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«Il Papa vuole essere pop come un influencer»

Atti impuri. Argomento scabroso, teologicamente incandescente e attualissimo. Ha a che fare con la dottrina della sessualità e del matrimonio. Con il ruolo della donna e i rapporti nelle coppie dello stesso sesso. Con gli abusi e le violenze dei preti e la pedofilia: ferite apertissime nella Chiesa. Se ne occupa in Atti impuri, appunto, per Laterza, la storica e femminista Lucetta Scaraffia, con approccio distaccato e chirurgico.

Da che cosa nasce questo saggio?

«Dalla scoperta che l’unico dei Dieci comandamenti che ha cambiato formulazione è il sesto, ed è quello che riguarda il comportamento sessuale. Ha smesso di essere “Non commettere adulterio” ed è diventato “Non commettere atti impuri”. Il cambiamento è avvenuto nel Cinquecento e solo nel 1992 è tornato alla formulazione originale».

Qual è lo scopo del libro?

«Trovare le radici dell’atteggiamento della Chiesa di fronte agli abusi sessuali. La Chiesa ha dimostrato una grande difficoltà a risarcire le vittime. Anzi, ancor prima, ad accettare che esistano. Il suo sguardo è concentrato sul colpevole, che diventa peccatore in quanto ha trasgredito il sesto comandamento».

Perché preferisce la formulazione: «Non commettere adulterio»?

«Perché allude a una rete di rapporti sociali. Allude alla rottura di un legame di fiducia all’interno di una famiglia e di una comunità».

Non rischia di essere ripetitiva del nono comandamento: «Non desiderare la donna d’altri»?

«Certo. Però l’adulterio è un fatto, una realtà che avviene e danneggia i rapporti sociali. Quello trattato nel nono comandamento è un peccato di intenzione e di desiderio».

Che ha una radice nel vangelo di Matteo: «Chi guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio in cuor suo».

«Perché, in realtà, i desideri tendono a realizzarsi».

La formulazione è cambiata quando è insorta la variegata casistica di trasgressioni che riguardano la sessualità e il rispetto del corpo «tempio di Dio»?

«La formulazione diventa “Non commettere atti impuri” quando l’attenzione si sposta solo sull’individuo che compie l’atto e la sessualità trasgressiva comincia a essere concepita come impurità. Quindi, il colpevole peccatore deve tornare puro. Non conta nulla la persona con cui ha commesso l’atto».

Un cambiamento di prospettiva importante.

«Fino all’epoca moderna la Chiesa controllava anche l’ordine pubblico, garantendo che nelle comunità non prevalesse la violenza. In quest’ottica i peccati più gravi erano l’ira, la superbia e l’invidia perché innescavano azioni di sopraffazione. Invece, con la nascita degli Stati nazionali, sono le istituzioni statali ad assumere il compito di garantire l’ordine pubblico. A quel punto la Chiesa si preoccupa di consolidare il suo unico ambito di supremazia, che è quello del comportamento sessuale e delle relazioni private».

«Non commettere atti impuri» equipara l’adulterio, la contraccezione, la masturbazione, l’omosessualità, la pedofilia, la prostituzione. Come si poteva formulare un comandamento per ognuno di questi peccati?

«Il problema è che vengono messi sullo stesso piano peccati che non diventano violenza verso altri, come la masturbazione e la prostituzione, e azioni come l’abuso e lo stupro nelle quali ci sono delle vittime».

L’errore è aver inglobato lo stupro e gli abusi, la violenza sul partner non consenziente?

«La Chiesa non mostra attenzione alla questione del consenso che oggi è diventata centrale nel giudicare le trasgressioni sessuali».

La Chiesa si preoccupa della conversione del cuore. Gli effetti sulla vittima e la riparazione delle conseguenze delle azioni del peccatore sono il terreno della carità e dell’azione pastorale?

«L’unico comandamento che Gesù ha lasciato è “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”. Questo è l’unico comandamento della tradizione cristiana. La conversione del cuore deve comprendere anche la carità e la responsabilità verso gli altri. È fondamentale per un cristiano. Questa definizione del peccato deriva da una concezione maschile della sessualità».

Perché?

«Perché per gli uomini esiste una forma di piacere anche in un rapporto di abuso e stupro, mentre per le donne no. Il sesto comandamento e il diritto canonico considerano la vittima come complice, anche se non volontaria, della trasgressione. Perché è un piacere impuro al di fuori del legame matrimoniale, l’unico accettato dalla morale cristiana».

Non riesco a vedere in che modo la Chiesa consideri complice nel piacere il non consenziente.

«La vittima non viene considerata tale. È solo una persona coinvolta nella trasgressione del sesto comandamento».

Queste debolezze attraversano parti consistenti del clero e fanno dire ad alcuni teologi e vescovi che la soluzione potrebbe essere l’abolizione del celibato dei preti e il sacerdozio femminile. Lei cosa ne pensa?

«Penso che non è una soluzione magica. Sappiamo che gli abusi avvengono anche nelle famiglie e con uomini sposati. Però nel matrimonio c’è una donna che controlla l’uomo e sta attenta a quello che combina».

Quindi è favorevole?

«Forse sì. Sarebbero meno soli, e questo è importante. Ma anche la fine del celibato avrebbe risvolti negativi. Sarebbe una soluzione a doppio taglio».

Per esempio?

«Gli interessi della famiglia potrebbero distoglierlo dalla cura dei fedeli, sia dal punto di vista finanziario che emotivo. Poi il comportamento magari trasgressivo dei famigliari potrebbe nuocere alla sua autorevolezza nei confronti dei fedeli… Lei si immagina un prete con figli drogati o bulli?».

La sessualità è il terreno nel quale i Papi sperimentano maggiore solitudine, come confermò Paolo VI ad Alberto Cavallari il 3 ottobre 1965: «Si studia tanto, sa… Ma poi tocca a me decidere. E nel decidere siamo soli…». Perché?

«Perché da quando è iniziata la rivoluzione sessuale nei primi decenni del Novecento la Chiesa si è trovata a vivere dentro una tendenza storica che promuoveva una morale opposta a quella che aveva sempre insegnato, cioè  in una situazione fortemente contraria al nuovo spirito del tempo».

È la stessa solitudine di cui ha parlato papa Francesco intervistato da Fabio Fazio a proposito dell’autorizzazione concessa alla benedizione delle coppie omosessuali contenuta nella Fiducia supplicans?

«Quella è tutta un’altra cosa. In realtà, la decisione di benedire le coppie omosessuali è stata fatta per rispondere alla una tendenza storica in atto di riconoscimento degli omosessuali. Quindi, il Papa non è solo e diverso dalla mentalità comune, ma si adegua al fluire del pensiero corrente. Caso mai è solo rispetto a gran parte della Chiesa che non approva quella decisione. È un tipo di solitudine completamente diversa».

Che cosa pensa della decisione del presidente del Dicastero per la dottrina della fede Víctor Manuel Fernández?

«Penso che non ce n’era alcun bisogno perché, in realtà, le cose sono rimaste come prima. Cioè, è sempre stato possibile per un sacerdote benedire i singoli individui, senza domandare loro se sono buoni o cattivi. Il problema riguarda le coppie, ed è stato specificato che non possono essere benedette in quando coppie omosessuali».

Cosa pensa del fatto che papa Francesco ha detto che chi critica questa dichiarazione non conosce a fondo la materia?

«Penso che l’abbia detto per difendersi dalle polemiche, ma non è vero. È un modo per impedire di criticare una dichiarazione che è nulla perché nella sostanza non fa che ribadire un’azione che già si può compiere».

Nei giorni scorsi Francesco ha detto che «il sesso è un dono di Dio»: è un passo avanti?

«No. L’aveva già detto Giovanni Paolo II nella sua teologia del corpo e nel libro Amore e responsabilità».

Lei si sofferma sulla controversa formulazione del sesto comandamento, ma papa Wojtyla l’ha riportata all’origine. Si tendono un po’ a rimuovere le innovazioni del suo pontificato, ma con lui e Benedetto XVI la Chiesa si è ravveduta, o no?

«Ravveduta non è la parola giusta. È tornata su alcuni punti rifacendosi alle origini della dottrina cristiana. Chi ha riportato alla formulazione originaria il sesto comandamento è stato l’allora cardinale Ratzinger, nel nuovo catechismo. Ed è stato sempre Ratzinger, cioè Benedetto XVI, nella lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda del 2010, a dire che gli abusi erano stati perpetrati “contro” le vittime e non “con” le vittime, come prevedeva la formulazione precedente».

Che cosa rappresenta questo papato dopo quelli di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI?

«A me sembra che ci siano stati cambiamenti importanti come l’attenzione alla terra e all’ecologia che ha aperto una sfera nuova di impegno dei cattolici. Però, per il resto, mi pare che abbia generato molta confusione».

Ambientalismo, teoria gender, migranti: la Chiesa è troppo allineata al pensiero unico?

«Più che altro è silente rispetto ai numerosi punti in cui il  pensiero unico si allontana dalla dottrina cristiana, perché parlare la renderebbe impopolare. E il Papa ha scelto la popolarità».

Qualche giorno fa ha detto che si comporta come un influencer. L’influencer influenza scelte e comportamenti dei seguaci come fa anche un’autorità morale, o no?

«L’influencer deve cavalcare la mentalità corrente, non può mai schierarsi contro la mentalità corrente. È questo il problema».

Nel frattempo, le chiese si svuotano?

«La ricerca della popolarità di Francesco, le interviste infinite, il suo avvicinarsi al pensiero del mondo: tutto ciò non è servito ad attirare persone al cristianesimo».

È un Papa molto apprezzato da chi non è credente.

«Che rimane tale. Perché i non credenti non vedono la grande differenza tra quello che dice e quello che fa, prestano attenzione solo alle parole».

Qual è questa differenza?

«Ha sempre detto che le donne sono importanti e che bisogna ascoltarle. Ma non ha mai fatto nulla di reale per cambiare il loro ruolo nella Chiesa. Ne ha messa qualcuna qua e là, realizzando una cosmesi superficiale. Non ha mai affrontato seriamente il tema degli abusi contro le suore da parte di sacerdoti e religiosi, che sono numerosi e gravi, e comportano spesso come conseguenza l’aborto».

Da storica quale futuro intravede per questa Chiesa?

«La Chiesa deve ridefinire sé stessa rispetto al mondo contemporaneo. È un’operazione che aveva avviato papa Ratzinger, che era un grande studioso del rapporto fra Chiesa e modernità nella sua accezione più alta. Penso che valga quello che ha profetizzato lui: rimarranno pochi cattolici, ma di grande qualità».

Il piccolo gregge?

«Da cui ricominciare».

 

La Verità, 20 gennaio 2024

«Gesù? Un vero influencer, lo dice pure la statistica»

Di Roberto Volpi in Rete ci sono pochissimi cenni. Statistico, direttore di uffici pubblici e ideatore del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Pisano di nascita, fiorentino d’adozione.

Come mai, professore?

«Innanzitutto, non sono professore perché non ho mai insegnato. Ma appena uno scrive un libro lo si fa subito professore».

Lei ne ha scritti diversi. Il penultimo era Gli ultimi italiani – Come si estingue un popolo e l’ultimo s’intitola In quel tempo – Da Gesù a Paolo attraverso i numeri del Nuovo testamento, entrambi da Solferino. Ma torniamo alla scarsità di notizie online su di lei.

«È così perché non sono sui social, non ho siti. Vedo amici molto assorbiti da questa attività, io mi sento più libero così. Sono un uomo di un altro tempo».

Quanti anni ha?

«Sono del 1946, un prodotto della Liberazione».

Tempo in cui si facevano figli con più slancio, nonostante si stesse peggio.

«Ma si aveva l’idea di costruire il futuro. Oggi si sono divaricati l’individualismo e la famiglia, che sono i due elementi di spinta della civiltà».

Perché la famiglia è poco sponsorizzata?

«Qualche decennio fa la coppia eterosessuale godeva di maggiore considerazione sociale. Oggi l’individualismo si è allargato e prevale la voglia di realizzarsi da sé e per sé».

Io lo chiamerei egoismo: ci sono sia le fiere della maternità surrogata sia la pillola anticoncezionale gratuita.

«L’individualismo è anche una molla di crescita della società. Ha generato novità. Non bisogna annichilirlo, ma agganciarlo alla famiglia».

Sta seguendo gli Stati generali della natalità?

«Poco. Detesto questa kermesse enfatica e sbagliata nella formulazione. Il ministro Francesco Lollobrigida ha fatto un intervento sbagliato».

Gli Stati generali, titolo di memoria rivoluzionaria, servono a portare la denatalità al centro della riflessione nazionale?

«Su questi temi bisogna allargare, non restringere la platea».

Ci è andato anche papa Francesco.

«E questo è un bene. Ma dobbiamo partire dal fatto che nell’ultimo mezzo secolo il mondo è cambiato e la famiglia non può restare invariata».

A restare invariata è la natura, il modo in cui si fanno i figli.

«Certo, è la coppia eterosessuale a far avanzare l’umanità e la civiltà. Altresì dobbiamo sapere che oggi un figlio su due nasce fuori dal matrimonio. E che l’età media della donna madre è minore di due anni rispetto a quella della donna moglie. Prima arriva il figlio, poi ci si sposa. È stato un errore allungare i tempi dell’individualismo liceizzando tutta l’istruzione superiore e svalutando la laurea che è fagocitata dalla magistrale. Il risultato è stato ritardare il tempo della responsabilità».

Lei ha scritto Gli ultimi italiani – Come si estingue un popolo: finalmente ce ne stiamo accorgendo?

«Sì e no, contemporaneamente. Sì, perché c’è nuova una coscienza del problema nel governo. È il primo che ne parla espressamente, e non solo perché ha creato un dicastero per la Famiglia e la natalità».

E perché no?

«Glielo dico con dei numeri. Al primo gennaio di quest’anno le donne italiane in età feconda, fra 15 e 49 anni, erano 11.750.000, pari al 38,9% del totale. Dal primo gennaio 2009, quando erano 13.867.000, a oggi sono diminuite di 2,1 milioni, dal 47 a meno del 39%. Nei prossimi dieci anni, tra le bambine e ragazzine che entreranno nell’età feconda e le donne che ne usciranno, ci sarà un saldo negativo di 1.653.000 unità. Al primo gennaio 2033 avremo con una popolazione di donne in età feconda di poco superiore ai 10 milioni, il 34%  del totale. Se si pensa che una buona natalità si ha con una percentuale vicina al 50% si capisce la situazione».

Soluzioni?

«Occorrono sia un’azione decisissima sulla natalità sia una gestione dei flussi migratori che la incrementino da subito. Con una gestione e un’integrazione oculate. Ripeto: il governo è cosciente, ma se le donne che possono fare figli sono quelle, le nascite continueranno a diminuire».

Come le è venuto in mente di applicare la statistica al Nuovo testamento? Perché è utile?

«Per provare a capire qual era lo scenario della vita pubblica di Gesù. Per questo occorreva servirsi di alcune stime».

Quali sono?

«Stime sull’estensione e sul numero di abitanti della Galilea dell’epoca. In base alle quali aveva un’area geografica di circa 1.300 chilometri quadrati, simile a una piccola provincia italiana, per circa 100-120.000 abitanti, circa 90 per chilometro quadrato».

Cambia qualcosa il fatto che lo scenario della vita pubblica di Gesù sia relativamente piccolo?

«Non cambia la qualità del messaggio dell’insegnamento di Gesù, ma le sue modalità».

Perché?

«A causa delle dimensioni contenute, Gesù parlava a folle che cambiavano poco. Molte delle persone a cui si rivolgeva tornavano ad ascoltarlo. Ma Gesù era un grande predicatore e, per non annoiare l’uditorio, variava la predicazione. Cioè inventava parabole sempre nuove per alimentare il fascino e la freschezza dell’insegnamento».

L’evangelista Marco parla di una «folla» che lo seguiva, circa 5.000 uomini si sfamarono grazie alla moltiplicazione dei pani e dei pesci.

«Marco è l’evangelista più concreto. Una volta parla di una folla di 5.000 e un’altra di 4.000, sempre in occasione dei miracoli dei pani e dei pesci. Si parla di uomini, senza contare donne e bambini, perciò, in realtà, presumibilmente si trattava di circa 7.000 persone. In quel tempo ci si spostava solo a piedi. La gente arrivava da un’area distante al massimo 10-12 chilometri percorribili in due o tre ore, alle quali bisogna sommare il tempo di ascolto e quello del ritorno. In totale fanno sei o sette ore. Perciò, la popolazione che poteva raggiungere Gesù in quell’arco di tempo era di circa 30-40.000 persone potenziali, alle quali vanno tolti i bambini più piccoli. Questo significa che circa una persona su 5 andava ad ascoltare, ripetutamente, Gesù».

Oggi lo si direbbe un influencer di successo?

«Un predicatore molto efficace che aveva capacità di radunare grandi folle».

Composte di follower, persone che lo seguono e tornano ad ascoltarlo?

«Dei fan. Nel libro azzardo un paragone, che non vorrei risultasse irrispettoso, con i cantanti che si esibiscono spesso nelle stesse piazze. Gesù aveva gente che lo seguiva quotidianamente».

I vangeli non si soffermano sugli spostamenti e sulla cronologia perché non sono dei diari?

«Gli evangelisti sono interessati a far conoscere la parola di Gesù. Nei loro testi non si trovano mai descrizioni dei luoghi, dei paesi, della gente. Lo scopo è far conoscere l’insegnamento di Gesù, il resto passa in secondo piano, questo spiega la mancanza di annotazioni cronologiche e geografiche».

Come predicatore Gesù registrò qualche insuccesso?

«I vangeli ci parlano della passione e della morte di Gesù che è l’insuccesso massimo. Avviene negli ultimi giorni, a Gerusalemme. Ma prima parlano poco delle difficoltà di Gesù perché il loro scopo è divulgare il suo fascino. Eppure si intuisce che questi momenti ci sono stati perché Gesù si incavola e manda i discepoli in missione a due a due, avvertendoli che, in caso di reazioni tiepide o indifferenti, devono scuotere la polvere dai calzari e andarsene. Dà istruzioni precise perché doveva esserci passato. Poi c’è un altro elemento significativo…».

Quale?

«Istruisce i discepoli a prendere solo una veste. E, non essendo Gesù un asceta come Giovanni il Battista che si vestiva con peli di cammello, questo comando si spiega con il fatto che le missioni degli apostoli durano al massimo un paio di giorni. Vanno e vengono, perché il territorio è piccolo».

Il ridimensionamento geografico e demografico e qualche insuccesso indeboliscono il metodo dell’incarnazione divina?

«Il libro parla della predicazione e della parola di Gesù, non dell’incarnazione. Cerco di collocarlo nel suo ambiente, parlo del Gesù terreno. Non a caso, nella sua geografia minima, i monti sono poco più che colli, il deserto sono piccoli territori senza villaggi e il Mare di Galilea in realtà è il Lago di Tiberiade».

Tra tutti i vangeli non analizza quello di Giovanni perché annuncia l’incarnazione?

«Domanda maliziosa. Insisto sul vangelo di Marco perché è il primo in ordine di tempo e perché era il segretario di Pietro. E sul vangelo di Luca perché è l’ultimo e lui era discepolo di Paolo, colui che universalizzerà il messaggio. Essendo il più mistico, il vangelo di Giovanni si presta meno a essere analizzato con la statistica».

A Gerusalemme, capitale dell’ebraismo, avviene il salto di qualità della missione di Gesù che diventa universale proprio quando viene messo a morte.

«Andando a Gerusalemme Gesù sa che vi troverà la morte. In Galilea predica a una popolazione rurale, la prima vera città che incontra è Gerusalemme, tre chilometri quadrati con 25.000 abitanti, classi sociali alte, ma anche molto basse».

Nei villaggi della Galilea lo accettano mentre nella città istruita e benestante lo rifiutano?

«Chi grida “crocifiggilo” a Pilato non è una folla di ceti elevati, ma il popolino. Gesù è estraneo alla città e la città è estranea a Gesù. Solo la sera dell’Ultima cena va dal tempio al Getsemani, viene portato nei palazzi del potere, percorre il sentiero verso il Golgota. Solo nella notte della passione il cristianesimo inizia a diventare una religione cittadina».

Cosa vuol dire?

«Che il salto del cristianesimo dalla dimensione rurale alla dimensione urbana avviene grazie a Paolo. Ma Gesù lo indica agli apostoli nel finale del vangelo di Luca: “Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso: ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”».

Negli Atti degli apostoli la folla e il popolo diventano moltitudine e nelle lettere di Paolo l’universalità esistenziale del messaggio di Cristo diventa anche geografica. Perché descrive Paolo come «il braccio armato di Gesù» con una formula giornalistica?

«Perché se la merita. Paolo aveva coscienza di essere il braccio armato di Gesù da quando viene sbalzato da cavallo sulla via di Damasco. Da quel momento sa di dover essere lui a portare il cristianesimo nel mondo. Paolo è veramente cosmopolita. E si metterà in opposizione al cristianesimo rimasto a Gerusalemme per il quale, prima di diventare cristiani, si doveva passare dall’ebraismo attraverso la circoncisione che, per altro, assegnava un ruolo primario all’uomo. Invece per Paolo non c’è più bisogno della circoncisione. Il patto di sangue c’è stato con il sacrificio di Gesù sulla croce. E così rende il cristianesimo universale, parificando anche il ruolo della donna a quello dell’uomo».

 

La Verità, 13 maggio 2023

L’onda lunga di Costanzo nella cultura pop

Maurizio Costanzo è passato ad altra vita, ma il suo show è ancora in questa e lotta insieme a noi. Beh, lotta… Più che un campo di battaglie, il Mcs è stato una palestra di relativismo. Di se e di ma. È questa la lezione del costanzismo. Volendo fondere i due termini, potremmo parlare di «costanzivismo». Come fosse una confessione religiosa. Un fenomeno avvolgente e subliminale. La placenta mediatica nella quale ci agitiamo. Costanzo è stato il più potente e mimetico influencer di costume dell’ultimo mezzo secolo. Prima che comparissero internet e i social. E prima che la professione esaltata da Chiara Ferragni diventasse uno status, un modello, una nuova parola del vocabolario. Oggi il costanzivismo ramifica nella pubblicistica – eviterei di chiamarla letteratura – nel giornalismo, nel cinema e ovviamente in televisione. Ne abbiamo avuto un saggio nella beatificazione laica durata una settimana tra palinsesti stravolti e selfie alla camera ardente con la moglie da poco rimasta sola, ma docile alle discutibili richieste. Un’esibizione conclusa con i funerali a reti unificate, la sfilata di volti noti e la più evitabile sigla del programma storico all’uscita del feretro, come a chiudere in una simbolica parentesi la cerimonia religiosa.

Giornalista, conduttore, uomo di televisione, autore e sceneggiatore, Maurizio Costanzo è «stato un grande innovatore del linguaggio» (Stefano Zecchi). Pur mutuata da David Letterman, la vera, radicale e, a suo modo, rivoluzionaria novità era già nel titolo del talk più famoso: Maurizio Costanzo Show. Uno spettacolo nel nome e cognome. Per significare che al centro della scena c’è la persona. Meglio, l’individuo. L’individualità. Che poi diventerà individualismo. Quando compaiono gli antenati di quello show, Bontà loro e Acquario, l’Italia è sprofondata nel decennio del «tutto è politica», con le esasperazioni e le degenerazioni tragiche che si porta. Costanzo lavora ancora per l’editore pubblico e gli ospiti sono due o tre, ascoltati singolarmente e messi a confronto. È la nascita del talk show, il brevetto che tutti gli riconoscono. La messinscena della parola, dell’opinione, della chiacchiera (con le derive che seguiranno). Qualche anno dopo, nelle reti commerciali, mette a punto la formula che lo consegna alla storia della televisione e del costume. Nel frattempo ci siamo inoltrati nel decennio del riflusso. Della riduzione della dimensione collettiva. Comunitaria. Si realizza la rimozione dell’idea di popolo aggregato attorno alle grandi visioni della storia, il socialismo e, nella nostra Italia, il cristianesimo. È la grande, chissà se inconsapevole, operazione di sradicamento. Dal canto suo, Costanzo riesce a essere contemporaneamente, e tranquillamente, bastione delle televisioni di Silvio Berlusconi e consulente di Francesco Rutelli, sindaco di Roma, o di Massimo D’Alema, segretario dei Ds. E sulla prateria senza radici della fine delle ideologie può impiantare i brevetti che ci accompagnano tuttora.

La sera del debutto su Rete 4 distilla l’immagine dell’«Orient Express, dove la varia umanità s’incontra e parla». E anche quella di «un grande minestrone». L’Mcs è da subito portatore di alcune piccole rivoluzioni. Sul palco del Parioli si realizza la preveggenza di Andy Warhol sul quarto d’ora di fama che sarebbe toccato a chiunque. Costanzo convoca persone affermate e totali sconosciuti, che noti e famosi diventeranno proprio in virtù di quella convocazione. Li mischia in una disposizione indistinta e senza gerarchie, come appaiono per decenni ai telespettatori della seconda serata di Canale 5. È una disposizione democratica, vista a posteriori, non diversa dall’accezione grillina dell’uno vale uno. È il secondo dei suoi brevetti. Su quel palco sono equiparati magistrati e casalinghe, comici dilettanti e registi da Oscar, viaggiatori immaginifici e massaie veraci che non si muovono dal quartiere Prati. Figure schierate orizzontalmente, in un campionario di eccentricità dove tutti sono caratteristi, perché l’unico protagonista, il vero burattinaio, è l’uomo con i baffi. Consigli per gli acquisti.

Esaltando le storie individuali, Costanzo pone le basi dello storytelling. La sua messa cantata quotidiana corre sull’onda. È vero, il Muro di Berlino è ancora in piedi, il Web è pura fantascienza e si telefona con i gettoni. Ma al cinema e nella produzione letteraria il narcisismo, già stanato da Christopher Lasch nel 1979 (La cultura del narcisismo), sposa lo storytelling e insieme partoriscono l’autofiction, alla quale si rifanno schiere di scrittori, registi, attori, conduttori, macchiette, intrallazzatori, maghi e tirapiedi tuttora in servizio.

«Costanzo è stato anche anticipatore dei social media», analizza Carlo Freccero, e siamo all’ennesimo brevetto. I racconti del Parioli sono la rivincita della dimensione privata sul tutto è politica. Con le storie individuali il privato diventa pubblico. La propaggine più avanzata del fenomeno sono le interviste dei magazine di costume intrise di rivelazioni, outing, confessioni intime di traumi, ingiustizie e torti subiti. Il «vanityfairismo» imperversa a tutte le ore nei talk, nelle serie, nei programmi confidenziali, paradossalmente proprio ora che si continua a parlare di difesa della privacy. I social esasperano la tendenza. Nel loro livello basico, ecco l’infinita galleria fotografica di piatti al ristorante, di camerette addobbate, di make up in intimo… Nel livello alto degli influencer, il privato diventa affare e commercio. Il costanzismo affiora in Chiara Ferragni, nelle sue emule e varianti.

Alla fine di una puntata dell’Mcs il pubblico avrebbe potuto votare con il pollice per ogni singolo ospite come avveniva per i gladiatori nei teatri dell’antica Roma. Anche quella era società dello spettacolo. Chissà se, con i suoi collaboratori, Costanzo lo facesse pensando agli inviti successivi…

L’uomo con i baffi non c’è più, ma la sua lezione è viva e relativizza insieme a noi.

 

Il Timone, 3 aprile 2023

 

 

«Faccio politica per la mia famiglia: i follower»

In un appartamento di una palazzina a schiera tra Padova e la Riviera del Brenta vive Sara Piccione, 19 anni, 515 mila seguaci su TikTok e 336 mila su Instagram, candidata alle amministrative del 12 giugno con «Padova di Tutti», lista considerata «a sinistra del Pd». Ad attendermi, davanti alla casa della «Chiara Ferragni del Nordest», c’è Salim El Maoued, candidato sindaco e medico di origine libanese. Lei è la sua mutuata più famosa. Voce dolce, occhi da cerbiatto e unghie come lame di porcellana rossa, Sara è un cucciolo che può graffiare.

Mi racconti la tua giornata tipo?

Dopo colazione pubblico qualche storia per dare il buongiorno ai miei follower. Poi vado a scuola e anche da lì posto qualcosa o rispondo alle richieste di consigli. Quando torno a casa verso sera, faccio i video per TikTok e posto altre storie. È il mio lavoro, poi vado a cena.

Che scuola fai?

Ho fatto un corso di estetica di tre anni. Ora sto frequentando un altro anno per poter aprire un centro estetico.

Niente università?

Finito quest’anno vorrei prendere un diploma alla scuola serale che mi dia la possibilità di accedere all’università. A Ferrara c’è un corso di estetica.

In cosa consiste precisamente il lavoro d’influencer?

Se un brand mi chiama per una sponsorizzazione, ci mettiamo d’accordo sul tipo di collaborazione e scegliamo se pubblicare un post o una storia. È l’attività dell’imprenditrice digitale; nel caso di TikTok si chiama «content creator».

Immagino che tu ne tragga un guadagno.

A volte sì, a volte no, dipende dal brand.

Che tipo di brand ti contattano?

Della moda, in generale.

Che oggi si dice fashion?

Non proprio. La moda riguarda il vestire. Il fashion ha a che fare con le sfilate, le tendenze…

Scegli di postare su Instagram o TikTok in base al target o ai contenuti?

Ai contenuti. Su TikTok la maggior parte degli influencer sceglie tra comedy e balletti. Io invece metto insieme comedy, balletti e trend.

Fai tutto da sola o ti fai aiutare da un personal branding?

Mi arrangio da sola. Se ho bisogno di consigli chiedo alla mia agenzia.

Cioè?

Un’agenzia di influencer.

È una notizia.

Sono agenzie che ci aiutano e ci danno dei consigli. Trovano le collaborazioni, contattano i clienti che cercano le sponsorizzazioni, trattano con loro.

E se sei indecisa su un post chiedi a loro?

A volte suggeriscono qualche correzione o anche di evitare. Poi, però, decido io.

Come li paghi?

Si trattengono una percentuale.

Perché i tuoi post si concludono spesso con «Amori»?

È un modo carino di rivolgermi ai followers e farli sentire ancora più dentro la famiglia.

Cosa vuol dire esattamente?

Che non sono solo dei numeri, ma un gruppo di persone che mi seguono e magari si ispirano a me. Cercano dei consigli e tu un po’ gli fai da madre, da sorella maggiore, da migliore amica.

Amore e famiglia non sono parole un po’ impegnative?

No, perché? Sui social c’è gente che si è affezionata a me. Se li chiamassi semplicemente «ragazzi» potrebbe sembrare che non mi interessano abbastanza. Invece tengo a loro, ne ho conosciuti molti, non tutti perché abitano ovunque…

Su Instagram ci sono dei post più riflessivi e ispirati, che non c’entrano con la moda: è tutta farina tua?

A volte prendo spunto da un testo sul Web e lo modifico. Elimino ciò che non c’entra con me ed elaboro e propongo dei pensieri miei.

Che cos’hai tratto dalla partecipazione al Collegio di Rai 2?

Mi ha cambiato, sono cresciuta tanto. Prima ero molto timida, a scuola stavo sempre zitta. A 15 anni non uscivo di casa, non riuscivo a farmi degli amici. Dopo Il Collegio ho superato la timidezza e altre paure.

Tipo?

Parlo con i professori e… cose più private.

Perché hai deciso di candidarti alle elezioni di Padova?

Voglio aiutare i giovani e le donne.

Le ragazze?

Anche i ragazzi.

Da consigliere comunale quale sarebbe la tua prima proposta?

Metterei più tram di sera in modo che i giovani non debbano tornare a casa a piedi con la paura di imbattersi in uno spacciatore dietro l’angolo.

Che cosa vuol dire essere a sinistra del Pd?

Siamo una lista civica, né di destra né di sinistra. Io mi sento di centro.

Sei mai stata al Festival di Sherwood?

Non ho tempo, studio o lavoro con i social.

Conosci il centro sociale Pedro?

Ne ho sentito parlare, ma non è uno dei miei posti.

Mancano luoghi di aggregazione per i giovani?

Mancano soprattutto nelle periferie che sono ridotte malissimo. Serve qualcosa per unire i giovani, palestre comunali, sale studio… Questo è un altro dei miei obiettivi.

Conosci il nome di qualcuno che è stato importante per Padova?

(…) Lo sguardo si orienta verso El Maoued, che la incoraggia: «Su… un medico… Vincenzo Gallucci, il primo italiano a fare il trapianto di cuore…».

Il nome di Toni Negri ti dice qualcosa?

(…) Sempre El Maoued: «Devi saperlo!».

C’è bisogno di studiare…

Lo so. Nei giorni scorsi un giornale locale ha innescato una polemica.

Ti hanno criticata?

Hanno scritto che la mia candidatura è la prova della crisi della politica. Ma io non vedo alcuna crisi, perché per me e i miei followers la politica non è mai esistita. L’unica volta che si è occupata di noi è stato per chiuderci in casa, metterci in Dad e accusarci di essere gli assassini dei nostri nonni.

I followers sono elettori? Se ti votasse solo l’1 per cento saresti eletta.

La maggioranza di loro non sono padovani. Che problema c’è se un’influencer vuole rappresentare il disagio e le speranze dei giovani?

Di sicuro fai parte di un’operazione di marketing per la lista.

Sono stata io a dire a Salim: «Se vuoi ci sono». «Bisogna riconoscerlo», interviene El Maoued, «oggi la politica è anche questo. Siamo amici da sempre, la conosco da quando è piccola, quasi come fosse mia figlia».

Hai mai il dubbio di essere finita in un gioco più grande di te?

No. Sono convinta e decisa ad aiutare le giovani donne a essere più protagoniste.

Vuoi fare spettacolo o politica?

Non faccio politica. Provo ad aiutare i giovani visto che sono stati zitti per molto tempo. Il mio campo è lo spettacolo, che può rappresentare una possibilità per la mia generazione.

Cosa guardi in tv?

Reality e serie… il Grande fratello vip. Invece L’Isola dei famosi non mi piace.

Ti spedisco in convento?

M’incuriosisce, ma non l’ho ancora visto.

Le serie preferite?

Gossip girl mi piace un sacco. Poi La regina del sud e Sabrina. Tutte su Netflix.

Ti piacciono i Måneskin?

No, non mi piace la loro musica.

Che musica ti piace?

Blanco è molto bravo. Sono contenta che abbia vinto Sanremo.

Farai delle manifestazioni pubbliche durante la campagna elettorale?

Lavorerò soprattutto con i social. E poi, sì, a metà maggio dovrei presentare una serata in un parco della città con dieci band musicali.

Il tuo modello è Greta Thunberg o Chiara Ferragni?

Sono persone diverse. Mi piace Greta, però anche Chiara Ferragni ha aiutato tanti bambini. È una domanda difficile, vorrei essere un po’ tutt’e due.

 

Panorama, 4 maggio 2022

I Ferragnez sono la nuova fiera delle vanità

Il 2020 è stato per tutta la popolazione mondiale un anno difficile». Sembra l’incipit di un intervento del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, di una meditazione di papa Francesco o dell’ultimo discorso di fine anno di Sergio Mattarella. Invece è Chiara Ferragni che, spalancando gli occhioni, declina una spiega motivazionale dell’Ambrogino d’oro ricevuto con Fedez nel dicembre scorso. Un attimo prima l’avevamo vista sul sedile posteriore del Suv con autista nel quale aveva sistemato mezza dozzina di trolley contenenti lo stretto necessario per la vacanza in una villa di lusso sul lago di Como. Benvenuti su The Ferragnez, la docuserie di Prime Video, visibili 5 episodi su 8, di cui già si sospira in attesa della seconda stagione. Il titolo in inglese rilancia il marchio globale della coppia a evidente traino femminile (e smalti maschili) come piace alla nuova columnist dell’Osservatore romano Michela Murgia. Mescolando realtà e finzione, la docuserie risulta perfetta nell’universo di Instagram dove la merce in vendita è il gusto dell’influencer. Come ha scritto Paolo Landi sul Foglio il lavoro di Chiara Ferragni «coincide con la sua vita». Però c’è un problema che si potrebbe definire di natura esistenziale. Già. Quanto lei è soave e appagata dall’adorazione del codazzo di sorelle, cognati e assistenti, tanto Federico Leonardo Lucia è insicuro, conflittuale e desideroso di maggior privacy. Così il dislivello da Buccinasco al Bosco verticale richiede buone bombole di ossigeno e adeguate pause di compensazione. Come quelle che la coppia si prende, insieme o separati, nelle sedute dallo psicoterapeuta che fungono da traccia orizzontale della storia. Peccato che l’analista non riesca a mimetizzare il tifo per lei e il paternalismo per lui. Ma colmare il divario e pareggiare il glamour non è cosa facile…

The Ferragnez is the new vanity fair. Le giornate sono farcite di fitting da Donatella Versace, baby shower per la seconda figlia in arrivo, shooting fotografici, meeting con il numerologo per saggiarne le previsioni di successo dell’esibizione sanremese. E simulazioni per gli uomini dei dolori del parto sopportato dalle compagne. Qui il termine inglese non c’è, forse perché su questo The Ferragnez sono fin troppo in anticipo. Comunque, sono le preoccupazioni e le occupazioni della coppia che smuove le borse e catalizza i media, il modello vincente dell’Occidente contemporaneo. Un’imprenditrice digitale innovativa e un rapper con ambizioni da guru. Tutto vero, scintillante e fiabesco. Ma se si scava dietro l’apparenza striscia una vena di malessere. Sinceri auguri alla coppia e ai suoi followers.

 

La Verità, 12 dicembre 2021

 

Mughini: «Che noia tutti questi sacerdoti del Bene»

Uffa, e basta la parola. Basta quell’esclamazione o quell’intercalare per figurarcelo subito, Giampiero Mughini: la postura, la chioma, l’occhio irrequieto, le giacche pittate e la parlata pittorica, la tonalità in levare, le mani roteanti per sostenere il ramificato argomentare. Presto Uffa campeggerà sulla copertina del libro in uscita da Marsilio (sottotitolo «Cartoline amare da un Paese in cui accadde di tutto»). Sarà un’antologia di corsivi pubblicati dal Foglio tra il 2005 e il 2006 – «anno fatale» – incorniciati da riflessioni sul presente per attualizzare polemiche mai sopite, anzi, ciclicamente risorgenti. La magistratura, Calciopoli, il terrorismo, l’Italia guelfa e ghibellina, divisa in fazioni pro e contro un leader più o meno divisivo, Silvio Berlusconi allora, Matteo Salvini oggi.

Mughini risponde tra un’ospitata televisiva, la parte minore e più redditizia del suo lavoro, e l’immersione nella poliedrica biblioteca, luogo dell’anima.

Perché nel libro Uffa è senza punto esclamativo a differenza del titolo della rubrica sul Foglio?

«Perché l’Uffa! originale era uno scatto nervoso, breve e tagliente nelle intenzioni, mentre chi leggerà adesso vi coglierà un ragionamento o lo spicchio narrativo di un pezzetto d’Italia. Sul giornale quei testi vivevano lo spazio di un mattino, in un libro hanno una responsabilità diversa alla quale il punto esclamativo non si confà».

È un’espressione che indica un certo snobismo o un moto di sufficienza. Oppure il retropensiero è che basterebbe un po’ di buon senso per smontare tante polemiche?

«La seconda che ha detto».

Retropensiero del retropensiero: viviamo in un’epoca autistica in cui ognuno segue i propri ragionamenti, incapace di ascoltare, dialogare, relazionarsi?

«È assolutamente così. Ognuno di noi insegue le proprie ossessioni, asserragliato in topografie dove dirimpetto c’è un nemico, sempre quello. Personalmente, quando inizio un ragionamento talvolta non so come lo finirò».

Perché non possiede certezze?

«Non possiedo verità ultimative. Più gli anni passano e meno ne so. Dare addosso a Salvini o esaltare le sardine 24 ore al dì è un pensiero che non si avvicina nemmeno all’anticamera del mio cervello».

Restando sull’incomunicabilità, quanto è lontana una pacificazione sugli anni del terrorismo?

«Non è lontanissima perché oggi non c’è un terrorista che si alzi a sostenere di aver avuto ragione. Erano delinquenti di strada e onestamente la più parte di loro lo ammette sia a sinistra che a destra, come mi testimoniano gli amici Valerio Morucci e Giusva Fioravanti».

Persiste qualche clamorosa eccezione, tipo Barbara Balzerani.

«Vero, Balzerani fu assai sgradevole quando parlò del mestiere della vittima. Detto questo, non sono sicuro che l’Italia abbia digerito bene quella stagione. Oggi nessuno estrae più una pistola, però tantissimi spasimano per fare a botte verbali. In tv, per esempio, se mi succede di essere coinvolto in un cosiddetto telescazzo me ne avvilisco».

Quelli che sono andati più vicini a una pacificazione sono la famiglia Calabresi e gli assassini del commissario Luigi, anche se di recente la vedova Pinelli ha ribadito le sue insinuazioni sulle circostanze della morte del marito?

«Penso che, se dopo aver abbracciato la vedova Gemma Calabresi, qualcuno ricomincia a dire di sapere come in realtà è andata o, più precisamente, pensa che nella stanzuccia della Questura di Milano qualche funzionario si sia avventato su Giuseppe Pinelli, la pacificazione non è possibile. Purtroppo, benché privi della pur minima prova, anche scritti recenti di autori di quella parte insistono sull’ipotesi del massacro».

Perché questa antologia di scritti riguarda l’annata 2005-2006?

«Perché il caso è divino. Nel luglio del 2005 mi chiamò il mio amico Giuliano Ferrara chiedendomi di iniziare quella rubrica due giorni dopo. Poi in quell’anno successe di tutto di più. Sia nella vita civile, per esempio con Calciopoli che, per milioni di italiani tifosi fu più importante di Tangentopoli, sia nella vita privata, perché i medici guardarono dentro e videro un tumore. Motivo per cui fu un anno molto particolare, al termine del quale capii che <prevenzione> è più importante di< rivoluzione>».

Woody Allen dice che l’espressione più desiderata al mondo non è sentirsi dire «ti amo», ma «è benigno».

(Risata). «Non sono Woody Allen e gli aforismi non mi vengono altrettanto bene».

Il suo aforisma ha risvolti culturali più significativi. L’amarezza citata nel sottotitolo del libro è aumentata o diminuita dal 2005?

«È aumentata esponenzialmente, innanzitutto per il fatto che data la mia età il compimento del mio destino personale si avvicina irreparabilmente. E poi a causa dello scombussolio e della degradazione della vita pubblica. Cito un fatto quasi banale. Ogni settimana vado per lavoro un paio di giorni a Milano, risiedo nel quartiere Isola dove la mia compagna possiede un piccolo appartamento. E ogni settimana ci trovo una novità, un’invenzione utile per la vita quotidiana. Quando ci si arriva provenendo da Roma, sembra di entrare in uno Stato progredito del Nord Europa. Pensare che Milano appartenga allo stesso Paese della Calabria, della Campania o della Sicilia è una balla che ci raccontiamo. Quand’ero ragazzo i giornalisti che venivano a Catania ne parlavano come della <Milano del sud>. Oggi a nessun emulo di Indro Montanelli o Luigi Barzini verrebbe in mente di usare un’espressione del genere per qualsiasi città meridionale».

Il lavoro cui fa riferimento è quello di opinionista televisivo che, da quanto si legge, sembra vivere con un certo disagio.

«Quello televisivo è solo una parte infinitesimale del mio lavoro, ma è la parte che vivo con maggior disagio nel timore che qualcuno mi fermi e mi dica che mi riconosce per gli occhiali che porto. Ringrazio la tv perché senza, con la crisi dei giornali cartacei, sarei in un ospizio. Assisto alla lenta scomparsa del mio mondo naturale e ho spesso la percezione che scrivere un libro significhi rivolgersi alla nicchia di una nicchia. A meno che non si scrivano libri contro Berlusconi o contro la camorra. Ma neppure se mi offrissero un milione mi conformerei a una tale banalità. Chi li scrive ha tutto il diritto di farlo, ma in genere i sacerdoti del bene mi annoiano».

Sono la categoria più popolare del momento.

«Con qualche risvolto grottesco, come quello che riguarda una simpatica ragazza sedicenne trasformata in una diva planetaria. Non c’è nulla di più lontano dalla mia idea di vita intellettuale: una terra nella quale il mondo diviso in bianco e nero non è previsto. Gli articoli dei sacerdoti e sacerdotesse del bene non li leggo, né seguo le loro prediche in tv».

La televisione non è adatta agli spiriti problematici e all’esercizio dei distinguo?

«Dipende da come la si usa. Ci sono anche cose buone… Una domenica sono stato ospite di Fabio Fazio per raccontare il primo romanzo di Italo Svevo e ho avuto la percezione della potenza della televisione, imparagonabile alla forza d’urto di un pur lucido e penetrante articolo di carta stampata. Milena Gabanelli, la miglior giornalista italiana, sintetizza in cinque minuti argomenti complessissimi rendendoli accessibili al grande pubblico».

Che cosa pensa del fatto che, secondo Worlds of journalism study i giornalisti italiani sono quelli più a sinistra d’Europa a fronte di una cittadinanza più moderata? Dipenderà anche da questo il calo delle vendite dei nostri giornali?

«Che i giornalisti volgano più spesso a sinistra è un fatto. Ma non dipende certo da quello che i ventenni e magari i trentenni non sappiano più che cos’è un giornale di carta».

In senso più lato, esiste una superficialità dei media e ancor più dei social media per cui i sentimenti più preziosi ne risultano distorti?

«Come si fa a frenare l’eruzione di esibizionismo e vacuità di quelle che chiamano influencer perché indirizzerebbero scelte e comportamenti dei seguaci in molti casi facendo sfoggio di culi e cosce?».

Secondo gli analisti gli influencer stanno rivoluzionando il concetto di lavoro e il rapporto tra tempo libero e occupato.

«Non sono iscritto a nessun social media, ma su whatsapp mi arrivano post di ragazzi che ridono, discettano e subissano i follower con messaggi autopromozionali. Sono nato in un’epoca nella quale ci avevano insegnato a dire sempre una cosa in meno piuttosto che una in più. Nei suoi ultimi venti o trent’anni, per suo stile di vita, mio padre mi avrà rivolto trenta frasi in tutto. Ma con ognuna di quelle parole mi ci nutrivo per dei mesi».

L’autorità esisteva.

«Mi ricordo che una volta, al ritorno da una manifestazione antifascista mi si avvicinò: “Tu sai che io stavo da quella parte…”. “Sì, papà”. Mi aspettavo una replica, qualcosa. Invece, non disse una parola al figlio che insultava la sua storia; nulla. Ancora oggi rabbrividisco al pensiero di quel suo silenzio».

Oggi l’esibizione del privato fa conquistare le copertine…

«Mi deprime l’esibizione sconcertante dello scorrazzamento da un letto all’altro pur di ottenere un numero maggiore di like».

È corretto se dico che il punto dove lei è meno problematico è la condanna di Matteo Salvini?

«Non troverà una mia parola offensiva nei suoi confronti neanche col microscopio. E dal momento in cui ha ipotizzato Mario Draghi capo del governo sono attento a certi percorsi zigzaganti che potrebbero portare delle sorprese. Giancarlo Giorgetti è una figura che arricchisce le posizioni di Salvini, destinate a galvanizzare l’elettorato. Penso che se andassi a cena con Giorgetti condividerei il 50 o 60% dei suoi argomenti».

Se la sovranità che appartiene al popolo è citata nel primo articolo della Costituzione non sarà un’idea tanto fascista, o sbaglio?

«La parola “sovranità” è una scodella che si può riempire di contenuti i più vari. Dipende da come viene esercitata nel rapporto con i paesi vicini. Senza dimenticare il fatto che abbiamo il terzo debito pubblico del mondo».

Le sardine la persuadono?

«Persuadermi no, mi sono simpatiche, ma credo saranno un fenomeno di breve durata. Ho visto spesso in tv Mattia Santori e l’ho ascoltato dire che non metterà mai piede a Rete 4. Siccome io vado spesso a Stasera Italia di Barbara Palombelli mi sono sentito offeso».

Approva un movimento che nasce solo anti qualcuno?

«Apprezzo il fatto che dimostrino che la piazza può essere occupata anche da gente con silhouette diverse da quella di Salvini».

Un movimento filo governativo e fiancheggiatore dell’establishment?

«No, perché oggi è tutto mescolato. Non è come al tempo in cui le schiere dell’eskimo stavano sulla sponda opposta rispetto alle schiere dei Ray-ban. Le ripartizioni novecentesche non aiutano a sezionare questo grande ceto medio che comprende quasi tutta la società, eccezion fatta per pochi poveri e ancor meno straricchi».

Ha anche lei la sensazione che, come i girotondi e il popolo viola, anche le sardine sembrano un movimento che presume di rappresentare la parte migliore dell’Italia?

«La presunzione è un peccato di gioventù. Da ragazzo pensavo di sapere tutto e le prime volte che parlavo in pubblico avevo un’insopportabile aria da guru. Mentre in realtà non sapevo un cazzo di niente».

È fuorviante coccolare questi giovani inesperti e proporli come modello?

«I mass media vivono di questo. Appena è comparsa Greta Thunberg sono esplosi i peana. Cosa può sapere una sedicenne della complessità dello sviluppo economico e dei cicli climatici? Eppure c’è chi l’ha proposta per il Nobel della pace. Succede. Ma di fronte allo spettacolo che offrono certi adulti che si azzuffano in Parlamento prima di rimproverare i giovani ci penso due volte. Avevo apprezzato l’apertura del loro leader romano che si era detto favorevole alla presenza di Casapound alla manifestazione in Piazza san Giovanni. Forse era eccessivo, ma era un bel segnale».

È un movimento contro l’odio, ma a volte, pensando di essere nel giusto, sembra che sia più violento l’odio degli altri.

«Questa è una buonissima riflessione sulla quale mi esercito da decenni. Mi vanto di essere uno che ha collaborato tante volte a placare gli animi. Nel 1981 realizzai per la Rai Nero è bello, un documentario in cui da sinistra raccontavo in modo civile e rispettoso i militanti della nuova destra. Vorrei che sulla mia tomba fosse scritto: “L’autore di Nero è bello”».

Quanto durerà questo governo? Ed è giusto che stia in piedi a ogni costo?

«Potrebbe durare tre ore o anche tre anni, ma penso che sarebbero anni di mediocrità. Io sono favorevole a una coalizione repubblicana perché ritengo che, in un momento di grave difficoltà come questo, possa aiutarci a superare la paralisi e a rispondere alla domanda relativa al fatto che, da 25 anni, l’economia italiana ha il peggiore indice di produttività di tutti i paesi moderni».

 

Panorama, 8 gennaio 2020

«Noi siamo romantici, ma Instagram ci inganna»

Confortevole e conformista, ma con un grande avvenire davanti. Però non è chiaro se dobbiamo rallegrarcene o no: perché il più attraente dei social, il più cool, nel verbo dei suoi adepti, oltre un miliardo, un po’ ci ruba l’anima. Ci seduce e banalizza, ma anche ci educa. E quindi difficile emettere una sentenza univoca. Lasciando perdere Tik Tok, prateria per adolescenti, Instagram è l’avanguardia, la frontiera del meglio, il club delle élite. A svelarne tutti i segreti è da poco in libreria Instagram al tramonto (La nave di Teseo), ultimo saggio di Paolo Landi, autorevole advisor di comunicazione che ha lavorato a lungo per Benetton e oggi cura l’immagine di Bologna fiere, Ovs e numerosi altri marchi. Nel 2006 il suo Volevo dirti che è lei che guarda te – La televisione spiegata a un bambino, pubblicato da Bompiani con prefazione di Beppe Grillo, preconizzava il declino della vecchia tv. Ora questo Instagram al tramonto è talmente anticipatore da risultare controintuitivo.

Quando l’ho visto in libreria mi ci sono tuffato.

«Pensi che il titolo originario era Instagram spiegato alla Ferragni».

Non male neanche questo.

«Già, ma avrebbe potuto risultare presuntuoso».

Perché Instagram al tramonto?

«È un titolo volutamente ambiguo. All’imbrunire, mentre si torna dal lavoro o si è da poco arrivati a casa, Instagram registra il picco di like perché tutti fotografano tramonti».

Il picco deriva dall’orario o dal soggetto?

«Le due cose coincidono. Al tramonto si postano suggestive foto di tramonti. A quell’ora Instagram è molto frequentato».

Instagrammer romantici?

«Molto, si direbbe».

Come Volevo dirti che è lei che guarda te anche questo saggio smonta la nostra illusione di essere protagonisti mentre siamo manovrati, orientati, addomesticati?

«Crediamo di usare un mezzo liberamente e invece ne siamo usati. Nel libro del 2006 intuivo che la televisione sarebbe stata superata da altri media. Instagram ha futuro, anche se potrebbero esserci evoluzioni e mutamenti».

Niente tramonto, quindi?

«Mi sembra presto, siamo ancora nella fase ascendente. Pochi anni fa Avatar, un film su Second life, fece il record d’incassi e sembrava che tutti dovessimo avere un alter ego virtuale. Oggi chi parla più di avatar? Credo che con Instagram dovremo fare i conti ancora per un po’».

Che vantaggio ne trarremo?

«Lo capiremo meglio più avanti. A un certo punto al cervello umano non son più bastate la scrittura e la televisione, la letteratura e il cinema, e ha ideato un modo di comunicare più veloce e istantaneo. Mi chiedo che cosa cerchiamo con queste innovazioni? Come le altre invenzioni hanno migliorato la nostra vita, spero che anche i social la migliorino».

Instagram sta per?

«Fonde i concetti di instant camera e telegram: un’immagine veloce pubblicata sul momento».

Il social dell’attimo fuggente?

«Il primato dell’istante».

Senza memoria?

«La sua forza è l’immagine usa e getta. Quando arriva un post nuovo quello precedente non si guarda più. Dopo 24 ore le storie si cancellano».

Niente archivio?

«Non si ritrova nulla. L’altro giorno avevo letto una frase che diceva… Un attimo che la cerco… L’avevo vista proprio su Instagram e adesso – a proposito di archivio inesistente – non riesco a ritrovarla. Eccola su Google: “Non dialogare mai con un idiota perché ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza”. È Instagram».

Si dice «siamo» e non stiamo su Instagram o su Twitter: i social ci fanno essere e se non ci sei non sei?

«Ci costringono a essere qualcuno e ad avere un’identità».

Non esistono la contraddizione e il contrasto: in tempi in cui si parla molto di odio e di haters è un fatto positivo?

«Direi di sì, è un social borghese. Non mi pare che gli haters aiutino a illuminare il dibattito politico o sociale».

Invece Instagram è educato?

«Più di Twitter certamente. Anche se alcuni profili cattolici attirano odiatori e i commenti sono pieni di bestemmie».

Con il cristianesimo perde il suo aplomb?

«È un fenomeno strano. Sui profili dei testimoni di Geova o del Dalai Lama non è così. Solo la religione cattolica attira aggressività e blasfemia. È difficile capire le cause, il cattolicesimo innesca la bestemmia, che invece non esiste nelle religiosità orientali».

Perché sono più di moda?

«Le star di Hollywood non le vedo a recitare il rosario, mentre partecipano ai riti buddhisti tibetani. Forse è anche una forma di provincialismo, non so cosa c’entriamo noi italiani con il Dalai Lama».

Cosa vuol dire che Instagram «rende metafisica l’economia, la spiritualizza»?

«Per esempio omologa tutte le professioni. Un parrucchiere, un dogsitter, un avvocato, un blogger e un promotore finanziario sono tutti sullo stesso piano. Se il lavoro perde potere di distinzione siamo in un sistema economico diverso da quello vissuto finora. Il lavoro è dematerializzato».

Un social del superfluo?

«Tutto scorre in superficie, rapporti umani compresi. Ma la visione che dai di te stesso non è veritiera».

Non è troppo definire l’economia digitale la rivoluzione industriale del XXI secolo?

«Siamo ancora in una stagione pionieristica, non sappiamo bene cosa ci aspetta. Convivono le generazioni che hanno assistito al cambiamento e i nativi digitali. Possiamo intuire che il lavoro cambierà e cambierà anche il rapporto con i beni di consumo, dei quali ci si può appropriare molto facilmente. Se ti piace un abito, vai sul profilo di un influencer e lo compri pagandolo con lo smartphone, senza bisogno di strisciare la carta di credito».

Gli influencer cambiano il concetto di tempo, di prestazione d’opera e di competenza?

«Mentre tutti giocavano con i like, loro hanno capito che potevano fare i soldi, Chiara Ferragni per prima. Le modelle andavano nello studio fotografico, si vestivano, si truccavano, destinavano il loro tempo a quell’occupazione. L’influencer è insieme pienamente ozioso e pienamente occupato. È sé stesso quando si veste, viaggia, sorseggia un vino, indossa un orologio. La competenza non è richiesta, forse è utile un po’ di gusto. Anzi, molti non hanno nemmeno quello, cosa c’è di più opinabile del gusto?».

Dietro l’apparenza patinata si nasconde l’ipermercato di un capitalismo più sfumato e invasivo?

«È un ipermercato che vende merci ed emozioni insieme. Se clicchi su un bel tramonto spunta il resort dal quale goderselo, se clicchi sul sorriso di un bambino ecco il più soffice dei pannolini. Instagram fonde emozioni e merci e le vende insieme».

Anche gli spot lo fanno.

«Con gli spot guardi, ma non partecipi. Persuasione e acquisto sono due atti distinti. Su Instagram clicchi sul tramonto e compri subito la vacanza».

Perché non è ancora stato conquistato dalla politica?

«Perché non è adatto. La politica viaggia su Twitter perché richiede sarcasmo, intuitività, vis polemica. Instagram è soprattutto immagine e l’immagine dei politici non è così accattivante».

Riflettendo sui social, finora si è parlato di narcisismo ed esibizionismo. Perché lei insiste sullo snobismo?

«Si mettono i like per entrare in un club che non ci appartiene. È un meccanismo di ascesa sociale, se sono un tifoso di calcio vorrei che Ronaldo mi mettesse il cuoricino. Invece, anche se accadesse, non sarebbe di certo lui a farlo, ma chi cura il suo profilo. Instagram mantiene distinte le classi sociali».

A forza di consumare continuamente, l’unica cosa che consumiamo è Instagram stesso?

«La sua grande raffinatezza è di essere un prodotto, un brand. Come la Playstation. Crediamo di goderci le foto dei nostri amici, invece in quel momento qualcuno ci profila e ci inserisce in un database».

È il social più conformista e omologante?

«Mentre ti illude di essere libero di postare le foto che ti piacciono ti uniforma. E finisci per postare le foto che postano tutti. Di sera i tramonti, in spiaggia i piedi, quando ci si fa i selfie le linguacce. Instagram è un propulsore di conformismo».

L’ultimo dei 15 screenshot fotografati da Oliviero Toscani è il suo.

«Ci sono dentro in modo critico».

Pentito?

«No, ma medito di uscire».

Quindi è pentito?

«Se vivi nella contemporaneità devi usare ciò che la contemporaneità ti offre. Non demonizzo Instagram e non biasimo chi ama esserci, ma mi piace farne un uso consapevole. Mi chiedo chi sarà la nuova classe dirigente: la massa che sta lì a postare tramonti o qualcun altro? L’élite del futuro emergerà dagli Instagrammer o da qualche altra cosa che ancora non sappiamo? È un fenomeno massificante, ma finora tutti i media hanno favorito il progresso dalla specie umana».

Io continuo a diffidare, se ci si pensa un attimo prima di postare un’opinione o un sentimento alla fine non si posta. Le cose preziose restano fuori.

«Le cose che ritenevamo preziose, la pancia di tua moglie incinta, il neonato, sono corrotte dalle immagini che mettiamo su Instagram. Le custodivamo nel privato e ora sono schiaffate davanti a milioni di persone. Instagram appartiene al nostro tempo, ma non è obbligatorio».

Ce la faremo? O vincerà l’omologazione?

«È difficile capire come finirà. È come se Instagram ci educasse ad avere una dimestichezza digitale. Penso che alla fine ci sarà qualcuno che dirà che il gioco è finito e adesso fate quello che dovete fare, cioè comprare. Secondo me si arriverà a un sistema più raffinato di domanda e offerta dei bisogni. Indotti o meno».

 

La Verità, 15 dicembre 2019

 

«Il politicamente corretto vince solo sui giornali»

«Lo so, non dovrei», ammette Enrico Ruggeri mentre si accende una sigaretta. «Le dà fastidio il fumo?». Il fatto è che a metà agosto ha dovuto sospendere il tour a causa di un edema alle corde vocali e sarebbe meglio astenersi. Ma si sa. «Facevo più fatica… voce rauca», racconta. «Me l’hanno tolto e l’hanno analizzato. Sì, un filo di apprensione, ma non più di tanto». Adesso ha ripreso i concerti sia da solista che con i Decibel e intanto continua a fare le sue solite mille cose, dalla radio tutti i giorni su Radio24 a scrivere testi, a pensare romanzi… Quest’anno però non andrà a Sanremo. «L’ho fatto l’anno scorso. È buona norma saltare…».

Chi è L’Anticristo al quale ha dedicato l’ultimo album dei Decibel?

«Per noi è un protocollo comportamentale».

Cioè?

«Siamo fermamente convinti che ci sia una decina o quindicina di persone che si trova da qualche parte e decide chi sarà il presidente degli Stati Uniti, il cancelliere della Germania, quando scoppierà la prossima bolla finanziaria, quando inizierà il nuovo flusso migratorio. Sono i veri potenti che indirizzano le sorti del mondo. Il loro primo obiettivo è l’abbassamento della consapevolezza della gente».

Addirittura?

«Prendiamo il mio campo. Trent’anni fa c’erano Bob Dylan e John Lennon, adesso chi c’è? È tutto standardizzato. Si è voluta eliminare la forza dirompente dell’arte per renderla innocua».

Il protocollo comportamentale è un divertissement?

«Mica tanto. Secondo lei il fatto che una volta ci fosse Lennon e ora abbiamo gli One Direction è un caso?».

La qualità dei polli dipende da quella del mangime.

«Appunto, hanno cambiato mangime. Chi lo distribuisce? Quegli artisti influenzavano tutto il mondo. Quando Lennon con Yoko Ono fece il bed in per “dare una chance alla pace”, i giovani e la stampa arrivarono da tutto il mondo. Ora cantanti e artisti non hanno più peso sull’opinione pubblica».

Ce l’hanno gli influencer…

«Il paragone tra il tweet di un influencer a una canzone di Dylan avvalora la mia tesi».

Chi sono questi quindici potenti?

«Secondo me non sono famosi, vivono in maniera monacale. Il loro interesse è modificare gli assetti mondiali. Questo per noi è l’Anticristo».

Sono la fonte dell’omologazione?

«Del pensiero che ha poca consapevolezza, poco spirito critico».

I social favoriscono questo livellamento verso il basso?

«I social sono l’esaltazione della mediocrità. Chiunque pensa di aver voce in capitolo, di poter scrivere al Papa o a Donald Trump. Una volta gli influencer erano Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, Ennio Flaiano. Adesso sono persone che ti dicono che scarpe mettere o se quest’anno va il rosa o il giallo».

Non è un controsenso fare un disco sull’Anticristo quando non si parla più di Cristo?

«Il primo a elogiare il disco dei Decibel è stato il cardinal Gianfranco Ravasi: una delle poche menti profonde rimaste all’interno della Chiesa e della società».

Che cosa pensa delle polemiche sui presepi nelle scuole che disturberebbero gli alunni di altre religioni o che sarebbero contraddittori rispetto alla scarsa accoglienza verso i poveri e i migranti?

«Un altro degli obiettivi dei poteri forti è annullare le identità. Creare un magma nel quale tutti consumino le stesse cose. Oggi un centro commerciale di Singapore è uguale a uno di Roma. Ogni difesa della tradizione è un ostacolo sulla strada dell’omologazione perché tradizione vuol dire identità. Perciò va abbattuta».

Difendere la tradizione non significa essere rivolti al passato?

«Per me non è un’offesa. Si può costruire un grande futuro solo partendo dal proprio passato».

Chi viene ai suoi concerti coglie questa critica del presente?

«Forse non tutti, ma il mio destino non è scrivere per tutti».

In Lettera dal Duca canta: «Se guardo dentro me vedo l’infinito, supero i miei limiti più di quanto immagini». Oltre alla tradizione anche il senso religioso è un ostacolo all’omologazione?

«L’anima è un fattore scomodo. La ricerca introspettiva è un tentativo di affrontare e risolvere i problemi partendo dalla propria interiorità. Invece si vuole che vengano risolti consumando. Più sei infelice più consumi. Per far lievitare i consumi bisogna aumentare l’insoddisfazione. Più l’anima è povera e più si cerca di arricchirsi acquistando beni dei quali magari non si ha bisogno».

Che ruolo hanno i grandi marchi della tecnologia?

«La tecnologia è il braccio armato di questa operazione. Tutto deve diventare un magma senza identità».

Però iniziano ad alzarsi voci dissidenti nei confronti della globalizzazione. Si comincia a coglierne il lato negativo…

«Passata l’infatuazione, tutte le grandi invenzioni rivelano i loro effetti negativi. Il fuoco fu scoperto per riscaldare durante le stagioni fredde. Dopo un po’ si iniziò a usarlo per bruciare la capanna del vicino. Il problema non è fermare il progresso, ma canalizzarlo nelle giuste direzioni».

Quest’estate è finito al centro di una querelle per un tweet dopo il rifiuto di un euro dato a un ambulante mentre era a cena con sua figlia. Cos’era successo esattamente?

«Un venditore di rose aveva rifiutato degli spiccioli. Avevo percepito una certa arroganza e ho fatto delle considerazioni che qualcuno ha capito e altri no. Se respingi un’elemosina solo perché fatta con gli spiccioli vuol dire che non ne hai davvero bisogno».

Si è scatenato il putiferio?

«Una volta c’erano le lettere anonime, oggi sui social si può conquistare una certa visibilità senza esporsi. Ognuno si sente in diritto di dare lezioni o di insultare. È curioso che in 40 anni che faccio questo mestiere nessuno mi abbia mai detto in faccia che non gli piacciono le mie canzoni o che il mio pensiero gli fa schifo. Queste cose avvengono quando ci si nasconde dietro la tastiera. Ma quello che succede a me è niente rispetto a chi è stato insultato su Facebook, magari dopo la morte di un figlio».

Il problema è l’anonimato o anche il potere del politicamente corretto?

«Come hanno dimostrato le ultime elezioni la parte che si abbarbica al politicamente corretto è minoritaria».

Però continua a influenzare la cosiddetta narrazione della vita pubblica.

«Perché controlla i grandi media, giornali e televisioni».

La trovo ottimista.

«Qualcosa sta cambiando, anche se sei mesi sono pochi per giudicare. Per cambiare un paese come l’Italia ci vogliono dieci anni non dieci minuti».

Che cosa le piace del governo gialloblù?

«Penso che siano stati più bravi a intercettare le istanze della gente, avvicinandosi a chi è in difficoltà. In tutta Europa si sta verificando un cambiamento epocale: i poveri votano a destra e i ricchi votano a sinistra. Questo dieci anni fa era impensabile ed è un fatto positivo. Aggiungerei che chi è al governo ha contro i poteri forti e perciò fa la corsa in salita».

Invece, che cosa non le piace?

«L’eccessiva spettacolarizzazione delle loro azioni. Io non voglio che un ministro faccia bei tweet, ma che faccia buone leggi. L’unica persona che nel dopoguerra può dire di aver salvato l’Italia è Alcide De Gasperi ridando dignità a un Paese povero e sconfitto. Da persona schiva non si metteva mai in vetrina. Ci ha pensato la storia a dargli ragione».

Oggi la politica è comunicazione.

«È così».

Chi sono secondo lei i principali oppositori del governo?

«Mi sembra che questo governo non piaccia alle banche. Questo non vuol dire di per sé che sia buono. Ma che fa cose invise all’alta finanza, ai mercati».

Che cosa pensa della politica di Matteo Salvini sull’immigrazione? È un argomento sovrastimato?

«È il territorio di scontro per eccellenza».

È giusto che lo sia?

«Lo è per interesse di entrambi le parti. A Salvini piace parlare di immigrazione perché è un argomento nel quale si sente forte. All’opposizione piace parlarne perché ritiene sia il punto su cui Salvini è moralmente più attaccabile. Mi sembra un argomento su cui tutte e due le parti dicono quello che i loro elettori vogliono sentirsi dire. A nessuno piace parlare di scuole e ospedali».

Mentre…

«Ce ne sarebbe bisogno. Ci sono problemi altrettanto e forse più urgenti dell’immigrazione».

Dopo il tour cosa farà?

«Sto scrivendo delle canzoni, ma senza scadenze né fretta».

Per i Decibel o per lei?

«Per me. Avendo il mio studio, posso lavorare in tutta tranquillità».

Per altri interpreti non scrive più?

«Ho scritto una canzone per Mimmo Locasciulli, un amico. Più difficile che scriva per i nuovi virgulti».

E per Pico Rama, suo figlio?

«Più facile che scriva lui una canzone che piace a me che il contrario».

La scena musicale è dominata dal rap: troppo?

«Ormai il rap è diventato pop. Lo ascoltano anche i bambini, ha sostituito Peppa Pig. È una fiera di personaggi che cambiamo e spariscono continuamente».

C’è qualcosa o qualcuno da salvare?

«Il mio primo concerto da spettatore fu di Emerson Lake & Palmer. Poi ho visto David Bowie e Paul McCartney, difficile che mi entusiasmi per le nuove leve. Vedo molta piaggeria: pur di essere trasmessi e scaricati si accetta di abbassare il tiro. Credo che le cose migliori siano quelle che se ne fregano del mercato».

Ai giovani che consiglio darebbe?

«Di avere pazienza e costanza. Di non aspettarsi di diventare ricchi e famosi in poco tempo. L’epoca alla quale appartengo, quella di Franco Battiato e Vasco Rossi, è stata un’anomalia. Era più facile, c’era meno concorrenza. Eppure, nessuno di noi ha sfondato al primo disco. Io ebbi un contratto per cinque album. Oggi la selezione è spietata. Se il primo cd non sfonda, dopo sei mesi hai già cambiato mestiere».

 

La Verità, 10 dicembre 2018