Sven, il tecnico playboy che sorrideva alla vita
Un gentiluomo, un vero signore: del calcio e nella vita. Se n’è andato ieri, a 76 anni, Sven-Göran Eriksson, lasciando il vuoto che lasciano nel mondo dello sport quelle persone che lavorano senza mettersi al centro, impegnandosi per costruire il gruppo e, grazie a questo, raggiungere i risultati. Un grande allenatore, con idee innovative. Un gestore di campioni. Capace di lasciare una traccia profonda nelle persone con le quali ha collaborato. Non a caso, dalle sue squadre sono usciti tecnici di successo come Simone Inzaghi, Diego Simeone, Roberto Mancini, Sérgio Conceição e Matías Almeyda. Vincente in Svezia, Portogallo, Italia, Inghilterra, dove fu il primo allenatore straniero della Nazionale.
Nel gennaio scorso aveva rivelato di avere un cancro al pancreas che gli lasciava meno di un anno di vita. Pochi giorni fa Prime Video aveva diffuso un brano di Sven, la biografia che gli ha dedicato, ora disponibile in Gran Bretagna e Scandinavia. Si vede il vecchio allenatore ripreso dall’alto, seduto al centro di un prato, tra i boschi e poi nel salotto della sua casa a Sunne, la piccola cittadina della Svezia dov’era nato, figlio di un conducente di autobus e di una commessa. «Penso che siamo tutti spaventati dal giorno in cui moriremo, ma la vita riguarda anche la morte», dice Eriksson nel tono sommesso che abbiamo conosciuto quando allenava Roma, Fiorentina, Sampdoria e Lazio. Dopo aver ricordato i successi sui campi di mezzo mondo, ammette anche alcune «scelte stupide» fatte, soprattutto nei rapporti con le donne. «Ho avuto una vita non normale, sicuramente bella, forse troppo bella. E in qualche modo dovevo scontarla», riflette, appellandosi a un certo fatalismo e a quel temperamento da uomo apparentemente tranquillo che sapeva smorzare le emozioni di una carriera di vittorie e rimonte da montagne russe. Sfiorate, patite o coronate da trionfi. Come quella, esaltante, alla guida della Roma, sulla Juventus di Giovanni Trapattoni (stagione 1985-’86), sfumata su filo di lana con la sconfitta casalinga contro il Lecce, già retrocesso in serie B. O quella subita dal Milan di Alberto Zaccheroni (1998-’99), protagonista di sette vittorie consecutive, fino al sorpasso sulla sua Lazio. Con la quale, l’anno successivo, conquistò il titolo di Campioni d’Italia, sorpassando all’ultima giornata la Juventus allenata da Carlo Ancelotti. Oltre allo scudetto, proprio con la Lazio ebbe le maggiori soddisfazioni, conquistando sette trofei (Coppa delle coppe, Supercoppa europea contro il Manchester united, due Coppe Italia e due Supercoppe italiane). Ma già prima si era imposto alla guida del Göteborg, vincendo campionato e coppa svedese e, a sorpresa, una Coppa Uefa. Successi che lo fecero approdare una prima volta al Benfica, dove tornò dopo la parentesi alla Roma, per arrivare in finale dell’allora Coppa dei Campioni, persa 1-0 dal Milan di Arrigo Sacchi (1989-’90). Di nuovo in Italia, è protagonista di un’altra stagione di soddisfazioni nella Sampdoria di Clarence Seedorf, Roberto Mancini e Sinisa Mihajlovic. Gli ultimi due lo seguirono poi nella Lazio scudettata del 2000, dove lo aspettavano Alessandro Nesta, Pavel Nedved, Luca Marchegiani e Juan Sebastian Veron (oltre ai già citati Inzaghi e Simeone). Insomma, una squadra di campioni, che Eriksson guidava con mano sicura, dettando le regole del gioco a zona, del pressing e della spinta sulle fasce. In un video in cui ricorda l’intervallo dopo un primo tempo sullo zero a zero, Christian Vieri ne mima gesti e parole: un timido pugno sul tavolo seguito da un «“Cavoli, ragazzi!”… Io mi sganasciavo dalle risate». «Non l’ho mai sentito urlare», ricorda Marchegiani, «ma non significa che non si assumesse le proprie responsabilità e, quando serviva, dicesse cose decise, riprendendo i giocatori».
Fuori dal campo, la sua vita è scandagliata dalle televisioni e dai paparazzi, soprattutto per la decennale relazione con Nancy Dell’Olio, l’avvenente avvocato italoamericana che promuove la Puglia nel mondo e che tollera alcuni altri flirt. Con Debora Caprioglio, con la conduttrice tv svedese Ulrika Jonsson, con la segretaria della Federazione inglese Faria Alam che incontra spesso, essendo il nuovo Commissario tecnico della Nazionale, «la terza carica dello Stato, dopo la regina e il premier», secondo la Dell’Olio.
Anche alla guida dell’Inghilterra, Eriksson ottiene ottimi risultati, dimostrando di saper gestire campioni come David Beckham e Wayne Rooney. Esordisce rifilando un 5-1 alla Germania nelle qualificazioni per i Mondiali del 2002. In Giappone, supera il primo girone battendo l’Argentina, ma viene eliminato ai quarti dal Brasile. Ai Mondiali successivi di Germania, dopo una sanguinosa sconfitta con l’Irlanda del Nord che non compromette la qualificazione ma il rapporto con la stampa, esce perdendo dal Portogallo ai rigori e si dimette. Allena il Manchester City, all’epoca di proprietà di un magnate thailandese. Poi le nazionali del Messico, della Costa d’Avorio, delle Filippine. Sconfina in Cina e non disdegna altre esperienze nomadi, fino a tornare ad allenare in Terza divisione in Svezia.
«Spero che alla fine la gente dirà, sì, era un brav’uomo», continua nel documentario. «Spero che mi ricorderete come un ragazzo positivo che cercava di fare tutto il possibile. Non dispiacetevi, sorridete. Grazie di tutto, allenatori, giocatori, pubblico, è stato fantastico. Prendetevi cura di voi stessi e prendetevi cura della vostra vita. E vivetela».
La Verità, 27 agosto 2024