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Piero non vuol essere un mattone nel muro della tv

È un altro Piero Chiambretti. Tutto un altro, rispetto a quello cui siamo abituati, colui che conduce La tv dei 100 e uno (Canale 5, mercoledì, ore 21,44, share del 12,6% per 1,7 milioni di telespettatori). Del resto, si cambia nel corso della vita. Si evolve, soprattutto se si attraversano situazioni particolarmente complicate, come gli è capitato. A 66 anni, Chiambretti non è più quello del Portalettere o Il laureato, ma nemmeno quello di CR4 – La Repubblica delle donne, dove ha reinventato Iva Zanicchi, Barbara Alberti e Alda D’Eusanio, sdoganato Drusilla Foer e consolidato pure Cristiano Malgioglio (che poi è iconograficamente degenerato). Allora le accuse di trash tv si sprecavano e lui le cavalcava sempre con la sua verve, scanzonata e abrasiva ad un tempo.

Oggi, con la solita squadra di autori interamente confermata (da Romano Frassa a Tiberio Fusco), ha voglia di nuova televisione e lo show imperniato sui bambini è un desiderio che coltivava da tempo. I precedenti non mancano, da Chi ha incastrato Peter Pan a Bravo, bravissimo! fino al recente The Voice Kids, che però è un talent. E neppure mancano i rischi di scadere nel manierismo del genere. Chiambretti riesce in gran parte a evitarli, forte del suo proverbiale registro pierinesco. Non ci sono paternalismo, buonismo e consolazioni varie nel relazionarsi ai kids, ma proprio l’autoironia permette di entrare con profitto nel mondo dei 100 talentuosi che fanno lo show. Il quale è diviso in vari segmenti («I grandi temi dell’umanità», «Il club delle mamme»…), introdotti da citazioni letterarie sul tema perché, alla fine, dev’essere visto anche dal pubblico adulto. L’altra idea è centrifugare l’impertinenza dei piccoli fans con gli adulti, convocati in qualità di maestri della loro materia (Vittorio Sgarbi ha illustrato la storia della Gioconda). Ma anche chiamati a rispondere e difendersi dalle curiosità del parterre. Così, a Sgarbi viene chiesto perché perde spesso la pazienza e si arrabbia. O a Elettra Lamborghini se ha paura d’invecchiare. Domande autoriali, certamente. Niente aiuti in soccorso, invece, nelle brevi esibizioni al pianoforte (un bambino di 5 anni non riesce a indovinare un paio di opere dalle prime note), nella danza, nell’interpretazione di La vie en rose o della sigla iniziale (Another breaking in the wall) eseguita alla chitarra. Giusto per dire che anche questi ragazzini non vogliono essere un altro mattoncino dell’omologazione. Un po’ come prova a fare in punta di piedi questo show, nel muro piuttosto uniforme dei palinsesti tv.

 

La Verità, 24 marzo 2023

«Il suicidio di mio padre mi ha trasformato in filosofo»

Concerti, dischi, whatsapp con il premier Giorgia Meloni, apparizioni tv con vista sul ministero della Cultura… Tra cento cose che fa, Marco Castoldi, in arte Morgan, è riuscito a scrivere anche un libro di poesie: Parole d’aMorgan (Baldini+Castoldi). Per Vittorio Sgarbi è addirittura «il Carmelo bene di oggi». Intervistarlo vuol dire disporsi a qualche acrobazia. Ma ne vale la pena.

Si sente davvero il nuovo Carmelo Bene?

«Il paragone è oltremodo lusinghiero perché Carmelo Bene è l’ultima vera grande rockstar italiana. L’ultimo grande intellettuale dissidente, non allineato, antisistema. Un tesoro incompreso, se non da una ristretta cerchia. Oggi non è neanche pensabile un nuovo Carmelo Bene. Io sono molto meno controverso e trasgressivo, molto meno fuori di testa. Sgarbi fa questo paragone per scuotere il conformismo di questa Italia pavida. Per far capire che ci vogliono coraggio e audacia».

A lei non mancano. Ha appena pubblicato un altro libro di poesia: i cantautori sono poeti?

«No, assolutamente. La canzone e la poesia sono diverse in tutto. Il cantautore ha per la parola lo stesso interesse che ha per la musica. Oggi la canzone è ovunque, in ogni momento. Questo vuol dire che chi fa canzoni è il panettiere dell’anima perché il nutrimento che dà è come quello che il pane dà al corpo. Il poeta è più puro, non è mondano, non si mescola, si isola. Invece il cantautore è il medium tra generazioni ed epoche diverse. Per lui le folle scendono ancora in piazza: non lo fanno per la politica, ma per i concerti».

Quando ha capito di essere un poeta?

«Non l’ho capito. Non dico di me di essere un poeta perché è una parola troppo bella, devono dirlo gli altri. Sono uno che scrive, un compositore di parole, un verbale. Se lei dice che sono un poeta… lo dice lei».

I versi che leggiamo in Parole d’aMorgan riposavano in qualche cassetto o sono stati scritti apposta?

«Sono versi vivi, attuali, alcuni infilati all’ultimo momento. In quella storia, c’è dentro la mia vita, la vita del mio cuore e della mia mente».

Versi composti per l’occasione?

«No, perché non scrivo su commissione. Questo lo fa chi programma l’uscita di un disco, o di un libro, a priori, non quando ci sono le canzoni pronte, non quando si ha qualcosa da dire. Così escono un sacco di dischi senza che se ne avverta una reale urgenza. L’arte va coniugata con la spontaneità».

E con l’ispirazione?

«Per quanto mi riguarda, sono sempre ispirato. Da Franco Battiato in poi, uno dei miei tanti padri, l’ispirazione è la nostra vita. Se sei così riesci a trasformare l’arte in un lavoro. Ti alzi al mattino e vai allo strumento. Nella quotidianità c’è l’ispirazione. Ovviamente, va allenata…».

Cosa vuol dire, come scrive: «Il mio amore è volontario»?

«Ci sono due tipi di sentimenti che chiamiamo amore: il desiderio e l’edificazione longeva di un rapporto. Il desiderio prima o poi cala, ma si è capaci di amare se si vive di amore volontario. Quello che si ha per i figli, o per noi stessi e per le promesse che abbiamo fatto. L’amore volontario è anche compatibile con la possibilità di innamorarsi di nuovo perché l’innamoramento non è l’amore. “Il mio amore è volontario” significa che può esser vissuto anche come scelta dopo che l’innamoramento ha fatto il suo corso».

Insomma, il «per sempre» è morto.

«Per me, nel tradimento ciò che distrugge davvero è la menzogna, non il rapporto sessuale extraconiugale. Che invece è tollerabile se non è accompagnato dalla menzogna».

Mmmh, non sono convintissimo.

«Una volta esaurito il tempo dell’innamoramento e del desiderio, alcune persone si eccitano nella fantasia immaginando il proprio partner con un’altra persona. Questo fa sublimare anche la gelosia, altro elemento distruttivo. Concordo: l’amore come scelta volontaria è indistruttibile. È questo il per sempre che dice lei. Personalmente, mi sono trovato spesso con donne che non sono state in grado di rinunciare ai loro cambiamenti d’umore: “La donna è mobile qual piuma al vento”».

Cosa vuol dire che il senso della vita è «somigliare alla morte»?

«Intendo la compresenza, in vita, della morte nelle sue diverse declinazioni. La morte della passione, di un sogno… La distruzione della mia casa-laboratorio è stata una morte. Anche dall’abbandono si possono trovare energie. In vita si vivono tante morti e si può uscirne rafforzati. Ci sono morti che generano vita. Il letame non piace, però genera vita».

La sua è una poesia nichilista?

«No. È una poesia grafo-linguistica, innanzitutto».

Cosa vuol dire?

«Che è una poesia che si legge e si guarda, anche. E non può essere nichilista perché afferma la vita».

In quello che fa s’intuisce fame di vita.

«Sento di morire di vita».

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi sono dei tutor, degli agenti, degli amici?

«Sono un fortunato accadimento della storia. La famiglia Sgarbi è un seme prolifico, una zona fertile della società, una meravigliosa conoscenza che è diventata amicizia. La prima è stata Elisabetta, presentata da Franco Battiato non certo come donna di potere. Era un’editor di Bompiani per la quale avevo pubblicato Dissoluzione, il primo libro di poesie. Vittorio lo conobbi perché venne a presentarlo, non sapeva chi fossero i Bluvertigo».

È una sorta di nuovo padre come lo è stato Franco Battiato?

«Ho avuto molti padri perché ho perso quello biologico da adolescente, quando se ne ha più bisogno e ti insegna a stare nel mondo. Sì, Sgarbi è una figura paterna, come Battiato. E parecchi altri, da Adriano Celentano che nel 2010, dopo che mi avevano escluso dal Festival di Sanremo, m’invitò a vederlo a casa sua. E qualche anno fa si è commosso quando andai ospite di Adrian su Canale 5 e gli dedicai Conto su di te, un brano che mi cantava mio padre. Poi Mauro Pagani, il primo di tutti, Franco Mussida, Massimo Ranieri, Sergio Staino del premio Tenco, Dominique degli Esposti, grandissimo genio figurativo… Tutta gente di 20 o 30 anni più vecchia di me. Tutti miei padri putativi».

Quello vero?

«Aveva difficoltà economiche che non voleva rivelare alla famiglia per non ammettere che non ce l’aveva fatta. Era pieno di debiti e non ha più retto questa maschera. Che però, con me, aveva già tolto. Io suonavo nei piano bar per guadagnarmi qualche lira e così gli davo del denaro che fingeva di aver guadagnato lui. Avevamo questa complicità segreta. Finché una notte mi ha infilato un centomila in un tubo dei negativi delle foto: “Ti restituisco quello che posso. Così non potrai dire che non ti ho reso quello che mi hai dato”. Il giorno dopo si è tolto la vita».

Cosa fa un ragazzo a 15 anni quando il padre si ammazza?

«Diventa un filosofo, perché nella sua testa cresce la domanda che si fanno i filosofi: perché, che senso ha tutto? I filosofi domandano, i teologi ascoltano. La mia filosofia, le mie domande, nascono nello scontro con il padre, che è l’istituzione, la regola, la giustizia, la patria. Se chi ti segna e ti precede implode attraverso un atto come il suicidio, tutto il sistema entra in discussione».

E quindi?

«Ho iniziato a coltivare la conoscenza insieme al bisogno di mantenere la famiglia. Ho fatto di necessità virtù, ho cercato di guadagnarmi il pane con il mio talento. Già a sei anni avevo iniziato ad abbozzare delle canzoni, quasi prima di imparare a scrivere. Al liceo andavo nei locali e tornavo al mattino per andare a dormire sul banco. Poi ho cominciato a coinvolgere i miei amici e a costruire le band, gli mettevo in mano gli strumenti: tu suoni la chitarra, tu la batteria… siamo una band. Al liceo mi hanno bocciato, ma ho venduto per strada i primi finti album, cassette amatoriali. Una è finita in mano a un produttore e a 16 anni ho avuto il primo contratto con una major discografica».

Che fine ha fatto l’idea di collaborare con il ministero della Cultura?

«A giudicare da quello che succede nella chat creata da Sgarbi, la gente vorrebbe il mio coinvolgimento».

Però il ministro Gennaro Sangiuliano ha nominato come suo personale consigliere per la musica il direttore d’orchestra Beatrice Venezi.

«Il ministro Sangiuliano si sta circondando di persone valide. Appena ho saputo della nomina di Beatrice Venezi le ho mandato un messaggio di congratulazioni e di auguri, offrendo la mia massima disponibilità a collaborare. Abbiamo già lavorato insieme e lo faremo ancora, per esempio a Taormina. Sono a disposizione per offrire la mia competenza al Paese, non chiedo niente. Se il ministro e il premier devono dare degli incarichi, a chiunque, me compreso, lo facciano in base a criteri di merito e non di riconoscenza».

Quindi non si sente fuori gioco?

«Ci sono tanti spazi, tanti ruoli. Il ministero si divide in tre grandi settori con altrettanti sottosegretari. Quello che si occupa di musica è un grande manager e un importante uomo di potere. Spero lo usi bene. Io vorrei dedicarmi alla tutela degli artisti, per rendere più produttivo il lavoro dei cantanti, dei cantautori, dei compositori, degli uomini d’arte. Sgarbi si occupa di tutelare le opere del passato e portarle nel presente. Io vorrei valorizzare le persone e le creazioni del presente per portarle nel futuro. Vorrei aiutare gli artisti vivi».

Il nuovo Carmelo Bene è troppo anarchico per stare dietro una scrivania in via del Collegio romano?

«L’uomo di cultura spende la vita a comprendere e perseguire la libertà. Libertà dell’uomo non libertà in senso astratto. Tutta la cultura, persino la canzone, scaturisce dalla cultura anarchica, dall’impegno politico e intellettuale contro i regimi. Basta pensare a Giuseppe Verdi e al suo Va’ pensiero che è una proto-canzone. O a Ulisse Barbieri che fu incarcerato a 16 anni dal regime austroungarico e quando uscì, quattro anni dopo, iniziò a scrivere canzoni».

Quale sarebbe il suo primo atto?

«Metterei la musica nel Codice delle belle arti che è stato aggiornato l’ultima volta nel 2004. Sarebbe utile per tutelare i teatri, incentivare la produzione, proteggere gli strumenti musicali come beni artistici. Poi bisognerebbe restaurare i nastri originali delle canzoni degli anni Cinquanta e Sessanta che si stanno deteriorando».

Avrebbe molto da fare…

«Soprattutto non voglio far politica, ma spettacolo. Con un’attenzione particolare a ciò che va in onda nel servizio pubblico. Ma temo che il mio linguaggio divulgativo non sia amato dai dirigenti di questa televisione, a mio avviso troppo concentrata sugli ascolti».

Un incarico al ministero dovrebbe darle un ruolo più ecumenico?

«Sono abituato a misurarmi con ciò che conosco, non amo debordare. Mi basterebbe un ruolo relativo alla musica in televisione».

Adesso a che cosa sta lavorando?

«A un grande concerto per il 23 dicembre, in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Parteciperanno tanti cantautori e amici come Gianna Nannini, Renato Zero, Subsonica, Vibrazioni, Carmen Consoli, Daniele Silvestri, Michele Bravi e molti altri. Spero che un evento così possa interessare anche il direttore dell’Intrattenimento Rai, Stefano Coletta».

Com’è stato tornare a X-Factor, dall’altra parte del palco?

«Mi sono sentito a casa. Sul palco sto meglio che sul banco dei giudici».

Ha fatto pace con Sky?

«Non gli ho mai fatto guerra. Anche perché in questi anni, dopo X-Factor, ho fatto tante cose con Sky Arte».

Che cos’è la contemporaneità?

«Da musicista è creare ordine nel caos, un compito quasi da medico della musica. Riuscire a dare armonia al rumore che è la musica contemporanea».

Dal punto di vista estetico, contemporaneità non sarà cantare bistrati di rossetto?

«Effettivamente a X-Factor ho dato una mano di rosso di troppo. Dico la verità: spesso riguardandomi non mi accetto».

Complimenti per l’autocritica. Pare anche a lei che si esaltino fenomeni musicali più per il look che per i contenuti senza che in giro ci sia David Bowie.

«Non è il mio caso. Cerco di mantenere un certo equilibrio, consapevole che andare in scena è teatro».

Non è il suo caso, ma…

«Vogliamo parlare dei Maneskin? Hanno un sound strepitoso, che giustifica i loro pizzi e merletti».

M’inchino al suo magistero, ma a me sembra sound campionato.

«Se li confronta con la condizione miserrima del sound italiano contemporaneo i Maneskin sembrano i Creedence Clearwater Revival».

Con Giorgia Meloni dialogate ancora su whatsapp?

«Ogni tanto sì, la lascio libera perché immagino la pressione… Abbiamo in comune la passione per la storia politica. Ogni tanto c’è qualche scambio…».

Ce ne rivela uno?

«Siccome Macron usava tre aggettivi come si fa in poesia dicendo che gli italiani sono irresponsabili, cinici e vomitevoli, le ho suggerito di rispondergli in versi. Per dire che Francia e Italia si amarono e ora non si amano più. Ma noi chiediamo rispetto perché da noi i francesi hanno imparato la bellezza. Perciò, offendendo noi, offendono sé stessi e questo non piace a Dio: “Chiare, fresche et dolci acque ove le belle membra pose colei che solo a me par donna”…».

Crede che questo governo abbia sbagliato qualche mossa?

«Mi perdona se evito di parlare di politica».

La perdono, ma sui rave party poteva essere più preciso?

«Il provvedimento è così vago che sembra quasi non riguardare i rave. Serve più precisione. Innanzitutto i rave sono ambiti di diffusione musicale, perciò si dovrebbe partire dalla qualità della musica. Che può essere inquinamento acustico o piacere per le orecchie».

A proposito di rumore.

«Spesso fanno musica d’avanguardia. Però non dovrebbero essere clandestini o marginali. Invece quasi sempre la diffondono in modo disturbante, disfunzionale, disarmonico».

Dovrebbero essere razionalizzati?

«Dovrebbero essere considerati e gestiti come dei concerti. Perché la loro musica elettronica non è meno importante della classica».

Al governo c’è bisogno di qualche consigliere per la comunicazione?

«La destra è un po’ naif perché non è abituata a gestire grandi livelli di potere. Questo ha conseguenze positive e negative. Positive perché predispone a un atteggiamento di apertura, negative perché prelude a qualche ingenuità».

Quindi la risposta è sì?

«Credo di sì, che ci sia bisogno di qualche buon comunicatore. Ma si può imparare dal percorso di Giorgia Meloni che, invece, è una grande comunicatrice».

In Italia è più conformista la politica o la musica?

«La musica. In Italia domina la paura, per questo le canzoni sono costruite sempre sui soliti quattro accordi del giro di do. Come tu li metti, si tratta sempre di accordi tonali che già negli anni Quaranta sarebbero stati banali. Il Trio Lescano faceva canzoni più audaci di Ligabue».

Che fine ha fatto la casa gialla?

«È un meraviglioso libro che so stanno studiando al ministero. Lo avevo proposto sia ad Alberto Bonisoli che a Dario Franceschini: invano. Lì dentro ci sono le mie idee sulla tutela degli artisti vivi…».

Parlavo della casa-laboratorio come luogo fisico.

«È ancora disabitata. È stata sventrata e svuotata del suo contenuto che, ricordo, era incastonato nei muri… Pensi alla fretta di sbattere fuori una famiglia con una madre incinta e, a distanza di tre anni, non ci vive ancora nessuno».

Ora dove vive?

«In una casa in affitto dove non ci stanno i miei strumenti per lo studio che sto tentando di ricostruire».

Le manca solo riconciliarsi con Bugo?

«Prima che lo demoliscano potrei fare a San Siro la reunion con Bugo. A ingresso gratuito e al grido di Le brutte intenzioni, la maleducazione, la disobbedienza (titolo della canzone di Sanremo ndr). Così, finalmente, ci si renderà conto che lo stadio non va abbattuto. Ah ah ah».

 

La Verità, 19 novembre 2022

«Il Cav non resterà defilato Il futuro? Poche luci»

L’ultimo berlusconiano rimasto. Si definisce così, Piero Sansonetti, direttore del Riformista, giornalista di sinistra di mille battaglie. Garantista, pacifista e frequente ospite dei talk show di Rete 4.

Sansonetti, la rapidità dell’incarico a Giorgia Meloni e l’unità manifestata dalla delegazione di centrodestra al Quirinale sono buoni segnali?

«Non credo che la rapidità sia sinonimo di efficienza. L’unico governo possibile è con questa maggioranza. Quanto sarà forte e duraturo è un altro discorso. Non sono molto ottimista».

La linea essenziale della premier incaricata comincia a pagare? Silvio Berlusconi ha rispettato il protocollo senza prendersi la scena.

«Rimanere senza governo adesso non è possibile. Ma penso che Berlusconi possa restare in seconda fila dieci minuti, un quarto d’ora al massimo. È uno che pensa spesso qualcosa che gli altri non vorrebbero pensasse».

In seconda fila può fare il padre nobile?

«Vediamo».

Quindi, non si può mai stare tranquilli?

«No, perché la politica è una cosa complicata. Non è che bastano due numeri o un algoritmo per risolvere le crisi. Neanche la vittoria elettorale elimina la battaglia politica».

Quale battaglia?

«Quella fra le due destre. Come ci sono tante sinistre, ci sono anche due destre. Quella liberale di Berlusconi e quella radicale di Meloni. Che su tante cose non vanno d’accordo».

Per esempio?

«Meloni è statalista, Berlusconi è liberista. Sulla guerra non c’è bisogno di sottolineare quanto siano divisi. Come pure sulla giustizia. Non tanto per la scelta del ministro, quanto per il fatto che Berlusconi è garantista e Meloni no. Il garantismo è più complicato del rispetto delle regole. È una filosofia che Berlusconi ha e la Meloni non ha».

Dopo anni di governi tecnici o del presidente, stavolta c’è una maggioranza solida.

«È solida in Parlamento, non nel Paese. I voti raccolti dal centrodestra sono meno della metà di quelli espressi. Naturalmente, dal punto di vista politico, non cambia nulla perché ha vinto in maniera netta le elezioni in base alla legge vigente. Dopodiché ha preso 12 milioni di voti, ma ce ne sono altri 13 milioni andati altrove. Quindi c’è un’Italia abbastanza spaccata e il governo che sembrava lanciato su un’autostrada si fa lo stesso, ma dovrà arrancare su un vicolo di campagna».

Si stava celebrando il ritorno della politica.

«Che invece è faccenda complessa. Ci vogliono pensiero politico, cultura politica, tradizione politica. Bisogna conoscere tattiche, strategie, compromessi».

Sta dicendo che i componenti di questo governo sono ignoranti?

«Ricordo Palmiro Togliatti, Aldo Moro, Amintore Fanfani, Bettino Craxi: vogliamo fare un paragone o lasciamo stare? In Italia negli ultimi trent’anni ho conosciuto solo due statisti, che non ho mai votato perciò posso dirlo: sono Romano Prodi e Silvio Berlusconi».

Stavamo celebrando anche la rivoluzione femminile a Palazzo Chigi.

«Questo lo apprezzo, chiunque la incarni. È un fatto positivo, di rottura del senso comune e dei pregiudizi».

È uno smacco per la sinistra che la prima donna premier sia di destra?

«La sinistra non s’è mai posta questo problema. Non tanto di promuovere le donne che lo meritano, quanto di avere un metodo di selezione che non sia maschilista».

L’egocentrismo di Berlusconi è una mina vagante nella coalizione?

«Dobbiamo partire dal fatto che la destra in Italia non è mai esistita. Sì, ci sono stati Luigi Einaudi e Giovanni Malagodi, che erano due personaggi abbastanza isolati. La destra l’ha fondata Berlusconi, come si può prescindere da lui?».

Gli elettori cominciano a farlo, cambiando i rapporti di forza.

«È così, però la politica si fa con il pensiero e le idee».

A un certo punto bisogna cedere il testimone?

«Se si vuole liberare la destra da Berlusconi, bisogna inventarne una nuova. Dubito fortemente che sappiano inventarla Meloni e Salvini? E anche sui numeri, senza Forza Italia non possono governare, quindi non si può prescindere».

Le inquietudini di Berlusconi vanno lette alla voce psicodramma o alla voce tattica?

«Alla voce mancanza di programma comune. Sulla guerra la Meloni è atlantista, mentre il resto della coalizione non lo è altrettanto. Poi ci sono differenze sulle tasse e sulla giustizia. Se si fa un governo di coalizione si tratta, ma se Meloni non vuole trattare rischia di andare a sbattere. La Dc trattava con gli alleati anche quando aveva il 40 per cento».

I criteri però erano chiari: autorevolezza, competenza, alto profilo. Invece ci si stava incagliando sul ministero di Licia Ronzulli.

«Non vedo molti che spiccano sul livello della Ronzulli. Anzi, vedo che chi spicca non può entrare, come Vittorio Sgarbi che poteva essere un ottimo ministro, forse l’unico conosciuto in Europa».

Ha informazioni su chi ha fatto uscire gli audio di Berlusconi su Zelensky?

«Credo che non si saprà mai. Forse qualcuno a cui Berlusconi ha fatto qualche sgarbo».

Non sarà stato lui stesso?

«Questo non credo. Sicuramente metteva in conto che, parlando a 50 persone, quelle parole potevano uscire. Lo stesso dicasi per il foglio con gli appunti sulla Meloni. Berlusconi può essere tutto, ma è difficile che abbia paura delle sue opinioni».

Certo che no. Sta di fatto che l’alleanza, e vedremo il governo, è sottoposta a uno stress test bipolare: un giorno il Cavaliere è filoputiniano un altro è euroatlantico?

«Non c’è dubbio. E con questi contraccolpi bisogna affrontare la più grave crisi economica dal dopoguerra. Capisce perché non sono ottimista?».

Berlusconi non si rassegna a vedere un altro, anzi, un’altra a Palazzo Chigi?

«Non credo lo disturbi la Meloni premier. Credo sia convinto che oggi in Italia non esista una destra non berlusconiana. E lo penso anch’io».

Non gli elettori, però.

«Ogni elettore pensa con la testa sua e vota per la sua opinione. Qui parliamo sempre di numeri modesti, nessuno ha il 40 per cento del 90 per cento degli elettori come aveva la Dc. Il Pci da solo prendeva 13 milioni di voti».

Tuttavia, rispetto alle elezioni degli ultimi anni, a cominciare da quelle del 2013 quando centrodestra, centrosinistra e 5 stelle pareggiarono, stavolta c’è una maggioranza chiara.

«Però con meno voti di quelli che prese ognuno di quegli schieramenti. Quello che io non capisco è cosa vuole esattamente Meloni. Nel 1994 Berlusconi voleva smantellare il cattocomunismo e favorire la rivoluzione liberale. Così superò Achille Occhetto che rappresentava la conservazione. Oggi non mi pare sia così. Meloni è stata scelta perché è rimasta all’opposizione tanti anni, ma Draghi non è la conservazione. Infine, Liz Truss non è Margaret Thatcher e la nuova destra europea non si vede. Meloni dovrebbe far tesoro del caso Truss».

Di fronte alle turbolenze Meloni ha fatto bene a tirare dritto?

«E che doveva fare? È stata molto prudente all’inizio, poi si è un po’ irrigidita, sbagliando».

Quando?

«Nell’elezione dei presidenti delle camere. Capisco l’intenzione di volersi dimostrare forti, ma lasciando una presidenza all’opposizione avrebbe mandato un segnale di distensione. Ha compiuto un doppio gesto di sfida scegliendo Ignazio La Russa, il più simpatico dei fascisti, e Lorenzo Fontana, un clericale sconosciuto. Inoltre, non è che l’alternativa alla Ronzulli fosse Winston Churchill. I compromessi si fanno».

La sua forza non è proprio il rifiuto di compromessi?

«Sul piano dell’immagine sì. A volte ha dei riflessi un po’ fascisti. Uso questa parola perché so che non si offendono come non mi offendo io quando mi dicono comunista».

La riforma della giustizia è più facile con Carlo Nordio o con Maria Elisabetta Casellati?

«Dal punto di vista della persona credo con Nordio. Sul piano della politica con la Casellati, perché Forza Italia è l’unico partito garantista che c’è in Italia».

Si è appena fatta la riforma Cartabia, la giustizia è una priorità di questo momento?

«È evidente che la priorità è frenare la povertà e impedire una recessione travolgente, perché la recessione ci sarà comunque. La riforma della giustizia non è un’emergenza, ma è la più importante e urgente riforma dello Stato perché in questi anni la magistratura ha assunto un potere non democratico devastante».

Che voto darebbe alla squadra di governo, stando ai nomi che si conoscono?

«Darei un cinque. Ripeto, non ho capito il no alla Ronzulli e a Sgarbi. Molti dei ministri che sono stati indicati sono persone non note e quindi somiglia un po’ a un governo 5 stelle».

Parliamo della sinistra: c’è ancora in Italia?

«In tutta Europa le maggioranze tra destra e sinistra si giocano su 2 o 3 milioni di voti. In Italia la crisi della sinistra è molto grave a causa dell’irruzione dei 5 stelle, un movimento qualunquista che non c’entra con la sinistra, ma che le ha rubato casa».

Il sorpasso sul Pd è imminente?

«Può darsi che lo sia nei sondaggi, ma a mio avviso il M5s è destinato a morire. Oltre ai voti del reddito di cittadinanza non ha nient’altro».

A sinistra la via maestra per affrontare la povertà è l’assistenzialismo?

«No, il lavoro e il welfare. Fra assistenzialismo e diritti sociali c’è un abisso».

Qual è il suo giudizio sulla segreteria di Enrico Letta?

«In campagna elettorale è stato molto debole. Da democristiano non ha capito che stava guidando un partito di sinistra. La sua sola proposta di sinistra, la cosiddetta patrimonialetta, una tassa sui redditi sopra i 5 milioni per favorire iniziative in favore dei giovani, l’ha subito ritirata. Dopo la sconfitta, invece l’ho visto più sicuro. Credo che il Pd debba ricordarsi di essere un partito socialdemocratico».

Il momento di maggior sincerità è stata un’ammissione d’impotenza quando Letta ha detto: «Non siamo riusciti a connetterci con chi non ce la fa»?

«Non è stata un’ammissione d’impotenza. Nel numero dei voti raccolti il Pd non ha subito un tracollo, anzi. Ha perso ben prima, quando ha deciso di non essere più un partito socialista, ma dopo la fine della Dc ha cercato di legittimarsi rappresentando la borghesia. Non funziona. Può funzionare nella raccolta del potere, ma non per un partito politico che ha all’origine un’idea socialista».

Quanto tempo ci vorrà perché ristabilisca quella connessione?

«Il non essere al governo lo aiuterà molto, il caso Meloni insegna. Aiuta tutti i partiti, in particolare aiuterà un partito di sinistra».

Che mesi ci aspettano?

«Di guerra, in senso reale e metaforico. Per il momento non riesco a vedere luci».

 

La Verità, 22 ottobre 2022

«L’altro festival di Sanremo suona christian music»

Tipo scaltro, Fabrizio Venturi. Tutt’altro che ingenuo, come si potrebbe sospettare pensando al direttore artistico di un Festival della canzone cristiana. Il primo in assoluto, in programma il 3, 4 e 5 febbraio prossimi all’Auditorium Villa Santa Clotilde di Sanremo. Lungi dal mettersi in rotta di collisione con il Festival di Amadeus, ne sfrutta il traino. «Non siamo un controfestival», scandisce. Gli altri conduttori della kermesse saranno l’attore e comico Gaetano Gennai, Mitch, dj di Radio 105 e inviato delle Iene, e Marta Bucciarelli. Lo scopo è promuovere la christian music, «con o senza l’acca». Fiorentino, 63 anni, fondatore di una casa discografica indipendente, Venturi non fa crociate, non semina giudizi, non dispensa pagelle.

Chi è Fabrizio Venturi?

«Sono un cantautore nato alla fine degli anni Ottanta. Appartengo alla scuola fiorentina, ho frequentato l’Accademia della Canzone di Sanremo, poi sono partito per gli Stati uniti…».

Cos’è la scuola fiorentina?

«Quella che prodotto artisti come Paolo Vallesi, Marco Masini, Raf, Zucchero… Forse possiamo parlare di scuola toscana».

È nato prima il cantautore o il credente?

«Il cantautore».

Chi o che cosa l’ha avvicinato alla musica?

«È un’espressione che si è fatta largo negli anni. Avevo un’agenzia di grafica pubblicitaria con un compagno quando, per gioco, partecipai a un concorso. Scoprii che il mondo della musica mi piaceva e decisi di provarci. Avevo 21 anni».

Nel suo sito si leggono partecipazioni a eventi con Ray Charles, Billy Idol, Temptations, Gipsy Kings e collaborazioni con Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Mogol… Ha un modello musicale al quale s’ispira?

«M’ispiro alla bella musica, fatta bene. La musica è tutta bella, quella fatta bene no. Per esempio: posso comprare una giacca bella, ma dopo tre volte che la indossi è già sformata. I generi musicali sono tutti belli, dal folk all’heavy metal, ma se hai l’orecchio fine ti accorgi quando sono ben eseguiti».

Il suo genere qual è?

«Il pop rock sinfonico. Mi piace la musica potente, la musica minimalista non fa per me. In quasi tutte le mie opere c’è una base con batteria, basso, chitarra e pianoforte che arricchisco con le sezioni di archi e di fiati, o con uno strumento insolito… Ci sono artisti di cui non faccio i nomi, che fanno canzoni sempre con la stessa base».

Che cosa l’ha avvicinato al cristianesimo?

«Lo cercavo, cercavo delle risposte. Nel 1995 ho avuto un gravissimo incidente e sono stato una settimana in coma. Ho sentito una voce che mi suggeriva di mettere a disposizione parte della mia musica per aiutare le voci più deboli. Non capivo cosa volesse dire, fin quando nel 2005 morì il mio grande amico Ambrogio Fogar. Allora gli ho dedicato Amico dolphin, devolvendo i diritti d’autore alla Faip (Federazione associazioni italiane paratetraplegici ndr). Da lì è iniziato il mio cammino».

Ha fatto qualche incontro importante per la sua fede?

«Ho conosciuto e frequentato don Giovanni D’Ercole e don Oreste Benzi. Poi nel 2005 ho scritto Caro Padre che è diventato l’inno ufficiale della Fondazione internazionale Giovanni Paolo II».

Perché avete scelto Sanremo negli stessi giorni del Festival della canzone italiana?

«Perché è il momento in cui l’Italia si raduna in musica e noi ci occupiamo di musica».

La vostra è un’iniziativa alternativa, critica, polemica?

«Assolutamente no. Organizziamo il primo Festival della christian music, un genere musicale che in Italia è ignorato. E che invece ha la stessa dignità del pop e del rock. In altri paesi ci sono divi e star con una popolarità paragonabile a quella di Zucchero e Vasco Rossi».

Perché qui è un genere ignorato?

«Chi lavora nel marketing sa che un prodotto non può piacere fin quando non lo proponi. Come si può scoprire la modernità dei testi di Debora Vezzani se non si ha la possibilità di ascoltarli? Invece sono canzoni meravigliose e Debora Vezzani sarà una nostra superospite. Mentre in gara ci sarà Erminio Sinni, il vincitore di The Voice Senior 2020».

Le piacciono i talent show?

«No, perché non fanno scuola. Non basta avere una bella voce per essere un artista. La musica è fatta di studio e sacrifici. Lucio Battisti, Francesco De Gregori, Lucio Dalla ci hanno messo anni per affermarsi. Spesso i talent sono incubatrici di patologie, perché mettono un ragazzo in un ingranaggio gigantesco, spremendolo all’inverosimile. E quel ragazzo rischia di vivere tutta la vita nel ricordo di quell’anno».

Quanti cantanti partecipano e come li avete selezionati?

«I cantanti sono 24, ma abbiamo selezionato le canzoni, non i cantanti. Sono arrivate oltre 150 proposte. Un team di collaboratori ha fatto la prima scrematura e passato a me le più valide. Le ho ascoltate e riascoltate per tenerne 24. Solo dopo averle selezionate mi sono accorto di aver escluso qualche nome importante. Ma andava fatta una scelta».

I partecipanti percepiscono un cachet?

«Nessun cachet. Il festival è una grande opportunità mediatica, chi vince conquista molta visibilità».

Avete degli sponsor?

«Abbiamo un marchio di food che provvede alle tre cene di gala, ma niente denaro liquido. Lavoriamo gratuitamente e ci paghiamo il viaggio e l’alloggio nelle strutture ecclesiastiche che ci ospitano a prezzi di favore».

Chi saranno i premiati?

«I primi tre classificati, l’autore del miglior testo. Poi ci saranno i premi intitolati a Giovanni Paolo II e a Roberto Bignoli, uno dei più famosi rocker della christian music, il premio della stampa e del Mei (Meeting etichette indipendenti ndr)».

Nei brani in gara si citano Dio e Gesù: è questo che definisce la canzone cristiana?

«Non è la parola a definirla, ma il contenuto. Che però dev’essere esplicito: Dio, Gesù e la Madonna devono essere scritti e cantati».

Ci sono brani degli U2 con una forte carica religiosa che non nominano mai Dio o Gesù.

«Nella christian music il nesso e il significato sono espliciti. L’ispirazione è una cosa, il genere un’altra. Gli U2 non appartengono alla christian music».

Anche le canzoni di Claudio Chieffo rimanevano implicite.

«Non lo conosco».

In un Festival della canzone cristiana mi aspettavo di trovare The Sun.

«Loro li conosco, ma non si sono proposti. Tra le 24 canzoni ammesse ci sono tutti gli stili, dal rap al rock, dal pop allo swing. I concorrenti vengono da Bolzano a Canicattì».

La presenza di Vittorio Sgarbi significa che non è solo un evento musicale?

«Come all’Ariston, c’è la gara canora e c’è l’evento che tocca gli argomenti del nostro quotidiano. La presenza di Sgarbi è comunque inerente perché parlerà del legame tra l’arte pittorica e la musica che è l’arma più potente che Dio ci ha affidato».

Invece Capitan Ultimo cosa farà?

«Sarà sul palco lo stesso giorno di Sgarbi e dirà ciò che riterrà opportuno. Per noi è un onore la sua partecipazione».

La Radio Vaticana che vi seguirà è un media ufficiale del Papa, vuol dire che la vostra è un’iniziativa istituzionale?

«È un’iniziativa del cantautore Fabrizio Venturi, loro mi seguono e mi sostengono».

Che visibilità vi aspettate?

«La Radio Vaticana trasmetterà in diretta mondiale i tre giorni del festival mentre Vatican.news seguirà la finale. Sul territorio nazionale saremo visibili in chiaro su Tele Padre Pio e Canale Italia. Diciamo che la nostra Rai e la Radio Vaticana».

Qualcosa vi ha irritato delle recenti edizioni di Sanremo? Il vescovo, monsignor Antonio Suetta, ha accusato di blasfemia l’esibizione di Fiorello con la corona di spine.

«Nell’arte non c’è blasfemia. Il nostro non è un controfestival e io non mi sono mosso sulla scia del vescovo di Sanremo. Lo dimostra il fatto che già da tre anni avevo comprato i domini di christian music. Sono un sostenitore del Festival: essendo nato dall’Accademia della canzone di Sanremo come potrei non esserlo? Il mio maestro è stato Alberto Testa. Con lui abbiamo scritto Volo libero unplugged, di cui presenterò la versione in vinile. Senza esibirmi, però; perché non è nel mio stile sfruttare la manifestazione per mettere al centro la mia attività. A me interessa solo affermare le tre cose certe in questo mondo: che si nasce, che si muore e che c’è Dio».

Che cosa pensa dell’onda di fluidità che proviene dall’Ariston calcato da Achille Lauro, i Måneskin e la drag Drusilla che condurrà per una sera con Amadeus?                                                                                                                                                                

«Ogni esperienza, anche se dolorosa, può essere positiva. Lauro è un ragazzo geniale, al di là delle forme che usa sulle quali si può concordare o meno. Anche gli altri ben vengano. Se si aggiunge qualcosa, è sempre una vittoria. Chi poteva presumere che Sgarbi fosse vicino al mondo cristiano, anche se dà della <capra!> alle persone che disapprova? È il suo personaggio. Se Amadeus ha scelto questi persone avrà i suoi buoni motivi. L’anno scorso ha condotto in modo magistrale un Sanremo senza pubblico: dobbiamo dirgli bravo».

È curioso che, quand’era frate, Giuseppe Cionfoli andava al Festival e oggi, che non lo è più, viene da voi?

«Ah ah… Sono scelte personali. Non è detto che Cionfoli abbia smesso di pensarla come prima. Si era proposto a tutt’e due i festival, loro non l’hanno preso, da noi viene come ospite».

Al Bano si proclama credente ed è spesso andato a Sanremo.

«Rispondo con un’altra domanda: lei pensa che quelli che vanno all’Ariston non credano?».

Correte il pericolo di autoghettizzarvi?

«Assolutamente no, facciamo musica e basta».

La vostra iniziativa è ingenua e targata?

«Se ci targano va benissimo: facciamo christian music. Non siamo ghettizzati, lei mi sta intervistando, tutta Italia parla di noi. In passato sono stati fatti altri tentativi, mai decollati, come il Jubilmusic. Con l’aiuto di Dio che è il motore di tutto, speriamo di aver gettato un sasso che fa più cerchi nello stagno».

Qual è il vostro obiettivo?

«Evangelizzare attraverso la musica. Il nostro motto è “Chi canta prega due volte”, come recita Sant’Agostino».

Farete una seconda edizione?

«Magari una terza e quarta. Lo scopo è portare nostro Signore nel cuore dei giovani».

 

La Verità, 29 gennaio 2022

«L’intellettuale stia sui social, sennò vince Fedez»

Buongiorno Vittorio Sgarbi, quando ha saputo del cancro?

«Quasi un anno fa. Ricordo che il 26 dicembre andai a sciare».

Si poteva?

«No, infatti ci andai in polemica con il governo che lo impediva. Ma è stata una cosa così… Andai ad Asiago a fare sci di fondo da solo nel bosco. Caddi una decina di volte perché non lo praticavo da tanto. Il giorno dopo mi accorsi di avere le caviglie gonfie. Non ci pensai e il 31 andai a trovare Cesare Battisti nel carcere di Rossano, in Calabria».

Cesare Battisti cosa le disse?

«Che mi stima, anche se la pensa in un altro modo. Va bene, gli ho detto, però tu hai ucciso delle persone, hai fatto il terrorista».

E lui?

«Mi ha detto che sa di aver sbagliato e che oggi non è più quell’uomo. Poi mi ha dato dei documenti che lo riguardano e che adesso, secondo i magistrati, dovrei consegnare alla polizia perché, dicono, così Battisti può influenzare i processi. A me sembra una follia: un imputato influenza un processo che lo riguarda? Questa è la magistratura che abbiamo in Italia».

File corposo. Stavamo parlando della sua salute.

«Tornato a casa mi sono messo a letto, sorpreso da un’improvvisa e strana depressione. Dopo dieci giorni, quando mi sono fatto visitare, mi hanno detto che avevo avuto il Covid in forma lieve. In compenso, hanno trovato i valori della prostata oltre i limiti. Era fine gennaio. Ho fatto altre visite e, tra aprile e giugno, un ciclo di radiazioni che ha debellato le macchie di cancro».

Tutto bene, dunque?

«Nel frattempo, il 25 marzo a Madrid è stato scoperto un Ecce Homo di Caravaggio fino allora sconosciuto che, con rammarico, non ho potuto acquistare perché è stato ritirato dal governo. Mi sono rifatto trasformandolo nell’oggetto di Ecce Caravaggio, il volume pubblicato in luglio, che precede quello appena uscito, Raffaello. Un Dio mortale (entrambi da La nave di Teseo ndr). Così, tra il Covid e il cancro, ho avuto come compagni Caravaggio e Raffaello. Quando ci fai cento spettacoli e lezioni, questi giganti diventano quasi tuoi parenti».

Sdrammatizzando, possiamo dire che il lavoro funziona da antidoto alla malattia?

«Per me lo è stato, ha coperto il disagio per lo stato di salute».

Che ora è migliorato?

«Il referto della risonanza nucleare è ottimo. Dovrò fare altre punture di ormoni, una al mese».

I molti impegni l’aiutano a convivere con questo pensiero?

«È così. Ho appena inaugurato a Lucca la mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini. Prima avevo fatto quella su Depero al Mart di Rovereto, di cui sono presidente. Sempre a Rovereto il 16 dicembre aprirà Canova tra innocenza e peccato. Poi c’è Ferrara arte…».

Perché Raffaello è un Dio mortale?

«Nel libro riprendo un concetto, espresso da Giorgio Vasari nelle Vite, che l’opera di Raffaello conferma perché racconta un ordine del mondo che la Chiesa continua a promuovere. Non esistono solo i valori di povertà e attenzione agli ultimi. Ci sono anche la salvaguardia della libertà della persona e il rispetto della civiltà, che hanno la loro apoteosi nella celeberrima Scuola di Atene dove troviamo Socrate, Platone e Aristotele affiancati da Leonardo e Michelangelo. Sono i principi del mondo occidentale nati nella Grecia antica, aggiornati dal Rinascimento, compiuti nel cristianesimo».

E Raffaello come si colloca?

«È un interprete di questa sintesi, fin troppo perfetto. L’arte è una continuazione della creazione divina. Il mondo in cui viviamo è il risultato di ciò che Dio crea e l’uomo fa».

Perché scrive di non avere empatia con Raffaello?

«La perfezione mette soggezione. Noi comuni mortali sentiamo più vicini Caravaggio e Van Gogh, artisti sfigati che sentono l’umano. Raffaello invece sente il divino, sebbene viva un momento oscuro che lo rende umano».

Pensavo si rivedesse in un genio che ama le donne.

«Raffaello è ecumenico e universale, mentre il mio temperamento viene comunemente definito divisivo. Se dovessi scegliere il dipinto preferito non lo cercherei tra i suoi, ma in quelli di Caravaggio o di Rembrandt».

Però Raffaello è un bipolare, diviso tra estetica e carnalità.

«Vasari lo adombra, ma nel complesso la perfezione prevale sui difetti. È attraversato dalla sensualità, ma La Fornarina, l’opera in cui ritrae la sua donna, la dipinge solo per sé».

Lei la paragona a una Monica Bellucci dell’epoca.

«È un gioco ottico del mio spettacolo, realizzato con la proiezione del volto della Bellucci su di lei».

Raffaello era modernissimo perché aveva anche un pusher del sesso?

«È un’estensione di alcuni accenni del Vasari. Per farlo dipingere con continuità, Agostino Chigi gli porta le donne. Sono eccessi della maturità, da giovane era più preciso».

Chi potrebbe essere Raffaello oggi?

«Sono gli artisti di regime come Jeff Koons, l’ex di Cicciolina. Ora è in mostra a Palazzo Strozzi a Firenze. Anche Botero, per l’ispirazione. O Michelangelo Pistoletto, con i suoi Quadri specchianti. Per temperamento, umiltà e rigore quello che si avvicina di più è Antonio Lopez Garcia, un pittore spagnolo raffinatissimo, legato al potere ma senza la popolarità di Raffaello».

Tra Leonardo, Caravaggio, Michelangelo, Raffaello, Piero della Francesca… il suo preferito è?

«Non ho pittori preferiti. Spesso la preferenza è alternativa alla conoscenza: quanti più ne conosci tanto meno ne scegli uno. Sarebbe facile citare Bramantino, Ercole de’ De Roberti, Cosmè Tura, nel Quattrocento ce ne sono tanti dimenticati».

È andato alla Prima della Scala?

«No. Ci sono andato quando ero assessore alla cultura o sottosegretario. Non ci vado per vanità. Preferisco dedicarmi a ciò che mi riguarda in prima persona. Martedì ho inaugurato a Lucca la mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini».

Chi sono i pittori della luce?

«Quelli che hanno capito che Caravaggio oltre a inventare la fotografia, cioè la rappresentazione della realtà così com’è, ha inventato anche la luce elettrica, la luce con la quale irrora i suoi interni. Valentin de Boulogne, Gherardo delle Notti, Giovanni Serodine, Rubens…».

L’arte è una risorsa per uscire dal buio della pandemia?

«Non mi sembra, i musei e i teatri sono stati chiusi a lungo. Il governo si è dimostrato timido e impaurito. In Spagna sono rimasti sempre aperti e, considerato che, allora come oggi, nelle chiese non si richiede il green pass perché vigono protocolli rigorosi, anche nei musei si poteva fare lo stesso visto che le distanze sono naturali. Invece, la mia mostra su Caravaggio al Mart è rimasta chiusa, come quella su Tiepolo alle Gallerie d’Italia a Milano. La gente che è stata tanto in casa oggi torna nei musei come per una compensazione».

Chi è l’artista che rappresenterebbe meglio la pandemia?

«Edward Munch. L’urlo è l’immagine della situazione che stiamo vivendo».

Che cosa pensa di Banksy?

«È un artista sia di regime che antiregime, ironico e paradossale. Il mercato lo premia perché è un interprete delle problematiche attuali. C’è grande curiosità attorno a lui. La mostra a Palazzo Diamanti a Ferrara ha avuto 70.000 visitatori».

La curiosità è alimentata dalla sua invisibilità?

«Quella è un po’ una civetteria. È un writer che espone sui muri quando ci sono un bambino dimenticato e una donna offesa. In un certo senso è un artista che interpreta l’epoca di Greta Thunberg».

Piuttosto mainstream?

«Secondo quella forma di antipotere che, in realtà, oggi è legata al consenso».

Il nostro patrimonio artistico potrebbe essere una risorsa per il rilancio del Paese? Ciclicamente qualche mente lucida sollecita la creazione di un circolo virtuoso, poi però non se ne fa niente.

«Dopo il referendum voluto da Marco Pannella, siamo stati decenni senza ministero del Turismo. Adesso che ce l’abbiamo, è arrivata la pandemia. Occorre razionalità, non serve incentivare il turismo culturale a Venezia e Firenze, mentre è utile farlo a Pistoia e a Pisa. Le colline dell’area del Prosecco sono state riconosciute patrimonio dell’Unesco prima degli affreschi di Giotto a Padova. Si procede con lentezza, tuttavia qualcosa si muove, come abbiamo visto con Matera Capitale europea della cultura, diventata ormai una sorta di Venezia del sud».

Come ministro dei Beni culturali vedrebbe un manager o un intellettuale meglio di un politico?

«Vedrei bene me stesso, attendo di farlo nel prossimo governo. Le attività che curo mostrano come saprei valorizzare il nostro patrimonio».

Che cosa pensa della fatwa da cui sono stati colpiti Massimo Cacciari, Giorgio Agamben e Carlo Freccero a proposito della gestione della pandemia?

«Io me la sono cavata con danni minori di loro. Durante i primi mesi di lockdown mi ero molto esposto contro il governo che proibiva di andare in biciletta, di sciare, di fare il bagno e, con le precauzioni necessarie, spettacoli all’aperto. Poi è arrivato il vaccino: l’ho fatto e mi curo. Ma ritengo, con Cacciari e Agamben, che si possa puntare su un’autotutela non impositiva. Fatico a capire perché chi è vaccinato debba temere chi non lo è e portare la mascherina. Intelligenze acute sono state confuse con i No-vax da un potere che ci tratta come bambini».

Cosa significa che mentre qualche decennio fa gli intellettuali di riferimento del dibattito nazionale erano Alberto Moravia, Giovanni Testori e Umberto Eco ora i nuovi guru siano Fedez e Zerocalcare?

«Significa che la situazione è degradata. Fedez lo prendo per il culo regolarmente. Muovendosi nella musica, in tv e sui social è presente nelle grandi aree della comunicazione contemporanea. Dove prevalgono quelli che parlano a più persone, anche se veicolano contenuti banali. Fino a qualche tempo fa non ero presente sui social, ora tutti i miei contenuti finiscono lì. Pasolini ha usato al meglio gli strumenti del suo tempo, il cinema e la televisione. Anche Berlusconi ha vinto perché conosceva la televisione. I social identificano quest’epoca».

Sta dicendo che Cacciari e Agamben dovrebbero usarli?

«Persone che possiedono una visione originale come loro sono meno influenti perché non li frequentano. La scelta degli strumenti giusti può portare a far prevalere chi ha idee meno significative, ma una potenza di fuoco superiore».

 

La Verità, 11 dicembre 2021

Elisabetta Sgarbi: «Vi svelo chi era mio padre»

Le prime persone che mi hanno parlato della casa di Ro Ferrarese sono state Roberta Mazzoni e Susanna Tamaro: «Un posto pieno di fame di vita». Avevano ragione. Su un’ala c’è la farmacia, con il via vai dei clienti. Il resto è l’abitazione degli Sgarbi. Ovvero il museo traboccante delle opere acquistate da Vittorio e dalla madre Caterina, Rina Cavallini. Quando ci andai, qualche anno fa, oltre a tutto il resto, mi colpirono alcuni articoli di giornale appiccicati sulle porte tra la grande cucina, il salone e la camera dove riposava Giuseppe «Nino» Sgarbi. Ora rileggiamo e rivediamo la saga di questa famiglia in Lei mi parla ancora (libro della Nave di Teseo e film di Pupi Avati, su Sky cinema). La parola chiave è commozione, moto comune.

La pubblicazione della tetralogia di suo padre è un atto d’amore?

Anche. Mio padre è uno scrittore, ha avuto riconoscimenti e recensioni straordinarie, ha venduto. Ora c’è un film di Pupi Avati tratto dai suoi libri.

Perché lo fa solo ora con la sua casa editrice, mentre prima i diversi mémoire sono usciti da un’altra etichetta?

Quando mio padre ha iniziato a scrivere volevo che facesse la sua strada. L’ho affidato a Marco Vigevani, un agente letterario importante. Alcuni editori hanno rifiutato i suoi libri, Massimo Vitta Zelman e Eileen Romano ci hanno creduto. Lui mi chiedeva, pensieroso, ma perché non mi pubblichi tu? Io gli spiegavo che lo facevo per lui. Quando è nata La nave di Teseo, ha seguito ogni passo con trepidazione ed entusiasmo. Mi ha detto che avrebbe voluto che i suoi libri fossero pubblicati da una casa editrice che aveva visto nascere. Era orgoglioso di sua figlia. Così, dopo che anche i lettori e la critica hanno decretato il suo valore, ho deciso di chiedere una licenza a Skira per la pubblicazione.

Quando scoprì che Nino era uno scrigno capiente di tesori?

È sempre stato un grande lettore. Ha collezionato tutti i volumi della mitica Bur, determinando la formazione letteraria mia e di mio fratello. Nei suoi silenzi si intuiva profondità. E quando raccontava aveva un vero piglio narrativo.

Il motore di famiglia era di più sua madre, in combutta con Vittorio. Come si è accorta di questa ricchezza appartata?

Ho scoperto col tempo quanto avrebbe dovuto essere chiaro dall’inizio. C’era un tacito accordo, forse inconsapevole, tra i miei genitori: la Rina poteva essere un vulcano in continua effervescenza, ma sapeva di poggiare su Nino. Nino poteva attraversare i suoi silenzi, ma amava sentire le voci alte di mio fratello e mia madre. Certo che mia madre e mio fratello hanno imperversato: ci vuole del genio e della follia per trasformare una casa di campagna in un museo pieno di opere meravigliose. E ci vuole un carattere per tenere insieme tanta follia. Mio padre ha dimostrato di averlo. Non ha mai dato segni di cedimento. Ci guardava un po’ dall’alto di una sua saggezza imperscrutabile. Era come se tenesse le briglie di qualcosa che tendeva a sfuggire continuamente e in tutte le direzioni. L’ago della bilancia, insomma.

Nella postfazione a Lungo l’argine del tempo a un certo punto conclude: «Mio padre è uno scrittore». È stato difficile non far prevalere l’istinto di figlia su quello dell’editrice?

Non è facile dividere questi due aspetti, ma ho cercato di seguire le opere di mio padre da editore oltre che da figlia. In fondo, anche la costruzione del film – di cui lei è stato artefice primo con il suo suggerimento a Pupi di leggere Lei mi parla ancora – ha richiesto pazienza, lavoro, tenacia e professionalità. Anche nel racconto cinematografico della figlia editrice. Bravissima Chiara Caselli, durissima e fragilissima allo stesso tempo.

Dopo la morte della Rina, si sa della vostra abitudine di recarvi al cimitero a leggere e pregare insieme. Devozione o autocompiacimento familistico?

È un fatto intimo, che mio fratello ha raccontato, per dire dell’amore che provo verso i nostri genitori. Odio gli autocompiacimenti ed è materia troppo dolorosa per parlarne in questi termini. Sono consapevole che i miei genitori possono essere ovunque e certamente non là, dove sono le loro lapidi. Ma il dolore, come la memoria, ha bisogno di spazi fisici, di volti definiti, perché possa essere vissuto. Altrimenti è angoscia. Pensando a loro, semmai provo nostalgia. La domenica leggo «loro» i pezzi di mio fratello, come loro hanno sempre fatto. È un modo per immaginare che mi siano vicini. Inoltre, nella scrittura mio fratello dà la parte migliore di sé e, leggendolo, mi sembra di avere anche lui più vicino.

È vero che lei e Vittorio vi siete commossi vedendo il film di Pupi Avati?

Lo abbiamo visto in luoghi e tempi diversi. Non so se Vittorio si è commosso, ma giurerei di sì. A me è capitato vedendo girare alcune scene che non avrei voluto rivivere. Avrei voluto rivedere invece più volte quella, bellissima, in cui i miei genitori, interpretati da Isabella Ragonese e Lino Musella, ballano in una splendida balera della bassa, in mezzo a tante coppie come loro fino a rimanere soli al centro della pista, perché il loro amore è più forte di ogni altro. Una scena meravigliosa che mi torna sempre in mente.

Avati si rammarica di non essere riuscito a mantenere quella in cui, dal cimitero, suo padre le telefona per recitare insieme il Padre nostro.

Lui andava quasi tutte le mattine al cimitero con Gino (il custode di Ro ndr). Io lo chiamavo più volte per avere notizie. E pensavo che quando si trovava lì, di fronte alla Rina con cui continuava a parlare, gli facesse piacere sentire la voce di sua figlia. Così lui diceva un Padre nostro e io, a Milano, in casa editrice, interrompevo quello che stavo facendo, per ascoltarlo e magari mi univo alla sua preghiera. Era bello strappare un minuto alla frenesia quotidiana per stare con lui.

La vostra è la saga di una famiglia di farmacisti famelica di vita, di arte, di passioni?

Mio padre e mia madre sono venuti a vivere a Ro per mettere in piedi una farmacia in una casa di campagna, in un remoto paese sotto l’argine. Pensare a quello che ha fatto Vittorio, partendo di qua, e al mio percorso, mi fa dire che i nostri genitori sono stati bravi.

Anche suo padre era famelico o una certa lentezza gli ha fatto assaporare di più le sfumature della vita?

Mio padre non perdeva un intervento di mio fratello in televisione o un suo articolo. E ogni volta diceva, compiaciuto: «Che testa». Nino era silenzioso, amava la calma del fiume, ma era appassionato non meno di mia madre.

C’è anche un eccesso di familismo nelle vostre attività?

Sono termini che non trovo corretti. Non lo considero familismo: del valore di mio padre ho detto; quello che faccio con mio fratello, dai libri, alle mostre, lo faccio perché ha un’intelligenza e una sensibilità uniche. Diversamente, non lo farei. Eccesso è, credo, una forma di generosità.

Che vita fa per tenere insieme la casa di Ro, la Fondazione, l’editrice, il cinema, la Milanesiana, gli Extraliscio?

Ora sono anche presidente dei Sacri Monti, un complesso meraviglioso che meriterebbe un’intervista a parte. C’è quella canzone di George Moustaki: «Abbiamo tutta la vita per divertirci, abbiamo la morte per riposarci». Amo l’impegno. Attraverso l’impegno trovo sempre nuova energia. Erano così anche i miei genitori.

Come si gestiscono tante cose durante la pandemia?

Mettendola tra parentesi. Lavoro come se la pandemia non ci fosse. Non è mio compito trovare una soluzione. È mio compito portare avanti le cose nonostante lei anche in un percorso ad ostacoli o controvento. In questo caso il vento è una lentezza aggiunta alle cose.

Ha paura?

Sì. Su questo io e Vittorio non andiamo d’accordo e a volte litighiamo. Ho perso amici a causa del Covid e ho paura di prenderlo. La paura va rispettata. Le critiche per la gestione dell’epidemia sono un’altra faccenda, su quello possiamo anche incontrarci. E poi ho paura in generale. Per fare le cose che faccio devo sfoderare molto coraggio. «La paura» è stato il tema del primo numero di Panta, la rivista che fondai con Pier Vittorio Tondelli. Mi piacerebbe fare un numero di Pantagruel, rivista monografica della Nave di Teseo, intitolato La Paura parte seconda.

C’è qualcosa di cui si pente come editrice?

No. Soprattutto non mi pento di quelli che altri considerano errori. Certe scelte sono più felici, ma credo anche in quelle che sembrano meno riuscite. A volte proprio da queste ho avuto più soddisfazioni.

Di aver perso qualche scrittore o scrittrice importante?

Sono più orgogliosa degli scrittori che pubblico.

Perché il suo account su Twitter e la sua etichetta musicale si chiamano Betty Wrong?

Perché è Elisabetta sbagliata, una libera traduzione di Elisabetta Sgarbi. Non uno pseudonimo: mi piaceva l’idea di una Elisabetta sbagliata, che prendeva una strada diversa, come la musica o il cinema. Che poi però è la strada giusta, forse. Sto pensando di modificarla in Betty Extra Wrong, in onore degli Extraliscio che, con questa etichetta, saranno a Sanremo. Mi capisce?

 

Panorama, 10 febbraio 2021

«Dopo 100 film Avati mi ha donato una donna inedita»

Sono a sua disposizione, ma se possibile evitiamo di parlare delle solite cose. Di vite ne ho una decina, ho cominciato a 15 anni…».

Oltre cento film, diretta da tutti i maggiori registi italiani, molto teatro e negli ultimi anni parecchia fiction di successo, Stefania Sandrelli è all’altro capo del cellulare con la sua voce festosa. Dall’8 febbraio potremo vederla sui canali Sky nei panni di Rina Cavallini, protagonista, con Giuseppe «Nino» Sgarbi (Renato Pozzetto in un inedito ruolo non comico), di Lei mi parla ancora, il film che Pupi Avati ha tratto dai mémoire del padre di Elisabetta e Vittorio. Il cast è completato da Isabella Ragonese, Fabrizio Gifuni, Chiara Caselli, Lino Musella, Alessandro Haber, Serena Grandi, Nicola Nocella e Gioele Dix.

Signora Sandrelli, com’è andato il primo film con Pupi Avati?

«È uno dei registi che ho sempre ammirato, perciò avrei voluto lavorare con lui molto prima. Credo che insieme abbiamo fatto un bellissimo film».

È un regista che mancava alla sua ricca collezione.

«Lo aspettavo da tanto, molti suoi film mi sarebbe piaciuto interpretarli».

E con Renato Pozzetto aveva mai lavorato?

«Mai. Però quando ci siamo incontrati a serate o a teatro abbiamo sempre simpatizzato perché ammiro le persone ironiche. In più, è un grande attore, ça va sans dire».

Le è piaciuta Rina Cavallini?

«È una figura frastagliata, resa bene anche da Isabella Ragonese, negli anni giovanili. Il film comincia con la mia morte e, più che seguire il corso della vita, racconta il temperamento di Rina. Una donna che si butta, scappa, poi torna e perciò potrebbe sembrare insicura delle proprie emozioni. Invece è una donna forte e lo è fino alla fine».

Credeva che l’amore e la fedeltà all’amato fossero un anticipo d’immortalità.

«Pupi Avati ha voluto rappresentare questa idea con leggerezza, quasi per gioco, attraverso la lettera che lei consegna a Nino il giorno del matrimonio. E che nel film scompare e riappare, quasi come una carta da gioco».

Ma non è un bluff.

«No, perché contiene una promessa. Se esiste davvero un amore così totalizzante allora, forse, si può dire che è immortale. È un’idea che si può rappresentare in tanti modi. Quella di Avati è una scelta coraggiosa, è un film che può sembrare crepuscolare».

Invece?

«Invece, anche a causa dei momenti drammatici che stiamo vivendo, ci aiuta a comprendere l’importanza dei sentimenti e il fatto che possono essere salvifici, nella loro grandiosità».

La forza del film Pozzetto, è nella sua ingenuità?

«Sì, è così».

Nino e Rina sono figure d’altri tempi?

«Possono essere attuali. In un sentimento così grande tutto è concesso. Fanno lo stesso lavoro e condividono anche l’amore per l’arte. Non credo che lui sia succube di lei, Rina è una donna volitiva e passionale. Se si ama davvero, è inevitabile esserlo».

Il «per sempre» che Nino ripete oggi è un’ambizione anacronistica?

«Il per sempre può valere per molte cose. Si può prendere spunto dall’amore, ma per esempio può valere per la musica, che è la più alta delle arti. Se amo un brano musicale, lo posso sentire un miliardo di volte con lo stesso trasporto».

Le sue storie avevano questa ambizione?

«Avrei voluto che fossero per sempre, i miei compagni lo sanno… Le storie d’amore importanti, Gino Paoli, mio marito (Nicky Pende ndr), Giovanni Soldati, sono nate con questa presunzione. Ho fatto di tutto per dedicarmi totalmente e ho sofferto molto delle loro fini non volute. Non sono mai stata pronta alla fine. Mi sono sempre trovata come sperduta dentro un bosco, sola e nuda, preoccupata di coprirmi. Ma senza sapere dove andare e cosa fare».

Che cos’è l’amore per Stefania Sandrelli?

«Un mistero, lo dico col cuore in mano. È un mistero anche quando a un certo punto finisce».

È qualcosa che viene donato e può essere tolto?

«È anche un atto di coraggio, perché può esserci l’altra faccia della medaglia. Tutti noi sappiamo di rischiare, anche se magari non ci aspettiamo che possa finire».

I giovani hanno l’aspirazione al «per sempre»? O come si può trasmetterla loro?

«Io credo molto nell’esempio, perché l’ho avuto dalla mia famiglia. Da mio padre che porto dentro di me, anche se l’ho conosciuto per poco tempo. Quando i miei figli mi hanno detto che sono stata un esempio per loro, mi sono commossa… E mi commuovo anche adesso, anche se non dovrei perché mi aspetta un set fotografico…».

Diceva dei suoi figli.

«È il regalo più grande che potessero farmi… Non ho mai vissuto per essere un esempio e ho dato anche pochi consigli. Però, forse, il mio modo di amarli e condividere la vita è servito. Anche nel casino… e con il lavoro che facevo».

Oggi accade troppo spesso che si rinunci alla prima difficoltà?

«Sì, è possibile. Perché l’amore è comunque una cosa che va costruita».

Come diceva Ivano Fossati.

«Parlo guardandomi indietro. Se questa intervista me l’avesse fatta vent’anni fa probabilmente non sarei stata pronta. Quando senti che qualcosa che ami puoi perderla devi lavorarci, per quanto sia possibile».

Tra quelle che ha interpretato c’è un’altra donna che si avvicina a Rina Cavallini?

«Forse proprio questo, un personaggio inedito, è il regalo più prezioso che mi ha fatto Avati. E anche se, per com’era la storia, muoio all’inizio, mi sono sentita dentro la sua vita fino alla fine».

È strana una donna così protagonista in cui non ci sono rivendicazioni femministe?

«È magnifico, ed è un piccolo segno che dice tutto».

In che senso?

«Perché significa avere un carattere pari a quello di un uomo. Senza questo, secondo me non si riesce a condividere un tubo. Perciò ai miei dico sempre: cerchiamo di camminare uno a fianco dell’altro, non io davanti e tu dietro o viceversa. È più semplice camminare insieme».

In tanto parlare di generi vede troppo antagonismo tra uomini e donne?

«Sì, ed è squallido per ciò che conosco di uomini e donne. Trovo riduttivo ragionare in termini di genere e di quote. È vero che noi donne dobbiamo fare squadra sennò veniamo calpestate, però c’è modo e modo di farlo».

Cosa intende per riduttivo?

«Le quote rosa, per esempio. È un’espressione che un po’ mi spaventa, mi sembra senz’anima».

Qual è la figura femminile che le è rimasta più nel cuore?

«Le dico la verità, ho sempre cercato una corrispondenza alla donna italiana. Perciò preferisco i film corali, meno quote e meno genere. Ho accettato parti che non spiccavano, ma che erano ugualmente importanti. In un film ci sono cose che non si vedono e non si dicono. Il cinema corale è quello che mi piace».

La parte che ha più segnato la sua carriera è Teresa, la moglie disinibita della Chiave di Tinto Brass?

«Non direi. In Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli ed Ettore Scola ho interpretato un personaggio talmente struggente che non posso non preferirlo a tutti gli altri. Una ragazza dolce e dolente che… anch’io conoscevo bene».

Anche il cinema come l’amore può aiutare a superare i nostri limiti e regalare un pizzico d’immortalità?

«Immortalità non credo. Lei ha citato La chiave e non me l’aspettavo: di sicuro quel personaggio mi ha liberato e quindi, in qualche misura, mi ha sostenuto».

Lì, i limiti si superano?

«Un attore lavora con il proprio cervello e il proprio corpo. Non ho avuto timore a mostrarmi nuda perché il corpo è uno strumento di lavoro».

È stata diretta dai più grandi registi italiani. Da chi ha imparato di più?

«È difficile… Le assicuro, ognuno di loro non mi ha mai fatto rimpiangere il precedente».

A chi è rimasta più legata?

«A Ettore Scola perché ha creduto molto in me. In ogni mio bel ricordo, un premio, un riconoscimento, lui c’è sempre».

C’è qualche ruolo di cui si è pentita?

«No, per fortuna. Però ho ben presente i film che avrei voluto interpretare».

Quali?

«Sono due. Il primo è Il giardino dei Finzi Contini, uno dei più bei film del cinema italiano. Giorgio Bassani e Vittorio De Sica volevano me, c’erano già i costumi pronti. Poi, per esigenze di produzione, furono fatte altre scelte».

E l’altro?

«È La ragazza di Bube con George Chakiris, un bravissimo attore».

Lo interpretò Claudia Cardinale.

«Anche se aveva qualche anno più di Mara, un personaggio bellissimo. Anche lì fu decisiva la produzione di Franco Cristaldi».

Come vive questi strani giorni? C’è qualcosa che la conforta?

«Sì. Intanto, mangio qualche dolce in più, anche se non dovrei. Poi mi abbandono alla musica. Credevo di leggere di più, invece quando apro un libro presto lo chiudo. La musica mi avvolge e mi piace muovermi seguendola e ascoltandola anche a un volume un po’ eccessivo. È qualcosa che mi sostiene».

Che musica predilige?

«Ne ascolto tanta. Il jazz, l’opera, la classica. A Viareggio ho assistito a tanti concerti… Ella Fitzegerald, Chet Baker, Stevie Wonder, Ray Charles, Aretha Franklin. Mio fratello era un concertista, mio nonno un melomane e mi cantava le arie di Puccini».

Ha paura del virus?

«Credo di essere una persona coraggiosa. Ma seguo in modo viscerale le prescrizioni e il corso dei vaccini che in passato hanno già salvato il mondo e dovrebbero continuare a farlo».

È giusto che le sale cinematografiche continuino a restare chiuse?

«Finché non c’è una sicurezza importante e vera sì. È una pandemia».

Della crisi di governo che idea si è fatta?

«Mamma mia… Ho sempre pensato che le persone che fanno politica, di qualsiasi orientamento, dovrebbero essere migliori di noi cittadini. Invece accade molto di rado. E questo mi fa incavolare e mi addolora».

Che sogno coltiva per il futuro?

«Mi piacerebbe dedicarmi a qualcosa nel cinema, un personaggio o un copione che mi dia speranza. Lo dico anche scaramanticamente».

 

La Verità, 6 febbraio 2021

«Giuramento d’Ippocrate anche per i giornalisti»

È pronta a salire sulle montagne russe? Ho un certo numero di domande, mi appello alle sue doti di sintesi… «I tempi televisivi dovrei conoscerli. Cominciamo?».

Volto gradevole di La7, ex moglie di Domenico Arcuri, commissario straordinario per l’emergenza Covid, compagna di Marco Tardelli, mamma di tre figli, autrice del saggio Madri. Perché saranno loro a cambiare il nostro Paese (Rizzoli). È ciò che si sa di Myrta Merlino, conduttrice dell’Aria che tira, in onda tutte le mattine dalle 11 all’una e mezza.

Chi era la bambina Myrta Merlino?

«Era una bambina diventata adulta troppo presto. Avevo genitori speciali a cui devo molto, ma erano due sessantottini poco genitori. Mia madre venne arrestata a Parigi quando mi aveva in pancia».

Studi e frequentazioni giovanili?

«All’università ho scelto economia, ma poi, con la mia fretta di arrivare, sono passata a Scienze politiche. Sono stata tra i primi studenti a sperimentare l’Erasmus con uno stage a Bruxelles. Entravo nel palazzo della Commissione europea con il buio e ne uscivo quand’era di nuovo buio».

Non entusiasmante.

«Ero disperata. Fortunatamente da lì avevo iniziato a mandare brevi note al Mattino di Napoli. Cominciai a muovere i primi passi nel giornalismo, una volta il mitico Pasquale Nonno mi disse: “Piccerè, tu si brava… sei sicura di voler fare l’economia che sta a pagina 30 del giornale?”. All’epoca aveva ragione lui, alla lunga ho avuto ragione io».

Prima di arrivare a La7?

«Ho lavorato 12 anni in Rai con Giovanni Minoli, straordinario maestro e mangiatore dei suoi allievi».

Maestro prolifico.

«Mi ha insegnato tutto, dal montaggio alla musica. I miei autori mi odiano perché non mi sfugge niente».

Come passò a La7?

«Mi chiamò Gianni Stella, soprannominato Er canaro. Era amministratore delegato della rete allora di proprietà di Telecom e io avevo intervistato Franco Bernabè, il presidente: “Vuoi fare un programma di economia su La7?”. Era l’occasione per iniziare a camminare con le mie gambe».

Quindi accettò.

«La cosa strana è che mi proposero la seconda serata e ora conduco un programma pop del mattino. La vita ha più fantasia di noi».

All’Aria che tira ha scelto una conduzione morbida, materna…

«Mi fa piacere che la definisca materna perché siamo davvero una famiglia. Quando ho iniziato, dieci anni fa, lo share era dell’1,7%, il programma durava mezz’ora e io ero una giornalista tutta impostata. Adesso dura due ore e mezza e l’anno scorso abbiamo chiuso al 7%».

Dieci anni, duemila puntate: ora è meno impostata?

«Sono più in tv che a casa, ma sono la stessa persona in onda e fuori, nel bene e nel male, comprese le battute di cui a volte mi pento».

Con l’eccezione di Massimo Giletti, La7 è piuttosto filogovernativa, lei anche?

«Credo di essere una persona equidistante e post ideologica. Matteo Salvini lo conosco da quando era un ragazzotto che andava in giro per i mercati con le felpe e mi chiamava lui: “Myrta, facciamo un collegamento?”. Ho ottimi rapporti con politici di sinistra e di destra. Credo che il mio tratto umano si veda. Mi appassiono a certe battaglie, come avvenne per quella degli esodati, sui quali avrò fatto cento puntate attaccando il governo Monti. Poi mi capitò di difendere Elsa Fornero perché ritenevo sbagliato scaricare su di lei tutte le colpe».

Si può dire che la sua conduzione è meno militante di altre della rete?

«A La7 non ci sono parole d’ordine. Siamo piccoli, si fa tanto da soli, a volte con pochi mezzi. Non ho mai avuto pressioni dall’editore o dal direttore, che è un uomo di sinistra. Da Corrado Formigli a Giovanni Floris, tutti andiamo in onda con la nostra personalità».

I talk show settimanali sono maschili, mentre le strisce quotidiane sono condotte da lei al mattino, Tiziana Panella al pomeriggio, Lilli Gruber la sera.

«Questo mi piace molto. Spesso ci incaponiamo su cose inutili… ministra anziché ministro… uff, tutte polemiche pretestuose. L’altro giorno mi hanno chiamato per commentare l’enciclica Fratelli tutti dicendo che papa Francesco si è dimenticato le sorelle. Ma che m’importa! Io ho avuto una mamma femminista al momento giusto, non ho stress femministi ritardati».

Quel commento l’ha fatto?

«No. Invece padre Enzo Fortunato da Assisi mi ha chiesto di scrivere su SanFrancescopatronod’Italia.it un piccolo articolo sull’enciclica e quello sì, l’ho scritto volentieri. Sono anche onorata di partecipare alla consulta femminile del Consiglio per la cultura diretto dal cardinal Gianfranco Ravasi che mi ha chiamato sapendo che sono battezzata, ma non praticante».

Quando partirà il programma della domenica pomeriggio?

«Ne parliamo da un po’, è un progetto che mi appassiona. La domenica è sinonimo di famiglia, perciò l’idea è far leva sulla familiarità che si è instaurata con il pubblico per raccontare la politica, l’economia e la cronaca. Spero che questo progetto veda presto la luce».

Cosa vuol dire come ha scritto su Avvenire che «nell’Italia del coronavirus non c’è più spazio per il talk fine a sé stesso»?

«Che sono sempre più allergica alle chiacchiere inutili. Si parla delle cure contro il Covid e si scatenano guerre tra le regioni e il governo, tra Lazio e Lombardia… I problemi della pandemia si sono sovrapposti a quelli strutturali. Chi fa informazione, credo debba aiutare la comunità facendo servizio pubblico».

Per esempio spiegando con il portavoce dell’Associazione funzionari di polizia Girolamo Lacquaniti le sanzioni relative all’uso delle mascherine?

«Penso serva a mostrare che le forze dell’ordine sono dalla parte dei cittadini. Si ricorda la contestazione a quelle persone che prendevano il sole nella spiaggia deserta? Oltre a spiegare le regole, c’è un’esigenza di pacificazione perché siamo tutti nella stessa barca».

L’ho vista sollevata dopo un’ospitata a Vittorio Sgarbi.

«Sono amica della sua compagna, Sabrina Colle: “Tu lo rendi buono”, mi dice».

Si parla troppo dell’emergenza sanitaria?

«I dati di questi giorni m’indurrebbero a dire di no. Anche medici bravi come Roberto Burioni in passato hanno detto che la mascherina non serviva. Ora l’infettivologo Matteo Bassetti sostiene che se si è da soli all’aperto non serve. Ma se incontri qualcuno e non ce l’hai? Non me la sento di minimizzare».

Non crede, come ha detto Sgarbi, che ci sia troppa enfasi sul male e poca valorizzazione del bene? Troppo allarmismo?

«Sto molto attenta a non innescare l’allarmismo, ma mi arrabbio parecchio se vedo che bisogna fare otto ore di coda per sottoporsi ai tamponi. O se, nonostante si sappia da quattro mesi che il vaccino antinfluenzale è importante, ora in farmacia non si trova».

Massimo Cacciari ha detto che non serve lo stato di emergenza per far indossare le mascherine in assenza di distanziamento.

«Credo che dobbiamo trattare gli italiani da persone adulte, non come bambini da tener buoni agitando l’uomo nero. Penso che lo stato di emergenza serva a favorire una maggiore velocità di reazione, ma su questa polemica politica non voglio infilarmi».

Nei Paesi europei che stanno peggio dell’Italia non c’è.

«Sono diversi da noi, nel bene e nel male. Quando Emmanuel Macron ha anticipato l’apertura della scuola ero contenta, ma ora vedo che ha un problema enorme. Donald Trump è uscito dall’ospedale perché è guarito, ma Anthony Fauci ha detto che è stato imprudente perché il coronavirus comporta ricadute. Siamo in mezzo al guado, è difficile dire cos’è bene e cos’è male. Personalmente, cerco di essere umile e intellettualmente onesta».

Crede che anche i giornalisti televisivi debbano ripensare il loro modo di lavorare?

«Sul Corriere della sera ho scritto che ci vorrebbe un giuramento di Ippocrate per i giornalisti. Per questo abbiamo creato dilloamyrta@la7.it, l’indirizzo al quale abbiamo ricevuto 70.000 mail. Il tanto dolore visto aumenta la voglia di dare una mano. Quando tutte le mattine vedo i numeri dell’Auditel il senso di responsabilità cresce ulteriormente».

Da quando è esplosa l’epidemia c’è qualcosa che non rifarebbe?

«Non conoscevamo questo virus. Nessuno che sia onesto può dire di non aver mai detto una cazzata. Appena si diffuse chiesi a Burioni se ci si poteva suicidare con il coronavirus e lui rispose di no».

Gli chiese anche se poteva mangiare in diretta gli involtini primavera.

«La Cina all’inizio non sembrava così opaca. Ripensandoci, mia madre, che era una sinologa, mi diceva che il mix tra capitalismo sfrenato e partito unico poteva essere economicamente formidabile, ma civilmente molto pericoloso. Purtroppo questa storia ce l’ha dimostrato».

Il vostro compito è informare o influenzare, per esempio inginocchiandosi per Black Lives Matter?

«Mia figlia mi aveva mostrato il filmato integrale dell’uccisione di George Floyd, sette minuti terribili. Non volevo influenzare nessuno, ma manifestare quello che sentivo. Penso che a volte bisogna prendere posizione anche su vicende che sembrano lontane. Se molti anni fa Rosa Parks non fosse rimasta seduta su quell’autobus probabilmente le cose non sarebbero migliorate, seppure ancora troppo lentamente».

È difficile fare informazione sull’epidemia mentre il suo ex marito è commissario straordinario per il Covid-19?

«Domanda retorica. Credo di aver mantenuto equilibrio senza mancare di rispetto al padre miei figli».

Ex moglie di Arcuri, ora compagna di Marco Tardelli: l’attraggono gli uomini ombrosi?

«È stato così a lungo, m’ingarellavo con me stessa davanti alle persone complesse. Marco si autodefinisce chiuso e timido, ma per me è il sole, un uomo positivo e generoso. Mi sono conquistata tutto con le unghie e i denti, invece lui è la mia botta di culo».

Rischiate di diventare soggetti da gossip?

«Abbiamo cercato a lungo di tener bassa la nostra storia per rispetto dei figli. Poi una foto su Chi ha ritratto una sua mano sotto la mia giacca e Vittorio Feltri scrisse un pezzo intitolato “Tardelli e la mano Myrta”. Dopo quattro anni di grande amore se un giornale ci fa delle domande e delle foto, perché no? L’altro giorno un paparazzo ci seguiva, l’abbiamo salutato tranquillamente. Viviamo con molta serenità».

 

La Verità, 10 ottobre 2020

«Con gli Sgarbi racconto il per sempre dell’amore»

Buongiorno Pupi Avati, finalmente torna sul set.

«Finalmente, sì. Le riprese di Lei mi parla ancora dovevano iniziare il 25 marzo. Poi…».

Quando uscirà nelle sale?

«Nel 2021. Vision Distribution ha mostrato grande coraggio per co-produrre una pellicola di qualità e controcorrente come questa».

Come sarà girare post Covid?

«Dobbiamo rispettare una serie di regole e vincoli. Mi hanno fatto il test sierologico e dovrò ripetere il tampone ogni settimana».

E la troupe?

«Sarà sempre monitorata. Abbiamo un medico e un infermiere fissi sul set. Noi che siamo sempre accoglienti con chi vuole assistere, stavolta siamo blindati. Ingresso vietato anche alle troupe della Rai».

Limitazioni anche di tipo artistico?

«Avevamo previsto circa 360 comparse, ce ne hanno concesse meno della metà».

Però…

«Finalmente si comincia. Anzi, facciamo presto…».

A 81 anni compiuti, Pupi Avati, reduce da Salina dove ha ritirato il premio Troisi alla carriera, è ancora entusiasta del suo lavoro, «un mestiere che non s’impara mai», e non vede l’ora di dare il primo ciak, lunedì prossimo, a Lei mi parla ancora, il film ispirato al libro nel quale Giuseppe «Nino» Sgarbi, padre di Elisabetta e Vittorio, si rivolgeva alla moglie Caterina «Rina» Cavallini da poco scomparsa. Era una lunga e struggente lettera all’amata di una vita, terzo capitolo della saga di una famiglia di farmacisti con grandi vocazioni artistiche (lo stesso Nino, morto nel gennaio 2018, iniziò a scrivere a 93 anni, cedendo alle insistenze della figlia).

A interpretare papà Sgarbi doveva essere Massimo Boldi.

«La primissima idea era stata Renato Pozzetto. Solo che avevo avuto un piccolo diverbio con lui e avrei dovuto chiamarlo per chiedergli scusa. Ma tendevo a rimandare. Alla fine, dopo varie peregrinazioni, ho pensato che conveniva rompere gli indugi pur di averlo».

Una di queste peregrinazioni l’aveva portata da Johnny Dorelli: sarebbe stato un bel colpo di cinema.

«C’è stata anche questa ipotesi, ma lui non se l’è sentita mancando dal set da troppi anni. La scelta di Pozzetto è la migliore, a conferma che non tutti i mali vengono per nuocere. Mi stimola anche la sfida di offrire un ruolo drammatico a un attore esclusivamente comico».

Un’operazione che ha già avuto successo con altri.

«Ma ogni essere umano, ogni attore, è diverso. Pozzetto non è Diego Abatantuono o Carlo Delle Piane o Neri Marcoré. Ognuno ha il proprio temperamento…».

Invece con Stefania Sandrelli nessun dubbio?

«Nessuno».

Oltre al Covid e al cast ha dovuto superare altri scogli?

«Dal libro che lei mi ha suggerito di leggere, perché è stato lei a segnalarmelo, dovevo trarre un mio film. Nel far cinema ho sempre attinto ai miei ricordi senza dover ricorrere a quelli di altri. Questa era la prima volta. Ma leggendo il mémoire di Nino Sgarbi mi ha commosso la storia, assolutamente anacronistica, di un matrimonio durato 65 anni. Dovevo trovare il modo di appropriarmene, di farla mia».

E come ha fatto?

«Ho pensato di raccontare com’è nato il libro, frutto dell’incontro tra un anziano farmacista di Ro ferrarese e un ghostwriter che lo induce a scavare e raccontare le sue memorie. Il film è il prequel del libro».

Non potendo scrivere perché semicieco, Nino Sgarbi ricordava e Giuseppe Cesaro trascriveva…

«Si è instaurata una simbiosi letteraria tra due persone di età e di esperienze molto diverse».

Intervistato per Panorama Cesaro mi disse che dialogando con Nino gli sembrava di farlo con suo padre, anch’egli rodigino.

«Sarà Fabrizio Gifuni a interpretare il ghostwriter con situazione familiare sgangherata alle spalle. Il rapporto tra lui e papà Sgarbi aveva qualcosa di surreale, perché erano due mondi lontani che s’incontravano non senza la fatica di trovare un linguaggio comune. Il film racconta l’interlocuzione tra il buon senso di questo vecchio e colto signore e il più giovane intellettuale dall’esistenza disordinata».

Chi interpreta Bruno Cavallini, fratello di Rina e zio di Elisabetta e Vittorio?

«Alessandro Haber. Bruno Cavallini era l’intellettuale della famiglia che parlava di poesia con Nino. Era una persona di grande fascino che sedusse e influenzò Vittorio da giovane».

Elisabetta Sgarbi?

«Sarà impersonata da Chiara Caselli, già con me nel Signor Diavolo».

Com’è stato collaborare con i fratelli Sgarbi?

«Elisabetta è una persona meravigliosa, una collaboratrice generosissima che tiene molto a questo progetto. Anche Vittorio ha dato dimostrazione di pudore, restando a distanza. Temevo la sua esuberanza, invece ha mostrato grande rispetto per il nostro lavoro».

Che cosa l’ha affascinato di più di questa storia?

«L’idea del titolo, Lei mi parla ancora. Il fatto che lui non voglia credere che lei non ci sia più».

Il protrarsi del rapporto?

«Oltre l’evento traumatico che li aveva separati. Tanto che lui sosteneva che lei fosse ancora nascosta nella casa».

Torna a girare nella Romagna che confina con il Veneto, il Po…

«È la parte dell’Emilia più rimasta legata alla sua storia. In questo tempo sospeso, nel silenzio della casa, tra le donne di servizio e le opere d’arte raccolte da Vittorio e dalla madre, è più facile capire come questo vecchio signore continui il dialogo con la donna della sua vita. È una situazione che ha a che fare con un non tempo, con un tempo fermo».

È il tema centrale del film?

«Il non tempo è il “per sempre” della promessa che Nino e Rina si sono fatti quando hanno deciso che si sarebbero sposati. Una volta si credeva in queste promesse. Ora, nella formula del matrimonio civile, non è nemmeno contemplata, non si dice “finché morte non vi separi”. Anche se poi non accade, nel momento in cui lo dici devi crederci. I ragazzi di oggi non aspirano a questo per sempre».

Per mancanza di ambizione, per incapacità di pensare in grande?

«Certo, adesso è tutto relativo. Lo stesso vocabolo “compagna” trasmette un senso di provvisorietà, “moglie” è molto più impegnativo».

(Voci in sottofondo) Che succede?

«Qui ascoltano e ridono. Dicono che si parano il c… Invece è bello crederci e rischiare».

Questo film sarà visto in prevalenza da persone anziane?

«Ha un target certamente non giovanile o giovanilistico. Nel leggerlo si commuovo anche i miei collaboratori, ma non sono sicuro che i ragazzi oggi abbiano voglia di commuoversi. Un film romantico e letterario è una sfida».

La sfida è raccontare l’amore come una forza che cambia nel tempo?

«Io ci posso provare avendo sperimentato in 55 anni di vita insieme tutte le temperature, difficoltà comprese, del matrimonio: mestiere difficilissimo. Se non ci fosse mia moglie, il mio hard disk…».

Senza il quale i file non funzionano…

«Dentro i suoi occhi ci sono io in tutte le età».

Lei mi parla ancora dirà qualcosa ai giovani delle difficoltà a metter su famiglia?

«Noi non abbiamo mai pensato che mettere al mondo un figlio fosse una variabile nella programmazione finanziaria della coppia: prima compriamo la macchina, poi l’appartamento, poi facciamo un figlio. Oggi c’è grande rispetto per la natura e la cultura green, ma quando si tratta di avere figli iniziano le eccezioni».

 

La Verità, 29 luglio 2020

«L’Italia dovrebbe vincere con il potere dell’arte»

Artista, artigiano, musicista, musicologo, autore, compositore, interprete, showman: Marco Castoldi, in arte Morgan. Persona controversa. Altrimenti non si spiegherebbe come possa esser finito al centro di un inestricabile ingorgo amministrativo giudiziario sentimentale culturale, sfociato nel pignoramento della sua dimora-atelier. Ora, per sensibilizzare le autorità sulla vocazione dell’artista e sul legame tra la creazione e il posto dove questa si genera e prende forma, Marco Castoldi ha pubblicato per La nave di Teseo Essere Morgan – La casa gialla, primo libro di una trilogia, corredato di numerose illustrazioni, che si apre con una lettera al ministro dei Beni e delle attività culturali.

Sulla copertina si firma Marco Morgan Castoldi. Come devo chiamarla?

Come vuole. Morgan è il nome d’arte di un cantante autore performer pianista saltimbanco partorito da una persona che si chiama Marco e si occupa di spettacolo artistico, fatto di musica e parole.

Nella casa-atelier si realizza la sovrapposizione tra persona e artista: espropriarlo vuol dire impedirgli di creare?

Sicuramente nella casa avviene il concepimento e spesso la realizzazione dell’opera. Il posto dove abita l’artista è il posto dove abitano le sue idee. E le sue idee sono la sua arte. In questo periodo ripetevo che da trent’anni sto in quarantena, per cui non c’è nulla di nuovo. Ma siccome me l’hanno tolta, non ho più nemmeno la libertà di stare in casa mia.

Dove ha trascorso il lockdown?

In case a breve termine, piene di bagagli, senza i requisiti tecnici per la mia attività musicale. Case scomode. Case casuali.

Come si mantiene? Eravamo rimasti al pignoramento alla fonte dei suoi introiti, ci sono novità?

Nessuna. Sono rimasto completamente inascoltato sia come cittadino che come artista. Il ministero che dovrebbe occuparsi di beni e attività culturali e organizzare il rapporto tra l’artista, la società e il mercato non fa nulla. Neanche fa finta di farlo.

Il pignoramento e lo sfratto sono opera di Asia Argento per il mancato mantenimento della figlia o dell’Agenzia delle entrate per il mancato pagamento delle tasse?

Non ho quasi mai mancato di mantenere le mie figlie. In realtà le cifre corrisposte sono più alte di quelle richieste. Perché oltre l’assegno mensile, ho assolto alle spese per la scuola e per le attività sportive e ricreative. Ricordo che la bambina è cresciuta con me per quattro anni. Poi ho versato alla madre 3000 euro al mese. Direi tanti per mantenere una bambina. Perciò mi è venuto il dubbio di aver mantenuto anche il tenore di vita da star della madre.

Ma gli alimenti li ha sempre pagati?

Non sempre. Ho avuto problemi con i manager. Ci sono stati momenti in cui non venivo pagato. Ho chiesto di pazientare, assicurando che avrei risolto la situazione. Negli anni ho versato qualcosa come 350-400.000 euro. Va bene, era la risposta. Poi però arrivavano le lettere dell’avvocato. Comportamenti miseri. Non si dovrebbe arrivare a questo tra persone che si sono dette «ti amo». Invece, è successo. E poi ci si atteggia a paladina della battaglia contro la violenza sulle donne.

Era insolvente anche verso l’Agenzia delle entrate?

Tutto è partito da lì. Mi hanno imputato un debito e hanno subito iniziato a pignorare le mie entrate senza discutere di rateizzazione. Non potendo più pagare gli alimenti si è innescata la catena.

Ha presentato reclamo?

L’Agenzia delle entrate è un’entità kafkiana, irraggiungibile. Sono andato di persona per definire una contrattazione basata sui miei introiti. Impossibile. L’anima della burocrazia è questa: dammi la prova che esisti, un documento con marca da bollo. Non basta vederti qui davanti, serve il documento…

Il merito di questa situazione è del suo manager?

Sono passato per diverse gestioni, tutte similmente opache. I manager di artisti non esistono come categoria. Non ci sono regole. Sono autodidatti che pensano di farla in barba all’artista. Il quale è distratto perché pensa alla sua attività creativa.

Perciò non può lamentarsi…

Anch’io ho vissuto da ricco. Le canzoni producono ricchezza. Ho avuto 100, ma loro se ne sono presi 500. Mio compito non è frugare nelle carte dei commercialisti, ma creare una canzone dalla quale tutti traggano vantaggi. Se compongo un ritornello troppo lungo la canzone non incassa due milioni di euro. Se è giusto sì. La mia responsabilità è fare canzoni perfette. Poi, improvvisamente, arriva una notifica di 2 milioni di tasse da pagare.

Con questo libro, introdotto da una lettera all’allora ministro Alberto Bonisoli, contesta il comportamento dello Stato sostenendo che, anziché penalizzarla, dovrebbe sostenerla.

L’obiettivo è mettersi attorno a un tavolo per capire il ruolo dell’artista nella società moderna. E stabilire un sistema di norme affinché le sue creazioni siano vantaggiose per tutti: artista, Stato e mercato. Sono molto competente per ciò che concerne la dimora dell’artista. È una visione che si allarga allo stato dell’arte in Italia fino alla politica del nostro Paese.

In che senso?

Com’è possibile che l’Italia che possiede il più grande patrimonio artistico al mondo sia un Paese economicamente sottomesso e indebolito nella sua sovranità, come abbiamo visto anche durante questa crisi del coronavirus? Un Paese in possesso, temo ancora per poco, di tutta questa bellezza dovrebbe dominare il mondo. Abbiamo avuto Antonio Vivaldi, cioè il maestro di Bach, Mozart e Beethoven. Abbiamo avuto Piero della Francesca, cioè tutti gli Andy Warhol messi insieme. Potrei continuare. Dovremmo governare il mondo…

Invece?

Siamo indebitati perché chi governa è ignorante e non capisce il valore della bellezza. Questi politici vanno aiutati. Vanno condotti per mano perché possano comprendere quanto vale la ricchezza di cui disponiamo.

Nel suo libro parla dell’artista «al centro del reticolo sociale».

L’artista è al centro della comunità, non più fisica o geografica, ma mediatica e virtuale. L’artista aggrega. Che cosa ricordiamo della storia del nostro Paese? I grandi artisti come Leonardo da Vinci o Dante Alighieri. La storia la fanno i grandi creatori o i grandi distruttori. Leonardo e Ludovico il Moro, Picasso e Hitler: dipende da che parte stiamo.

La legge è uguale per tutti: se un musicista rimane senza lavoro è come se accadesse a un commesso?

Il commesso ha la mia stessa dignità. Né più né meno. Ma sul piano sociale è diverso. Sui social scrivono: chi ti credi di essere? Se mi togli la casa mi togli anche il lavoro. Al commesso resta il negozio. Se non lavoro io, si ferma tutto l’indotto delle mie canzoni. A un concerto ho 50.000 persone davanti, qualche decina lavora dietro e attorno al palco, altri guadagnano con i diritti d’autore, poi ci sono le case discografiche, gli uffici stampa… Io posso sostituire il commesso in negozio, lui non può sostituire me.

Intanto il ministro è cambiato. Ora è Dario Franceschini, concittadino di Vittorio Sgarbi, prefatore del libro.

Quindi, per campanilismo dovrebbe leggerlo. Poi mi auguro di incontrarlo.

In quasi tutte le sue ultime esibizioni sono successi casini.

Sono rappresentazioni artistiche.

Con Sky siete in causa per X Factor.

Per forza. Mi hanno promesso un cachet, la mia partecipazione ha portato ascolti, ma non mi pagano giustificando il fatto con le mie intemperanze.

Anche con Maria De Filippi non è finita benissimo.

Idem. Pensando a Maria De Filippi, faccio «Ah!».

Prego?

Ah! Un’esclamazione alla Al Pacino. Nel palazzetto dove si registrava Amici una sera mi è esplosa una paura pazzesca… Sono scappato. «Dove stai andando?», urlavano. «Basta, sono un comunista, sono un comunista». Sono scappato per i campi, nella nebbia, ancora con l’auricolare addosso.

Mi prende in giro? Sembra la scena di un film…

È successo davvero.

A Sanremo sappiamo com’è andata con Bugo.

È stata un’invenzione teatrale, un’iniezione di spettacolo. Sa quanto ha reso il video a YouTube? 23 milioni di euro, con oltre 15 milioni di visualizzazioni. Ma né io né la Rai abbiamo avuto niente.

Ha rotto con Sky, ha rotto con Mediaset e con la Rai ci siamo vicini?

Tutt’altro. La Rai la amo perché è super partes. Sogno di realizzare una trasmissione che valorizzi quello che so fare. Il programma di Enrico Ruggeri è stato un buon passo avanti. Spero venga il mio momento.

Tornerà al Festival nel 2021?

Amadeus è una persona seria, ironica e professionale. Forse l’idea migliore sarebbe che io e Bugo tornassimo come ospiti. Io ospite di Bugo e Bugo ospite mio… Ci pensa? Con l’utopia di fare pace sul palco. E con la strizza che, se non riesce, si ripeterà un altro fattaccio.

Per concludere, c’è qualcosa che la fa essere ottimista?

Penso che mi rivolgerò alla magia.

Chi è Morgan?

Un angelo che va sul palco. E può essere commovente o divertente.

 

Panorama, 20 maggio 2020