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«In tivù siamo casinisti, in casa taciturni»

Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu li si può intervistare solo in coppia. Così vuole il loro manager, Beppe Caschetto. Potentissimo. Quindi eccoci in una trattoria di Milano vicino a Corso Sempione, zona Rai. Avete presente l’intervista doppia delle Iene? Per anni, complice la Gialappa’s, l’hanno inflitta alle loro vittime. Stavolta la subiscono.

Siete al timone di Quelli che… Masticate di calcio?

Paolo: «Io sono figlio d’arte. Nel senso che mio padre era dirigente di un club di tifosi genoani. Ricordo che una volta, da piccolo, quando rientrando da scuola gli chiesi cosa fosse la Sampdoria negò l’esistenza di un’altra squadra genoana».

Luca: «Anch’io sono genoano di famiglia. Erano tutti uniti e compatti, non avevo alternative».

Il momento più bello da tifosi?

Luca: «Nei quarti della Coppa Uefa del 1992, quando battemmo 2 a 1 il Liverpool. Siamo l’unica squadra italiana ad aver espugnato Alfield Road».

A Quelli che… la squadra deve ancora amalgamarsi.

Luca: «Abbiamo praticamente fatto un numero zero in onda. I collegamenti non erano mai stati provati. Con Mia Ceran siamo in tre a condurre una trasmissione che è molto radiofonica perché le partite di cui parliamo tutto il tempo non si vedono».

Com’è dirigere un’orchestra per dei solisti come voi?

Paolo: «S’impara facendo. Saremo un po’ meno coppia. Ognuno avrà il proprio modo d’intervenire, anche in accordo con Mia, cercando di capire quando è il momento di smettere».

Un’orchestra di strumentisti che provengono tutti dal conservatorio di Caschetto.

Luca: «Nella prima puntata c’era molto caschettismo. Al tavolo dei commentatori, però no».

Paolo: «Il cuore del programma è nei collegamenti con gli stadi. Se funzionano quelli funziona tutto. Direi che è un’orchestra jazz».

Luca: «Per dire, Giorgio Mastrota non è di Caschetto. È un amico che sa stare al gioco».

Beppe Caschetto, manager di Luca e Paolo

Beppe Caschetto, manager di Luca e Paolo e non solo

Avete trovato quel musicarello dove debuttò come attore…

Paolo: «Merito degli autori guidati da Massimo Venier che sono la vera ossatura del programma».

Avete detto: faremo come i jazzisti. Conoscete il jazz?

Paolo: «Diciamo che nasco chitarrista… e muoio presto. Ascolto dal be bop alla fusion. Però l’improvvisazione teatrale è un’altra roba».

Giass su Canale 5 non vi portò fortuna.

Luca: «Ah, ecco dove volevi arrivare. Ma Giass stava per ghiaccio in milanese, per Great Italian Association, e sì… per jazz. Era tante cose».

Tornando al calcio: voi siete come Bonucci che ha lasciato una squadra dove ha vinto tanto per diventare il leader di una in cerca di rilancio?

Luca: «Semplicemente abbiamo lavorato tanti anni in un’azienda facendo cose belle e qualcuna meno bella. A un certo punto Ilaria Dallatana, direttore di Rai 2, ci ha chiesto se volevamo lavorare insieme. Ci siamo trovati d’accordo sull’idea di rifare Camera cafè. Poi si sono aggiunte altre cose. Il nostro lavoro non cambia, cambia solo la piattaforma».

Paolo: «Comunque, presto su Canale 5 partirà Immaturi, la serie tratta dal film. Se avessimo mantenuto anche la copertina di DiMartedì avremmo fatto bingo. Magari la rifaremo».

Di Bonucci ci si chiede se sia un fuoriclasse, un campione o un ottimo giocatore: voi come vi sentite?

Paolo: «Fuoriclasse no. Siamo buoni giocatori che hanno la fortuna di lavorare molto. Quando andiamo bene, come accadde al Festival di Sanremo, c’è sempre un pizzico di stupore, figlio dell’incredulità: sorprende che riusciamo a buttarla dentro».

Luca: «Siamo degli underdog, poco considerati che superano le attese. Crozza è un fuoriclasse, noi dei jolly. Come quei giocatori che possono cavarsela in ruoli diversi, e che fanno la gioia degli allenatori».

Come vi siete lasciati con Mediaset? Avete lavorato con tutti i big del gruppo…

Paolo: «Ci siamo lasciati benissimo, ricevendo tanti in bocca al lupo. E certamente non è stato un addio».

Luca: «Si abbiamo lavorato con grandi personalità, Fatma Ruffini, Antonio Ricci, Davide Parenti e anche Maria De Filippi. Poi ognuno ha il proprio carattere. Con Ricci, che ci ha sempre dimostrato affetto e stima, la sintonia è massima».

Antonio Ricci, Maurizio Crozza e prima Beppe Grillo, poi Fabio Fazio, Carlo Freccero, Enrico Ghezzi, voi: perché in tv siete tutti liguri?

Paolo: «Perché siamo un po’ zucconi, tenaci. A Genova sei schiacciato tra mare e monti. Se non vuoi implodere o fai il cantautore triste o il comico. Poi allo Stabile c’è stata per vent’anni una delle migliori scuole di recitazione d’Italia».

Luca: «Noi, Crozza, Ugo Dighero, Maurizio Lastrico, siamo tutti usciti da lì. A Genova c’è sempre stato gran fermento, spero che ritorni. Comunque, la questione geografica è fondamentale».

Non avete bisogno di fare molta strada per andare in vacanza.

Luca: «Dipende. La mia vacanza ideale è nella Comunità di Bose, quella di Enzo Bianchi. Mi hanno detto che c’è l’obbligo del silenzio».

Non sarete persone taciturne?

Luca: «Muti o quasi. Facciamo lunghi viaggi in treno senza scambiarci una parola. Manco ciao».

Paolo: «Per due che si conoscono da 25 anni non serve parlarsi per sapere cosa pensiamo. Siamo genovesi: esiste una comunicazione che prescinde dal parlare».

Che significa essere genovesi?

Luca: «Tra il clamore e il silenzio un genovese preferisce sempre il secondo. Perché non ne ha paura, ne avverte l’urgenza di riempirlo. Meglio ascoltare che parlare».

«Le parole sono sopravvalutate», dice un personaggio di Tracks, un film di John Curran sulla storia vera di una ragazza che nel 1977 attraversò il deserto australiano.

 Luca: «Mio zio era un camallo del porto. Quando telefonava e alzavi la cornetta udivi un verso gutturale che conteneva tutto: ciao, sono lo zio, passami la mamma».

Vi facevo logorroici chiacchieroni.

Paolo: «Tutt’altro. Perciò Quelli che il calcio, dove bisogna chiacchierare tre ore, è una sfida vera».

Giorgio Gaber nel Teatro canzone che ispirò Luca e Paolo

Giorgio Gaber nel Teatro canzone che ispirò Luca e Paolo

Dove vi siete conosciuti?

Luca: «Alla scuola dello Stabile. Finita la quale io ho continuato lì, lui è andato al Teatro della Tosse. Fu Gaber a consigliare di metterci insieme. Venne in tournée a Genova, prima con Il Grigio, l’anno dopo con Il Teatro canzone. Feci una specie di voto: dato che mi scartavano sempre, se avessi superato il provino della scuola sarei andato a vedere tutti i suoi spettacoli. Stanca di vedermi, la bidella mi combinò un incontro con lui».

Paolo: «Il nostro primo spettacolo fu una specie di plagio degli ultimi vent’anni del suo Teatro canzone».

Il meglio e il peggio della televisione, secondo voi.

Paolo: «Mi ha piacevolmente sorpreso la serie di Rocco Schiavone che ho appena recuperato. Quando ho visto che il regista è Michele Soavi ho capito. In genere, le serie mi smuovono la testa. Con i reality invece m’impigrisco».

Luca: «Non guardo molta tv. Cioè, non come riempitivo. Non riguardo neanche me stesso. Però non sono schizzinoso. Pio e Amedeo di Emigratis mi fanno molto ridere. Anche se non è la prima cosa che salta agli occhi, ci vedo una tristezza e un’intelligenza rare».

Il film della vita?

Luca: «Sono indeciso tra Amadeus e Fantozzi».

Spettro ampio.

Luca: «Un altro che mi è piaciuto è L’ottavo giorno con Daniel Auteil, la storia di un uomo d’affari in crisi che si ritrova attraverso il rapporto con un ragazzo down».

Paolo: «I miei preferiti sono Il cacciatore e La dolce vita. E anche Il gusto degli altri, un film francese scritto e diretto da Agnès Jaoui».

Libro sul comodino?

Luca: «Sto leggendo La battaglia, su Waterloo, di Franco Barbero, uno storico che adoro».

Paolo: «Mi piacciono le biografie. Adesso ho attaccato L’arte della vittoria – Autobiografia del fondatore della Nike. E certe storie di imprese estreme, tra sport e follia. Di recente mi ha preso Icarus, il documentario di un regista americano che decide di fare la Haute route, una corsa che raggruppa in cinque giorni le tappe più faticose del Tour de France. Si dopa per vedere cosa succede e scopre di andare peggio dell’anno precedente in cui era pulito».

A cena con?

Luca: «Barbero, lo storico».

Paolo: «Lance Armstrong. Per chiedergli perché ha distrutto la sua stessa leggenda».

Un politico, un intellettuale, un imprenditore di cui non perdete un colpo.

Luca: «Non perdo mai la rassegna stampa di Massimo Bordin su Radio radicale».

Paolo: «Mi affascinano i grandi imprenditori. Sono amico di Cremonese, proprietario di marchi sportivi. Mi domando come fanno a essere così tranquilli gestendo aziende con 5000 dipendenti».

Avete un progetto rimasto nel cassetto?

Luca: «Per anni abbiamo sognato di portare a teatro Rosencrantz e Guildenstern sono morti. Mi sa che adesso siamo troppo vecchi, ripiegheremo su Pigna secca e pigna verde».

Paolo: «Anche portare MtvTrip negli Stati Uniti non sarebbe male. Vedere come reagiscono gli americani a due pazzi che girano su un’auto funebre potrebbe essere divertente. L’anno scorso volevamo proporlo al seguito del Giro d’Italia…».

Luca: «È un format che ha fatto scuola. Dopo MtvTrip quante inquadrature nell’abitacolo dell’auto. Come anche dopo Camera cafè, quante sit com con telecamera fissa: piloti, carcerati… In Italia se qualcuno ha un’idea, invece di farsene venire un’altra, si copia. Pensa a Masterchef».

Il momento migliore della vostra carriera?

Paolo: «Il Festival di Sanremo. Per 40 giorni sei un astronauta sulla luna… Per una cosa che in fondo è un festival della canzone. E che, un minuto dopo che è finito, ti accorgi che non era così importante».

Luca: «Anche lo spettacolo su Gaber firmato con Sandro Luporini, il suo coautore storico, è stato un bel momento. Se penso che abbiamo cominciato provando nel mio garage uno show ispirato da lui…».

Fazio è di Caschetto pure lui. Cosa pensate del suo contratto?

Luca: «In questo mondo nessuno ti regala niente. Se uno viene pagato tanto è perché vale».

Con i soldi del canone è più facile cadere in tentazione.

Paolo: «Non credo. La Rai è così. Se si finanziasse solo con il canone e facesse una sola rete come in Gran Bretagna ci sarebbero più tv commerciali e più offerta».

Luca: «E per noi artisti sarebbe un vantaggio».

 

La Verità, 17 settembre 2017