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«Ho usato “gnocca” contro i dogmi antifamiglia»

Insomma, che volgarità, Marco Rizzo.
«Purtroppo, oggi, per far capire certi concetti, bisogna ricorrere anche a qualche espressione colorita. Mi pare abbia funzionato, visto che ne stiamo parlando».
Riassumiamo brevemente per chi avesse perso l’antefatto.
«In un intervento di 18 minuti ho provato a spiegare come sta girando il mondo, dalla guerra allo schiacciamento della classe lavoratrice, dal cambiamento epocale nelle abitudini all’attacco alla famiglia, fino alle nuove ideologie che irrompono nella nostra vita. Per spiegare questo cambiamento ho intercalato una frase, pronunciata con grande serietà: “Mi piace la gnocca”. Sapevo che mi sarei scontrato con il totalitarismo del pensiero unico. Perché, un conto è essere contro ogni discriminazione di gusti sessuali, di razza e di ogni tipo, un altro è voler imporre i desideri e le preferenze di una minoranza a tutta la popolazione».
Marco Rizzo è un politico difficilmente classificabile. Un po’ novecentesco, molto pacifista, larvatamente complottista, trasversale agli schieramenti. Fino a qualche tempo fa era segretario del Partito comunista, di cui poi è divenuto presidente onorario. Adesso è candidato alle regionali in Umbria del 17 e 18 novembre con la lista Democrazia sovrana e popolare di cui è fondatore. Anche il suo linguaggio può risultare eccentrico: parla di classe lavoratrice e di operai. E non solo…
Ha usato un’espressione esecrabile, come le è stato fatto notare.
«Sono finito sulla prima pagina del Corriere della Sera, non avveniva da anni. Uno come Massimo Gramellini, a cui sono legato solo dalla fede calcistica – anche se lui va certamente in tribuna mentre io ai popolari – mi ha attaccato duramente per il linguaggio da taverna, addirittura scomodando la lingua italiana. Forse non sa che la parola gnocca si trova anche nella Treccani».
L’ha usata perché è a caccia di visibilità?
«No. Conosco i meccanismi della cosiddetta informazione italiana che ogni giorno tenta di turlupinare l’opinione pubblica. Faccio un esempio fra i tanti possibili: qualcuno pensa davvero che lo yacht affondato nel porto di Palermo sia stato vittima di un nubifragio?».
E di che cosa?
«Di una resa dei conti tra ricconi collegati ai servizi segreti».
Lo deciderà la magistratura.
«Sì, certo. Ma mica abbiamo l’anello al naso».
La prima pagina del Corriere della Sera comunque è un bel successo.
«Essere attaccati dal mainstream è sempre una medaglia».
Nel suo intervento contestava la dittatura delle minoranze, un argomento anche del generale Roberto Vannacci.
«Se piove io dico che piove, non vado a vedere chi lo sta dicendo. Premesso questo, ricordo di essere stato il primo a dire che Vannacci è stato attaccato per il suo libro perché aveva denunciato la morte dei soldati a causa dell’uranio impoverito. Un uomo controcorrente, rispetto al servilismo diffuso alla politica e all’establishment».
È diventato di moda prendersela con il politicamente corretto?
«Dire che è una moda è uno stratagemma per non affrontare l’argomento e nascondersi dietro un dito. Oggi la pratica mostruosa dell’utero in affitto e i laboratori nelle università pubbliche destinati ai bimbi trans dai 5 ai 14 anni come quello di sabato scorso presso l’università Roma 3 sono normalità. Così come lo è l’attacco costante e forsennato alla famiglia, che non è più quella descritta come prima cellula della società borghese da Friederich Engels 150 anni fa. Oggi senza le famiglie che svolgono la funzione dello Stato sociale avremmo 11 milioni di poveri in più. Questa è la normalità propugnata sempre dai soliti potenti».
Chi, per la precisione?
«I rappresentanti della grande finanza che ci vuole obbligare a mettere il cappotto termico alle case, che non vuole più farci girare con la nostra automobile, che sdogana la guerra nucleare. Ma che soprattutto continua a prenderci in giro dicendo queste cose in lussuosi convegni, dove arrivano a bordo di inquinantissimi jet ed elicotteri privati».
Il politicamente corretto è una forma di bon ton, un galateo o cos’altro?
«È un’ideologia. Le faccio un altro esempio. Ha mai provato ad andare in uno di quei negozi di abbigliamento di catene multinazionali? Provi a vedere che orientamento ha la maggioranza dei commessi. Anche quella è una politica di marketing, una forma di discriminazione al contrario verso gli eterosessuali. Dico di più: se si smembra la famiglia le grandi multinazionali ci guadagnano. Me l’ha spiegato un importante manager del food: una famiglia composta da due persone consuma per due, ma se queste due persone le dividi, compreranno due monoporzioni che costeranno 1,3 e i grandi marchi guadagneranno il 30%».
Le multinazionali ci vogliono single?
«Single, privi di relazioni sociali, di protagonismo, di libertà e spirito critico. Ma collegati al nostro cellulare con cui ordinare pessimo cibo e cattivi oggetti che ci verranno recapitati da schiavi in bicicletta».
Che basi ha l’ideologia politicamente corretta?
«Quelle che oggi interpreta alla perfezione il Pd. Basta vedere cos’era il Pci nel 1980, quando Enrico Berlinguer andava a parlare con gli operai di Mirafiori ai cancelli della Fiat. 44 anni dopo, con Elly Schlein il Pd balla sul carro del gay pride».
Gli operai non ci sono più.
«C’è un ceto medio fatto di commercianti, artigiani e partite Iva che precipita verso il basso e che, in un certo senso, si proletarizza. Per questo bisogna sviluppare il sovranismo popolare».
Ci arriviamo. Una volta si diceva parla come mangi, adesso ci insegnano la neolingua preconizzata da George Orwell?
«L’élite che ha in mano la comunicazione riserva privilegi per sé e costrizioni per noi. Così sentiamo parlare di “flessibilità in uscita” invece che di licenziamenti, di “peace-keeping” invece che di guerra, di carenza di integrazione, invece che di delinquenza. Ci siamo rotti le palle».
Perché si candida governatore della regione Umbria?
«Per un motivo: vogliamo cominciare ad assaltare i fortini di questo partito unico che sono la destra e la sinistra, due facce della stessa medaglia, iniziando dal luogo dove la sovranità viene cancellata per prima: le regioni. E vogliamo cominciare dalla sanità pubblica che, nelle mani di politici incapaci e corrotti, nega il diritto alla salute del nostro popolo. Marco Rizzo in Umbria e Francesco Toscano in Liguria vogliono fare la stessa cosa che Afd (Alternative für Deutschland ndr) e Sahra Wagenknecht (leader del Bsw, il partito omonimo ndr) hanno fatto alle elezioni della Turingia e della Sassonia».
Lei che è torinese doc in Umbria?
«Il cognome è calabrese, del quadrisavolo che venne al Nord con i garibaldini. Mio padre era piemontese e mia madre romagnola. Adesso vivo a Rovereto, prima ho vissuto a Torino e a Roma».
Democrazia sovrana e popolare è una denominazione tautologica?
«Vi è racchiusa la sostanza della nostra Costituzione, tanto bella quanto disattesa».
«La sovranità appartiene al popolo» occorre ribadirlo?
«Sì, perché la sovranità può essere del re o del popolo. Io propendo per la seconda idea, visto che oggi il re è rappresentato da Bill Gates, così come, in Italia, dagli Elkann e dai Benetton. Mentre il popolo è incarnato dall’operaio della Stellantis e dal ristoratore di Piazza Augusto Imperatore nel centro di Roma che rischia di essere sfrattato proprio dai Benetton. Sto dicendo un fatto reale».
Democrazia sovrana e popolare è una sigla da elezioni amministrative o da movimento di opinione?
«Ha una forza intrinseca. Pensi che con queste elezioni lanciamo la proposta che la sanità venga riaffidata ai medici e ai cittadini».
Come?
«Tornando ad avere le Usl invece delle Aziende sanitarie locali, per ricostruire l’universalismo della prestazione sanitaria, togliendone il governo alle regioni, il cui bilancio è costituito all’80% proprio dalla sanità, mal gestita».
L’approvazione dell’autonomia differenziata migliorerebbe la situazione?
«Ne dubito. Questa autonomia è la stessa che voleva Massimo D’Alema con la riforma del titolo V studiata da Franco Bassanini. Favorirebbe il moltiplicarsi dei centri di potere di cui faremmo volentieri a meno. Il Pd la contesta solo perché non se la intestano loro».
Fino a qualche anno fa sanità, scuola e lavoro erano al centro della politica, perché non lo sono più?
«Perché la lotta di classe l’hanno vinta i super ricchi. Non è un caso che il Pd sia il partito della Ztl e che Maurizio Landini, leader della Cgil, si fa mettere la mano sulla spalla dal banchiere Mario Draghi».
Quelle priorità sono scalate nella classifica a vantaggio di che cosa?
«Basta guardare la lista degli investimenti del Pnrr e si troverà la sanità all’ultimo posto. Scavalcata dagli investimenti per le politiche in favore della teoria gender. Cose da pazzi. Al primo posto delle priorità c’è la digitalizzazione e al secondo il pessimo green».
Sono le priorità dell’Unione europea.
«Infatti, siamo l’unica forza politica che non ha alcuna remora ad affermare che vogliamo l’uscita dall’Ue, dall’euro, dalla Nato e anche dall’Oms, una struttura privata che fa gli interessi delle multinazionali del farmaco».
Scuola, lavoro e sanità erano temi prioritari della sinistra: che fine ha fatto il suo vecchio Partito comunista?
«Oggi, se ci fosse Antonio Gramsci starebbe con noi. Per quanto riguarda la sinistra ricordo che negli anni Sessanta e Settanta hanno provato a batterla con Gladio, con la strategia della tensione e le stragi. Poi si sono accorti che era più facile conquistarla dall’interno con gli Achille Occhetto, i Massimo D’Alema, i Walter Veltroni e i Piero Fassino».
L’alleanza con Gianni Alemanno?
«In realtà, non c’è mai stata. Insieme abbiamo dato vita a un’iniziativa importante contro la guerra e sarei pronto a ripeterla. Così come, viste le sue recenti parole sull’argomento, mi piacerebbe animare un confronto con Roberto Vannacci su come contrastare la guerra».
Lavoro, scuola e sanità possono essere il programma del campo largo?
«Il campo largo andrebbe arato da persone che almeno sanno usare la zappa, ma questi leader della sedicente sinistra non saprebbero da che parte impugnarla».
Che impressione le fa Elly Schlein che canta con gli Articolo 31?
«Mi dà l’idea di un partito finito, almeno rispetto alle motivazioni sociali e di passione che dovrebbe avere. Non sarà un caso se il Pd, invece di scegliere un segretario al suo interno, ha preso una passante dell’alta borghesia».

 

La Verità, 12 ottobre 2024

«La surrogata altruistica è una trovata mainstream»

Aurelio Mancuso è uno dei leader, oltre che figura storica, del movimento arcobaleno italiano. Giornalista freelance, iscritto al Pd, fondatore e presidente di Equality Italia, associazione che vuole «rendere i diritti civili una proposta trasversale», ha scritto l’appello No Gpa (Gestazione per altri) sottoscritto da oltre 600 tra intellettuali, politici e amministratori locali soprattutto progressisti.

Mancuso, togliere il patrocinio ai pride vuol dire essere omofobi?

«Non significa tout court essere omofobi quanto, nel caso specifico, che la Regione Lazio avrebbe fatto bene a compiere le dovute e preventive verifiche. Ritirare il patrocinio perché non si è letto il documento di convocazione dell’iniziativa è un comportamento poco istituzionale. Ormai i pride sono manifestazioni tradizionali che travalicano chi li convoca e ai quali ragazzi e ragazze vanno come a una festa. Al presidente della Regione Lazio avrei consigliato di dare il patrocinio… Poi, certo, alcune cose contenute nel documento ha difficoltà a sostenerle anche un’istituzione governata dalla sinistra».

Dare il patrocinio vuol dire sostenere quella manifestazione, negarlo vuol dire essere omofobi e fascisti?

«Francesco Rocca è la stessa persona che da presidente della Croce rossa italiana ha cofinanziato una casa rifugio per ragazzi cacciati dalle famiglie perché omosessuali?».

Sì e lo rivendica e il pride si tiene anche senza patrocinio: la comunità arcobaleno non dovrebbe essere orgogliosa di non averlo?

«Esatto, il pride si fa lo stesso. Nelle democrazie europee e americane esponenti di destra e sinistra partecipano pur senza concordare con la totalità dei temi. Non è una manifestazione educata, ma per sua stessa natura maleducata. Mi auguro che oggi tanti ragazzi e ragazze partecipino. Altra cosa è ciò che pensano i suoi organizzatori».

Distinzione complicata: come si può dire viva il popolo del pride e abbasso i vertici?

«Io non dico abbasso i vertici. Chi organizza è colui che fa e, perciò, ha ragione. Non credo che le persone che ci vanno siano lì perché aderiscono integralmente al documento. Sarei curioso di sapere quanti tra i partecipanti l’hanno letto e sono consapevoli di ciò che contiene».

Lei oggi sfilerà?

«Da anni non lo faccio. Per non creare inutili tensioni con la mia presenza e preservare lo spirito di festa della manifestazione. Vorrei soprattutto che questi temi, che sono divisivi, fossero finalmente discussi nella comunità Lgbt».

Invece?

«C’è un rifiuto a confrontarsi. Chi non la pensa esattamente come i promotori viene etichettato come fascista e omofobo. E per me è davvero troppo».

C’è uno stigma anche tra voi?
«Se si eccettua Arcilesbica che è bersagliata tutti i giorni, sono l’unico omosessuale noto e che ha avuto un ruolo nel movimento a esprimere pubblicamente una posizione critica. Però non voglio fare uno contro tutti. Su molte delle questioni c’è accordo, mentre non c’è sull’autodeterminazione di genere, la Gpa e la prostituzione».

Che cosa pensa del linguaggio del documento del pride?

«Ne avrei usato un altro. Alcune questioni marginali venti o trent’anni fa ora sono diventate centrali. Chi un tempo non era protagonista oggi lo è».

Lei come l’avrebbe scritto?

«Mettendo in primo piano i diritti concreti e riconoscibili che vogliamo. Le unioni civili o il matrimonio egualitario, la riforma della legge sulle adozioni e della legge 164/82 sull’attribuzione del sesso, le norme di contrasto all’omofobia e all’omotransfobia. Temi presenti, ma talmente conditi di visioni e distinguo da risultare confusi».

Lo scontro è soprattutto sull’utero in affitto: la comunità Lgbt non vede la violenza di questa pratica?

«È un passo avanti che si evitino espressioni come maternità surrogata e utero in affitto. Forse si sta iniziando a riconoscere che sono pratiche disumane, che sfruttano le donne e trattano i bambini come oggetti. Tuttavia, anche parlare di Gpa altruistica e gratuita senza condannare queste pratiche è ultimamente ipocrita. La Gpa altruistica è un’invenzione del mainstream».

In che senso?

«Nel senso che non chiarisce che i bambini non si possono né comprare né vendere, ma nemmeno si possono donare o regalare. Anche la Gpa altruistica tratta il bambino come un oggetto a disposizione degli adulti, mentre è un soggetto».

La comunità Lgbt non si avvede della strumentalità di chiedere prima l’ovocita da una donna e poi di noleggiare l’utero di un’altra a pagamento?

«A me pare che non ci sia nessuna riflessione su questo tema. Prevale la volontà di dare una risposta al desiderio di adulti, trasformato erroneamente in diritto, di avere un bambino. Bisogna essere chiari: stiamo parlando al 90% di coppie etero e al 10% di coppie omosessuali. Ciò significa che parliamo di un tema molto marginale che solleva questioni etiche delicatissime ma che, riguardando persone con buone possibilità economiche per ricorrere a queste pratiche, coinvolge ristrettissime nicchie».

Molte sigle femministe internazionali approvano la proposta di legge italiana appena presentata di rendere l’utero in affitto reato universale.

«Il nostro appello No Gpa ha raccolto oltre 600 firme di intellettuali e personalità pubbliche contro la Gpa. È un reato che dovrebbe essere definito universale per ciò che avviene nel Terzo mondo, per la commercializzazione e lo sfruttamento sia del bambino che delle donne. Appellandoci alla risoluzione del 2015 del Parlamento europeo e ai pronunciamenti dell’Onu pensiamo si debba arrivare al bando internazionale di questa pratica. Molte persone che hanno firmato il nostro appello sostengono la legge in discussione in Parlamento, altre no. Abbiamo ricercato una sintesi, rispettando l’opinione di tutti. Probabilmente la legge sarà approvata, ma io rivolgo altre due richieste a Giorgia Meloni…».

Quali?

«La prima: eliminare le discriminazione dei bambini che non possono essere trattati come un pacco postale; cioè, se arrivano in Italia non si possono rispedire indietro. La seconda: se è d’accordo con la modifica della legge sulle adozioni allo scopo di accelerare i tempi. Qualcosa in questo senso è stato fatto con l’equiparazione delle adozioni speciali a quelle normali, ma si può fare ancora di più».

La prossima settimana l’utero in affitto sarà in discussione a Strasburgo. Visto che il Pd dice che la questione va risolta in Europa, perché questa discussione non l’hanno chiesta i democratici ma i conservatori?

«È evidente un certo imbarazzo da parte del Pd e non solo sul tema. Però quella discussione sarà un banco di prova evidente: la surrogata è una pratica da mettere al bando in tutto il mondo o no? Su questo si dovranno pronunciare. Vedremo come andrà a finire».

Perché su questi temi il Pd è in forte imbarazzo?

«Al netto di ciò che dicono i segretari di turno, non solo Elly Schlein, nel Pd ci sono posizioni differenti. Grazie al nostro documento è finalmente chiaro che tanta parte del Pd è contraria all’utero in affitto. Perciò, se non vuol essere il passacarte del movimento Lgbt, il partito deve aprire quella discussione che finora non ha voluto fare. Chi aveva posizioni critiche non riusciva a farsi ascoltare su questo tema. Negli ultimi anni non ho mai ricevuto un invito da una sezione del Pd, mentre ne ho ricevuti da associazioni esterne al partito».

Come giudica il fatto che nelle interviste Elly Schlein rifiuta le domande sulla surrogata e i diritti Lgbt?

«Una segretaria che si è esposta personalmente sbaglia a eludere le domande sull’argomento. Nel Pd esiste da anni un tavolo permanente di discussione con la comunità Lgbt. Purtroppo, da quando ho messo in discussione il ddl Zan non sono più stato invitato. Mi auguro che Schlein cambi questa pratica antidemocratica dentro un partito che si chiama democratico».

Che cosa indica il fatto che negli ultimi due anni l’acronimo arcobaleno è raddoppiato, da Lgbt+ è diventato Lgbtqiak+, da quattro lettere a otto?

«Il continuo allungarsi dell’acronimo è indice di confusione culturale e divisione. Non si possono declinare tutte le identità e aspirazioni, mettendole sullo stesso piano. Molte specificità non sono nemmeno rappresentabili in quelle otto lettere. Se si vogliono nominare tutte le identità si finisce per annullare tutte le identità».

Perdoni l’ignoranza, che identità rappresenta la lettera I?

«Le persone Intersex, che nascono con apparati genitali non del tutto definiti. La richiesta è di non essere soggetti già alla nascita alla scelta del sesso, ma aver tempo di decidere. Ovviamente, parliamo di una minuscola minoranza, tuttavia soggetta a grandi sofferenze».

E la lettera A?

«Dovrebbero essere gli asessuali o gli asessuati o gli aromantici, mi sono perso anch’io. Chiunque siano, mi domando quale diritto legislativo chiedano».

Nel documento del Roma pride si parla dei «comportamenti kinky» specificando il rifiuto della contestazione «degli scambi di potere consensuali»: cosa significa?

«Sebbene sia allenatissimo nell’interpretazione di queste formule, questa parte risulta criptica anche a me. Auspico che venga chiarita meglio. Il tema del rapporto di potere tra i sessi è delicatissimo».

È sbagliato pensare che l’espressione «scambi di potere consensuali» celi un’apertura ai rapporti pedofiliaci?

«In un passaggio si parla di bambini arcobaleno che sfilano vicino a coloro che usano strumenti sadomaso. Sono nettamente contrario alla pedofilia. È uno stigma che negli anni è stato erroneamente affibbiato all’omosessualità. Il documento è così nebuloso che attendo chiarimenti. Sono sicuro che nessuno voglia aprire il minimo spiraglio a questo tipo di crimini».

Un altro punto è l’insistenza sulle identità alias che si vorrebbero riconosciute nelle scuole, nei posti di lavoro, nell’esercizio del voto…

«L’autodefinizione di sé è un tema che non riguarda solo l’Italia. In tanti Stati dove si è liberalizzato, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ora si sta tornando indietro perché ci si è accorti dei tanti problemi che comporta, per esempio, nelle competizioni sportive. Mi spiace che anche questo tema venga affrontato con una certa brutalità. Il problema esiste, ma le soluzioni arrivano solo alla fine di un confronto sociale e culturale approfondito. Solo a questo punto si può giungere a una normativa corretta e rispettosa di tutte le componenti».

 

La Verità, 10 giugno 2023

«La sinistra vince se tiene lontani i big nazionali»

Buongiorno Giovanni Diamanti, scriviamo insieme il suo curriculum vitae?

«Consulente politico e socio fondatore di Quorum e Youtrend, due marchi di un’unica agenzia di comunicazione, analisi politica e sondaggi. L’ho fondata a 22 anni con Lorenzo Pregliasco, Davide Policastro, Roberto Greco e Matteo Cavallaro. Tra le varie cose, sono professore a contratto di Marketing politico all’Università di Padova e di Storytelling politico alla Scuola Holden di Torino».

Studi, letture, passioni?

«Laureato in Sociologia. Le passioni sono la storia dei partiti politici, il calcio, il tennis e il cinema».

Storytelling politico come materia di una scuola di scrittura mi giunge nuova.

«È un ramo della comunicazione legato al racconto e alla narrazione. Spesso le storie personali dei leader raccontano i loro valori più dei fatti».

Ma la Holden è una scuola per scrittori, chi frequenta il suo corso?

«La Holden ha una proposta formativa ampia. I frequentatori sono studenti appassionati di comunicazione politica».

Segreti del mestiere appresi da papà Ilvo, immagino: che cosa in particolare?

«In realtà, mio padre è uno studioso, un politologo, mentre io ho iniziato a impegnarmi nelle campagne elettorali prima dei vent’anni, facendo un percorso diverso. In comune abbiamo la passione e lo studio della politica. Le nostre attività si toccano sul lato dei sondaggi, ma Demos e Youtrend sono agenzie concorrenti, con specificità diverse».

Altri maestri?

«Ne ho avuti tanti. Da Nando Pagnoncelli, amico di famiglia, ho imparato a capire quanto il dato sia da studiare e non da utilizzare. E poi nella professione cito Filippo Sensi».

Mitico «nomfup» di Twitter.

«Profilo tuttora attivo, anche se più istituzionale. Nel 2014 con Matteo Renzi, Sensi portò il Pd al 40% con una campagna costruita sul derby tra speranza e paura. Ero all’inizio e lui mi diede molti amichevoli consigli».

Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino?

«Velardi è un amico dal quale ho imparato molto. Anche se sono della generazione successiva, appartengo alla vecchia scuola, poco digitale».

Quali sono gli strumenti principali del suo lavoro?

«Non lavoriamo sul day by day per suggerire le dichiarazioni giornaliere. Il nostro cassetto degli attrezzi sono i sondaggi, i focus di gruppo, il clima d’opinione, il profilo del candidato e le analisi delle rassegne stampa per elaborare un piano strategico di medio e lungo periodo».

 

Nei giorni scorsi Giovanni Diamanti ha trovato visibilità oltre la cerchia degli addetti ai lavori come consulente di Giacomo Possamai, il nuovo sindaco di Vicenza, unica città conquistata dalla sinistra alle recenti amministrative. 34 anni, barba e occhiali hipster, zero iperboli, salti ubiqui tra riunioni e call ma piedi ben piantati per terra, molta prudenza nel rispondere, nella carriera dello «spin doctor di Possamai» c’è molto più di ciò che fa immaginare la sua giovane età.

 

Il curriculum prosegue con la lista delle campagne vincenti.

«Beppe Sala a Milano nel 2016, Roberto Gualtieri a Roma nel 2021, l’anno scorso Damiano Tommasi a Verona, adesso le comunali di Vicenza. Prima due campagne di Vincenzo De Luca, due di Nicola Zingaretti per le primarie e alle ultime europee. Anche Pierfrancesco Majorino ed Elisabetta Gualmini alle europee».

Sconfitte?

«In quelle di Majorino c’eravamo noi. Alle primarie a Milano del 2016 arrivò terzo, ma fu comunque un grande risultato, tanto che Sala ci chiamò subito dopo. Anche alle ultime regionali abbiamo lavorato con Majorino. Sconfitta anche alle comunali di Genova del 2017, sempre con il centrosinistra».

Perché la vittoria a Vicenza ha fatto scalpore?

«Il primo motivo è perché è l’unico successo del centrosinistra. Il secondo, perché è l’effetto di una convinzione errata: cioè che Vicenza sia storicamente di centrodestra, mentre i dati dicono che è contendibile».

È lei ad aver suggerito a Possamai di non far arrivare Elly Schlein?

«Non credo alle idee magiche dei guru. Sicuramente era un’idea che rientrava nel piano strategico presentato un anno fa, quando ancora lei non c’era».

In questo caso, non vederla arrivare è stato vincente?

«È stato vincente impostare una campagna vicentina, che parlasse di temi vicentini e con persone vicentine. Elly Schlein, come qualunque altro leader nazionale, sarebbe uscita da questo schema».

Anche Damiano Tommasi a Verona era un outsider e anche lì avete ribaltato il pronostico.

«Verona e Vicenza sono campagne d’identità cittadina contrapposta alla visione nazionale. Ma ci sono anche differenze: Tommasi era un candidato civico puro che parlava di valori, Possamai è un leader storico di partito che ha proposto un progetto chiaro di città».

La ricetta comune è tenere lontani i leader nazionali?

«In questi casi, sì. Ma le campagne elettorali sono abiti cuciti su misura sui candidati e sulle città. L’esempio più chiaro è Roberto Gualtieri a Roma che nel 2021 godeva di un prestigio personale. Nel suo caso coinvolgere figure nazionali era un valore aggiunto».

Altrimenti, in periferia, la loro presenza afferma paradossalmente la distanza dalla gente comune?

«Non direi così. A Vicenza volevamo fare una campagna opposta a quella dell’avversario. Richiamare qualunque leader nazionale avrebbe riportato la contesa nello scontro tra centrodestra e centrosinistra. Invece, per noi il progetto vicentino voleva dire ripensare le alleanze. Non c’è stato il campo largo, ma il lavoro delle liste civiche che si sono alleate al Pd, senza timore di guardare anche al centrodestra, per esempio coinvolgendo Matteo Tosetto, storico esponente di Forza Italia e vicesindaco uscente».

La sinistra vince dove il Pil è più alto?

«Da Milano a Padova, passando per Bergamo, Brescia, Verona e Vicenza ora c’è una filiera di amministrazioni di centrosinistra. Forse ha leader di maggiore qualità. Il centrodestra dovrebbe interrogarsi sul fatto di non toccare palla in questi territori. È la sfida principale che deve affrontare nei prossimi anni. E che, va detto, sembra aver iniziato ad affrontare, visto che in queste ultime elezioni ha vinto ovunque, forse più per la forza della coalizione che dei suoi candidati».

Per Alessandra Ghisleri, Schlein non ha ancora trovato un’identità forte: che cosa sbaglia e che cosa azzecca la segretaria Pd?

«Ha capacità comunicativa e predisposizione a rompere gli schemi. Deve riuscire a far capire qual è la sua idea del Pd. Oggettivamente, ha avuto poco tempo, ma l’identità e il posizionamento è uno storico problema del partito».

Era sbagliato aspettarsi che, essendo stata eletta dai non iscritti, ampliasse i consensi anche alle urne?

«Penso sia il suo primo obiettivo, ma credo si dovrà misurarla alle europee dell’anno prossimo».

È un corpo estraneo, anche pensando alla squadra che ha scelto?

«Non la definirei così. Sicuramente ha un approccio diverso dai predecessori e vuole aprire in modo più netto all’esterno».

Fa bene a insistere sui diritti delle minoranze?

«Non so se le giovi. È un tema che può mobilitare fortemente, ma che deve andare di pari passo ad altre questioni».

Come giudica la sua comunicazione, troppe supercazzole?

«Giudichiamola tra qualche mese».

Le avrebbe consigliato l’intervista a Vogue?

«Sono scelte che bisogna vivere da dentro, conoscere la strategia e lo scopo. La comunicazione è qualcosa di complesso di cui bisogna conoscere l’articolazione».

Strategicamente era la testata giusta?

«Si coglie il tentativo di comunicare in modo non tradizionale. Se funziona o no lo si capirà nel medio e lungo periodo. Quando Renzi si vestiva da Fonzie per andare ospite di Maria De Filippi molti lo perculavano, ma per altri era un genio».

Giova alla sinistra la campagna sul ritorno del fascismo? Porta consensi?

«Forse può mobilitare, ma non si fa solo ciò che porta consenso. François Mitterand s’impegnò per l’abolizione della pena di morte e, quando i suoi consiglieri gli fecero notare che i francesi erano per il mantenimento, rispose che non gli importava perché quello era un obiettivo giusto».

Era Mitterand.

«Certo. Se il Paese vuole risposte sul lavoro e tu gli parli di cultura o di scienza, non sembri in sintonia. Bisogna trovare un equilibrio tra temi popolari e temi giusti».

Nella squadra di centrodestra ci sono punti deboli?

«Vedo Giorgia Meloni molto forte, mentre non vedo una classe dirigente dello stesso livello. Questo è il primo elemento. Poi torvo che nella coalizione ci sia un po’ di vuoto nell’area classica, liberale e moderata. Forza Italia si è indebolita, Fdi è un partito conservatore, la Lega un partito identitario, manca l’attenzione alle classi liberali e produttive che, infatti, guardato al terzo polo».

C’è qualche lacuna nella comunicazione?

«Manca un po’ di coordinamento. Ma non ho visto grandi strafalcioni o divisioni su questioni importanti».

Sbaglia Marco Travaglio quando dice che Meloni vince perché è di moda?

«Non capisco cosa significhi. Uno vince quando convince di essere il candidato migliore o quando ha una proposta che mobilita. Giorgia Meloni vince perché si è costruita una sua credibilità e porta avanti diverse posizioni in sintonia con il clima d’opinione prevalente nel Paese».

Ha punti deboli?

«La ritengo ancora un po’ troppo ideologica su alcuni temi, alla lunga questo sarà un problema. In alcune conferenze stampa non mi è sembrata sempre brillante».

Come mai la tendenza verso posizioni conservatrici o di destra si registra in tutta Europa?

«C’è un clima d’opinione in cui prevale una forte rabbia sociale, ben interpretata da chi utilizza determinati toni. Ma sono tendenze che si modificano abbastanza rapidamente. Per esempio, subito dopo la fine della prima ondata del Covid, si diceva che i sovranisti iniziavano a indebolirsi».

Cicli di breve durata?

«Sì, però è evidente che oggi il ciclo è questo».

Durerà più Meloni o Schlein?

«Al tempo di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi i cicli duravano un ventennio. Ultimamente le leadership hanno archi più brevi, poco più un biennio, come abbiamo visto con Renzi, Luigi Di Maio, Matteo Salvini. Meloni non è ancora entrata in fase di erosione. Di sicuro entrambi hanno di fronte uno scoglio: Meloni, la gestione del Paese in una fase non facilissima; Schlein, la guida di un partito nel quale le leadership durano poco. Schlein è appena arrivata, Meloni è stabile da un po’: nessuna delle due ha il lavoro più stabile e tranquillo del mondo».

 

La Verità, 3 giugno 2023

L’afflizione democratica per la Rai di Lilli e Corrado

C’è molta preoccupazione a La7 per la libertà della Rai. Le nuove nomine e gli abbandoni di Fabio Fazio e Lucia Annunziata hanno gettato i volti noti della tv di Urbano Cairo nell’afflizione più profonda. È un’afflizione democratica, ovviamente, per le privazioni di cui saranno vittime i telespettatori che pagano il canone. Non una preoccupazione editoriale perché, di solito, quando un concorrente s’indebolisce, ci si frega le mani. No: dalle parti di Otto e mezzo e Piazzapulita è tutto un interrogarsi e macerarsi per il degrado della democrazia perpetrato dalle nomine appena licenziate dal Cda Rai. Venendo al sodo, giovedì è andata in onda la maratona dell’indignazione per l’avvento di Tele-Meloni. Fresca di trasferta in quel posticino simbolo di trasparenza e pluralismo che è il meeting di Bilderberg, Lilli Gruber ha dispensato il suo verbo democratico intervistando Giovanna Vitale di Repubblica e l’ex presidente della Rai Roberto Zaccaria, angosciati per l’incombere della dittatura. Sì, è vero, la lottizzazione c’è sempre stata, ma quando la faceva lui, Zaccaria, il lupo abitava con l’agnello e il leopardo giaceva col capretto. Ci è voluto il solito Marco Travaglio per evidenziare l’ipocrisia delle lamentazioni. Soprattutto quelle di fonte dem perché, a conti fatti, con le nuove nomine Fratelli d’Italia ottiene cinque caselle, la Lega sette, il M5s tre, mentre il Pd ne mantiene nove (Mario Orfeo al Tg3, Stefano Coletta ai palinsesti, Simona Sala a Radio 2, Silvia Calandrelli a Rai Cultura, Elena Capparelli a RaiPlay, Paolo Del Brocco a Rai Cinema, Andrea Vianello a San Marino tv, Maria Pia Ammirati a Rai Fiction e Luca Milano a Rai Kids). Eppure la consigliera Francesca Bria, issata in Cda dall’ex ministro Andrea Orlando, ha votato contro alzando alti lai di protesta. Insomma, quello che si dice avere la botte piena e la moglie ubriaca. Un gioco di prestigio che, quando si tratta della tv di Stato, al Pd riesce sempre facile. Come ha confermato di lì a poco la segretaria del partito Elly Schlein parlando di «occupazione a spallate della Rai» una volta che il testimone della maratona è passato nelle mani di Corrado Formigli. Il quale, in lutto per Lucia Annunziata costretta alle dimissioni perché processata a causa di una parolaccia, ha sorvolato sul fatto che il suo Mezz’ora in più era già stato rinnovato per la prossima stagione. È così: un certo giornalismo stenta a metabolizzare il nuovo scenario fornendo versioni scomposte, tinte di preoccupazione democratica. Magari perdendo la memoria sui fatti di casa propria. Quando un aggiornamento su Massimo Giletti?

 

La Verità, 27 maggio 2023

«Vogliamo esportare in Europa il modello italiano»

Spalle larghe. E non solo perché Paolo Barelli, 68 anni, romano, capo dei deputati di Forza Italia, è stato un nuotatore di livello internazionale, con importanti vittorie nel delfino e nello stile libero. E nemmeno perché da presidente ha portato la Federazione italiana nuoto a essere la più vincente della nostra storia sportiva. Spalle larghe perché fronteggia l’opposizione interna al partito capeggiata da Licia Ronzulli che, per un breve intervallo, era riuscita a sostituirlo con Alessandro Cattaneo alla guida dei deputati azzurri. Ci ha pensato un mese fa Silvio Berlusconi a restituirgli il ruolo. L’altro ieri, però, è finito anche lui sotto accusa per il mancato raggiungimento della maggioranza alla Camera nel voto sullo scostamento di bilancio da inserire nel Documento di economia e finanza (Def) per aumentare di un punto il taglio del cuneo fiscale.

Perché la votazione sul Def è andata male? La maggioranza di centrodestra è già in crisi?

«Ma quale crisi! Sottolineo che non doveva accadere e che occorrerà essere più attenti a particolari votazioni nelle quali sono previste maggioranze dei presenti che non tengono conto dei colleghi in missione, cioè impegnati in ambito istituzionale. Non doveva succedere. Detto ciò, 12 ore dopo è stato colmato l’errore e il Def è stato votato con una maggioranza netta. Tutti i partiti di maggioranza sostengono il Documento di economia e finanza varato dal governo con il contributo del Parlamento. Questo documento definisce le azioni in ambito economico e sociale per il 2023, ma ben più per i prossimi anni, in ossequio alla volontà di Forza Italia e del governo di imprimere una svolta allo sviluppo del nostro Paese dopo le crisi drammatiche quali la pandemia, la guerra in Ucraina, il costo dell’energia e delle materie prime».

Che strascichi potrà lasciare nella maggioranza questo «brutto scivolone»?

«Assolutamente nessuno, in quanto, tutti i partiti della maggioranza lavorano per lo stesso obiettivo che è quello di far uscire il Paese dalla crisi nel più breve tempo possibile. Ognuno dei tre partiti su cui poggia la maggioranza ha la propria storia e le proprie peculiarità, ma la forza di questa coalizione sta proprio nel saper sommare le caratteristiche positive di ciascuno, concretizzate in un programma comune e indiscutibilmente premiate dagli elettori il 25 settembre».

Forza Italia sta superando il momento di difficoltà legato allo stato di salute di Silvio Berlusconi. Si avvicina il giorno del suo completo ristabilimento?

«I medici sono cauti e noi rispettiamo il loro giudizio. Detto questo l’ho sentito più volte in questi giorni, è attento a tutte le questioni, quelle del nostro partito così come quelle parlamentari, fornendo suggerimenti e indicazioni utili per le nostre attività. Quindi con immenso piacere lo sentiamo, come sempre, vicino e sul pezzo».

Nel momento di massima crisi qualcuno nel partito ha cominciato a fare progetti sul futuro?

«È normale sentirsi in apprensione per la temporanea indisponibilità del proprio leader. Mai però ci siamo sentiti in crisi. Che Berlusconi sia Forza Italia e Forza Italia sia Berlusconi non è una novità, e nessuno può pensare di sostituirlo. Berlusconi è un leader che da trent’anni domina la scena politica italiana e internazionale, è unico e anche gli avversari più agguerriti in questi giorni hanno lo hanno ammesso. Un protagonista ineguagliabile della vita del nostro Paese».

Quanto è opportuno parlare di una Forza Italia senza Berlusconi?

«Berlusconi c’è, questa è la realtà. È lui che detta la strada a noi di Forza Italia ed è lui che guarda al futuro indicando e discutendo con noi su come affrontare le sfide che abbiamo davanti in un periodo storico, politico e sociale molto complicato».

Carlo Calenda ha parlato anche di fine della Seconda repubblica e di una Forza Italia in fase di scioglimento.

«Calenda con quelle dichiarazioni pare abbia portato sfortuna a sé stesso. Da settimane ormai i due galli del pollaio, Calenda e Renzi, si beccano e, come sembra, non possono coesistere decretando nei fatti il fallimento del “loro” terzo polo».

Un altro passaggio chiave è stato il ritrovamento dell’unità attorno alla linea governista del partito?

«Berlusconi ha inventato il centrodestra di governo. Giorgia Meloni è stata ministro di un governo presieduto da Silvio Berlusconi. Oggi un governo di centrodestra guida il nostro Paese. Come si può pensare che Forza Italia non sia un partito governista. Lo è stato quando il presidente Mattarella ha promosso un governo di unità nazionale a causa del dramma dovuto dalla pandemia. Lo è ancor di più ora che grazie anche a Forza Italia ha vinto le elezioni lo scorso 25 settembre».

Lei è stato capogruppo alla Camera per un anno dall’ottobre 2021: che cosa ha portato alla sospensione dell’incarico dell’ottobre scorso? 

«Il mio incarico nei fatti è terminato con la fine della legislatura, quindi non c’è stata alcuna sospensione».

Le motivazioni vanno individuate negli equilibri interni a Forza Italia o c’entrano, in qualche modo, anche le vicende collegate alla sospensione da presidente della Fin?

«Gli equilibri interni li definisce Berlusconi nell’interesse del partito. E per nulla può entrarci la mia seconda passione, oltre la politica, di dirigente sportivo, perché se fosse per lo sport dovrei essere un “Superman della politica”. Basta andare sul sito della Federazione italiana nuoto per vedere il numero di medaglie e di successi organizzativi che in vent’anni sono stati conseguiti sotto la mia presidenza».

Considerando che il Coni dovrebbe esserle riconoscente per i risultati della Fin da lei presieduta, che speranze ha che le accuse sulla ristrutturazione della piscina del Foro Italico vengano definitivamente fugate?

«Le ribadisco che non esiste nessuna accusa in tal senso. È vero che nel gennaio 2014 fu avanzata dal Coni un’accusa nei riguardi della Federazione nuoto ed è inconfutabile che, pubblici ministeri e giudici seppur nella sola fase preliminare, si sono dovuti interessare al caso. Ma è altrettanto certo che ben sei magistrati hanno con chiarezza determinato “in fatto e in diritto” che la federazione ha avuto comportamenti corretti e rispettosi delle leggi. Quindi abbiamo solamente ricevuto complimenti».

Berlusconi l’ha voluta nuovamente a capo dei deputati del partito nell’ottica di un avvicinamento alla linea di Giorgia Meloni?

«Conosco Giorgia Meloni da oltre venti anni. Giovane consigliere della provincia di Roma eletta nel 1998; brava, “secchiona”, dotata di forte volontà, di evidente capacità e determinazione. La stima che ci lega proviene da quegli anni di governo di centrodestra locale romano che rappresentò la prova generale dei governi nazionali di centrodestra poi susseguitisi. Io sono un militante di Forza Italia che rappresenta un pilastro del governo Meloni, per la vocazione che il mio partito ha nel popolarismo europeo, nell’atlantismo, nel liberismo e nella cultura cristiana. È scontato che anche il mio contributo di capogruppo in Parlamento sia utile a valorizzare la coesione della coalizione che sostiene Giorgia nel cammino di governo in un periodo non semplice per l’Italia, per l’Europa e per l’intero pianeta. E le elezioni europee del 2024 già si vedono all’orizzonte».

Il coordinatore del partito Antonio Tajani ha annunciato una convention a Milano per il 5 e 6 maggio prossimi: con quale obiettivo?

«È la prima convention da quando il centrodestra è tornato al governo. I nostri ministri, viceministri, sottosegretari, parlamentari hanno grandi responsabilità ed è giusto che incontrino dirigenti e militanti per discutere su quanto fatto e su ciò che ci attende nel prossimo futuro. Oltre alle elezioni amministrative quelle europee dovranno vedere Forza Italia protagonista».

C’è il pericolo che in quell’occasione si cristallizzino le correnti, governisti da una parte e ronzulliani dall’altra?

«Ma che dice. In Forza Italia c’è un solo indiscusso leader, Silvio Berlusconi. E Berlusconi è governista. Vuole un governo forte e risoluto su ogni tema che favorisca la ripresa economica, la competitività delle aziende, il lavoro, specialmente quello giovanile, e le famiglie. Vuole un governo che porti a 1000 euro entro fine legislatura le pensioni minime. E vuole che l’Europa diventi un continente che possa competere con i mercati internazionali per favorire il futuro delle nuove generazioni».

Nei giorni scorsi si è registrato l’ingresso in Forza Italia dell’ex M5s Giancarlo Cancellieri e Tajani ha parlato di nuovi arrivi dal Pd.

«È vero, Forza Italia è molto attrattiva, se è vero come è vero che un deputato europeo del Pd importante come Caterina Chinnici ha espresso il desiderio di entrare nel nostro gruppo parlamentare a Bruxelles. Ma altri ne giungeranno».

Perché a suo avviso non riusciamo a liberarci di questo dibattito su fascismo e antifascismo?

«È davvero stucchevole. Ogni anno il 25 di aprile c’è chi vuole misurare il grado di “libertà e democrazia” del prossimo. L’opposizione, o chi per essa, facendo così dimostra di non aver argomenti seri da trattare e si perde in polemiche di altri tempi. Può essere mai possibile che Forza Italia stia al governo con chi non professa sentimenti di democrazia, comprensione e tolleranza nei confronti di chi ha idee diverse dalle nostre?».

Che problemi pone alla nascita del nuovo partito repubblicano su modello americano il fatto che Fratelli d’Italia sia nel gruppo dei conservatori e riformisti e Forza Italia nel Ppe?

«Le elezioni europee rappresenteranno uno spartiacque. Il centrodestra di governo, modello Italia, vorrà, secondo la mia opinione, esportarlo anche in ambito europeo. Non so in quale forma possa accadere, ma sono sicuro che avverrà una svolta. Forza Italia è già parte della maggioranza in Europa in quanto parte del Partito popolare europeo e un governo con conservatori e liberali sarebbe auspicabile».

Se il voto del 2024 premiasse i partiti europei moderati, una maggioranza composta da Ecr e Ppe consentirebbe una più facile gestione del patto di stabilità e dell’immigrazione?

L’immigrazione è un problema molto più complesso della valutazione dei singoli paesi e partiti. Se l’Europa non vara un piano globale e comune, che eviti di lasciare soli i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, in futuro sarà una vera tragedia. Occorrono subito politiche, in particolare riguardo all’Africa, di cui tutta la comunità internazionale deve farsi carico».

 

La Verità, 29 aprile 2023

«Se il Pd ignora i doveri i diritti restano un’illusione»

Luciano Violante è un uomo delle istituzioni, uno studioso, un ex magistrato capace di ascolto e di confronto. Esemplare raro nello scenario politico contemporaneo. In La democrazia non è gratis – I costi per restare liberi (Marsilio) l’ex presidente della Camera si chiede se «con tutto il suo carico di storia, di cultura, di innovazione per il benessere dell’umanità, l’Occidente deve rassegnarsi alla sconfitta o alla marginalità?».

Presidente Luciano Violante, nel suo libro esprime preoccupazione per le sorti della democrazia a livello mondiale: che cosa la mette in pericolo in modo particolare?

«Il fatto che non ce ne stiamo curando. La democrazia non è un bene che si trova in natura. È sempre costata lotte, guerre, morti e lutti. Va costruita e difesa giorno per giorno, altrimenti deperisce. Oggi in Occidente non lo stiamo facendo».

La democrazia è lo stato perfetto, l’Eden della convivenza politica?

«È un processo continuo basato sul rispetto tra le persone, tra le persone e le istituzioni, tra le persone e le cose. Mira alla non discriminazione, riconoscendo i bisogni e i meriti».

La democrazia ha anche dei limiti, per esempio la lentezza delle decisioni?

«Certamente, perché prevede il confronto e il confronto rallenta, ma consente di giungere a decisioni utili alla comunità. Senza confronto si decide prima, ma molto spesso peggio. È necessario cambiare le vecchie procedure, e farlo rapidamente. Le soluzioni esistono».

Quando si parla di democrazia non è il caso di aggiungere l’aggettivo reale come si faceva per il socialismo?

«Parlerei  di democrazia effettiva più che reale. La democrazia effettiva è un bilanciamento tra rappresentanza e decisione. Anni fa fui criticato quando parlai di democrazia decidente, ma trovo che sia l’espressione giusta perché indica una democrazia capace di decidere e che non si limita a rappresentare».

T. S. Eliot diceva che spesso gli uomini «sognano sistemi così perfetti da non aver più bisogno di essere buoni». È un’espressione che somiglia a quella da lei citata del presidente americano James Madison: «Pensare che una forma di governo garantisca la libertà o la felicità senza alcuna virtù nella popolazione, è una chimera».

«Innanzitutto, la democrazia si considera imperfetta, mentre  le tirannie si  presumono perfette. Detto questo, la democrazia è un processo di continuo movimento, un andare avanti… anche se a volte si va indietro. Tornando a Madison, essa ha bisogno non solo di classi dirigenti democratiche, ma pure di cittadini democratici, che rispettino i propri doveri».

A proposito delle tirannie elettive lei segnala i pericoli di quelle capeggiate da Vladimir Putin, Viktor Orbán e Recep Tayyp Erdogan, non sarebbe corretto parlare al plurale anche delle democrazie, così diverse in Germania, in Francia o in Gran Bretagna?

«Infatti. Le tirannie sono tutte uguali, le democrazie sono tutte diverse».

La democrazia decidente è un compromesso tra le tirannie elettive e le democrazie solo rappresentative?

«Non è un compromesso, ma è la vera democrazia. È un sistema  che ascolta al fine di decidere; non è un sistema che ascolta al fine di ascoltare».

L’obiettivo è governare.

«E quindi decidere. Che vuol dire scegliere, ovvero sacrificare alcuni interessi e favorirne altri».

Il presidenzialismo o un forte cancellierato potrebbero essere la soluzione?

«Il presidenzialismo, nelle sue varie forme, era un buon sistema fino a vent’anni fa, quando le società erano pacificate e non avevano bisogno di arbitri. Questo perché il presidenzialismo è un sistema duro: chi vince governa, chi perde va a casa. Oggi probabilmente non è più adeguato. Pensi al sistema americano dove alle camere si dovrebbe realizzare il bilanciamento dei poteri rispetto al Presidente. Invece  al Senato si istruisce il processo a Donald Trump mentre alla Camera la maggioranza repubblicana vuole processare Joe Biden o suo figlio. In Francia il presidente Emmanuel Macron ha tutta la società contro. In Brasile abbiamo avuto il caso di Jair Bolsonaro, un tipico esempio di presidenzialismo populista. Trovo che il cancellierato su modello tedesco sarebbe il sistema migliore anche per l’Italia».

In Germania c’è una legge elettorale proporzionale, dovremmo recuperarla anche noi?

«Si può anche fare, non c’è un sistema migliore degli altri. Il proporzionale favorisce il rapporto tra i partiti e la società e nella nostra attuale situazione potrebbe essere utile. Con partiti forti è più efficace il maggioritario, con partiti deboli quello proporzionale».

Lei indica l’assalto dei trumpiani a Capitol Hill e la rivolta dei seguaci di Bolsonaro come esempi di azioni antidemocratiche. Sono episodi estemporanei o vere minacce per la democrazia?

«Sono manifestazioni proprie delle  società non pacificate».

Quindi episodi contingenti?

«Bisogna attendere. Non sappiamo che effetti avrà sulla società americana il processo a Trump. Non sappiamo quali conseguenze avrà la ribellione a Macron, il cui governo ha superato la mozione di sfiducia per soli nove voti».

I vari populismi e l’affermarsi di partiti e movimenti sovranisti sono una reazione alla presunzione di superiorità delle élites?

«Distinguerei tra sovranismo e populismo. Il populismo individua problemi giusti offrendo soluzioni sbagliate. Mentre il sovranismo è la tendenza a rendere prioritari fattori nazionalisti. Così facendo degenera spesso nell’autoritarismo».

Le élites hanno responsabilità in queste evoluzioni?

«Le élites sono necessarie. L’importante è che non siano elitiste, cioè che vivano il loro essere élites come una responsabilità e non come un privilegio».

Non c’è un po’ di ingenuità in questa fiducia? Parafrasando Giulio Andreotti, chi ha il potere se lo tiene stretto.

«Le élite ci sono dappertutto, nella politica, nel giornalismo, nella ricerca scientifica… Non necessariamente esercitano un hard power. Spesso si tratta di soft power, di capacità d’indirizzo e di orientamento. L’importante è che le élites non si sentano tali e quindi non si mettano al vertice di una scala gerarchica. A quel punto sono solo oligarchie».

Resto scettico guardando a ciò che accade nel nostro Paese.

«Dovremmo saper distinguere tra élites e oligarchie».

Quanto è sottile la linea di separazione?

«Trovo che ci sia un confine solido: l’élite persuade, l’oligarchia comanda».

Sempre in linea teorica.

«La teoria è indispensabile per la pratica».

Le spinte populiste sono state prima un segnale e ora una reazione all’illusione della globalizzazione a guida occidentale?

«L’assalto alla Camera dei militanti trumpiani e l’invito dei “bolsonari” all’insurrezione delle forze armate in Brasile sono la conseguenza della mancata cura della democrazia. Di diversa natura è il tema della presunzione dell’Occidente di guidare la globalizzazione. È in corso la sostituzione della globalizzazione tradizionale, fondata sui mercati, con una nuova globalizzazione fondata sull’alta tecnologia».

La chiama «reintermediazione». Quanto è temibile per la democrazia il potere degli algoritmi e dei grandi marchi digitali come Apple, Microsoft, Amazon?

«Le regole europee cercano di regolare  questi oligopoli».

Per l’esercizio della democrazia è da considerare più subdolo il capitalismo o il totalitarismo della sorveglianza?

«La sorveglianza è di per sé un rischio. Ma l’esperienza ci dice che c’è più libertà nei paesi  con economie di carattere capitalistico, che in Cina o in Russia».

Nei sistemi occidentali la qualità della democrazia andrebbe correlata anche con la composizione del potere che controlla i media?

«La libertà dei mezzi di comunicazione è essenziale per il funzionamento della democrazia. Non a caso i primi poteri che i sistemi autoritari attaccano sono quello dei media e della magistratura, ovvero i poteri di controllo».

Come giudica il fatto che il rapporto di Worlds of Journalism Study (Columbia University Press, 2019) ha evidenziato che l’Italia ha i giornalisti più orientati a sinistra di tutta Europa?

«Segno che  la sinistra ha fatto un buon lavoro».

Lei cita l’instabilità dei governi italiani come fattore di debolezza democratica. Cosa si può dire del fatto che per un decennio, salvo l’anno del Conte 1, il Partito democratico ha sempre governato pur avendo perso le elezioni?

«Evidentemente è un partito capace di costruire le alleanze. Non dico che governare senza vincere le elezioni sia un fatto positivo, ma nelle democrazie parlamentari può accadere».

In questo caso élite e gruppo di potere coincidono?

«A volte coincidono, ma non sempre; le élites tendono a persuadere, non a prevaricare».

La persuasione si riscontra nel voto.

«Per governare, oltre al voto, serve la capacità di costruire alleanze».

Qual è il suo pensiero sui primi passi della neo segretaria Elly Schlein?

«È ancora presto per giudicare. Sta revisionando la macchina, non ha ancora cominciato a guidarla».

Però la segreteria l’ha composta.

«Quella è la macchina».

 E com’è?

«Le macchine si giudicano quando corrono, non quando stanno ferme».

Con Elly Schlein la trasformazione del vecchio Pci in partito radicale di massa profetizzata da Augusto Del Noce sarà più rapida?

«Non ho mai condiviso quella definizione anche perché a volte il Pd è stato un partito moderato di massa».

Con Matteo Renzi, per esempio, ma poi ha ripreso la direzione dei diritti civili: ora potrebbe accelerare?

«Un grande partito deve parlare anche di doveri senza i quali non c’è comunità. Se non bilanciati dai doveri, i diritti diventano un’illusione».

Identificare i desideri con i diritti può essere una minaccia alla corretta gestione del bene comune?

«I desideri interessano i singoli; i diritti investono la comunità e le sue istituzioni. Perciò i desideri non possono diventare automaticamente diritti».

Che sorte avranno a suo avviso i cattolici in questo Pd?

«Non sono cattolico, ma penso che  la cultura cattolica democratica è essenziale perché ci sia il Pd; altrimenti ci sarà un partito diverso».

La priorità che Elly Schlein sta dando ai diritti civili è la strada giusta per «riconnettersi con chi non ce la fa» come auspicò Enrico Letta subito dopo lo spoglio elettorale?

«In alcuni casi, come le madri che devono crescere i figli in carcere, la risposta è positiva. Ma le comunità che chiedono diritti sociali sono più ampie e più profonde rispetto a quelle che chiedono più diritti individuali. Io penso alla centralità della formazione delle giovani generazioni per una politica capace di rispondere ai bisogni e valorizzare i meriti».

 

 La Verità, 14 aprile 2023 

 

 

«Sono impaziente, però dico sempre la verità»

È il Signornò della politica italiana. Mai che qualcosa gli vada bene, che gli si senta promuovere qualcuno o qualcosa. Nei talk sbuffa, manifesta insofferenza, tutti lo temono. In questa intervista con Panorama, Massimo Cacciari parla dei 100 giorni del governo Meloni, dello sprofondo del Pd, della Chiesa post-Ratzinger e dei giovani di Ultima generazione, bocciati anche loro come le sardine.

Professor Cacciari, è una mia impressione o è più critico con il Pd che con Giorgia Meloni?

È una sua impressione. Sul Pd ho critiche radicali, con la Meloni una distanza culturale complessiva, il che non significa che non sappia apprezzare il valore storico di una donna per la prima volta presidente del consiglio in Italia, e il valore della persona per avercela fatta.

Siamo arrivati a 100 giorni di governo, sta per finire la luna di miele con gli italiani?

Le lune di miele finiscono per legge di natura. La durata del governo dipenderà da come saprà affrontare i nodi della crisi, ben oltre la stessa finanziaria.

Le sembra che si pratichino troppe correzioni di rotta?

Rispetto alle promesse elettorali. Nella sostanza si procede sul «binario Draghi» – e si sapeva bene che non poteva essere diversamente. Su quei binari mi sembra si proceda con l’accelerato.

Sapersi correggere è anche una dimostrazione di forza?

Certamente sì. Ma, le ripeto, si è corretto ben poco. Sulle accise? Ma, appunto, ogni persona ragionevole sapeva già distinguere promesse da possibilità reali. Le vere questioni riguardano come «garantire« un debito che si aggrava di giorno in giorno, e come realizzare il Pnrr.

Perché c’è poca attenzione anche da parte delle opposizioni al Pnrr?

Perché neppure loro avrebbero saputo come portarlo avanti. Soprattutto per il Sud, dove andrebbero investite il 40% delle risorse messe a disposizione.

Pandemia, guerra in Ucraina, inquinamento e riscaldamento globale: si passa da un’emergenza all’altra?

È lo «stato dell’emergenza». Questa è la questione davvero epocale. Che mette in crisi i funzionamenti elementari dello Stato democratico. Tutto sembra avvenire, come per la pandemia, per cause «naturali» – e allora è necessario siano gli «scienziati» o i «competenti» a decidere, e che le decisioni siano rapidissime -così ogni confronto e discussione si trasformano in «perdita di tempo». La verità è che occorre reinventare la nostra democrazia. Meglio però far finta di nulla e sopravvivere, come fa la nostra politica.

Gli Stati nazionali decidono sempre meno?

Sopravvivono. Contano ancora, eccome, perché nessun organismo sovra-nazionale funziona davvero, a partire dall’Onu. Ma sulle questioni globali e di fronte allo strapotere delle multinazionali e degli scambi finanziari sono, singolarmente presi, del tutto impotenti. La nostra chance è sempre quella: l’unità politica europea. Unità che si allontana sempre più.

Perché ha stupito quando ha detto che questo governo ha meno bisogno di ingraziarsi la Chiesa perché su questioni come la famiglia e l’aborto c’è già una sintonia di fondo?

Perché è ovvio sia così; sulla carta, almeno. Poi, questo governo, se vuole mantenere buoni rapporti col Vaticano, dovrà radicalmente cambiare tono su altre questioni, a partire dalla tragedia degli immigrati.

Anche sull’inverno demografico c’è intesa?

Certo. La Chiesa non può che essere per una famiglia «che generi». E così penso dovremmo essere tutti consapevoli che una civiltà che non genera più è destinata a scomparire, a prescindere dalla nostra fede o dalle nostre filosofie.

Perché le sue affermazioni spiazzano i suoi interlocutori e anche lei si irrita di fronte a certe domande?

Perché ho questo grave difetto: l’impazienza. Me ne scuso con i miei interlocutori. Per quanto riguarda le mie idee, penso che spiazzino soltanto gli ipocriti: spesso non faccio che affermare come stanno le cose puramente e semplicemente.

In un’altra occasione ha detto che Giorgia Meloni è un’esponente di destra ma non è la Le Pen, sempre spiazzando i suoi interlocutori.

La destra francese ha caratteri propri che vengono da molto lontano. Non ha da «farsi perdonare» regimi fascisti perché non ce l’ha fatta a formarli – in compenso ha pienamente collaborato coi nazisti, come i repubblichini nostrani. Ma per certi versi – integralismo, nazionalismo, anti-semitismo – è stata anche peggio di quella italiana. Io credo che Giorgia Meloni mostri di aver pienamente superato tutta questa ideologia, a differenza della Le Pen.

C’è discrepanza tra i sondaggi su Giorgia Meloni, per ciò che valgono, e l’atteggiamento prevalente dei media?

Forse. Ma i sondaggi valgono ancora meno dei media che ormai, forse con l’eccezione della tv, non formano in alcun modo l’opinione pubblica. Gli italiani da vent’anni vanno cercando qua e là un’offerta politica decente. Assaggiano Renzi, poi i 5 Stelle, poi Salvini, ora la Meloni. I voti, fuorché residui zoccoli duri, come per il Pd il quadrilatero emiliano, sono mobili qual piuma al vento.

Ha avuto qualche contraccolpo a livello di visibilità e nei rapporti personali per le posizioni critiche assunte nel pieno della pandemia?

Di visibilità e popolarità, glielo assicuro, non me ne importa nulla. Ho criticato la gestione politica della pandemia, e non certo i vaccini. E credo che i fatti mi abbiano dato ampia ragione. Ora per fortuna abbiamo svoltato, e non ha più senso parlarne.

Studiosi e intellettuali come Giorgio Agamben e Carlo Rovelli ora sono visti con diffidenza, mal tollerati?

Agamben è il filosofo italiano più conosciuto al mondo. Non ha certo bisogno della tolleranza dei media italici.

La crisi della sinistra italiana è tutta figlia di quella europea o ci mette anche del suo?

Ci mette del suo, perché la sua è una storia del tutto particolare. Non si tratta della storia di una socialdemocrazia, come più o meno in tutti gli altri Paesi europei, ma di quella di forze diverse e per un lungo periodo anche divise; non solo Pci e Psi, ma anche sinistra Dc. Comporle non era difficile, era semplicemente impossibile. Il Pd poteva nascere soltanto da un nuovo progetto, e cioè dal riconoscimento da parte di tutti i soci della conclusione delle loro rispettive esperienze. È mancata ogni analisi storica e critica, e di conseguenza ci si è arrangiati a sopravvivere sull’eredità. Ciò ha condotto a una crescente subalternità, prima culturale e poi anche pratica, alle potenze economiche e politiche che guidano i processi di globalizzazione.

Dopo la sconfitta elettorale Enrico Letta ha detto: non siamo riusciti a connetterci con chi non ce la fa. Secondo lei come può avvenire questa riconnessione?

Come si può credere a un segretario che esce con simili battute dopo una generazione che se le sente dire da tutti coloro che hanno ragionato sull’involuzione del suo partito?

Guardando al cammino intrapreso per il congresso le sembra che il Pd sia sulla buona strada?

Faccia un congresso aperto, serio, con tutto il gruppo dirigente dimissionario, con un programma che preveda un partito a struttura federale, che punta a un nuovo rapporto col territorio. Faccia tutto quello che non si sta facendo.

Per chi voterà tra i quattro candidati?

Non andrò a votare. Avrei votato Gianni Cuperlo se si fosse impegnato in questi anni in una battaglia interna dura e esplicita, formando una sua corrente.

A che cosa si deve il fatto che quasi tutti gli ultimi segretari del Pd o hanno lasciato la politica o hanno lasciato il Pd: Veltroni, Renzi, Martina, Epifani, Bersani.

In alcuni casi ai raggiunti limiti di età. Renzi non ha lasciato nulla, anzi, credo che ne sentiremo parlare ancora a lungo. Veltroni ha sbagliato tutto lo sbagliabile, lasciamo perdere. Martina mi sembrava in gamba. Ha forse i limiti caratteriali di un Cuperlo, non ama battersi.

Aprire al ritorno di D’Alema e Bersani è una buona mossa?

Non torna nessuno, mi creda.

Che cosa perde la Chiesa con la morte di Joseph Ratzinger?

La grande speranza della nuova evangelizzazione d’Europa e quella ancora più grande di una pace tra cristianesimo d’Oriente, russo, e d’Occidente.

Che cosa pensa delle proteste dei ragazzi di Ultima generazione?

Ci sono sempre stati movimenti giovanili. Emergono e affondano come le sardine… primavere senza estate. Le forme stesse della comunicazione inducono tale precarietà. Non sta a me dare consigli – odiosissimo mestiere – ma direi loro: organizzate gruppi di discussione, di studio, date vita all’interno di scuole e università a iniziative autonome. Senza pensiero critico non ci si oppone al politichese regnante.

Conserva qualche elemento di speranza o è totalmente scettico sul futuro dell’Italia?

Disperare è impossibile. Anche il suicida, diceva Giacomo Leopardi, spera qualcosa; magari di distruggere la vita di chi gli sopravvive.

Approva il presidenzialismo?

Non sono mai stato contrario al presidenzialismo in sé. Sono contrario a riforme spot, ora le Regioni, domani il Parlamento, dopodomani il presidenzialismo. Una riforma istituzionale è di sistema o non è. Mi dicano che cosa col presidenzialismo deve mutare per Parlamento, Regioni e autonomie, e poi discutiamo.

Può essere un modo per irrobustire il processo decisionale e resistere alla globalizzazione degli stati di emergenza?

Potrebbe esserlo, sì. Ma alle condizioni che ho detto.

Ha mai pensato di tornare in politica?

Forse nell’aldilà, ormai.

 

Panorama, 25 gennaio 2023

«Il Pd? Un missile che perde i suoi tre stadi»

Claudio Velardi ha preso le distanze: dalla politica e da Roma. Privilegia la famiglia, la sua fondazione Ottimisti & Razionali e la vita sana a Napoli. Ogni tanto però, l’ex Lothar di Massimo D’Alema, ora più vicino al mondo renziano, lancia un sasso dal suo blog Buchineri.org confermando la proverbiale lucidità analitica. Per esempio, nel post d’inizio 2023 si chiede: «Moriremo meloniani?».

Corre questo rischio, Velardi?

Il rischio c’è, perché, al momento, nello scenario italiano, Giorgia Meloni mi sembra la persona più ragionevole, saggia e misurata. In un contesto più generale, questo rischio non c’è perché sono globalista, mercatista, iper-laico.

Come mai le opposizioni, il Pd soprattutto, chiedono alla Meloni di avere quelle soluzioni che in tanti anni governo loro non hanno trovato?

È un atteggiamento tipico di quando si passa dal governo all’opposizione. Nel caso del Pd si nota di più perché è un partito di iper-governo. Non è stato per poco nella stanza dei bottoni. Detto questo, da molto tempo sono pregiudizialmente dalla parte del governo, di qualsiasi governo.

Perché?

Perché chi si mette in animo di governare il nostro Paese è un pazzo. Fare opposizione è più facile. Si possono dire un sacco di fregnacce, che poi, una volta al governo, non si potranno realizzare. Basta pensare al video della Meloni contro le accise nei carburanti. Governare è il mestiere più difficile del mondo, basta pensare alle riunioni di condominio.

La legge di bilancio fatta in un mese e con l’obbligo di abbattere i costi delle bollette è così brutta?

Assolutamente no, è stata un percorso obbligato dalla crisi energetica. Poi contiene qualche contentino alle categorie di riferimento, ma questo avviene in tutte le manovre.

C’è anche qualche provvedimento che apprezza?

Certo. Trovo positivi i ritocchi al reddito di cittadinanza e l’allentamento della politica dei sussidi a pioggia.

Lo spoil system va fatto o no?

Metterlo in dubbio è una sciocchezza. Chi va al governo ha diritto a scegliere persone di cui fidarsi alle quali far realizzare ciò che ha in testa. In questa polemica si combinano due fattori. Il primo è che la casta della pubblica amministrazione si ribella per principio allo spoil system; il secondo è che questo apparato è in gran parte di area Pd. Matteo Renzi portò a Palazzo Chigi Antonella Manzione, la capa dei vigili urbani di Firenze, che naturalmente non aveva i requisiti formali per quel posto. La battaglia contro la burocrazia e il deep state è il primo banco di prova di ogni governo.

Ha ragione il ministro della Difesa Guido Crosetto quando dice che di burocrazia si può morire?

Non c’è dubbio. Lui imbraccerebbe il machete, Renzi preferiva il lanciafiamme.

Luca Ricolfi ha scritto che, contestando il governo anche quando riprende idee care alla sinistra, tipo il perseguimento del merito, il Pd finisce per contraddire sé stesso.

Quando, tra i primi, il ministro Luigi Berlinguer parlò di merito fu massacrato dai sindacati. Nel Pd credo siano scioccati dalla perdita del potere. E siccome intuiscono che non sarà un fatto temporaneo, perdono anche di lucidità. Invece, il saggio dice che quando si perde, conviene non agitarsi troppo per non peggiorare la situazione e procurare piacere all’avversario.

Che cosa prevede per il congresso Pd?

Difficile farne. Il Pd è come un missile a tre stadi. Il primo stadio è la testa, costituita dal mega-apparato, le burocrazie, gli amministratori locali, i professionisti della politica. È la struttura di potere del partito, indifferente ai posizionamenti, in possesso di una buona cultura democratica e di un formale ossequio dello Stato e delle sue procedure, almeno fino a quando non si toccano i suoi interessi.

Il secondo stadio del missile?

È la pancia del partito. Cioè i militanti, sempre da galvanizzare con discorsi de sinistra, non perché ci credano, perché sanno che spesso vincono spostandosi a destra e digerendo Lamberto Dini, Romano Prodi e Matteo Renzi che pure li prendeva a schiaffi. Ma sono in perenne attesa della rivincita, votati a una causa storicamente sconfitta. Per capirci: nelle sezioni i ritratti di Lenin stanno a fianco di quelli di Enrico Berlinguer e Aldo Moro.

Il terzo stadio?

Sono gli elettori, il popolo ingenuo e speranzoso, che fiuta ciò che accade fuori e aspetta il leader messianico. È la componente che porta i voti che sono il carburante.

Come si può far ripartire il missile?

Sincronizzando testa, pancia e cuore. Mica facile. Con la testa si conquista il centro del potere, con la pancia si muovono le truppe e con il cuore ci si mette in sintonia con il mondo reale. Volendo essere generosi, si può dire che Bonaccini è la testa, la Schlein la pancia e Gianni Cuperlo forse l’unico a tenere insieme i tre elementi. Se fossi del Pd sceglierei lui.

Dario Franceschini sta con Elly Schlein.

È un uomo di apparato che prova a congiungersi alla pancia. Il suo è il calcolo cinico di un professionista della politica.

Ha detto che una come Elly Schlein arriva ogni dieci anni.

E meno male.

La parodia di Enrico Letta proposta da Maurizio Crozza dice: «Noi della direzione abbiamo molto sentito parlare di questo esterno… Come se davvero esistesse qualcosa fuori da noi…».

La testa del Pd è una gigantesca rete di apparati. Perdere il contatto con la vita reale è un dramma reale.

Infatti il numero degli iscritti precipita.

Gli iscritti crollano perché iscriversi non dà nessun potere in più. Se ti iscrivi sei carne da macello di un capocorrente e nei momenti cruciali sei scavalcato da quelli che votano nelle primarie.

Stefano Bonaccini è seguito dall’agenzia Jump Communication di Marco Agnoletto, la stessa che cura la comunicazione di Che tempo che fa, Elly Schlein dall’agenzia Social changes che ha gestito le campagne di Barack Obama.

Rispondo da comunicatore. Quando si fa politica la comunicazione deve svolgere solo una funzione di servizio perché i soggetti della politica sono i leader non i comunicatori. Quando un politico si affida a un comunicatore è già a rischio. Lo diceva Abramo Lincoln: «Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre».

La convince di più l’azione del cosiddetto Terzo polo?

Secondo me hanno troppa fretta. Sul piano delle proposte li trovo coerenti. Calenda ha presentato un programma di pochi punti. Renzi quando interviene in Parlamento mostra un’intelligenza superiore alla media. Alcuni dirigenti stanno crescendo, come Luigi Marattin. Ripeto: non devono avere fretta. Invece Calenda ha dato sei mesi di vita al governo e Renzi ha dato appuntamento al 2024, non si sa in base a cosa. Io dico: calma e gesso, facciamo governare la Meloni perché è questo che vogliono gli italiani.

Perché dalla fine della Dc nessuno è in grado d’interpretare la maggioranza silenziosa?

Probabilmente, i cosiddetti moderati lo sono un po’ meno perché, a causa delle difficoltà di questi anni, hanno cominciato a incazzarsi.

I ceti medi sono un po’ meno medi?

Le difficoltà di natura sociale li hanno avvicinati alle forze populiste. Ora, dopo l’ondata di rabbia con i 5 stelle e dintorni, vedo più ricerca di condivisione, più ripensamento. Tendenze che il Terzo polo e Forza Italia dovrebbero riuscire a interpretare.

Renzi e Calenda sono attrezzati a farlo?

Una leadership bicefala non dà troppe certezze. Da inguaribile romantico auspico un passo indietro di entrambi. Calenda potrebbe recuperare il suo profilo di amministratore, Renzi ha doti da leader che prescindono dalla necessità di governare. Facendo un passo indietro potrebbero favorire nuove leadership. Altrimenti, quanto resisterà la fedeltà dell’elettorato di riferimento?

Che impressione le ha fatto la foto di Giuseppe Conte in un hotel di lusso a Cortina d’Ampezzo dopo quella nella mensa dei poveri?

Non me ne frega niente, faccia quello che vuole. Conte continua a fare il populista, ma saranno i cittadini dello Zen di Palermo a mandarlo a casa quando vedranno che non riuscirà a difendere il loro reddito di cittadinanza. La gente normale capirà di essere stata turlupinata.

Cosa prevede per le elezioni nel Lazio e in Lombardia?

Al netto di un possibile ma difficile exploit di Alessio D’Amato nel Lazio, vincerà il centrodestra.

E lei aspetterà ancora l’Araba fenice della politica italiana o si ritirerà a vita privata come il suo amico Fabrizio Rondolino?

Non proprio come Rondolino. Continuerò ad aspettare l’Araba fenice, ma dando alla politica un’importanza sempre minore. Mi diverto di più a studiare le tendenze in atto nel mondo, che sono più positive di quanto ci raccontiamo.

 

Panorama, 18 gennaio 2023

«Io poetessa marxista non sopporto i capetti del Pd»

Intervistare Patrizia Valduga, la più grande poetessa italiana vivente, è come dare la caccia a un animale selvatico. Ritroso e inquieto. Trevigiana di nascita, milanese d’adozione, bellunese per diporto, la intercetto alla Libreria delle donne di Padova, dove la presentano come un’artista che «ci porta l’aria di una Milano che non è quella di Salvini». Pubblico adorante. Di nero vestita, come sul frontespizio di Belluno – Andantino e grande fuga (Einaudi), declama versi e riflessioni con voce mielosa. Dopo gli applausi, mi avvicino e ottengo il numero di cellulare. Però risponda, butto lì. «Non sono mica una stronza… Le interviste le faccio solo scritte, soprattutto perché temo ciò che posso dire di getto».

Quello che segue è frutto di uno scambio di mail tra una trasferta a Venezia, invitata dall’università Ca’ Foscari a parlare di Ezra Pound, e un viaggio a Friburgo: «Non mi sono ancora ripresa, sono così stanca…». L’avranno coccolata come una regina… Ha visto che le ho mandato qualche altra domanda? «Ho visto, ma lei non ha nient’altro da fare?». Sì, ma ci ho preso gusto. «Uff…».

Diva della poesia, maggiore poetessa italiana, dark lady della letteratura: in quale definizione si ritrova?

Decrepita come sono, e innamorata dei grandi come sono, mi autodefinisco «un piccolo epigono». Esisterà anche epigona, ma non mi piace.

Perché ritiene che Belluno, come ha scritto nella dedica, sia il suo libro più bello?

Perché è quello che mi ha dato più gioia mentre lo scrivevo.

Io, che sono un profano, ho trovato meravigliosi i versi di Medicamenta e altri medicamenta (Einaudi): «Nel luglio altero, lui tenero audace…»; e ancora: «Vieni, entra e coglimi…». Il medicamento è l’amore, il sesso?

Sì, capisco… Ma a me quel libro non piace più: mi nascondevo troppo dietro le citazioni. No, «medicamentum» è medicina, farmaco, ma anche veleno e filtro d’amore.

Oggi l’amore tra i sessi è ancora un’esperienza viva e vitale o è in declino, mercificata, deturpata, resa artificiale, sempre più schiava di codici, galatei, regole?

Non lo domandi a me, che in vent’anni avrò avuto sì e no sei fidanzati, e non sono durati più di quaranta giorni…

Nella prefazione a Medicamenta Luigi Baldacci scrive che la «capacità di canto e di strazio è solo delle donne, o meglio della poesia femminile (che è una categoria aperta a tutti)». Concorda?

Non ho mai capito bene cosa volesse dire… Io credo, con Jules Michelet, nei «due sessi dello spirito»; e credo che una donna che scrive, dipinge, compone abbia una parte maschile più sviluppata delle altre donne, così come un uomo che scrive, dipinge eccetera, abbia una parte femminile più sviluppata degli altri uomini.

Il #Metoo ha giovato alla passione?

Non credo: ha nuociuto molto, e perlopiù ingiustamente, a molti uomini. Come si fa a denunciare uno perché quarant’anni prima ti ha messo una mano su una chiappa?

Ha mai subito molestie o comportamenti prevaricanti degli uomini?

Temo di sì, ma in un’età così precoce che, nonostante la psicanalisi, non ne ho nessun ricordo. Certo spiegherebbe la mia nevrosi d’ansia.

Le ho sentito dire che Giacomo Leopardi è sopravvalutato. Alla sua donna non è tra le più profonde e strazianti?

È un po’ una provocazione. L’Ottocento non è solo Leopardi: ci sono almeno, oltre ai due giganti (anche rispetto a Leopardi) Porta e Belli, due grandissimi: Giovanni Prati e Niccolò Tommaseo.

In Belluno si intrecciano tre Giovanni: Raboni, Don Giovanni e il Johannes di Carl Theodor Dreyer. Che rapporto c’è tra loro?

Una persona vera, un personaggio letterario e uno cinematografico… Non può essere che il mio amore per tutti e tre.

Cosa la lega a Belluno di cui canta i monti che l’attorniano?

Ho vissuto lì ventotto anni della mia vita. I miei erano di Padova, finiti lassù per sopravvivere.

Perché, a differenza di tutte e tutti, esprime giudizi politici nei suoi componimenti?

Non credo proprio di essere la sola… Forse sono solo più esplicita.

Pubblicata nel 2019, Belluno è attualissima anche nella sua invettiva contro «i capetti del Pd» che si credono intellettuali e scrittori mentre «conoscete solo i cantautori». Giudizio tremendo…

E infatti in pochi anni sono spariti quei «capetti»… Adesso ce n’è solo uno, che farebbe meglio a sparire all’istante.

Posto che detesta i cantautori, che musica ascolta?

Amo tutta la musica classica, dal canto gregoriano fino a Giacomo Manzoni. Naturalmente ho delle preferenze: Schubert e Wagner.

Scrive che di ciò che succede nel mondo ai capi del Pd pare «non importi un fico». A lei interessa quello che succede nel Pd?

Ho votato Pci, Pds, Pd. Solo quest’anno, troppo arrabbiata, ho votato Giuseppe Conte. E continuerò a votarlo, perché mi sembra una persona appassionata e onesta.

Tornando alle donne: perché secondo lei la sinistra si è fatta battere nell’affermazione di una donna al potere?

Per me conta l’intelligenza, l’onestà, la passione. Non m’importa se è uomo, donna, o una delle innumerevoli varianti comprese tra l’uno e l’altra.

Cosa pensa di papa Francesco?

Lo ammiro, gli voglio bene, lo adoro. Sa che per me la prosa più bella è quella dei gesuiti del Seicento? Ho letto tutto Giacomo Lubrano, quasi tutto Daniello Bartoli, oltre a Sant’Ignazio, beninteso. Sono stata spesso all’archivio dei gesuiti a Roma, per la mia rivista Poesia. Sottolineo «mia», perché l’ingrato Nicola Crocetti va dicendo da anni che è sua (sul sito di Crocetti editore si legge che nei primi tre anni la rivista è stata diretta da Patrizia Valduga e da Maurizio Cucchi ndr).

Si professa comunista. Cosa vuol dire, a quale idea di comunismo si rifà?

Io ho Karl Marx in una mano e Sigmund Freud nell’altra. Lo studio dell’economia per capire il mondo, lo studio della mente per capire l’uomo. Sono idealmente comunista… Un ideale bisogna pur averlo! Oggi ci sono paesi che dicono o si dicono comunisti, ma non lo sono. C’è una frase di Kazimier Brandys che porto incisa nella mente: «Il nazismo era il male evidente, il comunismo lo stravolgimento del bene».

Ha di recente tradotto i Canti I-VI Ezra Pound (Mondadori) e prima Carlo Porta, William Shakespeare e altri classici. Come ci si accosta a questi giganti?

Tradurre i grandi mi fa bene: sto con loro, la mia mente pensa con la loro mente, anzi, esco dalla mia mente, mi prendo una vacanza da me. Che sollievo!

Un’altra domanda da profano: la traduzione di un’opera classica non dovrebbe rimanere sostanzialmente invariata? O la loro lingua è aggiornabile con il nostro linguaggio?

Ci sono traduzioni che durano, ad esempio quella di Raboni della Recherche, altre che muoiono subito. E perché durano? Perché sono belle, in una lingua bella: ci vogliono secoli perché una lingua diventi incomprensibile.

Che cos’è lo snobismo?

Voler essere quello che non si è, mostrarsi come si vorrebbe essere, copiare chi si è preso come modello da raggiungere.  In una parola: non avere una personalità forte, non essere nessuno.

La nostalgia è un sentimento ispiratore o qualcosa di incolmabile?
Cosa vuole dire per lei «incolmabile»? La nostalgia è un sentimento con cui si convive: a volte fa bene, ci spinge a dare il meglio di noi; a volte fa male, ed è quando siamo senza energia, senza elettricità vitale.

Immagino sia «incolmabile» la nostalgia di Giovanni Raboni.
Ma se sto sempre con lui! Lo conosco meglio adesso di quando ci vivevo insieme…
Ripubblicato da De Piante, ho riletto di recente il suo libriccino: I grandi scrittori? Tutti di destra. Ne condivide la tesi o era solo una provocazione?
Raboni separava nettamente l’opera dall’autore. Sì, quasi tutti i grandi scrittori sono uomini di destra, ma le loro opere non sono per niente di destra.

Perciò non va considerata vera letteratura quella militante, dalla quale, tuttavia, siamo circondati?
Sta scherzando? Ci sono anche grandi scrittori di sinistra. Un nome per tutti: Paolo Volponi.
Crede in Dio?
Credo in Dio, Allah, Jahweh, Izanagi, Tao, Brahma, Buddah, le anime degli animisti, e il Grande Spirito degli Indiani d’America.

Tra tutte queste divinità, solo il Dio cristiano cancella la distanza dall’uomo, incarnandosi.
La teologia non è alla mia portata.

Come ha vissuto il tempo della pandemia? A quali «medicamenta» ha fatto ricorso durante le quarantene?

Ho lavorato tantissimo. La mia medicina è stata il lavoro: il libro di Raboni Baudelaire e Flaubert (Einaudi) e la traduzione di Pound.

Come lenisce il pensiero della morte?

Cerco di pensarci il meno possibile. È un pensiero troppo angoscioso. E quando mi si installa dentro, penso alle tre persone care che mi accoglieranno, che ritroverò…

 

Panorama,

«Il Pd è una setta, pensa già al suo congresso»

Indisciplinato, ingenuo, inquieto. Si descrive così Tommaso Cerno, senatore uscente del Pd. Friulano, giornalista, già direttore dell’Espresso, presidenzialista convinto, è l’unico gay dichiarato in Parlamento. Ma al momento del voto di fiducia sul ddl Zan si è astenuto.

Come mai il suo nome non è comparso nella bagarre delle candidature?

«Tre mesi fa avevo chiesto a Enrico Letta di non considerarmi perché sapevo che non l’avrebbero fatto».

Motivo?

«Pago il mio quattro in condotta. Ciò che io chiamo libertà di pensiero per loro è incapacità di stare in comunità. Avrei potuto crederci se non avessero candidato Luigi Di Maio».

Con lui si sono smentiti?

«Era uno che diceva “mai con il partito di Bibbiano”.  Eliminata la condotta, potevano bocciarmi in filosofia, dove però ne so più di loro».

Come definirebbe il suo rapporto con il Pd ?

«Quello di un uomo ingenuo che credeva di essere saggio».

Spieghi.

«Pensavo di entrare in un luogo dove parlare della sinistra fosse la cosa più importante. Invece ho scoperto che si può parlare solo come vogliono loro. È così nelle sette».

Per lei è stata una prigione mentale?

«Più un deserto mentale. Mi sono sentito abbandonato mentre la carovana prendeva la sua direzione. Mesi senza ricevere una telefonata. Il senso di esclusione è ciò che mi ha fatto più male».

Pietra sopra definitiva?

«Certo. Ma continuerò a parlare più di prima della mia idea di sinistra con la scrittura e la voce di cittadino e giornalista».

Come giudica la composizione delle liste?

«È lo specchio dell’identità politica di Enrico Letta e della sua segreteria».

Ovvero?

«Ricordavo che il Pd era fatto di primarie, di gazebo, di dibattiti di piazza. Poi è arrivato Nicola Zingaretti che almeno si è portato dietro un congresso. Ora c’è il primo segretario eletto con un applauso, come al televoto. La selezione di queste elezioni si è svolta sul suo telefonino».

Letta ha ceduto alla voglia di vendetta contro i renziani?

«La cosa incredibile è che non se n’è reso conto. Letta è fuggito in Francia ed è tornato come se un congresso del Pd si fosse aperto nel 2014 e il suo compito fosse quello di chiuderlo. Peccato perché ha avuto l’occasione di rifondare la più grande e variegata sinistra che i cocci della Seconda Repubblica gli avevano messo davanti».

La vendetta è l’esclusione di Luca Lotti?

«Lotti è il diversivo. Serviva un nome forte da far sembrare il capro espiatorio. La realtà è che l’accordo con Carlo Calenda è saltato per il timore di avere uno sfidante moderato alle primarie che seguiranno il voto».

Al prossimo congresso?

«Certo. È lo stesso motivo per cui è saltato Giuseppe Conte. La prospettiva è interna al Pd perché sanno già che le elezioni sono perse. Ma questo è un tradimento delle famiglie italiane. Se togli Lotti, devi spiegarmi perché candidi Elly Schlein».

Perché?

«Per depotenziare Stefano Bonaccini, sempre in vista del congresso. L’altra donna che poteva guidare il Pd è Debora Serracchiani. Letta ha escluso Lotti e ha trasformato nel suo alter ego l’ex vicesegretaria di Matteo Renzi. Sono logiche politiche democristiane che ammiro, ma che umanamente non condivido».

Anche Monica Cirinnà è stata punita con un collegio a rischio.

«Più che Monica Cirinnà è stato punito il suo cane e mi spiace perché le bestie non hanno colpa. Le racconto un aneddoto».

Prego.

«Io sono l’unico gay dichiarato in Senato. Bene: non ho mai ricevuto una telefonata per chiedermi cosa pensassi del ddl Zan. Da finocchio in Parlamento…».

Già questo termine è un’autoesclusione.

«Lo uso perché non ho bisogno di nascondermi dietro alle parole per essere orgogliosamente me stesso».

Non si sarà astenuto sulla fiducia per ripicca?

«Il ddl Zan contiene l’85% di cose necessarie al Paese, a cominciare dalla parte contro l’odio. In Italia la legge Mancino tutela le minoranze, cita i mafiosi e le persone di colore, ma non i gay. È quasi un’istigazione di Stato a delinquere».

Insomma. Il restante 15%?

«Il 10% sono idee di sinistra culturalmente discutibili, che la destra non voleva. Infine, c’è un 5% di errore madornale sulla libertà di parola che un giornalista non avrebbe mai potuto approvare».

Infatti lei non l’ha fatto.

«Il Pd e Letta sapevano benissimo che con una piccola modifica sarebbe passato. Invece decisero che Zan era Mosè e che la legge che il Dio dei gay gli aveva consegnato era immodificabile. Il vero motivo era avere un’idea da spendere in campagna elettorale. Di fronte a questo gioco, ho provato a dire “ma” e sono subito diventato un conservatore di destra. Questi comportamenti sono delle sette, non dei partiti».

Cosa vuol dire candidare sia Andrea Crisanti che Roberto Speranza?

«Certificare due errori. Il primo è ammettere che sul Covid si è fatta una politica casuale. Se candidi il responsabile delle politiche del governo e l’uomo che lo ha più criticato vuoi la moglie ubriaca e la botte piena».

Oppure applichi il «ma anche» veltroniano?

«Io vedo il tentativo d’infondere nel corpo elettorale la sensazione di essere in pericolo, mentre pensavo che si volesse rassicurarlo».

Il secondo errore?

«Presentarsi guardando indietro, dicendo che il Covid può ancora cambiare la nostra vita».

Rimettere la pandemia al centro, vedi il «Destra no vax» di Repubblica, giova alla sinistra?

«Visto dal Nordest il titolo di Repubblica è un falso. In Friuli con Massimiliano Fedriga e in Veneto con Luca Zaia le zone gialle sono arrivate prima che altrove. La Lega di governo è stata più speranzosa di Speranza».

Come giudica la gestione della pandemia di Speranza?

«Per sistemare i guai di Speranza il prossimo governo avrà bisogno del ministro Carità. Speranza non ha capito che il diritto alla salute s’inserisce nel diritto alla vita. Non possono servire tre anni per trovare equilibrio tra salute ed economia. L’esasperazione del contrasto al virus me l’aspetto da un medico non da un politico».

Una volta il Pd candidava i magistrati oggi i virologi.

«Candidare Crisanti contro l’emergenza salute non è molto diverso da candidare Cicciolina per affermare l’autogestione del corpo. Anziché tracciare la sua strada, la politica ricorre agli specialisti. È l’ammizzione di un’inadeguatezza. Per risolvere la quadruplicazione della bolletta elettrica bisognerebbe candidare Elon Musk».

Perché firmò con Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, un ddl che introduceva il presidenzialismo?

«Perché la sinistra aveva perso le elezioni e si poteva davvero pensare di favorire un processo che permettesse ai cittadini di scegliere “tra noi e loro”, come dice ora Letta. I cittadini devono poter scegliere su tutto, non solo su un pezzetto. È quello che voleva fare Berlusconi quando mise il nome sul simbolo. Oggi se vince Salvini governa Conte, se Salvini si dimette governa ancora Conte, se cade Conte spunta Draghi».

Pur di attaccare Berlusconi, che forse è stato improvvido, il Pd nasconde quel progetto di legge?

«Berlusconi ha detto quello che ha sempre detto. Se un Paese sceglie il presidenzialismo l’eletto col sistema precedente decade. Se la riforma istituzionale diventa una trovata elettorale avremo sempre una legge fatta per sconfiggere qualcuno. Salvo poi essere smentiti come avvenne con il Rosatellum che doveva fermare i 5 stelle, che invece stravinsero. Democrazia è far decidere ai cittadini da chi vogliono essere governati».

Che cosa pensa degli accordi e disaccordi nel centrosinistra?

«Letta poteva andare da solo e provare a essere davvero il primo partito italiano. Avrebbe potuto dire ai cespugli: voi fate quello che volete, io faccio “la grande alleanza delle due P”, palazzo e piazza, con quello che resta del popolo viola, dei girotondi, del Vaffa di Grillo. Oppure poteva fare il contrario: mettere dentro tutti, da Conte a Calenda. Entrambe le strade avevano pro e contro. Il peggio è la via di mezzo, qualcuno sì e qualcuno no, perché il messaggio è confuso».

La comunicazione è efficace?

«Siamo passati da smacchiare il giaguaro ad avere gli occhi della tigre. Il fatto è che sono entrambi animali in via d’estinzione».

L’agenda Draghi è scomparsa?

«Non è mai esistita. Era la sintesi minima di un governo di emergenza nazionale nato per spendere dei soldi, quelli del Pnrr. In questo Draghi è bravo. Quando l’emergenza è diventata mondiale e i soldi bisognava trovarli, il governo è caduto».

I diritti civili, lo ius scholae, la dote per i diciottenni finanziata dalla patrimoniale sono idee vincenti?

«Sono temi su cui la sinistra dibatte da anni. Lo ius scholae è il minimo sindacale. Il ddl Zan andava bene vent’anni fa. Oggi ci sono necessità più avanzate del matrimonio egualitario. Sembrano gli esami di riparazione di una sinistra superata».

La sinistra avanzata non sarà quella del politically correct?

«La sinistra è morta allontanandosi dai poveri e dalle parolacce. Negli anni Settanta era la destra a indossare la cravatta e il doppiopetto. La sinistra era per la libertà d’espressione e chiamava la realtà col linguaggio del popolo. È la sinistra che ha sporcato i giornali, le vignette, il linguaggio… Pensare di parlare con stecca e squadra mi fa venire i brividi».

Francesco Piccolo su Repubblica ha scritto che il Pd è vittima del fuoco amico: perché secondo lei?

«Non esiste il fuoco amico, esiste la franchezza amica. Io non so se la destra stia decidendo le candidature col bastone o cantando. Credo che la sinistra abbia bisogno di qualcuno che le dice come stanno le cose. La capacità di autocritica è sempre stato un grande patrimonio della sinistra».

Chi crede davvero alle ingerenze di Medvedev sul voto italiano?

«Solo chi non capisce che la vera ingerenza arriva per posta e si chiama bolletta. Il resto sono tweet ininfluenti».

Come andrà a finire?

«Penso che gli italiani non abbiano ancora scelto. Che Giorgia Meloni sia l’unica realtà nuova è un fatto oggettivo. Tutti gli altri, da Berlusconi a Letta, da Salvini a Conte e perfino a Calenda, li abbiamo già visti governare. Gli italiani devono decidere se provarla o no, senza troppi fantasmi».

La sinistra come digerirebbe la Meloni prima donna premier?

«Con invidia. Ci riuscirebbe la destra senza quote multicolore».

Lei tornerà al giornalismo?

«Essere un libero pensatore in Parlamento non è gratificante. Ma i giornali e i libri sono anch’essi dei parlamenti dove continuerò a esprimermi con l’abituale franchezza. Sperando che i miei amici la prendano come un contributo costruttivo».

 

La Verità, 20 agosto 2022