Piantagrane, eretico, irregolare, attaccabrighe, bastian contrario, reazionario… Qualche sinonimo poteva esserci al posto del sostantivo scelto da Giampiero Mughini per titolare il nuovo saggio estratto dalla sua poliedrica esistenza: I rompicazzi del Novecento (Marsilio), sottotitolo: piccola guida eterodossa al pensiero pericoloso. Invece no, la parola era quella perché tutte le altre esprimono una caratteristica, un particolare dell’esemplare ritratto. Da Marco Pannella a Emil Cioran, da Mircea Eliade a Giuseppe Prezzolini, da Giaime Pintor a Marina Ripa di Meana, tanto per citarne alcuni, la galleria è densa e variopinta. Chissà se l’Accademia della Crusca aggiungerà il termine all’«elenco delle parole nuove». E chissà come l’ha spuntata Mughini sul suo editore che «era molto dubbioso, ma io sono stato perentorio».
Se non avesse superato la censura, il libro non si faceva o avevate ipotizzato dei sinonimi?
«Non ne esistono, la parola è quella».
Eretico?
«È un termine usato continuamente, io ne volevo uno nuovo. Peraltro da usare nell’accezione largamente positiva e stimolante che è in questo libro. Ricordo che il primo per cui l’ho adoperato è stato Marco Pannella».
Lei vorrebbe essere ricordato come un rompicazzo, dico bene?
«Assolutamente. Lo sono stato per tutta la vita e ne sono orgoglioso».
Chi è il rompicazzo?
«È un tizio che non sta tutta la vita sulla stessa casella della scacchiera. Anzi, cambia anche scacchiera, si corregge, si ravvede, si revisiona. Naturalmente prendo spunto dal mio essere stato tra i venti e i trent’anni un adepto dell’estrema sinistra. Non che sia passato alla destra, oggi queste categorie non significano più nulla. Ho fatto autocritica, ho esercitato una correzione. Come quella che ha compiuto Emil Cioran, vicino all’estrema destra negli anni Trenta e poi tutt’altro».
Il rompicazzo è uno che non s’acquieta sotto una bandiera?
«Farlo paralizza il cervello. Se scegli una casella e la difendi tutta la vita mentre il mondo cambia di continuo sei un cretino. Nel Novecento il crinale è stato fascismo-antifascismo: ora siamo nel 1922 o nel 2022?».
Se si è figli di un padre fascista e di una madre di osservanza berlingueriana, rompicazzi si nasce?
«Non credo sia la chiave giusta, perché poi ognuno ha il destino che si merita. Certo, in casa mia c’erano le due opzioni e capivo che nella storia italiana erano ben vive e presenti. Non invidio le famiglie dove su dieci persone sono tutte dieci nere o tutte dieci rosse. Una noia mortale. Naturalmente Giuseppe Prezzolini rompicazzo c’era nato».
A parte lui, lo si diventa più per irrequietezza esistenziale o intellettuale?
«Sarebbe strano che l’irrequietezza intellettuale non nascesse da quella esistenziale».
Che differenza c’è tra un grande irregolare e un rompicazzo?
«Poca, la genìa è quella. Quante ubbie per questo vocabolo».
Perché l’affascina la Francia di Vichy, sconfitta dai nazisti ma collaborazionista?
«Perché è una Francia in cui saltano le topografie morali e intellettuali consolidate. Ci sono figure qualsiasi che diventano eroiche e altre notevoli che si corrompono. Da grande scrittore Robert Brasillach prende a collaborare con i nazisti, mentre Pierre Brossolette diventa un eroe pazzesco. Gli anni di Vichy sono stati tra i più drammatici e suggestivi del Novecento».
Certi tornanti sono terreno propizio per l’affermarsi di figure controverse?
«Situazioni dove tutto si capovolge. Dove due più due non fa quattro. Per esempio, in Italia in questo momento due più due non fa quattro».
In che senso?
«Nel senso che, siccome ha vinto la destra, c’è chi comincia a descriverla come se fosse composta da barbari assetati di sangue».
È la narrazione prevalente?
«Non tutti usano nei confronti della Meloni il termine bastardi».
Ogni riferimento è puramente casuale…
«Certo non lo usa Matteo Renzi, uno che a me piace molto. E che a suo modo è stato un rompicazzi».
Il rompicazzo è un «eretico di tutte le dottrine», come si autodefinisce Giovanni Ansaldo?
«Certamente, è uno che non si assiede su un credo e ci sta comodo. Lo vive con una tensione… Giaime Pintor, icona partigiana e santino dell’antifascismo, in realtà era un grande borghese, un grande talento che sarebbe stato leader della sua generazione. Anzi, lo era già, prima di saltare su una mina nazista a 24 anni».
Oggi dove si collocherebbe?
«Non abbiamo il diritto di iscriverlo di qua o di là. In cuor mio, spero che starebbe nell’area di cui faccio parte anch’io, quella dei non ideologici, dei non adepti».
A proposito di Ansaldo, L’antifascista riluttante è un suo titolo che sottoscriverebbe?
«È un titolo molto bello che sta a significare che era antifascista a modo suo. Le parole vanno riempite dalla realtà delle persone e dalla loro intelligenza. Non era antifascista al 100% perché era anche conservatore… Oggi con quel termine ti ci puoi pulire le scarpe… come anche col termine fascista».
C’è molto antifascismo in assenza di fascismo?
«I fratelli Rosselli ci sono morti. Ora lo spauracchio sarebbe Casa Pound?».
Eppure questa retorica ha innervato la campagna elettorale.
«Infatti, durante i talk show della campagna elettorale mi assopivo alle prime parole. Tranne quando parlavano Renzi e Calenda».
Si ritrova nella definizione che Gianni Celati dà della vita «come stato balzano della mente»?
«Totalmente».
Cosa le piace?
«Mi piace come ha vissuto. Prima in un villaggio francese, poi in Inghilterra separato da tutto, lontano anche dai suoi pochi lettori. Io stesso sapevo dei suoi scritti, ma mi sono scappati. È il primo a cui ho pensato dopo Prezzolini, un mio mito da quando avevo vent’anni e compravo sulle bancarelle i Quaderni della Voce. Celati non è uno che ti entra in casa e pianta grane, ma uno che si sottrae alle religioni e alle geometrie prevalenti».
Rifuggiva la letteratura militante.
«La considerava un’oscenità. La pretesa di certi autori di convincere i lettori che le idee sue sono migliori è ridicola. Celati l’ha rifiutata quando, tra i Cinquanta e i Settanta, era un’idea asfissiante».
Anche oggi con Roberto Saviano o Michela Murgia non si scherza.
«Penso che Celati non crederebbe ai suoi occhi davanti a un letterato che si fa sacerdote del Bene al 100%».
Cosa fa di Marco Pannella un rompicazzo?
«Il fatto che disse ai comunisti che se all’epoca avesse avuto vent’anni sarebbe stato tra i Gap comunisti, ovvero gli attentatori di Via Rasella, pur considerandola un’operazione politicamente suicidaria. Così fu, difatti, tanto da provocare la rappresaglia delle Fosse Ardeatine in cui furono trucidati 335 innocenti. Dirlo ai comunisti in pieni anni di piombo è un perfetto esempio di rompicazzismo, di un giudicare complesso e senza remore. Va notato che la rappresaglia era una legge della guerra ineluttabile e il comandante di quell’azione fu condannato non per l’atto in sé, ma per aver sbagliato i conti, avendo ucciso cinque persone in più, 335 anziché 330, di quelle previste. Aggiungo anche che ero amico di Rosario Bentivegna, il capo dei Gap, ma un conto è riconoscere il coraggio personale dell’atto, un altro approvarne la giustificazione ideologica che è carta straccia».
Chi sono i rompicazzo di quest’inizio secolo?
«Oggi è più difficile individuarli perché non c’è una convinzione centrale alla quale sottrarsi. Ci sono piccole tribù, piccoli condomini. La differenza non la fanno più gli scrittori e gli intellettuali, ma gli influencer che mettono le chiappe in mostra sui social e hanno 200.000 seguaci. C’è anche qualche genio come Chiara Ferragni, per esempio. Ma è il genio di un mondo che non mi appartiene».
Le faccio qualche nome: Vittorio Sgarbi?
«Sicuramente è un ragazzo che ha un’identità originale rispetto a quelle in voga. Personalmente ne apprezzo più l’indubbia intelligenza della retorica. Come Carlo Michelstaedter, prediligo l’arte della persuasione a quella della rettorica, come la chiama lui».
Giordano Bruno Guerri che lei avrebbe visto bene ministro della Cultura?
«Sicuro rompicazzo. Era il ministro adatto a questa situazione. Lo dico al di là del debito di riconoscenza che gli porto, perché se nel 1987 non ci fosse stato lui alla Mondadori, un libro come Compagni, addio non sarebbe stato pubblicato».
Parlando di prezzi da pagare come giudica il fatto che una persona della cultura e della scrittura di Pietrangelo Buttafuoco non riesca a fare il giornalista?
«Non sono convinto che la professione del giornalista sia così nobile. Siccome non lo è, non c’è niente di strano che uno come Buttafuoco non possa farlo. Spesso i giornali servono a convincere i lettori delle idee che essi hanno già. Una voce discordante è un problema. Non ho mai scritto perché il lettore si confermasse nelle sue stesse idee, ho sempre cercato di mettere del veleno nel caffè».
A sinistra chi sono i rompicazzo?
«Renzi lo è stato e lo ha pagato. L’odio che c’è verso di lui in gran parte della sinistra è patologico».
Lo si può definire di sinistra?
«È nato lì, è stato segretario del Pd».
A sinistra ce ne sono meno perché, come scrive Luca Ricolfi, si vive il complesso di superiorità dei migliori?
«Adesso non c’è più. Un tempo c’erano i ceti medi riflessivi e bisognava dire qualcosa di sinistra per essere alla moda. Infatti, oggi il Pd non sa più che cos’è. La qual cosa che non mi fa piacere e non lo fa nemmeno alla democrazia repubblicana».
Che idea si è fatto dei giornalisti tornati cani da guardia con Giorgia Meloni dopo esser stati cuccioli di Mario Draghi?
«Capisco cosa vuol dire, ma sarebbe un discorso troppo lungo».
Ha approvato l’esclusione di Enrico Montesano da Ballando con le stelle per aver indossato una maglietta che citava una frase di Gabriele D’Annunzio poi adottata dalla XMas?
«È fin troppo ovvio che dica di no».
Scrive che noi siamo fatti dai libri che abbiamo letto, ma pure da quelli che non abbiamo letto. Tre titoli che le mancano?
«Ho letto Friedrich Nietzsche meno di quanto avrei dovuto. E non ho letto Le confessioni di Sant’Agostino. In questo momento mi arrivano tre o quattro libri al giorno. Riceverne molti di più di quanti riesca a leggerne è una specie di incubo».
Il più tormentoso?
«Le rispondo così. Qualche giorno fa mi è arrivato Speranza contro speranza di Nadezda Mandel’stam, una poetessa internata nel gulag sovietico, libro pubblicato in una collana di Settecolori curata da Stenio Solinas. Bene, finché non l’avrò letto non sarò in pace. Lo devo alla sua prigionia… Perché sì, si parla molto di fascismo: ma il comunismo staliniano cos’è stato?».
La Verità, 26 novembre 2022