verità, 25 novembre 2018