Elisabetta Sgarbi: «Vi svelo chi era mio padre»
Le prime persone che mi hanno parlato della casa di Ro Ferrarese sono state Roberta Mazzoni e Susanna Tamaro: «Un posto pieno di fame di vita». Avevano ragione. Su un’ala c’è la farmacia, con il via vai dei clienti. Il resto è l’abitazione degli Sgarbi. Ovvero il museo traboccante delle opere acquistate da Vittorio e dalla madre Caterina, Rina Cavallini. Quando ci andai, qualche anno fa, oltre a tutto il resto, mi colpirono alcuni articoli di giornale appiccicati sulle porte tra la grande cucina, il salone e la camera dove riposava Giuseppe «Nino» Sgarbi. Ora rileggiamo e rivediamo la saga di questa famiglia in Lei mi parla ancora (libro della Nave di Teseo e film di Pupi Avati, su Sky cinema). La parola chiave è commozione, moto comune.
La pubblicazione della tetralogia di suo padre è un atto d’amore?
Anche. Mio padre è uno scrittore, ha avuto riconoscimenti e recensioni straordinarie, ha venduto. Ora c’è un film di Pupi Avati tratto dai suoi libri.
Perché lo fa solo ora con la sua casa editrice, mentre prima i diversi mémoire sono usciti da un’altra etichetta?
Quando mio padre ha iniziato a scrivere volevo che facesse la sua strada. L’ho affidato a Marco Vigevani, un agente letterario importante. Alcuni editori hanno rifiutato i suoi libri, Massimo Vitta Zelman e Eileen Romano ci hanno creduto. Lui mi chiedeva, pensieroso, ma perché non mi pubblichi tu? Io gli spiegavo che lo facevo per lui. Quando è nata La nave di Teseo, ha seguito ogni passo con trepidazione ed entusiasmo. Mi ha detto che avrebbe voluto che i suoi libri fossero pubblicati da una casa editrice che aveva visto nascere. Era orgoglioso di sua figlia. Così, dopo che anche i lettori e la critica hanno decretato il suo valore, ho deciso di chiedere una licenza a Skira per la pubblicazione.
Quando scoprì che Nino era uno scrigno capiente di tesori?
È sempre stato un grande lettore. Ha collezionato tutti i volumi della mitica Bur, determinando la formazione letteraria mia e di mio fratello. Nei suoi silenzi si intuiva profondità. E quando raccontava aveva un vero piglio narrativo.
Il motore di famiglia era di più sua madre, in combutta con Vittorio. Come si è accorta di questa ricchezza appartata?
Ho scoperto col tempo quanto avrebbe dovuto essere chiaro dall’inizio. C’era un tacito accordo, forse inconsapevole, tra i miei genitori: la Rina poteva essere un vulcano in continua effervescenza, ma sapeva di poggiare su Nino. Nino poteva attraversare i suoi silenzi, ma amava sentire le voci alte di mio fratello e mia madre. Certo che mia madre e mio fratello hanno imperversato: ci vuole del genio e della follia per trasformare una casa di campagna in un museo pieno di opere meravigliose. E ci vuole un carattere per tenere insieme tanta follia. Mio padre ha dimostrato di averlo. Non ha mai dato segni di cedimento. Ci guardava un po’ dall’alto di una sua saggezza imperscrutabile. Era come se tenesse le briglie di qualcosa che tendeva a sfuggire continuamente e in tutte le direzioni. L’ago della bilancia, insomma.
Nella postfazione a Lungo l’argine del tempo a un certo punto conclude: «Mio padre è uno scrittore». È stato difficile non far prevalere l’istinto di figlia su quello dell’editrice?
Non è facile dividere questi due aspetti, ma ho cercato di seguire le opere di mio padre da editore oltre che da figlia. In fondo, anche la costruzione del film – di cui lei è stato artefice primo con il suo suggerimento a Pupi di leggere Lei mi parla ancora – ha richiesto pazienza, lavoro, tenacia e professionalità. Anche nel racconto cinematografico della figlia editrice. Bravissima Chiara Caselli, durissima e fragilissima allo stesso tempo.
Dopo la morte della Rina, si sa della vostra abitudine di recarvi al cimitero a leggere e pregare insieme. Devozione o autocompiacimento familistico?
È un fatto intimo, che mio fratello ha raccontato, per dire dell’amore che provo verso i nostri genitori. Odio gli autocompiacimenti ed è materia troppo dolorosa per parlarne in questi termini. Sono consapevole che i miei genitori possono essere ovunque e certamente non là, dove sono le loro lapidi. Ma il dolore, come la memoria, ha bisogno di spazi fisici, di volti definiti, perché possa essere vissuto. Altrimenti è angoscia. Pensando a loro, semmai provo nostalgia. La domenica leggo «loro» i pezzi di mio fratello, come loro hanno sempre fatto. È un modo per immaginare che mi siano vicini. Inoltre, nella scrittura mio fratello dà la parte migliore di sé e, leggendolo, mi sembra di avere anche lui più vicino.
È vero che lei e Vittorio vi siete commossi vedendo il film di Pupi Avati?
Lo abbiamo visto in luoghi e tempi diversi. Non so se Vittorio si è commosso, ma giurerei di sì. A me è capitato vedendo girare alcune scene che non avrei voluto rivivere. Avrei voluto rivedere invece più volte quella, bellissima, in cui i miei genitori, interpretati da Isabella Ragonese e Lino Musella, ballano in una splendida balera della bassa, in mezzo a tante coppie come loro fino a rimanere soli al centro della pista, perché il loro amore è più forte di ogni altro. Una scena meravigliosa che mi torna sempre in mente.
Avati si rammarica di non essere riuscito a mantenere quella in cui, dal cimitero, suo padre le telefona per recitare insieme il Padre nostro.
Lui andava quasi tutte le mattine al cimitero con Gino (il custode di Ro ndr). Io lo chiamavo più volte per avere notizie. E pensavo che quando si trovava lì, di fronte alla Rina con cui continuava a parlare, gli facesse piacere sentire la voce di sua figlia. Così lui diceva un Padre nostro e io, a Milano, in casa editrice, interrompevo quello che stavo facendo, per ascoltarlo e magari mi univo alla sua preghiera. Era bello strappare un minuto alla frenesia quotidiana per stare con lui.
La vostra è la saga di una famiglia di farmacisti famelica di vita, di arte, di passioni?
Mio padre e mia madre sono venuti a vivere a Ro per mettere in piedi una farmacia in una casa di campagna, in un remoto paese sotto l’argine. Pensare a quello che ha fatto Vittorio, partendo di qua, e al mio percorso, mi fa dire che i nostri genitori sono stati bravi.
Anche suo padre era famelico o una certa lentezza gli ha fatto assaporare di più le sfumature della vita?
Mio padre non perdeva un intervento di mio fratello in televisione o un suo articolo. E ogni volta diceva, compiaciuto: «Che testa». Nino era silenzioso, amava la calma del fiume, ma era appassionato non meno di mia madre.
C’è anche un eccesso di familismo nelle vostre attività?
Sono termini che non trovo corretti. Non lo considero familismo: del valore di mio padre ho detto; quello che faccio con mio fratello, dai libri, alle mostre, lo faccio perché ha un’intelligenza e una sensibilità uniche. Diversamente, non lo farei. Eccesso è, credo, una forma di generosità.
Che vita fa per tenere insieme la casa di Ro, la Fondazione, l’editrice, il cinema, la Milanesiana, gli Extraliscio?
Ora sono anche presidente dei Sacri Monti, un complesso meraviglioso che meriterebbe un’intervista a parte. C’è quella canzone di George Moustaki: «Abbiamo tutta la vita per divertirci, abbiamo la morte per riposarci». Amo l’impegno. Attraverso l’impegno trovo sempre nuova energia. Erano così anche i miei genitori.
Come si gestiscono tante cose durante la pandemia?
Mettendola tra parentesi. Lavoro come se la pandemia non ci fosse. Non è mio compito trovare una soluzione. È mio compito portare avanti le cose nonostante lei anche in un percorso ad ostacoli o controvento. In questo caso il vento è una lentezza aggiunta alle cose.
Ha paura?
Sì. Su questo io e Vittorio non andiamo d’accordo e a volte litighiamo. Ho perso amici a causa del Covid e ho paura di prenderlo. La paura va rispettata. Le critiche per la gestione dell’epidemia sono un’altra faccenda, su quello possiamo anche incontrarci. E poi ho paura in generale. Per fare le cose che faccio devo sfoderare molto coraggio. «La paura» è stato il tema del primo numero di Panta, la rivista che fondai con Pier Vittorio Tondelli. Mi piacerebbe fare un numero di Pantagruel, rivista monografica della Nave di Teseo, intitolato La Paura parte seconda.
C’è qualcosa di cui si pente come editrice?
No. Soprattutto non mi pento di quelli che altri considerano errori. Certe scelte sono più felici, ma credo anche in quelle che sembrano meno riuscite. A volte proprio da queste ho avuto più soddisfazioni.
Di aver perso qualche scrittore o scrittrice importante?
Sono più orgogliosa degli scrittori che pubblico.
Perché il suo account su Twitter e la sua etichetta musicale si chiamano Betty Wrong?
Perché è Elisabetta sbagliata, una libera traduzione di Elisabetta Sgarbi. Non uno pseudonimo: mi piaceva l’idea di una Elisabetta sbagliata, che prendeva una strada diversa, come la musica o il cinema. Che poi però è la strada giusta, forse. Sto pensando di modificarla in Betty Extra Wrong, in onore degli Extraliscio che, con questa etichetta, saranno a Sanremo. Mi capisce?
Panorama, 10 febbraio 2021