Tag Archivio per: destra

La Mostra e l’inscalfibile egemonia della sinistra

E poi dicono che «la destra vuole prendersi il cinema» (Stefano Cappellini, Repubblica, 29 agosto). O, al contrario, parlando della solita egemonia culturale, che «non c’è nessun cambio di passo, nessuna svolta, nessun cambiamento reale». In una parola, «nessuna discontinuità» (Marcello Veneziani, La Verità, 6 settembre). A suo modo, la faccenda è semplice: in materia di cinema e di cultura, può succedere che, anche nelle riflessioni di commentatori abitualmente illuminati, la realtà sfochi a vantaggio delle opposte visioni e opinioni. Quella realtà che riappare, invece, in tutta la sua solidità e la sua testardaggine al momento dei verdetti delle giurie, nei palinsesti dei festival, nei comizi gratuiti e frequenti dei veneratissimi maestri.
Sabato sera l’81ª Mostra d’arte internazionale del cinema di Venezia ha licenziato un palmarès inequivocabile. Il Leone d’oro per il miglior film è andato a The Room Next Door (La stanza accanto) di Pedro Almodóvar, opera apprezzata da gran parte della critica, che afferma la necessità di una legge sull’eutanasia: «Porre fine alla propria vita è un diritto dell’essere umano. Chi deve fare le leggi deve tenerne conto», ha dettato il regista spagnolo ricevendo il premio. «Bisognerebbe però rispettare e non intervenire in queste decisioni», ha intimato a chi non condivide il suo dogma. Il Leone d’argento – Gran premio speciale della giuria è stato assegnato all’italiano Vermiglio di Maura Delpero, una pregevole storia ambientata alla fine della Seconda guerra mondiale in una famiglia montanara con un padre maschilista. Il Premio speciale della giuria, presieduta da Isabelle Huppert, l’ha conquistato l’estenuante e desolante April della regista georgiana Dea Kulumbegashvili che l’ha presentato come «un film femminista, sugli aborti clandestini». Premiato per Ecce Bombo, miglior restauro della sezione Classici, Nanni Moretti ha invece colto l’occasione, davanti al neoministro della Cultura Alessandro Giuli, per chiamare alla militanza registi e produttori che dovrebbero essere più «reattivi nei confronti della nuova pessima legge sul cinema». Cioè: la riforma sul tax credit che ha rivisto i criteri di assegnazione dei fondi pubblici, la migliore fatta dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano, andrebbe cancellata per consentire al cinema schierato dalla solita parte di continuare a produrre, come con Dario Franceschini, opere che non arrivano in sala o spariscono dopo un weekend. Tutto questo, solo per stare alla serata finale conclusa dalla proiezione di L’orto americano di Pupi Avati, film di chiusura della manifestazione e, dunque, allarmante sintomo dell’incipiente controllo della destra sul cinema italiano.
Scorrendo invece a ritroso il cartellone della Mostra si scopre che era farcito di denunce di militanze di destra: sempre estrema, prevaricatrice, totalitaria. A cominciare dalle trame più intime ed esistenziali, come in Jouer avec le feu, il bel film francese di Delphine e Muriel Coulin (Coppa Volpi a Vincent Lindon) che racconta l’impotenza di un padre nel fermare la deriva nazista di uno dei due figli; o come in Familia di Francesco Costabile, ispirato alla vicenda reale di Luigi Celeste, anch’egli militante di estrema destra, che uccise il padre per proteggere la madre vittima di continue violenze. Per proseguire con storie politiche in senso stretto, come in film e documentari che stigmatizzano autocrati, leader sovranisti e dittatori: su tutti, 2073 dell’inglese Asif Kapadia, che compone una galleria di responsabili dell’apocalisse globale con Silvio Berlusconi, Vladimir Putin, Jair Bolsonaro, Viktor Orbán, Narendra Modi, Javier Milei e Giorgia Meloni. E per finire con il vero evento di questa edizione, ciliegina sulla Mostra: l’anteprima mondiale di M – Il figlio del secolo che si apre con un Mussolini che si rivolge ai posteri: «Mi avete amato, mi avete odiato, mi avete ridicolizzato. Avete scempiati i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma ditemi, cosa è servito? Guardatevi attorno: siamo ancora tra voi». Dello stesso tenore il comizio in sala stampa di Antonio Scurati alla presentazione della sua creatura: «Lo spettro del fascismo si aggira per l’Europa, ma non siamo noi a evocarlo, non è il mio romanzo, non è questa serie. Sono altre forze che hanno questa responsabilità».
Ecco. Questo è lo stato delle cose. Questo è l’assetto del «potere culturale preesistente e persistente» (Veneziani) per cui non si trova in giro, non solo in Italia, un regista o un autore cinematografico che si definisca «di destra». Nei giorni scorsi mi è parso sintomatico non esser riuscito a individuarne uno che potesse sostenere un’intervista distaccata e autorevole su «destra e cinema». Sarà perché non esistono due mondi più distanti tra loro di questi? Consiglio a tutti, da una parte e dall’altra, di mettersi il cuore in pace. La traversata da compiere si profila bella lunga. Ci vuol altro che la nomina di qualche direttore e di qualche manager per scalfire e ancor più per ribaltare la pluridecennale egemonia della sinistra.

 

La Verità, 9 settembre 2024

Alain, l’icona ribelle che spiazzava la rive gauche

Le ragazze erano tutte innamorate di lui. Il dolce emigrato meridionale di Rocco e i suoi fratelli. Lo sfrontato assassino di Delitto in pieno sole. L’affascinante principe Tancredi di Il Gattopardo (Palma d’oro a Cannes nel 1963). Il glaciale sicario di Frank Costello faccia d’angelo. L’inafferrabile gangster di Borsalino. Il tenebroso professore di La prima notte di quiete. Questo per stare ad alcuni ruoli incarnati a inizio carriera in film che, tra ieri e oggi, le televisioni di tutto il mondo stanno riproponendo.
Per Alain Fabien Maurice Marcel Delon, semplicemente Alain Delon, nato l’8 novembre 1935 a Sceaux, pochi chilometri da Parigi, sex symbol è definizione quanto mai restrittiva. Mostro sacro. Icona del cinema. Uomo dei sogni. Forse il più grande attore francese di sempre – ci sono pure Jean Gabin, suo idolo, Ives Montand, Jean Paul Belmondo, con cui recitò spesso, e Gérard Depardieu. Sicuramente il più popolare. Perché era come in quelle parti: dolce, sfrontato, affascinante, glaciale, inafferrabile, tenebroso. Aggettivi buoni pure per l’uomo affamato di vita, di donne, di avventure. E, pure, mai appagato, mai quieto. Al punto di cadere, più in là negli anni, nella malinconia, cui aveva dato volto interpretando il barone di Charlus in Un amore di Swann tratto da Marcel Proust. Un uomo coraggioso e, a suo modo, indomito. Anche nelle prese di posizione politiche che turbavano i benpensanti della rive gauche. Come quando, difendendo l’eurodeputato Nadine Morano sottoscrisse le parole di Charles De Gaulle: «È ridicolo polemizzare contro una persona che dice che “la Francia è un Paese di razza bianca”. Il Kenya è un Paese bianco? No, lì le persone sono nere. E allora? Qual è il problema?». Oppure quando, lo interrogarono sull’amicizia con Jean-Marie Le Pen e gli chiesero della vicinanza al Fronte national: «E se anche lo fossi? Uno può essere di estrema sinistra, ma non può essere di estrema destra? Il Fn in Francia rappresenta milioni di persone. Sono milioni di idioti? Uno ha il diritto di pensarla diversamente, ma non deve mancare il rispetto delle posizioni degli avversari».
La notizia della morte l’hanno data i figli a un’agenzia di stampa: «Alain Fabien, Anouchka, Anthony, oltre che il suo cane Loubo, hanno l’immensa pena di annunciare la dipartita di loro padre. Si è spento serenamente nella sua casa di Douchy, con accanto i suoi figli e i suoi familiari… La famiglia vi chiede di rispettare la propria intimità in questo momento di lutto estremamente doloroso». È significativo che tutti tre l’abbiano annunciato insieme, considerato che Anouchka si era opposta alla volontà di Anthony di predisporre l’eutanasia, sembra su indicazione del padre. «Non sarà Dio a decidere il momento della mia morte», aveva confessato anni fa a Paris Match. Chiuso e solitario, nella sua villa sul lago Lemano in Svizzera, aveva svelato il proposito del suicidio: «Ci penso spessissimo. Vivo davanti ai miei occhi la scena di quel momento. Il difficile è non farlo».
Tutto veniva dal passato di «bambino infelice», assicurava. Dopo la separazione dei genitori, la madre lo affida a una famiglia adottiva, ma trascorso qualche anno, è assegnato a un collegio di suore a Issy-les-Molinaux. Il dolore germina il temperamento ribelle. Cambia parecchie scuole, abbandona gli studi e si arruola paracadutista in un corpo militare destinato alla guerra in Indocina, dove trascorre cinque anni (di cui 11 mesi in prigione per indisciplina). Tornato in Francia, fa il cameriere, il facchino ai mercati di les Halles, il commesso, l’attore marginale. S’invaghisce di Brigitte Auber, anche lei giovane attrice, che gli presenta Jean-Claude Brialy, con il quale va al Festival di Cannes, dove il suo aspetto viene notato. Era già «un pericoloso veicolo di disordine, tradimenti e tentazione», scrivono di lui. Arrivano le prime proposte. Si trasferisce a Roma presso il fotografo Gian Paolo Barbieri. Nel 1958, sul set di L’amante pura, conosce Romy Schneider, il grande amore della sua vita. Con lei interpreta una mezza dozzina di pellicole di successo come La piscina e Delitto in pieno sole (dal Talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith). Nei primi Sessanta sono la coppia più bella e invidiata del cinema. Si rompe con l’avvento della modella Francine Barthelémy, che si spaccia per sua sorella, prende il nome di Nathalie Delon e sarà la madre di Anthony. A Romy, Alain annuncia l’addio con un biglietto: «Mi dispiace. So che ti avrei reso infelice. Parto per il Messico con Nathalie. Ti auguro ogni bene». Le avventure si susseguono. Ma quando recita una prima volta con Brigitte Bardot la scintilla non scocca. Lui è troppo preso da sé stesso, sostiene lei: «All’epoca non pensava che ai suoi occhi azzurri e alla sua faccina d’angelo». Nel 1968, sul set di Tre passi nel delirio, «avremmo potuto amarci… ma non successe niente». L’unione con Nathalie, invece, naufraga dopo quattro anni. Mireille Darc resiste al suo fianco più a lungo, ma l’elenco dei flirt è infinito: Dalida, Sidney Rome, Dalila Di Lazzaro, Anne Parillaud, la Nikita di Luc Besson, Catherine Pironi. Fino a quando si lega alla modella olandese Rosalie von Bremen, dalla quale ha Anouchka e Alain Fabien. Quando il Novecento tramonta, declina anche il suo protagonismo cinematografico. E, come per Paul Newman, anche per lui, fioccano i premi alla carriera, quasi una riparazione della critica internazionale, disposta a ripagare un interprete cui, in parte, hanno fatto velo le doti estetiche.
Nel 2019 è colpito da ictus. Nel gennaio 2023 si annuncia che soffre di un linfoma a evoluzione lenta. «Faccia d’angelo», lo si capisce, non si rassegna alla vecchiaia: «Invecchiare fa schifo. Non puoi farci niente, l’età si fa sentire. Non riconosci la faccia, perdi la vista», dichiara. «Lascerò questo mondo senza sentirlo. La vita non ha più nulla da offrirmi, ho visto tutto, ho sperimentato tutto. Ma soprattutto odio l’era attuale, mi fa male. Tutto è falso, tutto è stato sostituito, non c’è rispetto per la parola data, ora tutto ciò che conta sono soldi e ricchezza. So che lascerò questo mondo senza dispiacermi».
La prima notte di quiete è appena trascorsa.

 

La Verità, 19 agosto 2024

«Sinistra progressista? No, difende lo status quo»

Dopo aver scelto di starsene defilato e di calmare l’astinenza dalla politica con qualche video omeopatico inviato ai destinatari della sua newsletter, ora Claudio Velardi è tornato in prima linea per dirigere Il Riformista. Un marchio che è anche il biglietto da visita dell’ex Lothar dalemiano che, da tempo, ha scelto posizioni più moderate.
Che cosa ti ha fatto abbandonare la tranquillità del buen retiro?
«La crisi evidente nella quale si è trovato Il Riformista dopo l’abbandono di Matteo Renzi e quello successivo del direttore Alessandro Barbano. Quando l’editore Alfredo Romeo, che insieme a me lo fondò nel 2002, mi ha chiamato al suo capezzale non potevo che accettare. Come sappiamo, fare un giornale è la cosa più bella del mondo. Ti svegli la mattina e pensi: oggi come e a chi posso rompere le scatole?».
Ottima definizione del giornalismo. Perché ti senti sollevato a non essere francese e non dover votare domani?
«Perché mi sembra un voto pesantemente condizionato da visioni estreme della politica che oggi non condivido. Nell’età matura tendo a vedere le sfumature, non appartengo ad alcuna tifoseria e cerco soluzioni di buon senso».
Per venire al dilemma francese?
«Soluzioni di buon senso in Francia non ne vedo perché Emmanuel Macron ha scelto di radicalizzare lo scontro. Forse non poteva fare diversamente, ma la forzatura di queste elezioni anticipate non giova a far maturare l’opinione pubblica nella maniera giusta. Perciò, mi sentirei in grande difficoltà: trovo che la polarizzazione che si sta producendo in Francia e altrove sia una caricatura infantile del bipolarismo».
In che senso?
«Sono i bambini che non sanno andare al di là del sì o del no perché non conoscono le sfumature e la complessità. Da adulti non possiamo ridurre lo scontro delle idee a “o di qua o di là”».
Domenica scorsa avresti votato per Renaissance di Macron?
«Sì, sebbene veda i limiti di questo centrismo elitario. Il problema di Macron, e di tanti moderati non solo in Francia, è di pensare di essere il sale della terra».
La parola più gettonata da quando c’è lui è «pedagogia».
«Un’altra espressione che si è un po’ persa era “le spinte gentili”. Capisco che, davanti a scelte difficili, bisogna un po’ accompagnare per mano le persone, ma senza fare i maestrini. Perché in quel caso la gente si ribella».
Macron chiede di votare France insoumise di Jean Luc Mélenchon per impedire che vinca il Rassemblement national di Marine Le Pen e Jordan Bardella. Condivide?
«Non sono Macron, ma capisco che voglia garantirsi una gestione meno conflittuale possibile e quindi lavori perché non ci sia una maggioranza Le Pen, ma una situazione d’incertezza politica».
Questo gioverebbe al Paese?
«Nel sistema francese forse questo è il modo per cercare governabilità. Quanto giovi non lo so. Da un punto di vista più globale, quando scoppiano delle bolle e si manifestano eruttazioni sociali è bene che si misurino con il governo. Era il mio pensiero persino quando sono esplosi i 5 stelle, quanto di più lontano da me. È inutile creare barriere e trincee».
Anche se fermando i «barbari» si salva la democrazia?
«Sono motivazioni sbagliate. Se i “barbari” sono cresciuti, evidentemente la democrazia non ha dato risposte adeguate».
Democrazia è anche scegliere Rn?
«Certo che sì. La democrazia dev’essere in grado di assorbire le spinte antisistema. Altrimenti lo è solo quando i cittadini votano i buoni? Se la democrazia è in grado di assorbire la spinta antisistema deve contemplare la possibilità che governi. Anche perché quando queste forze si cimentano con le compatibilità di governo entrano di più nel gioco del sistema».
Anche la sinistra italiana, come quella radicale francese, coccola l’antisemitismo delle proteste giovanili e dei pride che respingono gli omosessuali ebrei.
«Nella sinistra italiana il fenomeno ha radici meno solide, è legato a mode politiche. Le organizzazioni che coinvolgono militanti Pro-Pal non sono del tutto consapevoli che portano dritti diritti all’antisemitismo».
Come spieghi che, invece, in Gran Bretagna dopo 14 anni di governo dei Tory hanno vinto i laburisti?
«Quando la sinistra riformista parla al centro dell’elettorato moderato, affronta i problemi dello sviluppo, non fa demagogia e non si rifugia nelle ideologie, vince».
Da noi si pensa di riprodurre il Fronte popolare. Cos’hai pensato vedendo la foto di Elly Schlein, Riccardo Magi, Nicola Fratoianni e Giuseppe Conte sul palco di Bologna?
«Ho pietosamente sorriso. Che cosa vuoi fare, vedendo che tra il radicale Magi e il democristiano Conte, c’era il comunista Maurizio Acerbo che saluta la folla a pugno chiuso, se non sorridere pietosamente?».
Anche pensando ai precedenti?
«Che sono illuminanti. Con le grandi ammucchiate si può vincere alle urne, ma il giorno dopo si straperde al governo. È già successo e succederebbe ancora».
Perché anche in Italia, come in Francia, le classi deboli si spostano a destra?
«Malgrado il racconto che fa di sé stessa, la sinistra è la forza che nell’ultimo secolo ha vinto. Nel senso che ha contribuito a realizzare nei paesi occidentali una serie di conquiste sociali sul fronte del lavoro, dell’assistenza sanitaria, delle pensioni e dei diritti civili…».
Ahimè.
«Ma l’esito di questa vittoria è che oggi difende la società esistente. Tutti coloro che ne sono esclusi, le sacche di emarginazione sociale, i nuovi poveri, gli immigrati delle periferie, i lavoratori non protetti e i rider, vanno a destra. Mentre i garantiti, dai professionisti ai docenti universitari fino ai pensionati, stanno a sinistra proprio perché difende gli equilibri attuali. C’è stata un’eterogenesi dei fini, un rovesciamento lessicale: oggi la sinistra difende lo status quo».
È un rovesciamento che subisce o capisce?
«Secondo me, fa finta di non capirlo. Concretamente, non potendo tutelare sia il pensionato che il rider, la sinistra sta con il pensionato perché gli interessi di quest’ultimo convergono su grande scala con i suoi».
Per questo alza lo sbarramento alle politiche di governo, tipo il premierato e l’autonomia differenziata?
«Si oppone a qualsiasi cosa mini lo status quo, compresa la riforma delle istituzioni che, in alcuni momenti di apertura e di espansione dopo vittorie elettorali, ha pensato di promuovere».
Vedi il programma di Achille Occhetto del 1994 e la proposta di Matteo Renzi.
«Oppure la bicamerale di Massimo D’Alema. Cioè, i rari momenti in cui la sinistra non si arrocca su posizioni conservatrici dell’esistente».
Adesso ci si prepara al referendum sull’autonomia differenziata. Sembra che i limiti riscontrati finora debbano bloccare qualsiasi iniziativa propulsiva.
«Penso che il referendum sia sbagliato perché non farebbe altro che accrescere la divisione culturale tra Nord e Sud, che è il fatto che più mi preoccupa. Inevitabilmente, la campagna sarebbe tra Nord produttivo e Sud assistito. Non farebbe bene a nessuno, soprattutto al Sud che, invece, secondo me deve far sentire il suo orgoglio, accettando la sfida dell’autonomia, rifiutando di essere etichettato come la parte del Paese che dipende dai fondi pubblici e non sa nemmeno utilizzarli bene. Questa sfida si raccoglie solo se si fa crescere una nuova classe dirigente che prende in mano la bandiera del Mezzogiorno per farlo crescere in autonomia».
Fuori dalle aule parlamentari, la strategia principale della sinistra è la delegittimazione dell’avversario, vedi l’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale?
«La delegittimazione è l’involucro valoriale di questa strategia conservatrice. Quando chiami il tuo elettorato su posizioni conservatrici devi vestirle con un apparato simbolico molto forte. E cosa c’è di più forte del richiamo alla resistenza e all’antifascismo, i cosiddetti valori fondanti della Repubblica? Questa è l’operazione. Il conservatorismo strutturale e sociale di sinistra ha questa veste valoriale per far risultare nobile e imprescindibile la campagna intrapresa».
Per questo si susseguono gli
allarmi al fascismo e le abiure di Giorgia Meloni non bastano mai?
«Certo. Nel momento in cui si dicesse che la Meloni ha finalmente chiarito, crollerebbe il castello di carte e la sinistra si ritroverebbe a volto scoperto con il suo conservatorismo sociale e istituzionale».
Una sinistra che si propone come anti destra e boccia premierato, autonomia, persino il ponte sullo stretto, può definirsi progressista?
«È il contrario del progressismo che, per definizione, riguarda il cambiamento. Quando non vuoi nessun cambiamento non hai niente a che fare con il progressismo».
In conclusione, la sinistra sa perdere o, come la nostra Nazionale, anziché ammettere la sconfitta e ripartire da un bagno di umiltà, ripete che non si può lasciare campo libero alle destre come se il governo le spettasse per diritto divino?
«È la presunzione di considerarsi superiori agli altri sul piano dei principi e dei valori. O dici che perdi perché non sai giocare a calcio, oppure devi cercare altre ragioni. Se c’è sempre qualche nemico esterno che attenta alle ragioni del Bene puoi evitare la necessità di un ricalcolo e di fare i conti con i tuoi errori. E, anche se perdi, puoi raccontare al tuo popolo che la ragione è dalla tua parte».
Torniamo a Bertolt Brecht: «Il comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo bisogna nominare un nuovo popolo»?
«Certo, le sindromi sono sempre le stesse».
Per finire, considerando lo stato di salute di Macron in Francia e di Renzi e Calenda in Italia, qual è la diagnosi sul riformismo europeo?
«Non vive tempi buoni perché nello statuto del riformismo c’è il cambiamento. Mentre ora viviamo un momento di “dissonanza evolutiva”, come viene chiamata».
Ovvero?
«La grande trasformazione tecnologica in atto ci sopravanza. Gli esseri umani non stanno al passo del cambiamento che loro stessi hanno prodotto. Questo genera resistenze conservatrici sia a destra che a sinistra. Perciò, il riformismo, che invece è cambiamento, è obiettivamente minoritario. Se, poi, agisce per via tecnocratica o pedagogica, diventa ancor più minoritario. La vera scommessa è far diventare il riformismo popolare ed empatico».
In Italia l’impresa è nelle mani di Luigi Marattin ed Enrico Costa che hanno promosso un’iniziativa per scalzare i vecchi leader del Terzo polo.
«Il problema è enorme e si esprime a livello internazionale. C’è bisogno di personalità che sappiano tracciare un sentiero. Stiamo a vedere se saranno loro due le figure giuste per iniziare a farlo».

 

La Verità, 6 luglio 2024

«Egemonia della destra? Non vedo idee all’altezza»

Politologo, docente universitario a Firenze, considerato l’ideologo della Nuova destra, catalogazione che rifiuta in quanto da oltre vent’anni ritiene obsoleta la dicotomia destra-sinistra, Marco Tarchi è impegnato nelle discussioni di tesi di laurea e nel tour per presentare Le tre età della fiamma. La destra in Italia da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni (Solferino), l’ultimo libro scritto con Antonio Carioti. Eppure trova il tempo per rispondere, in più scambi di mail, alle domande della Verità per commentare l’evoluzione degli scenari europei e le polemiche inerenti la cultura di destra nel nostro Paese.

Alle ultime elezioni si è scoperto che, come dicono i sondaggisti, il governo dell’Unione europea è contendibile. Se lo aspettava?

«Dopo mesi di campagna in cui Meloni aveva promesso che il suo gruppo sarebbe stato decisivo nella scelta del nuovo, o vecchio, presidente della Commissione europea, c’era chi si aspettava di meglio. Invece, la prospettiva di una conferma della vecchia maggioranza popolari-socialisti-liberali resta in piedi. Io non ho mai creduto nel sorpasso».

Le sembra che la leadership interpretata da Emmanuel Macron e Olaf Scholz stia traendo adeguate conseguenze dalla sconfitta?

«No. Tirano a campare, fino a quando non saranno sbalzati di sella dai rispettivi elettorati nazionali. E dubito che l’attuale presidente francese, anche se subisse un altro pesante schiaffo il 7 luglio, rinuncerà alla carica. Anzi, sfrutterà la prevedibile ingovernabilità dell’Assemblea nazionale per far valere ancora di più le sue prerogative».

Finora Ppe, socialisti e liberali si stanno mostrando indifferenti all’esito elettorale. Questo orientamento aumenterà la distanza tra i cittadini e le istituzioni di Bruxelles e alimenterà sentimenti di rabbia nei raggruppamenti cresciuti e consolidati dal voto?

«Non c’è, né in Italia né in nessun altro paese dell’Unione, un vero interesse dell’opinione pubblica per le vicende politiche europee. Gli unici momenti in cui questa indifferenza cessa sono quelli in cui c’è da contestare qualcuna delle politiche decise a Bruxelles su agricoltura, commercio, limiti alle emissioni e via dicendo. L’Ue ha sempre scaldato solo i cuori di un ristretto nucleo di politici e intellettuali. Non certo delle popolazioni. E poco anche quelli dei partiti nazionali».

Sembra che Giorgia Meloni voglia far pesare lo spostamento a destra dei consensi. Fa bene ad alzare la voce contro i tentativi di procedere alle nomine senza tenerne conto?

«A quanto sembra, viste le reazioni di Tusk e Weber, sì. Ma in queste dichiarazioni si sottolinea il ruolo dell’Italia, “paese fondatore della comunità europea”, non quello dei conservatori che Meloni dirige, mostrando che, pure loro, tengono d’occhio più gli interessi dei rispettivi Stati che quelli dei “fratelli” d’oltre frontiera».

Il presidente Sergio Mattarella ha ribadito che bisogna tenere conto dell’Italia: non toccherebbe anche alle opposizioni, Pd compreso, fare squadra per sostenere la rilevanza del nostro Paese in Europa?

«Nell’attuale gioco, Meloni indossa contemporaneamente i due cappelli: presidente del Consiglio e leader di uno specifico gruppo. Stanti così le cose, e dati i toni dell’attuale politica bipolare, non c’è da stupirsi se le convergenze mancano. Ma, quando si è trattato di nomine ai vertici, è stato più o meno sempre così, e non solo da noi. Si è visto persino il clamoroso autogol di Salvini nel 2019, quando fece cadere il governo di cui faceva parte nel momento in cui era convinzione comune che il posto di commissario italiano sarebbe toccato a Giorgetti. E così lì ci andò Gentiloni».

Che ripercussioni avrebbe sugli equilibri del governo italiano la decisione di Giorgia Meloni di appoggiare la candidatura di Ursula von der Leyen?

«Darebbe un solido argomento polemico alla Lega, che già con la fortunata scelta di Vannacci si è candidata a fare concorrenza da destra a Fratelli d’Italia. La presidente uscente non è certo una delle figure più amate dall’elettorato meloniano. Forza Italia, viceversa, ne sarebbe soddisfatta, ma dubito che quel gesto diminuirebbe la potenziale conflittualità con il partito di maggioranza della coalizione».

Quanto sarà determinante l’esito delle imminenti elezioni francesi?

«Dipenderà, ovviamente, dal riscontro delle urne. E ho il sospetto che una, peraltro improbabile, maggioranza assoluta di seggi dell’alleanza Rassemblement national-Républicains di Ciotti, e una conseguente ascesa di Jordan Bardella alla carica di primo ministro non rallegrerebbe Meloni. Che tiene moltissimo a essere considerata il faro delle destre europee e che conduce una politica in molti punti divergente – soprattutto sul piano economico – da quella di Marine Le Pen e soci».

Quanto plausibili sono gli allarmi di alcuni analisti che vedono i fondamenti dell’attuale consorzio europeo messi in discussione dalla cosiddetta avanzata delle destre?

«Li considero in larga misura eccessivi. Per motivi diversi, sia i partiti facenti capo all’Ecr sia il partito – e il governo – di Orbán non hanno alcuna intenzione di mettere in discussione l’attuale struttura dell’Ue. Tutt’al più auspicano qualche modifica del suo funzionamento. Il caso Meloni insegna: una volta entrati nel salotto buono dell’Unione, ci si adegua alle sue buone maniere».

L’Europa è destinata a rimanere un’entità fredda e dirigista e culturalmente succube dei nuovi dogmi woke d’oltreoceano, o ci sono margini per recuperare un’identità propria nel rispetto dell’autonomia delle diverse nazioni?

«Di margini ne vedo pochi, perché fino a quando l’Ue resterà legata a doppio filo alle strategie degli Usa e della Nato – o, per meglio dire, dipendente dai loro voleri – non potrà mai ambire a tracciare una propria rotta politica, economica, culturale o geopolitica. E, stando così le cose, quand’anche qualche Stato nazionale riuscisse ad avere mani più libere al proprio interno, a cosa servirebbe?».

In Italia si sottolinea l’avvento di un nuovo bipolarismo, incarnato da Giorgia Meloni ed Elly Schlein: è davvero così?

«Per il momento le cose vanno in questa direzione, e in tempi di personalizzazione e mediatizzazione della lotta politica questo confronto/scontro diretto, molto gradito a entrambe le contendenti, ha buone probabilità di durare. Anche se, in un’epoca in cui la politica è sempre più condizionata da fattori estranei, economici e geopolitici, qualcosa di nuovo, sotto forma di crisi, può modificare in modo inatteso gli scenari».

È un dato di cui rallegrarsi o anche in questo caso la polarizzazione favorisce l’astensionismo?

«Di solito la polarizzazione ha un effetto mobilitante sulle opposte tifoserie – che però sono ridotte a questo ruolo».

Nel suo ultimo libro analizza le stagioni della destra italiana: pensa che un’abiura definitiva del fascismo metterebbe Giorgia Meloni al riparo dalle critiche e dalle diffidenze che la accompagnano?

«Nessuna abiura avrebbe questo effetto, e anzi verrebbe interpretata come un segnale di debolezza, oltre ad accompagnarsi a un’ondata di ulteriori sospetti e insinuazioni sulla sincerità di una scelta di quel genere. Sarebbe solo un modo per alienarsi quegli elettori che, pur senza coltivare nostalgie, si rifiutano di accettare la riduzione caricaturale di un fenomeno complesso della storia italiana all’immagine manichea che ne danno gli antifascisti di professione».

Come giudica il tentativo del governo di modificare il sistema culturale in Italia?

«Esiste, questo tentativo? Dov’è? Io, per il momento, vedo soltanto nomine ai vertici di questa o quella istituzione controllata dallo Stato. Ma nelle case editrici, nelle redazioni giornalistiche, nelle scuole, nelle università, nelle società di produzione cinematografica, nelle compagnie teatrali, nel mondo della musica e via elencando niente è cambiato. E niente potrà cambiare se non si costruirà, poco alla volta, una nuova atmosfera culturale. Che ha bisogno di idee capaci di attrarre consenso e di ingegni capaci di produrle e farle circolare, non di direttori o commissari straordinari di questo o quell’ente. Per adesso, le premesse di questa rivoluzione culturale non riesco a scorgerle all’orizzonte».

Con alcune nomine nelle istituzioni si è cominciato a parlare di nuova «egemonia culturale» della destra. Che cosa caratterizza precisamente quella che viene chiamata cultura di destra e la sua egemonia è un obiettivo da perseguire?

«La lotta per l’egemonia culturale, come lo stracitato (a ragione) Gramsci ha insegnato, è parte essenziale della lotta politica. Per sfidare quella esistente, di segno progressista, che è tuttora molto estesa, bisogna sforzarsi di mettere in circolazione idee capaci di entrare gradualmente a far parte del senso comune, cioè di attecchire nella mentalità collettiva. Un compito immane, anche se necessario».

Ancora prima, esiste un ceto intellettuale in grado di alimentare e promuovere una cultura così concepita?

«Questo è il punto. Decenni di egemonia intellettuale progressista hanno saturato gli ambienti culturali di cui dicevo, spesso anche grazie a politiche di nepotismo e clientelismo. E, salvo pochi casi, chi non aveva opinioni gradite è stato accuratamente tenuto fuori dai luoghi di riproduzione del potere culturale – a partire dalle università – anche se mostrava qualità notevoli. Questo fenomeno accade tuttora, per esempio nel reclutamento nei dottorati di ricerca o in taluni ambiti artistici. Se le cose non cambieranno, questo ceto intellettuale non avrà modo di formarsi. E sarà facile, agli avversari, metterne alla berlina l’assenza».

Qualcuno osserva che i nuovi dirigenti di queste istituzioni devono favorire il dialogo con gli intellettuali della sinistra, ma poi accade che un gruppo di scrittori contesta le regole di organizzazione della rappresentanza italiana alla Fiera di Francoforte. Qual è la sua opinione?
«Detesto la faziosità degli “intellettuali militanti”, avendone subìto gli effetti in più occasioni, e sono convinto che la disponibilità al dialogo sia uno dei requisiti fondamentali per chi fa cultura. Non sarà però facile convertire a questa pratica di civiltà chi è abituato a considerarsi moralmente superiore a chiunque abbia opinioni diverse e, soprattutto, teme di perdere posizioni di supremazia che riteneva definitivamente acquisite. Il caso dei non pochi scrittori che si sentono storici, profeti o coscienze dell’umanità perché stanno politicamente e ideologicamente “dalla parte giusta” è tipico».

 

La Verità, 29 giugno 2024

«La sinistra non ha più l’egemonia culturale»

Con un nonno partigiano e l’altro che ha fatto la marcia su Roma, Alessandro Giuli ricerca la conciliazione degli opposti. E, ora che siede alla presidenza della Fondazione MAXXI, opera affinché il dialogo tra destra e sinistra si realizzi. La summa di questo tentativo si trova in Gramsci è vivo, dotto pamphlet appena pubblicato da Rizzoli.
Che cosa tiene ancora in vita Antonio Gramsci?
«La lezione che ci ha offerto come testimone di una libertà conculcata da un regime e l’aver rotto lo schema pseudoscientifico del marxismo-leninismo, mettendo la cultura al centro del discorso rivoluzionario».
Più precisamente?
«Con Gramsci la rivoluzione, il progetto sbagliato della dittatura del proletariato, non avviene solo in base al mutamento dei rapporti socio-economici, ma attraverso la cultura. Non si lasciano tracce durevoli se non si passa per la cultura».
In che modo è ancora attuale il teorico dell’egemonia culturale e della conquista delle casematte del potere?
«Quello è uno schema invecchiato male perché tipico del partito-Stato dei Soviet. Oggi l’egemonia non si crea dall’alto, ma dalla società civile, con i romanzi, le sceneggiature, le pièce teatrali, l’accademia. Se sei bravo e fortunato ti ritrovi in una comunità di persone che rappresentano la sensibilità conservatrice, maggioritaria in Italia, come si vede quando si vota. Tuttavia, questo processo non si realizza per volontà di un partito, dev’essere uno schema condiviso, altrimenti è una distopia».
Come quella in cui abbiamo vissuto negli ultimi decenni, nei quali l’egemonia culturale aveva un colore diverso dal sentire della maggioranza?
«In questo mezzo secolo si è consolidata una divaricazione tra consenso e potere che neanche il lungo intermezzo berlusconiano è riuscito a scalfire se non nelle nomenclature. Abbiamo dovuto aspettare un ministro come Gennaro Sangiuliano per avere un titolare della cultura non frenato nel modificare l’esistente».
Perché un libro che racconta quasi due anni di presidenza della Fondazione MAXXI teorizza il dialogo come caratteristica della cultura di destra?
«Perché i monologhi sono noiosi. Ne abbiamo ascoltati per decenni e ora preferiamo mettere la nostra identità a disposizione della contesa delle idee. Tanto meglio se producendo anche buoni risultati».
Scrivi che «alla retorica irrazionale del barbaro alle porte, che nasce da un malriposto suprematismo e sfocia nel disprezzo antropologico, si può e si deve contrapporre la forza della persuasione e del confronto».
«Esatto. Spesso ci si aspettano dei quadrumani con il lanciafiamme nei luoghi delle istituzioni più alte come il MAXXI e poi ci si stupisce di trovarvi dei bipedi ragionanti».
Il dialogo rispettoso e costruttivo è un obiettivo ottimista?
«No, magari ha una venatura di strategia. Parto dal presupposto che una buona visione del mondo di chi viene da destra può e deve contenere anche schemi e formule di una sinistra che ha abdicato alla propria funzione. La destra vince nelle urne perché soddisfa un bisogno di sicurezza e di identificazione. Non mi interessa piacere a quelli che chiamiamo salotti della sinistra, le idee sono plurali per definizione».
Quindi, non c’è un bisogno di legittimazione?
«Dal Foglio in poi ho sempre lavorato senza cercare approvazioni. Oggi sono gli stessi intellettuali di sinistra a voler dialogare con il mondo che idealmente personifico».
Nel tuo saggio fai l’esempio di Roma che diventa comunità universale spostando i confini e includendo le province. Più che includere non sarebbe corretto dire che ingloba o annette?
«Una corrente di pensiero di sinistra ritiene addirittura che “includere” sia espressione aggressiva perché significa chiudere dentro. In realtà, significa racchiudere. La lezione di Roma è trasformare genti diverse in un’unica comunità».
Questa inclusione così di moda significa che si assorbe una diversità?
«Non c’è dubbio. Cicerone, che odiava Cesare, scriveva al suo amico Attico che Cesare aveva appena conquistato le Gallie e già aveva fatto senatori alcuni di loro. Nel momento in cui hai un’idea di diritto e di sacralità della vita puoi includere chiunque sottoscriva i tuoi canoni, a patto che lo faccia davvero. Noi i canoni li abbiamo».
Ma pochi li sottoscrivono?
«Quelli che non lo fanno vivono male nella nostra comunità. Accade anche a molti con il passaporto italiano, bianchi, biondi e con gli occhi azzurri che pure non meriterebbero la cittadinanza. Se sei fuori dai canoni della Costituzione, non rispetti la sacralità della vita e l’altro da te, compresa la sovranità che appartiene al popolo, sei fuori da questa comunità».
Chi non rispetta la Costituzione dovrebbe andare in galera, quanto al rispetto della sacralità della vita potremmo scrivere un’enciclopedia.
«Se fai l’infibulazione a una donna è evidente che non rispetti né la donna né la vita, ma se ti comporti da razzista e vuoi decidere chi è italiano e chi no, come il generale Vannacci, non rispetti la sacralità della vita e la Costituzione. Il che vale pure per l’ambiente, anche se vediamo molti estremismi e fanatismi, di cui parla l’articolo 9 della Costituzione insieme al rispetto del paesaggio e alla promozione della ricerca scientifica».
Vannacci ha fatto una considerazione inerente ai tratti somatici di Paola Egonu non rappresentativi dell’italianità, non ha detto chi può o non può essere italiano.
«Accetto questa definizione a patto di immaginare che fra 100 anni ci sia un pronipote nero di Vannacci che dica che il mio pronipote bianco non rappresenta l’ideal-tipo dell’italiano».
Fra 100 anni ne riparleremo. Cosa significa che la cultura può fare per la politica quello che la politica non riesce a fare per la cultura?
«Che la politica vive di confronti, che a volte sono conflitti, con pensieri spesso biodegradabili, mentre la cultura ragiona con una gittata più lunga e sorregge le leadership politiche che si succedono. Se creo MAXXI Med a Messina ci sarà un premier che un giorno se lo ritroverà e ne beneficerà come buon esempio di diplomazia culturale rivolta al Mediterraneo, mentre noi come persone fisiche saremo altrove. Questo a prescindere dal colore di chi sarà al governo».
Citi Emilio Isgrò che sostiene che nell’arte non c’è destra e sinistra perché l’arte è come il ciclismo e tutti pedaliamo allo stesso modo. Cosa vuol dire esattamente?
«Vuol dire che l’arte proviene da artisti che possono avere o no idee politiche personali, ma non è quella l’unità di misura dell’opera d’arte. Per questo la sinistra divora Céline e pensa che sia il più grande scrittore del Novecento».
È un obiettivo ingenuo, pur appellandosi a Norberto Bobbio, rigettare la polarizzazione degli intellettuali in rossi e neri?

«Ho goduto molto quando il ministro Sangiuliano in un’intervista alla Stampa di Torino, tempio del pensiero azionista, ha citato proprio Bobbio ritorcendo le sue categorie contro chi a sinistra ragiona ancora con il bianco e nero anziché con i colori».
Che cosa pensi di ciò che è accaduto in occasione delle scelte per la rappresentanza italiana alla Fiera del libro di Francoforte anche dopo l’invito di Mauro Mazza a Roberto Saviano?

«Premesso che è un perseguitato dalla camorra e che a mio parere dopo Gomorra Saviano non ha scritto nulla di altrettanto interessante, mi piacerebbe che fossero valorizzati altri scrittori come, per esempio, Sergio Claudio Perroni. Il quale, purtroppo, è morto, ma il suo peggior libro vale quanto il miglior libro di Saviano».
Altra obiezione al dialogo è l’espansione della cancel culture e della cultura woke, che partono dalla superiorità del presente sul passato e delle élite sul popolo?
«Il suprematismo antropologico e la violenza distruttiva della cancel culture sono un’abiezione. Ma se la si guarda da vicino, come per esempio ha fatto Piergiorgio Odifreddi nel suo libro in cui ha ridicolizzato la scwha, si capisce che la cancel culture morirà di autofagia, perché tutti i suoi protagonisti non fanno che trovare elementi inibitori da cancellare. Finché non cancelleranno anche loro stessi».
Ci vorranno decenni?
«La fase di rigetto della cancel culture inizia a coinvolgere anche la sinistra».
Perché sostieni che creare occasioni di dialogo sia un discorso di destra?
«Perché la sinistra vive con le cuffiette e ascolta solo la propria musica. Ma ora una destra matura e avanzata cambia spartito e fa scoprire anche alla sinistra una musica migliore».
Gli intellettuali di Capalbio o con l’attico a New York sono davvero meno ascoltati?
«All’intellettuale di Capalbio, dove ha appena vinto la destra, che sopravvive come categoria dello spirito, non vorrei contrapporre l’intellettuale di Coccia di morto. Anziché attaccare i radical-chic che si stanno estinguendo, dovremmo essere un po’ più chic noi, imparando le buone maniere».
A me pare che siano ancora riveriti, accolti come oracoli nelle televisioni e premiati all’estero, dove esibiscono sussiego e disprezzo per chi non si allinea. Questo zoccolo è ancora duro?
«È duro e spesso anche abbastanza qualificato e ben sostenuto dal sistema culturale. Ma questo lo sosteneva già Giuseppe Berto. Appena diventeremo tutti come Giuseppe Berto li annienteremo perché valgono la metà dei suoi coetanei. Ma la vera domanda è: diventeremo come Giuseppe Berto?».
Secondo te?
«È un compito più che una certezza. Penso che siamo pieni di Giuseppe Berto potenziali che stanno suggendo il latte della mamma e noi dovremo farli crescere».
Il primo anno di gestione della tv pubblica fa ben sperare?
«È stato un anno di transizione. Confido che la nuova dirigenza saprà dare il meglio di sé una volta che l’assetto sarà consolidato e talune incertezze, come quelle che abbiamo tutti, serviranno da lezione».
Nel mondo ideale ipotizzato da Daniel Salvatore Schiffer «l’intellettuale del ventunesimo secolo sarà prismatico o non sarà. Sarà artistico prima che politico, amante del dubbio e nemico del dogma, impegnato ma non militante, e qualsiasi sua adesione a una rivoluzione sarà sempre metafisica e mai ideologica, libera e non partigiana, critica e non fanatica». Chi può realizzare questa utopia?
«Un’idea del genere è talmente liberale che la può esprimere solo una destra illuminata».
Una visione realistica evidenzia il prevalere dell’intolleranza, soprattutto a sinistra.
«Parlando di coloro che vivono nella realtà senza consapevolezza Eraclito li definiva presenti assenti. Al contrario, gli intellettuali di destra sono stati assenti presenti. Ora è arrivato il momento di essere presenti presenti».

 

La Verità, 22 giugno 2024

 

Schiavone vorrebbe essere l’Eastwood dei poliziotti

È iniziata la quinta stagione della serie Rocco Schiavone tratta dai romanzi di Antonio Manzini, diretta da Simone Spada e interpretata da Marco Giallini. Il lancio di questi nuovi episodi si è avvalso del fatto che il personaggio del vicequestore trasferito per punizione ad Aosta sarebbe inviso «alla destra». Spesso attizzare una polemica è utile per incrementare l’attenzione e gli ascolti, ma quanto questa sia pretestuosa e creata ad arte lo dice la sua stessa genericità (Rai 2, mercoledì, ore 21,35, share dell’11,8%, 2,2 milioni di telespettatori). Schiavone non piace alla destra. «Ma che, davero?» direbbe il Neri Marcorè diretto da Uolter Veltroni in Quando. Alla destra, ormai entità metafisica come la Spectre, non piacerebbero le canne che il detective si rolla nell’ufficio con vista alpina e il frequente ricorso alla parolaccia nell’intercalare con i colleghi, molti dei quali di origine meridionale. Ognuno recita la propria parte in commedia, ha smorzato i toni lo stesso Giallini, ammettendo che trattandosi della Rai non è del tutto peregrina la critica alla sua etica borderline. Detto questo, se si guardano le serie delle varie piattaforme, «le canne cominciano a farsele in culla». E l’iperbolica osservazione non funga da attenuante.

Nell’episodio intitolato Il viaggio continua il cadavere di un uomo viene ritrovato sul Monte Bianco in territorio italiano, a pochi metri dal confine francese. Il vicequestore, però, si accorge che è stato spostato e così si vede costretto a collaborare nelle indagini con Isobel (Diane Fleuri) della polizia di Chamonix e sua alter ego al femminile. Come nei casi precedenti, sebbene questo citi spannometricamente l’incipit di The Bridge, serie mito del poliziesco nordico, l’intreccio giallo della storia risulta piuttosto secondario. Le attenzioni si concentrano in gran parte sul caratteraccio del protagonista, cinico e indolente, eppure convinto dal questore ad allenare l’improbabile squadra di poliziotti per l’annuale partita contro i magistrati. Sul lato sentimentale, invece, la storia con la giornalista locale (Valeria Solarino) non decolla perché, come gli dice il fantasma della moglie scomparsa con cui continua a dialogare, lui è gravato da troppi pesi. Purtroppo, non bastano la sigaretta esistenziale al posto del sigaro, lo sguardo sguincio e il loden a mo’ di poncho per fare di Schiavone il Clint Eastwood dei poliziotti. Indossato aperto a 3.000 metri sulle Clarks inzuppate, più che sintomo di «spaesamento», di solito è causa di bronco polmoniti. Sarà mica che il malinconico Schiavone è in realtà un superuomo?

 

La Verità, 7 aprile 2023

«Vogliamo vere identità, non finte trasgressioni»

Storico, politologo, giornalista, Giovanni Orsina dirige il dipartimento School of government della Luiss Guido Carli. Sebbene di formazione moderata, la sua autorevolezza è riconosciuta anche a sinistra. Non a caso collabora con La Stampa dove, qualche giorno fa, ha scritto un editoriale molto critico sulla cultura espressa dal Festival di Sanremo.

Professor Giovanni Orsina, è indovinato l’aforisma «Festival pieni urne vuote»?

«Sì, anche se, come tutte le sintesi, un po’ semplifica. Tuttavia, fotografa un certo scollamento tra le avanguardie artistico-culturali e il sentire comune delle persone. Chi fa spettacolo, arte e cultura si sofferma su forme di trasgressione che una parte importante della popolazione rifiuta, ritenendole pericolose o stucchevoli. In più, c’è un’aggravante».

Quale?

«Negli anni Sessanta del secolo scorso esistevano le avanguardie e la società le seguiva. Oggi non si può dire che ci sia un ritardo dell’opinione pubblica. Al contrario, c’è una reazione alle avanguardie, un desiderio di tornare indietro».

È trasgressione vera quella cui assistiamo?

«La trasgressione è vera quando comporta un prezzo ed esprime una contestazione delle regole sociali. A quel punto la società reagisce e ti colpisce. La reazione della società definisce il valore della protesta. Se invece per la tua trasgressione la società ti applaude e ti paga, che trasgressione è?».

Queste presunte trasgressioni sono in realtà mainstream?

«Viviamo nel mondo della trasgressione istituzionalizzata. Il messaggio continuamente replicato è: sii te stesso, fa ciò che vuoi, esprimi la tua personalità. È il conformismo dell’anticonformismo».

Dopo il voto alle regionali arrivato post Festival di Sanremo qualche analista ha scritto che la destra vince le elezioni, ma non esprime lo spirito del Paese reale che è più rappresentato dal mondo dello spettacolo.

«Il fatto è che non c’è un Paese reale, ma ce ne sono cento. A me pare che lo spirito del tempo lo esprima maggiormente la destra, soprattutto nella ribellione ai processi di globalizzazione. Tuttavia, questo spirito del tempo non sempre coincide con il Paese reale, che è molto frammentato».

Al contrario, si può dire che gli artisti hanno in mano la comunicazione ma, anche se vantano audience da record, non rappresentano il Paese reale?

«Il pubblico si è sintonizzato per seguire il Festival senza necessariamente condividerne il messaggio. Chiara Ferragni sposta voti? Se sì, sono numeri marginali. È un errore pensare che un messaggio proposto dalla cultura pop diventi automaticamente politico. Quando si diceva che le tv di Berlusconi condizionavano le campagne elettorali era vero solo in parte. Il meccanismo non è automatico come schiacciare un pulsante. Il rapporto tra orientamento culturale ed espressione politica o elettorale è qualcosa di molto più complesso e sofisticato».

Qual è secondo lei il motivo dell’astensionismo?

«La prima causa è la sensazione di perdita di potere della politica. È inutile andare a votare perché ciò che la politica può cambiare è marginale rispetto alla mia vita quotidiana».

Se la politica estera si fa a Washington e quella economica a Bruxelles che senso ha votare per le regioni?

«Le istituzioni nazionali e locali hanno poco potere. Ciò che possono fare è già predeterminato. Non possono aumentare il debito pubblico né abbassare le tasse, non ce lo possiamo permettere. Infine, è venuto meno il rapporto di fedeltà politica. Non ci sono più il partito e le persone con cui identificarsi».

Qualche osservatore sostiene che l’astensionismo sia frutto della mentalità dei diritti. Se le conquiste non sono esito di impegno e sacrifici ma sono dovute, che senso ha votare?

«Andrei più a fondo: una società costruita sui diritti individuali perde il senso dell’azione collettiva. La quale richiede il sacrificio di sé. Nel gruppo vige la disciplina che consiste nel mettere il proprio ego al servizio di una causa collettiva».

E nell’era del narcisismo…

«Non si è più disposti a subordinare la propria libertà presente per una libertà collettiva futura. È una delle grandi contraddizioni del Sessantotto. Il narcisista non aderisce al gruppo, al massimo condivide delle emozioni. Prendere la tessera del partito, accettarne la disciplina, spendere il proprio tempo in una liturgia: nessuno ci crede ed è disposto a farlo».

Alle liturgie novecentesche, piazze, congressi, dibattito, non ne sono subentrate altre?

«È subentrato Sanremo. Una cosa che dura cinque giorni, fatta di provocazioni che sollevano un immenso polverone di cui poco dopo non si parla più».

Come spiega la distanza tra vita della popolazione e società dello spettacolo?

«La società dello spettacolo si basa sulla proposta del nuovo, bello o brutto che sia non importa. Ha istituzionalizzato la provocazione. Ma l’opinione pubblica comincia a essere stanca della provocazione continua che non va in profondità. Johan Huizinga diceva che la vera cultura dovrebbe basarsi su una metafisica. Siccome non abbiamo più una vera metafisica, non abbiamo più una vera cultura».

Per questo in un suo editoriale ha parlato di cultura progressista lamentosa e conformista?

«Guardiamo le serie tv. L’elemento trasgressivo deve spuntare nei primi minuti del primo episodio. Personalmente non vedo niente di nuovo rispetto alle grandi provocazioni degli anni Sessanta e Settanta. Sono cresciuto con Renato Zero e i suoi dischi me li compravano i miei genitori, che sono dei conservatori. David Bowie era un fior di musicista, non solo una figurina gender fluid. Allora la provocazione serviva a veicolare un contenuto artisticamente notevole».

Guardando al cinema, alle serie tv e alla pubblicità si può dire che la cultura woke è diventata canone, codice riconosciuto?

«Ha scritto tutto Augusto Del Noce nel Suicidio della rivoluzione, anno 1978. La modernità nasce con una spinta rivoluzionaria poderosa: distruggiamo tutto il passato per costruire il mondo nuovo. Poi, a un certo punto, ci siamo accorti che questo mondo nuovo non riuscivamo a costruirlo. Così è rimasta in piedi solo la distruzione del passato che, a quel punto, è fine a sé stessa. Cambiare per cambiare».

La cultura progressista non è in grado di dare idee nuove?

«L’unica idea è la trasgressione per la trasgressione. Come detto siamo alla fine, al suicidio della rivoluzione. La proposta più importante della cultura progressista si chiamava marxismo. Fallito il quale non resta che il liberi tutti: ciascuno faccia quello che vuole. Ma se così è, non si può più dire ciò che è bello e buono e ciò che non lo è. Non può più dirlo chi teorizza il libero arbitrio assoluto. Spariscono i criteri di giudizio e resta solo il “Tana, liberi tutti”».

Eppure questa cultura fatica ad accettare lo spoil system come si vede sulla scelta della direzione del Salone del libro di Torino.

«Certo. Perché i criteri di giudizio sono spariti, ma il potere no. Anzi: il potere vale proprio perché almeno nel breve periodo riesce a imporre criteri che, da soli, non avrebbero la forza per imporsi. La forza della cultura progressista consiste, appunto, nella sua forza, nel suo avere occupato le “casematte» gramsciane. Perdute quelle…».

Sono paradossalmente più avanti quegli esponenti politici che riconoscono l’abilità di Giorgia Meloni?

«La politica è costretta ad avere un sia pur minimo rapporto col mondo reale. La cultura no».

Se la sinistra manca di idee nuove, per assurdo la destra sta ancora peggio?

«Me la sono presa con Sanremo perché non c’è un evento pop di destra, ma se lo immagino mi prende lo sconforto. Che cosa potrebbero fare, celebrare la maternità e la nazione?».

La destra è in grado di andare oltre la critica al pensiero unico?

«La destra si aggrappa ai valori della tradizione Dio, patria e famiglia. Ma li propone in una società secolarizzata, nella quale le famiglie sono sempre più fragili e, a causa dei processi di globalizzazione, anche l’idea di patria è in crisi. Sono valori che hanno perso mordente. Non basta neanche l’orgoglio dell’italianità. Insistere sulla tradizione, che è stata decostruita, è un tentativo che suona strano, un po’ fuori dal tempo».

Non ci sono vie d’uscita?

«La tarda modernità ha sminuzzato tutto come un rullo compressore. Il valore su cui ricostruire è, forse, un dato antropologico di base. Gli esseri umani chiedono identità, chiedono comunità. In fondo, il populismo esprime una ribellione contro questo eccesso di liquidità, di fluidità, di globalizzazione. L’infelicità degli esseri umani si è condensata in una rabbia che si è espressa nel voto populista. Per ripartire, bisogna provare a chiedersi di cosa hanno veramente bisogno le persone in questo mondo destrutturato».

Ripartire dal dato antropologico vuol dire ripartire dalle domande fondamentali dell’esistenza che implicano l’apertura al trascendente, ciò che qualcuno ha chiamato «senso religioso»?

«Volerei più basso, anche se Del Noce diceva che non ci sarebbe stata rinascita senza un risorgimento di tipo religioso. Simone Weil parlava dei bisogni vitali dell’animo umano senza ricorrere al trascendente. Parlava dei bisogni di comunità e di ordine, fondamentali tanto più in una società globalizzata. In una parola, il bisogno di radicamento, di appartenere a un luogo, come ha scritto in uno dei suoi saggi più importanti. In fondo, il populismo è una domanda di protezione, di salvaguardia del contesto nel quale si è cresciuti. È una domanda di contestualità di fronte alla globalizzazione che decontestualizza».

Sfida tosta in un’epoca in cui si parla di diritto all’emigrazione più che di diritto di crescere a casa propria.

«Emigrare è un diritto, ma immigrare no. Ciò detto, l’emigrazione non va bloccata, ma gestita. È una richiesta avvertita in tutto il mondo. La crisi della sinistra deriva dalla posizione radicale assunta sull’immigrazione. Se vivo in una comunità nella quale arrivano migliaia di persone o si trova il modo di governare quell’immissione oppure quella comunità è finita. Nessuna comunità deve vivere a compartimenti stagni, ma se non posso decidere chi entra a casa mia vuol dire che non ne sono più il padrone. Simone Weil dice che l’uomo deve avere radici. La cultura globalista sostiene che per l’uomo del futuro la casa è il mondo. Io sono scettico, non mi piacerebbe neanche. La gestione dei flussi migratori è un tema centrale dei prossimi decenni. Ritengo che dare del razzista a chi vuole mantenere il controllo di casa propria sia una semplificazione intollerabile».

 

 La Verità, 18 febbraio 2023

«Io poetessa marxista non sopporto i capetti del Pd»

Intervistare Patrizia Valduga, la più grande poetessa italiana vivente, è come dare la caccia a un animale selvatico. Ritroso e inquieto. Trevigiana di nascita, milanese d’adozione, bellunese per diporto, la intercetto alla Libreria delle donne di Padova, dove la presentano come un’artista che «ci porta l’aria di una Milano che non è quella di Salvini». Pubblico adorante. Di nero vestita, come sul frontespizio di Belluno – Andantino e grande fuga (Einaudi), declama versi e riflessioni con voce mielosa. Dopo gli applausi, mi avvicino e ottengo il numero di cellulare. Però risponda, butto lì. «Non sono mica una stronza… Le interviste le faccio solo scritte, soprattutto perché temo ciò che posso dire di getto».

Quello che segue è frutto di uno scambio di mail tra una trasferta a Venezia, invitata dall’università Ca’ Foscari a parlare di Ezra Pound, e un viaggio a Friburgo: «Non mi sono ancora ripresa, sono così stanca…». L’avranno coccolata come una regina… Ha visto che le ho mandato qualche altra domanda? «Ho visto, ma lei non ha nient’altro da fare?». Sì, ma ci ho preso gusto. «Uff…».

Diva della poesia, maggiore poetessa italiana, dark lady della letteratura: in quale definizione si ritrova?

Decrepita come sono, e innamorata dei grandi come sono, mi autodefinisco «un piccolo epigono». Esisterà anche epigona, ma non mi piace.

Perché ritiene che Belluno, come ha scritto nella dedica, sia il suo libro più bello?

Perché è quello che mi ha dato più gioia mentre lo scrivevo.

Io, che sono un profano, ho trovato meravigliosi i versi di Medicamenta e altri medicamenta (Einaudi): «Nel luglio altero, lui tenero audace…»; e ancora: «Vieni, entra e coglimi…». Il medicamento è l’amore, il sesso?

Sì, capisco… Ma a me quel libro non piace più: mi nascondevo troppo dietro le citazioni. No, «medicamentum» è medicina, farmaco, ma anche veleno e filtro d’amore.

Oggi l’amore tra i sessi è ancora un’esperienza viva e vitale o è in declino, mercificata, deturpata, resa artificiale, sempre più schiava di codici, galatei, regole?

Non lo domandi a me, che in vent’anni avrò avuto sì e no sei fidanzati, e non sono durati più di quaranta giorni…

Nella prefazione a Medicamenta Luigi Baldacci scrive che la «capacità di canto e di strazio è solo delle donne, o meglio della poesia femminile (che è una categoria aperta a tutti)». Concorda?

Non ho mai capito bene cosa volesse dire… Io credo, con Jules Michelet, nei «due sessi dello spirito»; e credo che una donna che scrive, dipinge, compone abbia una parte maschile più sviluppata delle altre donne, così come un uomo che scrive, dipinge eccetera, abbia una parte femminile più sviluppata degli altri uomini.

Il #Metoo ha giovato alla passione?

Non credo: ha nuociuto molto, e perlopiù ingiustamente, a molti uomini. Come si fa a denunciare uno perché quarant’anni prima ti ha messo una mano su una chiappa?

Ha mai subito molestie o comportamenti prevaricanti degli uomini?

Temo di sì, ma in un’età così precoce che, nonostante la psicanalisi, non ne ho nessun ricordo. Certo spiegherebbe la mia nevrosi d’ansia.

Le ho sentito dire che Giacomo Leopardi è sopravvalutato. Alla sua donna non è tra le più profonde e strazianti?

È un po’ una provocazione. L’Ottocento non è solo Leopardi: ci sono almeno, oltre ai due giganti (anche rispetto a Leopardi) Porta e Belli, due grandissimi: Giovanni Prati e Niccolò Tommaseo.

In Belluno si intrecciano tre Giovanni: Raboni, Don Giovanni e il Johannes di Carl Theodor Dreyer. Che rapporto c’è tra loro?

Una persona vera, un personaggio letterario e uno cinematografico… Non può essere che il mio amore per tutti e tre.

Cosa la lega a Belluno di cui canta i monti che l’attorniano?

Ho vissuto lì ventotto anni della mia vita. I miei erano di Padova, finiti lassù per sopravvivere.

Perché, a differenza di tutte e tutti, esprime giudizi politici nei suoi componimenti?

Non credo proprio di essere la sola… Forse sono solo più esplicita.

Pubblicata nel 2019, Belluno è attualissima anche nella sua invettiva contro «i capetti del Pd» che si credono intellettuali e scrittori mentre «conoscete solo i cantautori». Giudizio tremendo…

E infatti in pochi anni sono spariti quei «capetti»… Adesso ce n’è solo uno, che farebbe meglio a sparire all’istante.

Posto che detesta i cantautori, che musica ascolta?

Amo tutta la musica classica, dal canto gregoriano fino a Giacomo Manzoni. Naturalmente ho delle preferenze: Schubert e Wagner.

Scrive che di ciò che succede nel mondo ai capi del Pd pare «non importi un fico». A lei interessa quello che succede nel Pd?

Ho votato Pci, Pds, Pd. Solo quest’anno, troppo arrabbiata, ho votato Giuseppe Conte. E continuerò a votarlo, perché mi sembra una persona appassionata e onesta.

Tornando alle donne: perché secondo lei la sinistra si è fatta battere nell’affermazione di una donna al potere?

Per me conta l’intelligenza, l’onestà, la passione. Non m’importa se è uomo, donna, o una delle innumerevoli varianti comprese tra l’uno e l’altra.

Cosa pensa di papa Francesco?

Lo ammiro, gli voglio bene, lo adoro. Sa che per me la prosa più bella è quella dei gesuiti del Seicento? Ho letto tutto Giacomo Lubrano, quasi tutto Daniello Bartoli, oltre a Sant’Ignazio, beninteso. Sono stata spesso all’archivio dei gesuiti a Roma, per la mia rivista Poesia. Sottolineo «mia», perché l’ingrato Nicola Crocetti va dicendo da anni che è sua (sul sito di Crocetti editore si legge che nei primi tre anni la rivista è stata diretta da Patrizia Valduga e da Maurizio Cucchi ndr).

Si professa comunista. Cosa vuol dire, a quale idea di comunismo si rifà?

Io ho Karl Marx in una mano e Sigmund Freud nell’altra. Lo studio dell’economia per capire il mondo, lo studio della mente per capire l’uomo. Sono idealmente comunista… Un ideale bisogna pur averlo! Oggi ci sono paesi che dicono o si dicono comunisti, ma non lo sono. C’è una frase di Kazimier Brandys che porto incisa nella mente: «Il nazismo era il male evidente, il comunismo lo stravolgimento del bene».

Ha di recente tradotto i Canti I-VI Ezra Pound (Mondadori) e prima Carlo Porta, William Shakespeare e altri classici. Come ci si accosta a questi giganti?

Tradurre i grandi mi fa bene: sto con loro, la mia mente pensa con la loro mente, anzi, esco dalla mia mente, mi prendo una vacanza da me. Che sollievo!

Un’altra domanda da profano: la traduzione di un’opera classica non dovrebbe rimanere sostanzialmente invariata? O la loro lingua è aggiornabile con il nostro linguaggio?

Ci sono traduzioni che durano, ad esempio quella di Raboni della Recherche, altre che muoiono subito. E perché durano? Perché sono belle, in una lingua bella: ci vogliono secoli perché una lingua diventi incomprensibile.

Che cos’è lo snobismo?

Voler essere quello che non si è, mostrarsi come si vorrebbe essere, copiare chi si è preso come modello da raggiungere.  In una parola: non avere una personalità forte, non essere nessuno.

La nostalgia è un sentimento ispiratore o qualcosa di incolmabile?
Cosa vuole dire per lei «incolmabile»? La nostalgia è un sentimento con cui si convive: a volte fa bene, ci spinge a dare il meglio di noi; a volte fa male, ed è quando siamo senza energia, senza elettricità vitale.

Immagino sia «incolmabile» la nostalgia di Giovanni Raboni.
Ma se sto sempre con lui! Lo conosco meglio adesso di quando ci vivevo insieme…
Ripubblicato da De Piante, ho riletto di recente il suo libriccino: I grandi scrittori? Tutti di destra. Ne condivide la tesi o era solo una provocazione?
Raboni separava nettamente l’opera dall’autore. Sì, quasi tutti i grandi scrittori sono uomini di destra, ma le loro opere non sono per niente di destra.

Perciò non va considerata vera letteratura quella militante, dalla quale, tuttavia, siamo circondati?
Sta scherzando? Ci sono anche grandi scrittori di sinistra. Un nome per tutti: Paolo Volponi.
Crede in Dio?
Credo in Dio, Allah, Jahweh, Izanagi, Tao, Brahma, Buddah, le anime degli animisti, e il Grande Spirito degli Indiani d’America.

Tra tutte queste divinità, solo il Dio cristiano cancella la distanza dall’uomo, incarnandosi.
La teologia non è alla mia portata.

Come ha vissuto il tempo della pandemia? A quali «medicamenta» ha fatto ricorso durante le quarantene?

Ho lavorato tantissimo. La mia medicina è stata il lavoro: il libro di Raboni Baudelaire e Flaubert (Einaudi) e la traduzione di Pound.

Come lenisce il pensiero della morte?

Cerco di pensarci il meno possibile. È un pensiero troppo angoscioso. E quando mi si installa dentro, penso alle tre persone care che mi accoglieranno, che ritroverò…

 

Panorama,

«Lunga vita ai rompicazzi, da Pannella a… me»

Piantagrane, eretico, irregolare, attaccabrighe, bastian contrario, reazionario… Qualche sinonimo poteva esserci al posto del sostantivo scelto da Giampiero Mughini per titolare il nuovo saggio estratto dalla sua poliedrica esistenza: I rompicazzi del Novecento (Marsilio), sottotitolo: piccola guida eterodossa al pensiero pericoloso. Invece no, la parola era quella perché tutte le altre esprimono una caratteristica, un particolare dell’esemplare ritratto. Da Marco Pannella a Emil Cioran, da Mircea Eliade a Giuseppe Prezzolini, da Giaime Pintor a Marina Ripa di Meana, tanto per citarne alcuni, la galleria è densa e variopinta. Chissà se l’Accademia della Crusca aggiungerà il termine all’«elenco delle parole nuove». E chissà come l’ha spuntata Mughini sul suo editore che «era molto dubbioso, ma io sono stato perentorio».

Se non avesse superato la censura, il libro non si faceva o avevate ipotizzato dei sinonimi?

«Non ne esistono, la parola è quella».

Eretico?

«È un termine usato continuamente, io ne volevo uno nuovo. Peraltro da usare nell’accezione largamente positiva e stimolante che è in questo libro. Ricordo che il primo per cui l’ho adoperato è stato Marco Pannella».

Lei vorrebbe essere ricordato come un rompicazzo, dico bene?

«Assolutamente. Lo sono stato per tutta la vita e ne sono orgoglioso».

Chi è il rompicazzo?

«È un tizio che non sta tutta la vita sulla stessa casella della scacchiera. Anzi, cambia anche scacchiera, si corregge, si ravvede, si revisiona. Naturalmente prendo spunto dal mio essere stato tra i venti e i trent’anni un adepto dell’estrema sinistra. Non che sia passato alla destra, oggi queste categorie non significano più nulla. Ho fatto autocritica, ho esercitato una correzione. Come quella che ha compiuto Emil Cioran, vicino all’estrema destra negli anni Trenta e poi tutt’altro».

Il rompicazzo è uno che non s’acquieta sotto una bandiera?

«Farlo paralizza il cervello. Se scegli una casella e la difendi tutta la vita mentre il mondo cambia di continuo sei un cretino. Nel Novecento il crinale è stato fascismo-antifascismo: ora siamo nel 1922 o nel 2022?».

Se si è figli di un padre fascista e di una madre di osservanza berlingueriana, rompicazzi si nasce?

«Non credo sia la chiave giusta, perché poi ognuno ha il destino che si merita. Certo, in casa mia c’erano le due opzioni e capivo che nella storia italiana erano ben vive e presenti. Non invidio le famiglie dove su dieci persone sono tutte dieci nere o tutte dieci rosse. Una noia mortale. Naturalmente Giuseppe Prezzolini rompicazzo c’era nato».

A parte lui, lo si diventa più per irrequietezza esistenziale o intellettuale?

«Sarebbe strano che l’irrequietezza intellettuale non nascesse da quella esistenziale».

Che differenza c’è tra un grande irregolare e un rompicazzo?

«Poca, la genìa è quella. Quante ubbie per questo vocabolo».

Perché l’affascina la Francia di Vichy, sconfitta dai nazisti ma collaborazionista?

«Perché è una Francia in cui saltano le topografie morali e intellettuali consolidate. Ci sono figure qualsiasi che diventano eroiche e altre notevoli che si corrompono. Da grande scrittore Robert Brasillach prende a collaborare con i nazisti, mentre Pierre Brossolette diventa un eroe pazzesco. Gli anni di Vichy sono stati tra i più drammatici e suggestivi del Novecento».

Certi tornanti sono terreno propizio per l’affermarsi di figure controverse?

«Situazioni dove tutto si capovolge. Dove due più due non fa quattro. Per esempio, in Italia in questo momento due più due non fa quattro».

In che senso?

«Nel senso che, siccome ha vinto la destra, c’è  chi comincia a descriverla come se fosse composta da barbari assetati di sangue».

È la narrazione prevalente?

«Non tutti usano nei confronti della Meloni il termine bastardi».

Ogni riferimento è puramente casuale…

«Certo non lo usa Matteo Renzi, uno che a me piace molto. E che a suo modo è stato un rompicazzi».

Il rompicazzo è un «eretico di tutte le dottrine», come si autodefinisce Giovanni Ansaldo?

«Certamente, è uno che non si assiede su un credo e ci sta comodo. Lo vive con una tensione… Giaime Pintor, icona partigiana e santino dell’antifascismo, in realtà era un grande borghese, un grande talento che sarebbe stato leader della sua generazione. Anzi, lo era già, prima di saltare su una mina nazista a 24 anni».

Oggi dove si collocherebbe?

«Non abbiamo il diritto di iscriverlo di qua o di là. In cuor mio, spero che starebbe nell’area di cui faccio parte anch’io, quella dei non ideologici, dei non adepti».

A proposito di Ansaldo, L’antifascista riluttante è un suo titolo che sottoscriverebbe?

«È un titolo molto bello che sta a significare che era antifascista a modo suo. Le parole vanno riempite dalla realtà delle persone e dalla loro intelligenza. Non era antifascista al 100% perché era anche conservatore… Oggi con quel termine ti ci puoi pulire le scarpe… come anche col termine fascista».

C’è molto antifascismo in assenza di fascismo?

«I fratelli Rosselli ci sono morti. Ora lo spauracchio sarebbe Casa Pound?».

Eppure questa retorica ha innervato la campagna elettorale.

«Infatti, durante i talk show della campagna elettorale mi assopivo alle prime parole. Tranne quando parlavano Renzi e Calenda».

Si ritrova nella definizione che Gianni Celati dà della vita «come stato balzano della mente»?

«Totalmente».

Cosa le piace?

«Mi piace come ha vissuto. Prima in un villaggio francese, poi in Inghilterra separato da tutto, lontano anche dai suoi pochi lettori. Io stesso sapevo dei suoi scritti, ma mi sono scappati. È il primo a cui ho pensato dopo Prezzolini, un mio mito da quando avevo vent’anni e compravo sulle bancarelle i Quaderni della Voce. Celati non è uno che ti entra in casa e pianta grane, ma uno che si sottrae alle religioni e alle geometrie prevalenti».

Rifuggiva la letteratura militante.

«La considerava un’oscenità. La pretesa di certi autori di convincere i lettori che le idee sue sono migliori è ridicola. Celati l’ha rifiutata quando, tra i Cinquanta e i Settanta, era un’idea asfissiante».

Anche oggi con Roberto Saviano o Michela Murgia non si scherza.

«Penso che Celati non crederebbe ai suoi occhi davanti a un letterato che si fa sacerdote del Bene al 100%».

Cosa fa di Marco Pannella un rompicazzo?

«Il fatto che disse ai comunisti che se all’epoca avesse avuto vent’anni sarebbe stato tra i Gap comunisti, ovvero gli attentatori di Via Rasella, pur considerandola un’operazione politicamente suicidaria. Così fu, difatti, tanto da provocare la rappresaglia delle Fosse Ardeatine in cui furono trucidati 335 innocenti. Dirlo ai comunisti in pieni anni di piombo è un perfetto esempio di rompicazzismo, di un giudicare complesso e senza remore. Va notato che la rappresaglia era una legge della guerra ineluttabile e il comandante di quell’azione fu condannato non per l’atto in sé, ma per aver sbagliato i conti, avendo ucciso cinque persone in più, 335 anziché 330, di quelle previste. Aggiungo anche che ero amico di Rosario Bentivegna, il capo dei Gap, ma un conto è riconoscere il coraggio personale dell’atto, un altro approvarne la giustificazione ideologica che è carta straccia».

Chi sono i rompicazzo di quest’inizio secolo?

«Oggi è più difficile individuarli perché non c’è una convinzione centrale alla quale sottrarsi. Ci sono piccole tribù, piccoli condomini. La differenza non la fanno più gli scrittori e gli intellettuali, ma gli influencer che mettono le chiappe in mostra sui social e hanno 200.000 seguaci. C’è anche qualche genio come Chiara Ferragni, per esempio. Ma è il genio di un mondo che non mi appartiene».

Le faccio qualche nome: Vittorio Sgarbi?

«Sicuramente è un ragazzo che ha un’identità originale rispetto a quelle in voga. Personalmente ne apprezzo più l’indubbia intelligenza della retorica. Come Carlo Michelstaedter, prediligo l’arte della persuasione a quella della rettorica, come la chiama lui».

Giordano Bruno Guerri che lei avrebbe visto bene ministro della Cultura?

«Sicuro rompicazzo. Era il ministro adatto a questa situazione. Lo dico al di là del debito di riconoscenza che gli porto, perché se nel 1987 non ci fosse stato lui alla Mondadori, un libro come Compagni, addio non sarebbe stato pubblicato».

Parlando di prezzi da pagare come giudica il fatto che una persona della cultura e della scrittura di Pietrangelo Buttafuoco non riesca a fare il giornalista?

«Non sono convinto che la professione del giornalista sia così nobile. Siccome non lo è, non c’è niente di strano che uno come Buttafuoco non possa farlo. Spesso i giornali servono a convincere i lettori delle idee che essi hanno già. Una voce discordante è un problema. Non ho mai scritto perché il lettore si confermasse nelle sue stesse idee, ho sempre cercato di mettere del veleno nel caffè».

A sinistra chi sono i rompicazzo?

«Renzi lo è stato e lo ha pagato. L’odio che c’è verso di lui in gran parte della sinistra è patologico».

Lo si può definire di sinistra?

«È nato lì, è stato segretario del Pd».

A sinistra ce ne sono meno perché, come scrive Luca Ricolfi, si vive il complesso di superiorità dei migliori?

«Adesso non c’è più. Un tempo c’erano i ceti medi riflessivi e bisognava dire qualcosa di sinistra per essere alla moda. Infatti, oggi il Pd non sa più che cos’è. La qual cosa che non mi fa piacere e non lo fa nemmeno alla democrazia repubblicana».

Che idea si è fatto dei giornalisti tornati cani da guardia con Giorgia Meloni dopo esser stati cuccioli di Mario Draghi?

«Capisco cosa vuol dire, ma sarebbe un discorso troppo lungo».

Ha approvato l’esclusione di Enrico Montesano da Ballando con le stelle per aver indossato una maglietta che citava una frase di Gabriele D’Annunzio poi adottata dalla XMas?

«È fin troppo ovvio che dica di no».

Scrive che noi siamo fatti dai libri che abbiamo letto, ma pure da quelli che non abbiamo letto. Tre titoli che le mancano?

«Ho letto Friedrich Nietzsche meno di quanto avrei dovuto. E non ho letto Le confessioni di Sant’Agostino. In questo momento mi arrivano tre o quattro libri al giorno. Riceverne molti di più di quanti riesca a leggerne è una specie di incubo».

Il più tormentoso?

«Le rispondo così. Qualche giorno fa mi è arrivato Speranza contro speranza di Nadezda Mandel’stam, una poetessa internata nel gulag sovietico, libro pubblicato in una collana di Settecolori curata da Stenio Solinas. Bene, finché non l’avrò letto non sarò in pace. Lo devo alla sua prigionia… Perché sì, si parla molto di fascismo: ma il comunismo staliniano cos’è stato?».

 

La Verità, 26 novembre 2022

«Le battaglie della sinistra ora le fa la destra»

Ogni suo libro è una piccola «bibbia». Un testo definitivo della materia di cui si occupa. Presidente e responsabile scientifico della Fondazione Hume, Luca Ricolfi è docente di Analisi dei dati all’università di Torino. Probabilmente proprio il fatto che il suo punto di vista siano i dati – i numeri, i fatti – e non l’ideologia, ne fanno uno degli intellettuali più indipendenti e autorevoli del panorama scientifico italiano. Leggere La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, appena uscito da Rizzoli e già tra i più venduti su Amazon, è come puntare il phon contro uno specchio appannato.

Professore, il vizio della sinistra ufficiale sta nell’ambizione originale del partito democratico di «rappresentare la parte migliore dell’Italia»?

Sì, anche se non è l’unico. C’è anche, fin dai tempi del partito comunista, l’incapacità di analizzare la realtà in modo scientifico, e quindi spregiudicato. Di qui la tendenza a chiedersi, di qualsiasi proposizione empirica, non se sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa alla causa. La conseguenza è stata una sorta di cecità progressiva, nel doppio senso della parola: crescente e progressista. Con un esito finale: la totale incapacità di guardare la realtà con lenti non ideologiche.

Cosa nasconde la convinzione che la destra parli alla pancia del Paese?

Uno strano modo di pensare: se abbiamo ragione, e il popolo non ci capisce, allora vuol dire che il popolo non usa la ragione.

Spesso i politici progressisti denunciano la crescita del populismo: come va interpretato l’uso di questo termine?

Le rispondo con la definizione della parola «populista» proposta da Jean Michel Naulot: «Populista: aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle». Una definizione interessante anche perché risale al 1996, quando pochi vedevano il problema del divorzio fra la sinistra ufficiale e i ceti popolari.

La sinistra ufficiale si accorgeva dello scambio delle basi sociali in atto fra i due schieramenti?

Alcuni studiosi avevano segnalato il problema all’inizio degli anni Novanta, quando in fabbrica fece la sua prima comparsa la doppia tessera: operai iscritti alla Cgil & militanti della Lega. Poi ci sono stati diversi studi che hanno mostrato che la base del Pci-Pds-Ds stava diventando sempre più borghese. Infine, le analisi dei flussi elettorali hanno evidenziato il paradosso della Ztl che vota a sinistra e delle periferie che votano a destra.

A quel punto la sinistra ha scelto consapevolmente l’establishment?

Ha preferito non vedere. Sapevano, ma non volevano prendere atto. Sempre per il motivo che dicevo poco fa: l’incapacità di guardare la realtà con un atteggiamento scientifico, ossia il primato dell’utile sul vero.

Il fatto che Giorgia Meloni nel primo discorso in Parlamento si sia presentata come underdog che rappresenta gli sfavoriti è la certificazione di questo scambio?

In un certo senso sì, anche se il termine underdog, di solito, designa gli sfavoriti in una competizione elettorale, cosa che Giorgia Meloni e il suo partito sono stati in passato, non certo nell’ultimo anno. Io piuttosto noterei una cosa: la novità di Giorgia Meloni non è solo che è la prima donna premier, ma che è il primo premier di umili origini. Tutti i premier della seconda Repubblica, oltre a essere maschi, erano di origine sociale elevata, talora elevatissima o nobiliare. Per trovare un premier di origini modeste dobbiamo risalire al 1988, quando venne eletto Ciriaco De Mita, nato a Nusco, un piccolo comune montano dell’avellinese, con un padre sarto e portalettere, e una madre casalinga. Credo che il carisma di Giorgia Meloni – oltre che alla sua bravura, alla sua integrità e alla sua passione – sia dovuto all’ampiezza dei segmenti sociali per i quali può risultare naturale specchiarsi in lei.

Quali segmenti ha in mente?

Le donne, ovviamente, ma anche gli strati popolari, ossia le persone che non possono contare su una famiglia di origine ricca, benestante, protettiva.

Persa la rappresentanza dei deboli, la sinistra si è concentrata sui diritti delle minoranze Lgbt+ che coinvolgono i ceti medio alti. Perché, al contempo, è così intransigente nella difesa degli immigrati?

Proprio perché ha abbandonato i ceti popolari. La difesa degli immigrati è una sorta di polizza di assicurazione contro la perdita della propria identità. Grazie agli immigrati, la sinistra può ancora pensare sé stessa come paladina degli ultimi. E grazie alla difesa delle rivendicazioni Lgbt+ può pensarsi come campionessa di inclusione.

Perché la sinistra liberal appare tendenzialmente individualista, mentre la destra mantiene una tiepida dimensione comunitaria?

Perché la sinistra liberal, ovvero la sinistra ufficiale, crede che l’aumento senza limiti dei diritti individuali sia l’essenza del progresso, mentre la destra – e una parte del mondo femminile – vede il lato oscuro del progresso, a partire dalla distruzione dei legami comunitari e familiari.

Perché oggi la sinistra ufficiale parla più di inclusione che di eguaglianza?

Lo spiegò Alessandro Pizzorno una trentina di anni fa: parlare di inclusione rende più facile conferire un valore morale alla scelta di essere di sinistra, e assegnare un disvalore all’essere di destra: noi buoni vogliamo includere, voi cattivi volete escludere…

Il giudizio di Enrico Letta sul risultato elettorale del Pd è che «non è riuscito a connettersi con chi non ce la fa»: quanto tempo gli servirà per tornare a farlo?

Non è un problema di connessione con chi non ce la fa, è un problema di comprensione della realtà.

Prima che completi il processo di revisione, può perdere ancora consensi? E a vantaggio del Terzo polo o del M5s?

I consensi li sta già perdendo. Secondo i dati che ho potuto analizzare, l’emorragia è bilaterale, ma un po’ più grave verso i 5 stelle che verso il Terzo polo.

Il catechismo politicamente corretto rende la nostra società più illiberale?

Sì, nella nostra società vengono predicate tolleranza e inclusione, ma il dissenso verso il politicamente corretto non è tollerato.

Come mai gli intellettuali, che fino agli anni Settanta erano contro la censura e per la libertà di espressione, oggi sono in gran parte schierati a difesa dell’establishment?

Perché ne fanno parte, specie nelle istituzioni culturali e nel mondo dei media. Difendendo l’establishment difendono sé stessi.

In Italia la battaglia sul politicamente corretto si è applicata al ddl Zan: perché nonostante il parere contrario di giuristi, femministe e intellettuali progressisti il Pd ne ha fatto un simbolo intoccabile?

Per il solito motivo, l’incapacità di accettare la realtà quando va contro l’utile di partito. In questo caso: l’incapacità di ammettere il fatto che il ddl Zan limita la libertà di espressione.

Perché l’introduzione del merito tra le competenze del ministero della Pubblica istruzione ha destato scandalo?

Un po’ per il mero fatto che ne ha parlato la destra, un po’ perché nella mentalità della sinistra c’è l’idea che premiare il merito di qualcuno significa umiliare il non-merito di qualcun altro. È questa mentalità che, negli ultimi 50 anni, ha distrutto la scuola e l’università.

Nel Novecento l’istruzione era considerata uno strumento di elevazione sociale, oggi non è più così?

No, la trasmissione del patrimonio culturale, cara ad Antonio Gramsci e a Palmiro Togliatti, non interessa più.

Sta passando a destra anche l’idea di emancipazione dei deboli attraverso la cultura?

Più che a destra, sta passando nel partito di Giorgia Meloni, secondo cui «eguaglianza e merito sono fratelli».

In questo contesto, che cosa può significare la nascita del primo governo di destra in Italia?

La fine dell’egemonia culturale assoluta della sinistra.

Se dovesse dare un solo consiglio non richiesto alla premier cosa le suggerirebbe?

Dica che vuole, finalmente, che venga applicato l’articolo 34 della Costituzione, e vari un grande piano di borse di studio per «i capaci e meritevoli» privi di mezzi.

 

Panorama, 9 novembre 2022