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Schlein entra nel cast della serie Che tempo che fa

No, il basso profilo e il senso della misura non sono tra le doti principali di Elly Schlein, nuovo personaggio di Che tempo che fa giunto alla ventesima stagione (Rai 3, domenica, ore 20, share del 13,4%, 2,7 milioni di telespettatori). Ormai del programma di Fabio Fazio si parla come di una serie tv tanto ricorrono, immancabili, i soliti personaggi. La neosegretaria dem si era seduta sulla poltroncina bianca accostata all’acquario non più tardi dell’11 dicembre scorso e ci è tornata a stretto giro di elezione dopo aver furbamente rintuzzato le avance di Bruno Vespa. Si sa, ognuno sceglie la poltroncina che predilige, quella dove il conforto è maggiore e Schlein ha preferito accomodarsi davanti al «fratacchione», dopo Luca Mercalli e prima di Roberto Burioni, due habitué della corte faziosa a differenza di Carlo Rovelli, intervistato nell’anteprima sul suo interessantissimo Buchi bianchi (Adelphi). «Si è risvegliata una speranza, si è riunito un popolo», ha scandito la nuova leader a commento del suo controverso successo. Con queste premesse la conversazione è scivolata via tranquilla, figurarsi se il conduttore poteva interrompere l’emozione. Schlein era raggiante, spesso con mani giunte e dita incrociate, in adorazione del gran cerimoniere del veltronismo catodico. Ha slalomeggiato tra le poche domande non compiacenti, come sull’Ucraina e sull’ipotesi di nominare Stefano Bonaccini presidente per unire tutte le anime del Pd. Per il resto ha suonato le solite note del salario minimo, della sanità pubblica e del contrasto a «queste destre», sottolineando l’«aggressione squadrista» davanti al liceo di Firenze e rispolverando Lettera a una professoressa di don Milani per criticare il recupero governativo del criterio del merito, per altro previsto dall’articolo 34 della Costituzione nonché battaglia storica della sinistra che però ora, stranamente, il nuovo Pd sta rigettando. Non ci si poteva certo aspettare che lo schieratissimo Fazio, buono con i suoi stizzoso con gli altri, glielo facesse notare. Incombevano Roberto Burioni e una sua collega rianimatrice di pronto soccorso, chiamati a spiegare cosa accade nei polmoni di chi sta annegando e ogni riferimento alla tragedia di Cutro era voluto, certamente per metterla nel conto del governo in carica. Subito dopo ecco entrare Claudio Baglioni, sodale del conduttore ai tempi di Anima mia, lo show che riprendeva il brano dei Cugini di campagna, convocati come ospiti «a sorpresa». Capirai. Con loro Fazio è sembrato più a suo agio: la parte militante della serie era stata espletata…

 

La Verità, 7 marzo 2023

Fiorello, patrimonio del divertimento italiano

Leggerezza, giocosità, buona musica, invenzione, spensieratezza: dove si trova tutto questo? Nel nuovo show di Rosario Fiorello, intitolato Fiorello presenta, con l’aggiunta del nome della città nella quale va in scena il recital. Venerdì sera è toccato a Padova. Oltre due ore di puro divertimento, concluse con l’intera platea in piedi, prima a ballare e cantare insieme allo showman, poi ad applaudirlo per i saluti finali e richiamarlo al bis. Il Teatro Geox era sold out nei suoi 2500 posti a sedere, tanto che sono state aggiunte nuove date a fine marzo, dopo che la tournée avrà toccato altre città. Sarebbe facile raccontare lo spettacolo citando le battute e i tormentoni, ma vorrebbe dire togliere il piacere della sorpresa ai prossimi spettatori. Gli show saranno sempre diversi, da una città all’altra e la contestualizzazione accentuerà la differenza. Padova, com’è noto, è la città dei «tre senza». Prato della Valle, la piazza senza il prato, il caffè Pedrocchi, senza le porte, il Santo, senza il nome. «Ma ha un con che compensa tutto: lo spritz». Fiorello usa il dialetto alla perfezione nell’intercalare del turpiloquio e di quella grinta un po’ rabbiosa dei veneti, punteggiatura della serata opposta ai Brividi lamentosi di Mahmood.

Tutto, però, è universalmente italiano. Musica, gag, brevi squarci di vita quotidiana, imitazioni volanti, karaoke in giacca color zucca e coda di cavallo, amarcord d’infanzia e di gioventù, improvvisazioni con il pubblico nel quale erano confusi il sindaco Sergio Giordani e Adriano Panatta, infilzato per tutta la sera come una bambolina. Un varietà assoluto, nel senso della versatilità dei linguaggi e delle espressioni. Ma anche nel senso delle varie età cui si rivolge e di cui, con rapido appello, Rosario ha voluto conoscere la diversa rappresentanza in sala. Se ci fosse un organismo deputato a tutelare il patrimonio dell’italico divertimento come l’Unesco sancisce la protezione dei patrimoni dell’umanità, lo showman siciliano andrebbe iscritto per primo in questa speciale categoria. Fiorello è un artista completo, compiuto, perfettamente risolto. Regalare uno spazio di piacere collettivo come ha fatto l’altra sera è qualcosa di unico. Non si tratta solo di evasione, di distrazione di massa. Le problematiche della quotidianità, soprattutto quelle connesse al rapporto tra le generazioni, non sono dimenticate, ma riproposte in chiave comica, paradossale o sull’onda di felici iperboli, con l’esito di sdrammatizzarle. Uno show in cui si parla con delicatezza del tempo che fugge veloce e della morte.

A ben guardare, c’è un’avvertenza sottesa all’intero canovaccio: la giusta distanza dalla politica. Proprio questo, in fondo, dà ariosità e freschezza a tutto lo spettacolo. Siamo persone, molto prima e molto più che militanti di qualcosa, espressione di qualche schieramento. La politica è divisiva e un filo tossica. Fiorello se ne sta alla larga, sfiorandola appena con una rapida citazione della padovana presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e con la gag innocua dei cloni di cui si servirebbero il presidente Sergio Mattarella, la regina Elisabetta d’Inghilterra e qualche altro vip. Non ci sono manierismi, gne gne salottieri, correttismi dei migliori. Ma joie de vivre, voglia di cantare e ballare, attraversando i decenni e connettendo le generazioni attraverso i generi musicali. Una delle eredità lasciate dall’ultimo Festival di Sanremo è proprio il confronto a distanza tra le diverse età e la difficoltà a intrecciarne i linguaggi. In La musica è cambiata?! (Baldini+Castoldi) lo sostiene anche Mimma Gaspari, storica promoter di Paolo Conte, Gianni Morandi e Renato Zero: i rapper e i trapper di oggi non conoscono e forse nemmeno vogliono conoscere la musica di ieri, la tradizione melodica e il mondo dei cantautori. Fiorello prova a creare questa comunicazione proponendosi come ponte tra universi paralleli, per evitare di rapportarci al rap come i nostri genitori facevano con i Bee Gees. Così I giardini di marzo surfano su una metrica sincopata e Figli di puttana di Blanco prova a trasformarsi in una ballata di Domenico Modugno. Gli Ottanta e i Novanta sono stati decenni fortunati per la fusion, il jazz rock interpretato da musicisti particolarmente talentuosi. Ma Fiorello non compie un’operazione virtuosistica, la sua comunicazione non ha niente di etico e viaggia sulle ali del divertimento, suo e nostro. Se i brani dei rapper contemporanei usano senza sfumature il turpiloquio, Gino Paoli e Tony Renis si divertivano con le metafore e i sottotesti del Cielo in una stanza e di Grande grande grande. Sul sesso non si poteva essere espliciti, eppure il linguaggio era più fresco perché non incombeva il politicamente corretto. Edoardo Vianello poteva cantare I Watussi («Nel continente nero/ Alle falde del Kilimangiaro/ Ci sta un popolo di negri…») che oggi Ghali riproporrebbe in versione urban liofilizzata. Fiorello contamina, divaga, sconfina nella musica classica citando l’Ave Maria di Schubert cantata in latino da chierichetto, fino a proporre un’ispirata versione del Padre nostro sulle note di un brano di Tiziano Ferro. Narra Elvis Presley in vacanza in Italia che si affaccia dalla Torre degli Anziani roteando il bacino e s’imbatte in Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni… Plana sull’adolescenza e la psicologia moderna che raccomanda ai genitori di dialogare senza giudicare per «non minare l’autostima dei figli» anche quando prendono tre nel compito di greco. Seguono gli omaggi senza pose ruffiane a Raffaella Carrà e Franco Battiato, il medley di karaoke, la disco anni Novanta… Tutti in piedi con Ciuri.

 

La Verità, 20 febbraio 2022

La musica gira bene, peccato le soste retoriche

La parte migliore è proprio ciò che gira intorno. La musica, appunto. E la splendida scenografia di case colorate (dove sarà?) del Teatro 1 di Cinecittà world. E poi alcuni duetti e alcune partecipazioni scanzonate pur trattandosi di canzoni. Ma anche di qualche gag leggera dispensata con tonalità affettuose nel clima generalmente amichevole. Il peggio sta invece nei monologhi accorati, nelle omelie da pensiero uniforme, nella sottolineatura dell’importanza dei testi delle canzoni, a volte un tantino grondanti: «E poi e poi e poi sarà/ che quando sento di voler salvare il mondo/ poi succede che/ è lui che salva me» (Padroni di niente). Peccato, Fiorella Mannoia. Proprio ora che si era esposta in occasione della bigotta polemica contro Grease, giudicato omofobo e misogino: «Questo politicamente corretto sta diventando insopportabile», aveva twittato, condividendo le critiche del sindaco di Bergamo Giorgio Gori, ex direttore di Canale 5. Peccato, dunque, che La musica che gira intorno sia stata farcita di troppa retorica, sui drammi della pandemia rivisitati da Ambra Angiolini o sull’amore tra due donne interrotto dalla guerra («La lettera di Valerie» da V per vendetta) recitato con occhi lacrimanti da Sabrina Impacciatore (Rai 1, venerdì, ore 21,30, share del 17%, 4 milioni di telespettatori). In apertura non era mancato anche il ricordo della Shoah di Edoardo Leo, con la citazione del colonnello inglese Mervin Willett Gonin che ha raccontato il sorprendente arrivo dei rossetti nel campo di concentramento di Bergen Belsen: era l’introduzione a Credo negli esseri umani di Marco Mengoni. E avrebbe potuto bastare come momento di riflessione.

Il meglio è arrivato invece dalla musica. A cominciare proprio da Canzone di Lucio Dalla, interpretata da Antonello Venditti e Francesco De Gregori, come incipit della serata, partita in crescendo. Con la Mannoia, versatile padrona di casa nell’affiancarsi ai tanti ospiti, soprattutto maschili. Sulle ali della nostalgia il duetto con Claudio Baglioni (Il mondo, Io che non vivo…); aperto dalla leggerezza di Panariello quello con Andrea Bocelli, concluso dall’Hallelujah di Leonard Cohen; intenso nella gara di voci quello con Giorgia, pronta all’autoironia sull’abbigliamento da lockdown; serioso quello con Luciano Ligabue; giocoso quello con Gigi D’Alessio e Achille Lauro in Tu vuo’ fa’ l’americano e Eri piccola. Introdotti dalla gag di Alessandro Siani: «La musica gira intorno perché non trova parcheggio?». Già, sarebbe un peccato se, gira che ti rigira, finisse per trovarlo in zona sinistra da salotto.

 

La Verità, 17 gennaio 2021

«Il mio splendido viaggio da Abbado alla Tamaro»

Mara Vitali, la più grande comunicatrice culturale italiana, ha chiuso lo studio  che portava il suo nome e ha detto basta. «Poi vedremo», dice. Che sia la più grande non c’è dubbio. Ha lavorato per il Teatro alla Scala e Mondadori. Ha avuto a che fare con Paolo Grassi e Rudolf Nureyev, con Michael Connelly ed Enzo Biagi, con Ivano Fossati e Susanna Tamaro. Ha curato i primi anni del Salone del libro di Torino, ha gestito la promozione del Festivaletteratura di Mantova, ha dato nuova visibilità mediatica al Vittoriale diretto da Giordano Bruno Guerri.

«È stato un lungo viaggio!», ha scritto nel messaggio di congedo: qual era il sogno alla partenza?

Andarmene dalla periferia e rendermi indipendente. Lo feci il giorno in cui diventai maggiorenne. Per la mia insegnante di tedesco battevo a macchina le traduzioni per il  Piccolo Teatro. Quando mi telefonò dicendomi di correre alla Scala dove cercavano una segretaria per l’ufficio stampa, mi precipitai. Era dicembre 1972 ed ero terrorizzata.

Quale fu il primo impatto con La Scala?

Paolo Grassi che mi chiede: «Sprechen sie deutsch?», e io gli rispondo: «Sì, un po’». Inutile dire che la sua sola presenza m’incuteva rispetto reverenziale. I primi due anni non ho aperto bocca per evitare gaffe.

Però…

Furono anni meravigliosi. Direttore musicale era Claudio Abbado, Giorgio Strehler realizzò allestimenti superlativi, Grassi portò il teatro nelle fabbriche. Io lo vedevo tutte le mattine per sottoporgli la rassegna stampa e stenografare i suoi interventi da inviare ai giornali.

Un ricordo dell’epoca?

La tournée a Mosca in piena guerra fredda, io conoscevo un po’ il russo. I giornalisti non potevano incontrare gli artisti occidentali, così chiedemmo di fare una conferenza stampa al Bolshoi e ci misero a disposizione gli uffici con i telefoni. Ma scoprimmo che non li avevano collegati, erano muti.

Poi Grassi divenne presidente della Rai.

Mi propose di andare a Roma. Ma avevo una figlia neonata e mi stavo separando, mio marito era ballerino alla Scala. Non era il momento giusto. Poi Grassi tornò a Milano e mi portò all’Electa.

Allora era più facile cambiare posto di lavoro? 

Certo. Se fossi andata male avrei avuto altre opportunità. Sapevo tre lingue… Il lavoro doveva appassionarmi. La possibilità d’imparare mi aiuta a superare la fatica.

Ci vuole una certa umiltà. Quando ha pensato: ormai ce l’ho fatta?

Quando divenni capo ufficio stampa in Mondadori. Alla Scala avevo conosciuto i critici musicali e i capiredattori degli spettacoli, all’Electa i critici d’arte, da Giovanni Testori a Federico Zeri.

Come arrivò a Segrate?

Leonardo Mondadori, direttore dell’area libri, voleva aprire una sezione dedicata all’arte e cercava qualcuno che avesse esperienza. Così nel 1984 mi presentai al colloquio e, un anno dopo, quando Ilaria Fassati se ne andò, presi il suo posto. Iniziò il periodo più strepitoso della promozione editoriale.

Cosa accadeva?

Accadeva che Giancarlo Bonacina, editor della narrativa straniera, dicesse: «Settimana prossima andiamo a New York a pranzo con Tom Wolfe perché in America esce Il falò delle vanità. Il tempo di tradurlo e uscirà anche in Italia. Dobbiamo fargli capire che Mondadori crede nel suo libro». Così mi trovai con Bonacina a pranzo con Tom Wolfe, abbagliante nel suo bianco vestito.

Con gli autori italiani filava tutto liscio?

Non sempre. Quando Sergio Zavoli pubblicò un romanzo intitolato Romanza, gli procurammo un’intervista con l’Espresso. «Ma io voglio parlare solo del libro», sentenziò. Aveva lasciato la presidenza della Rai da poco. «Presidente», dissi, «come può immaginare che l’Espresso le faccia un’intervista tutta sul libro?». S’irritò e andò da Leonardo: «Quella la devi licenziare».

Invece?

Fu affidato all’ufficio di Roma e non avemmo più motivo d’incontrarci.

Qualche tempo dopo fu lei a lasciare la Mondadori.

Durante la famosa guerra di Segrate. Era iniziata la battaglia intestina tra le famiglie, arrivò Berlusconi, poi De Benedetti, poi tornò Berlusconi.

Acque agitate.

Pensavo già di andarmene. Provavo una certa frustrazione perché nei comitati editoriali non si capiva che c’erano libri meritevoli su cui investire e altri che si vendevano da soli. Anche Laura Grandi era a disagio. Tentammo una strada indipendente e fondammo la Grandi & Vitali per offrire il pacchetto completo: agente letterario e press agent. Ma era un’idea troppo avanti e nel 1995 ci separammo. Lei fa ancora l’agente, io ho fondato la Mara Vitali Comunicazione.

Nel sito si legge: «Non esistono mai soluzioni di repertorio». Qual è il segreto per lanciare uno scrittore?

Il segreto che non è un segreto è prima di tutto leggere il libro, poi conoscere l’autore per capire le sue idiosincrasie. Infine, trovare chi nei giornali può essere interessato a quel tipo di scrittura, e seguire tutto nei dettagli.

La più grande soddisfazione della carriera?

Susanna Tamaro, per forza. Curando la promozione di Baldini e Castoldi ho seguito Va’ dove ti porta il cuore dall’inizio. La prima volta che ho visto Susanna…

Che impressione ha avuto?

Quando l’ho vista tutta accartocciata, atterrita, ho pensato che dovevo inventarmi qualcosa. Lei non voleva fare interviste, parlare con nessuno. Se il libro fosse andato dritto in mano ai critici l’avrebbero stroncato e la storia sarebbe finita. Non ho meriti, ma credo di averle fatto vendere le prime 20.000 copie. Convinsi Susanna a farsi intervistare dai femminili. È innegabile che siano state le donne a decretare il successo di Va’ dove ti porta il cuore. La soddisfazione è stata che dopo anni è tornata da me e siamo tuttora amiche.

Insuccessi?

In genere, ho sempre lavorato per libri nei quali credevo. Ricordo alcuni flop di editori che hanno creduto in potenziali che non c’erano. Per esempio il seguito di Via col vento. O il seguito di uno 007 in cui l’editore inglese obbligò a un’uscita internazionale a Londra con scena dal film sul Tamigi.

Morale?

È prosaica perché sta nel budget. Raramente si è pagati abbastanza per dedicare all’autore il tempo necessario. È andata meglio con i cantanti, Claudio Baglioni per esempio, perché la Sony investiva. Per loro Claudio era fondamentale, ma veniva da anni un po’ così. Bisognava studiare qualcosa che lo riposizionasse senza offendere la stampa musicale. Il budget era adeguato. Leggevo anche le micro-citazioni e annotavo quelle positive. Claudio fu veloce, collaborativo, intelligente.

La svolta per riqualificarlo?

Proposi a Roberto Cotroneo, capo della cultura dell’Espresso che aveva fatto il conservatorio ed era interessato alla musica un’intervista a Baglioni, senza parlare dell’album. Accettò, Claudio era sdoganato e presto vennero a galla le preferenze per le sue canzoni di tanti giornalisti che fino a quel momento non si erano esposti. La collaborazione durò 5 anni, due album e tre tour con in mezzo Anima mia in tv.

Dopo Baglioni?

Il grande Ivano Fossati e Riccardo Cocciante.

Un episodio per entrambi.

Cocciante veniva dalla Francia con Notre dame de Paris. Fu una tournée evento.

Che lo rilanciò completamente.

Tutto merito suo. Componeva le musiche, seguiva il casting delle voci. Riccardo è di una timidezza da non crederci. Con tutti i successi che ha mietuto, davanti a una domanda inattesa o a un complimento ancora arrossisce.

Fossati?

A parte l’intelligenza e le canzoni, mi ha conquistato il distacco con cui viveva la promozione. All’improvviso era introvabile: «Ivano, ormai sono al piccione viaggiatore», lo imploravo. Alla fine mi rispondeva: «Niente è più urgente di una giornata al mare». Ci scriviamo ancora adesso.

L’ultima creatura che ha svezzato è il Festivaletteratura di Mantova.

Avevo imparato molto nei primi anni Novanta al Salone del Libro di Torino. Faticoso, ma divertente. Avevo visto in faccia giornalisti che conoscevo solo al telefono. In questo mondo si mette un mattone sopra l’altro. Mantova è stata l’esperienza più totalizzante e soddisfacente perché sono stata coinvolta dalla fondazione.

La condensiamo in un episodio?

Il primo anno, 1997, venne Salman Rushdie. Era scortato dalla Digos per la fatwa dei musulmani. Un giorno, metà pomeriggio, lo vedo sfrecciare e infilarsi alla presentazione di Hanif Kureishi, con gli agenti che lo rincorrono. Mi precipitai nel tendone in tempo per assistere al litigio tra Rushdie e la capitana della Digos che minacciava di portarlo fuori di peso. Voleva solo salutare Kureishi, ma il tendone non aveva uscite di sicurezza. La troupe della Rai riprese tutto. Si arrivò a un compromesso, il questore convocò una conferenza stampa e noi rimanemmo in questura fino a notte fonda.

L’obiettivo del festival era far diventare la letteratura un fenomeno di massa?

No, era avvicinare gli scrittori ai lettori.

In Italia si pubblicano troppi libri?

Troppi di scarsa qualità. Ma sappiamo perché: gli editori devono fare fatturato e siccome si vende poco si aumentano i titoli.

Erano più grandi gli scrittori di 30-40 anni fa o lo sono quelli di oggi?

Oltre alla qualità della scrittura, bisogna rapportare i libri ai tempi in cui vengono pubblicati. Quando nel 1985 Aldo Busi scandalizzò con Vita standard di un venditore provvisorio di collant, mi divertii parecchio. Ora, leggendo Febbre di Jonhatan Bazzi, mi è tornato in mente Busi. Ma è un’altra storia.

Cosa direbbe a una ragazza che inizia ora a fare promozione culturale?

Di dedicarsi totalmente ai nuovi media.

 

Panorama, 6 gennaio 2021

I Soldi marocco-pop battono i soldi del televoto

Soldi contro Soldi? Tirandola all’estremo, si potrebbe metterla giù anche così. Perché, stringi stringi, politica a parte, la querelle post-festivaliera che agita talk show e opinionisti socio-musicali si può ridurre a una banale questione di soldi. Scritto in tondo, però. Perché sono solo quelli tirati fuori dai televotanti, due milioni circa, non quelli premiati della canzone di Mahmood.

Presentando un esposto all’Autorità per la concorrenza, ieri il Codacons ha prospettato la possibilità di un «danno economico per i cittadini». «Fino a un massimo di 51 centesimi per voto», martellavano Claudio Bisio e Virginia Raffaele una canzone sì e una no. La faccenda non è irrilevante, perché dopo aver aperto il portafoglio, fino a cinque voti per sera, non fa piacere essere platealmente sconfessati da otto signori che si godono lo spettacolo in prima fila, con tutti gli onori dei giurati d’onore. Oppure da 200 giornalisti asserragliati nella Sala Roof dell’Ariston a tifare Mahmood e insultare Il Volo stile curva da stadio. No, non fa piacere.

La Sala stampa e la Giuria d’onore hanno sovvertito i «numeri schiaccianti» del televoto in favore di Ultimo (46.5% contro il 14.1 dell’autore di Soldi), tuona il Codacons. Scagliandosi contro il meccanismo che ha «annullato e umiliato» il pubblico «con conseguenze enormi sul fronte economico, considerato che i telespettatori hanno speso soldi attraverso un televoto reso inutile dalle decisioni delle altre giurie». La riflessione su come rifare il regolamento del Festival è partita alla grande. Non senza che si continuasse a buttarla in politica come ha fatto in un tweet l’ex ministro e attuale golden boy della nuova sinistra Carlo Calenda: «Un giorno qualcuno dovrà definitivamente stabilire la completa inutilità di Codacons e affini. Al Mise avevo tagliato la maggior parte dei finanziamenti a queste fabbriche di polemiche inutili. Chissà se Di Maio li ha ripristinati». Immediata la replica dei dell’associazione in difesa dei consumatori che in un altro esposto chiedono alla Procura della Repubblica di Roma di accertare se esistono gli estremi dell’«abuso d’ufficio» dell’ex ministro ai loro danni e la sua espulsione dal Pd. Auguri.

Anche al netto delle polemiche politiche, però, l’eredità del Claudio Baglioni bis non è quella che si direbbe una spartizione armonica. Mauro Pagani, presidente della Giuria d’onore disonorata, difende l’operato suo e dei colleghi, nessuno dei quali spicca per competenza musicale. Il presidente della Rai Marcello Foa chiede una profonda revisione del regolamento. Ne ammette la necessità anche il direttore artistico in uscita: «Se il Festival vuole davvero essere una manifestazione popolare, potrebbe essere giudicato solo dal televoto», ha scandito, e chissà se il ravvedimento schiuderà la porta del Baglioni ter. Dal canto suo Foa ha osservato: «C’è stata una sproporzione, un chiaro squilibrio tra il voto popolare e una giuria composta da poche decine di persone che ha provocato le polemiche. Questo è il vero punto che deve farci riflettere. Questo sistema funziona o no? Va corretto chiaramente anche perché il pubblico si senta rappresentato». Regolamento e ruolo delle giurie da rivedere di sana pianta, dunque.

Tutti i conduttori che si sono succeduti negli anni l’hanno cambiato a propria immagine. Fino al 2012 c’era solo il televoto attraverso il quale le community dei talent show facevano vincere i reduci di Amici (Marco Carta, Valerio Scanu). Fu Fabio Fazio a reintrodurre la giurie di qualità facendole pesare sul giudizio finale quanto il televoto. Il risultato di un Festival si fa anche con la scelta dei componenti e dei presidenti delle giurie. Fazio chiamò Nicola Piovani e Paolo Virzí. Nelle sue tre edizioni, invece, Carlo Conti reintrodusse la giuria demoscopica riducendo al 30% il peso di quella di qualità e chiamando a presiedere Claudio Cecchetto, Giorgio Moroder e Franz Di Cioccio. Quest’anno il regolamento è stato ribattezzato Sanremellum, tanto è complicato. Nelle prime tre serate la classifica si componeva con il televoto (40%), Giuria demoscopica (un campione di 300 persone selezionate tra abituali fruitori di musica) e Sala stampa, entrambe al 30%. Nella quarta e quinta serata la Giuria demoscopica spariva, il televoto saliva al 50%, la Sala stampa rimaneva al 30 e la Giuria d’onore, capeggiata da Pagani, aveva il restante 20. Stilata la classifica dal 4° al 24° posto, si è rivotato da capo con le stesse percentuali.

E il Festival di Sanremo l’hanno vinto i Soldi in versione Marocco pop. E l’hanno perso i soldi del pubblico italiano.

La Verità, 12 febbraio 2019

 

 

Fenomenologia dell’Ariston correct (non è un drink)

Ah, gli esperti. I giurati di qualità. I critici specializzati. Studiati e competenti. Appollaiati nelle poltroncine dell’Ariston. Asserragliati nella sala stampa a insultare i concorrenti sgraditi. Se un brano di Marocco pop ha vinto il 69° Festival della Canzone italiana lo dobbiamo a loro. Ai sacerdoti delle sette note. Agli esperti del salottino colto. I telespettatori, il pubblico da casa, la gente che canticchia i ritornelli avevano scelto diversamente. Ora apriti cielo. Putiferio sui social. Mitragliate di giudizi. Articolesse schierate per giorni, c’è da giurarci. Sotto accusa il regolamento, i vertici Rai e il direttore artistico. E probabilmente pietra tombale sul Claudio Baglioni ter. Il quale, non a caso, a risultato ancora caldo, si è pronunciato in favore del ritorno al televoto puro e semplice: «Penso che se il festival vuole essere veramente una manifestazione popolare deve essere giudicata solo dal televoto», ha scandito. Si vedrà.

Il Festival di Sanremo è lo specchio del «Bipaese». Del Paese diviso in due. Élite da una parte, popolo dall’altra. Giurie di esperti e televoto. Una rappresentazione plastica di due mondi che non comunicano, non si integrano. Anzi, confliggono. Certo, non tutta la kermesse riproduce la divisione, ma l’esito finale sì. La 69ª edizione del Festival della Canzone italiana l’ha vinta Alessandro Mahmoud, nato a Milano da madre sarda e padre egiziano, in arte Mahmood. «Marocco pop» è la definizione che lui stesso ha dato di Soldi, il brano trionfatore. Non è questo il problema, può vincere uno o l’altro, si possono avere gusti differenti. La cosa che fa sorridere è la genesi del verdetto finale. Come ci si è arrivati. Niente crociate, sono solo canzonette. Ma a un giorno di distanza dal risultato c’è di che divertirsi. Ormai è noto, tra i tre finalisti le preferenze del televoto, che pesa per il 50%, avevano premiato la canzone di Ultimo (I tuoi particolari) con il 46,5%. Il Volo (Musica che resta) era secondo con il 39,4% e Mahmood terzo con il 14,1%. Sono state la giuria dei giornalisti (che pesa per il 30%) e quella di qualità (20%) a capovolgere il risultato scaricando su Mahmood il 63,7% dei loro voti. Risultato finale: 38,9% per Mahmood, 35,6 per Ultimo e 25,5 per Il Volo. Già prima, al momento dell’esclusione di Loredana Bertè dai posti di vertice, la classifica era stata contestata dalla platea. Subito dopo ha suscitato la reazione scomposta di Ultimo, sconfitto sul filo di lana. La notte non ha smorzato i toni: sia la Bertè sia Ultimo hanno disertato Domenica in, probabilmente in segno di protesta.

Adesso tra analisti e opinionisti social è una corsa affannosa a ridimensionare il ribaltone dell’Ariston. A dire che no, non è giurie chic contro televoto, élite contro popolo: non bisogna offrire nuovi argomenti all’allergia all’Italia meticcia di Matteo Salvini. Se non è così, offrissero una chiave di lettura alternativa e dignitosamente attendibile. Basta un giro su Twitter per capire il tenore dell’imbarazzo. Già ieri mattina Stefania Carini aveva anticipato l’andazzo: «Oggi per spiegare Sanremo 2019 sarà “voto popolare/gialloverde vs élite giuriagiornalisti/piddini”? Nel dubbio torno a dormire». Flavia Amabile della Stampa invece era sicura: «Quest’Italia in cui l’opposizione è il Festival di Sanremo», twittava sopra il link di un pezzo senza la notizia del vincitore. La sintesi sembrava buona, anche se non si capiva se approvava o ce l’aveva con il Pd e Forza Italia. Chissà; forse sarebbe stato più corretto: «Quest’Italia in cui l’opposizione sono le giurie dell’Ariston». Comunque, ecco Tommaso Labate del Corriere fare un passo avanti e dare la linea: «Chiunque butti in politica la vittoria di Mahmood regala a Salvini l’occasione di posizionarsi ancora una volta dalla parte del popolo (il televoto che aveva premiato Ultimo) contro l’élite (che han fatto vincere Mahmood). Facciamo che sono solo canzonette?». Tagliava corto Boris Sollazzo: «Mahmood vince. Salvini chiuderà il porto di Sanremo…».

Fino a prima del colpo di mano delle giurie era un festival filato liscio, nella sua modestia. Qualche monologo non riuscito, qualche altro sì e senza autocensure (Pio e Amedeo). Serata dopo serata, soprattutto Virginia Raffaele era riuscita a trovare il dosaggio giusto tra i compiti di conduttrice e il talento di comica poliedrica, erede di Anna Marchesini (superlativo il medley d’imitazioni dell’ultima sera). Certo, qualche canzone era borderline, qualche altra superflua. Ma ci sta, «nessuno è perfetto», aveva chiosato il direttore artistico. I superospiti italiani avevano compensato uno show zavorrato dall’overdose di rap e trap. E svecchiare pubblico e partecipazioni era un altro dei meriti del Festivalone che, ha enfatizzato qualcuno, aveva annullato anche l’idea che potesse sbucare da un momento all’altro gente come Al Bano o Toto Cutugno. Una grande svolta, sembrava; volendo dimenticarsi Pippo Baudo, Ornella Vanoni e Patty Pravo atterrata direttamente dal bar di Guerre stellari (copyright Renato Franco). Poi l’impennata del politicamente corretto…

Qualche anno fa il televoto determinava da solo il verdetto e le community dei talent show facevano vincere i concorrenti usciti da Amici come Marco Carta, Valerio Scanu e la stessa Emma Marrone. Fu Fabio Fazio a reintrodurre le giurie di esperti e giornalisti come correttivo della troppa democrazia attribuendo loro il 50% del giudizio. Con Carlo Conti, nella serata finale i giornalisti venivano sostituiti dalla giuria demoscopica che affiancava quella di qualità. Con Baglioni sono tornati i giornalisti.

Scorrere i nomi dei componenti la giuria di qualità, alcuni dei quali hanno anche sorprendentemnte presentato i cantanti, è istruttivo. Insieme al presidente Mauro Pagani, curriculum indiscutibile, ci sono Serena Dandini, Claudia Pandolfi, Beppe Severgnini, Elena Sofia Ricci, Ferzan Ozpetek, Camila Raznovich e Joe Bastianich la cui competenza musicale, a differenza della inclinazione politica, risulta piuttosto vaga. Quanto al ruolo dei giornalisti specializzati, bastava leggere la solita Stefania Carini in tempo reale: «Tutto il cucuzzaro sui Soldi!!!! riassunto del clima in sala stampa». Oppure guardarsi i video postati da Cosmopolitan («Sala stampa pazza di @Mahmood_Music») per vedere il tifo sfrenato e il battito a tempo con il ritornello di Soldi, oppure gli insulti al Volo al momento della comunicazione del terzo posto.

Sia chiaro: nessuno ha niente contro Mahmood, il suo timbro inconfondibile e il sound urban della canzone. È solo che il «Marocco pop» con il narghilè e il Ramadan stona un filino come vincitore del Festival della Canzone italiana.

Quello che maggiormente disturba è il fatto che pochissime persone, competenti ma politicamente orientate, pesino quanto masse di telespettatori e ascoltatori. E, agendo da squadra, riescano a capovolgerne il pronunciamento. L’ha capito anche Baglioni: «Questa mescolanza, il fatto di avere tre o quattro giurie spezzettate rischia di essere discutibile». Viene il sospetto che più che votare la canzone, i membri del salottino colto abbiano votato il cantante.

La Verità, 11 febbraio 2019

Pagelle Sanremo: vincono ospiti, Mina e Spinoza

Trio al comando (Baglioni, Bisio, Raffaele). In fondo questo 69º Sanremo è stato uno sfregio alla competenza, tipo i ministri della Prima repubblica rimbalzanti da un dicastero all’altro, con effetti noti. Di tre conduttori nessuno lo era. Se un cantautore di lunghissimo corso vuol presentare e dirigere artisticamente (3 per l’egocentrismo) è facile che incappi nel conflitto d’interessi. Troppo potere in una sola persona. Che nemmeno l’invenzione della «contiguità» virtuosa della direttora di Rai 1 Teresa De Santis (6 per lo sforzo) riesce a far digerire. Lo sapeva bene Gianni Morandi (8 a posteriori) che volle limitarsi a condurre. Se poi prendi due comici affermati e li metti a leggere il gobbo del regolamento la frittata è completa. Inevitabile che producano risate stiracchiate, vedi sketch in coppia scoppiazzati, da Giochi proibiti con la chitarra alla rovescia a Ci vuole un fiore di Sergio Endrigo (4 agli autori). Operazione ardita passare dal ruolo istituzionale alla goliardia. Arditissima passare dal voto a 51 centesimi al monologo togliendosi la giacca. Si finisce alle gag di pernacchie o a riciclare il libro del proprio autore, vero Bisio (4 per lo spaesamento)? Qualche possibilità in più ha avuto Virginia Raffaele ricorrendo all’eclettismo di showgirl, mimo, imitatrice, niente parole e pistolotti (6.5). Comunque tutti al di sotto delle loro potenzialità. Fuori ruolo.

Comici veri. La riprova è che, svincolati da altri compiti e copioni, il numero comico del Festival l’hanno fatto Pio e Amedeo spazzolando tutti, da Silvio Berlusconi a Pier Silvio Berlusconi, dallo stesso Baglioni a Pippo Baudo, con la loro verve scorretta (8). Rovinato solo dalla chiusa buonista con lunga citazione dell’ennesima canzone di Baglioni (5). Senza sconti.

Amici e compari. Più nascosti possibile, eppure la loro presenza dietro le quinte più trasparenti di sempre ha zavorrato irrimediabilmente il Festivalone. Michele Serra si è trovato con le mani legate dal ruolo di presentatore del suo assistito (4 alla reattività). Federico Salzano aveva già condizionato tutto e tutti già al momento delle selezioni (3 alla mancanza di stile), presenziando alle audizioni dei potenziali concorrenti nel camerino di Baglioni in tour. La peggior disgrazia sarebbe che vincesse un cantante Friends & Partners. Ombre lunghe.

Striscia la notizia e Dagospia. Controinformazione al caravanserraglio (8). Senza paure.

Canzoni. (5 di media) Abbinamenti azzardati: Patty Pravo e Briga. O anonimi: Federica Carta e Shade. Anche certi duetti sono sembrati sbilanciati: Noemi soverchiante Irama, Manuel Agnelli megalomane con Daniele Silvestri. O chimici, in senso lato: Achille Lauro e Morgan. Notevole invece l’apporto del violino di Alessandro Quarta al Volo. Insopportabile l’overdose incontrollata di rap (3). È dovunque, come la rucola negli anni Novanta. Quasi tutti i brani con lo stesso spartito: rap, strofa melodica, rap. Rap-presaglia.

Ospiti italiani. Idea pregevole, i momenti migliori del Festival (7.5). Andrea Bocelli con suo figlio, Antonello Venditti e Baglioni che cantano Notte prima degli esami, il medley di Raf e Umberto Tozzi che trasforma l’Ariston in discoteca, la magia di Notre dame de Paris di Riccardo Cocciante, Giorgia, Fiorella Mannoia. Peccato per certe esibizioni all’ora dei vampiri. Colonna sonora.

Spinoza Live, cioè l’account Twitter di Spinoza.it. Godimento social, stile Gialappa’s band. Antidoto, spesso macabro, al virus della piaggeria che ha inondato l’Ariston. Fulminanti molti tweet del forum. Vere chicche i profili dei cantanti. Andrebbero riportati integrali (9). Limitandosi: «Nek nasce il giorno della Befana del 1972, immaginate quanto erano stati cattivi i genitori…». Zen Circus: «Al Festival porteranno L’amore è una dittatura, di Salvini-Isoardi». Il Volo: «Si esibiscono anche alla cerimonia del Nobel per la pace, che quell’anno viene assegnata agli spettatori in sala». Simone Cristicchi: «Nel 2007 vince Sanremo con Ti regalerò una rosa, battendo numerosi cingalesi». Ex-Otago: «Il brano che portano a Sanremo si chiama Solo una canzone, ma attenti: gli effetti sono gli stessi di quando il radiologo vi dice “Solo una macchietta”». Anna Tatangelo: «Il verso “potrei lasciarmi alle spalle la parte migliore” lascia intendere che le abbiano montato le tette nuove sulla schiena». Oscar all’irriverenza.

Mina e la Tim. Quando la pubblicità è un piacere (9). Opera di Luca Josi, esempio di uomo ombra che funziona. Prima lo spot dei sognatori per il cinquantesimo dello sbarco sulla luna, con un’inedita versione di Kiss the Sky di Jason Derulo. Poi il capolavoro finale: Timtarella di luna… Ti connetti sotto i tetti… Tim Tim Tim fasci di fibra. Geniale.

Omaggi funebri. Alcuni riusciti, come quello a Lucio Battisti con Emozioni cantata da Baglioni e Marco Mengoni (8). Altri venuti male, come quello a Lelio Luttazzi, sempre Baglioni con la Raffaele (4). Poi ci sono quelli doverosi e sgrava coscienza, come per il compleanno di Fabrizio Frizzi, al quale non è mai stato proposto di condurre il Festival ma, ha rivelato Baglioni: «Io l’anno scorso ci avevo anche pensato» (3). Sorprendente la dedica di Fabio Rovazzi al papà (7) morto quando aveva 16 anni. Trascendentali.

Matteo Salvini. (7.5) Convitato di pietra evocato, citato e ritwittato. Tutti a interrogarsi sulle sue reazioni, si può o no parlare di politica? Per Bisio no, Pio e Amedeo han dimostrato che sì. Lui ha postato «Evviva #Sanremo», con selfie davanti alla tv. Ha scomunicato Achille Lauro per il sottotesto stupefacente. Vincitore morale.

La Verità, 10 febbraio 2019

Spinoza Live smaschera il festival di piaggeria

Le canzoni? Le canta, le cita o le fa citare. Dopo Claudio Bisio è toccato a Pio e Amedeo inchinarsi ai testi del cantautore-conduttore nell’esibizione più sulfurea del festival. Istruzioni a Claudio Baglioni su come fare tris nel 2020, con loro due al fianco. Anzi, mettendosi di fianco: «Magari tu fai un cartoon, una cosa tipo Baglion… se non lo prende la Rai lo vendiamo a Mediaset…». Il segreto però è niente ospiti stranieri: «Dilla tutta che lo facciamo al 100%. Prima…» «… gli italiani», ha completato lui. Ottima performance, rovinata dal pistolotto finale con citazione da Uomini persi: «Anche questi cristi/ Caduti giù senza nome e senza croci/ Son stati marinai dietro gli occhiali storti e tristi/ Sulle barchette coi gusci delle noci…». Festival di piaggeria.

«Il vincitore di Sanremo andrà all’Eurofestival. Dove potrebbe trovare Berlusconi»; «Pubblico tutto in piedi per Riccardo Cocciante. Che bastardi»; «A Patty Pravo invece dei fiori hanno consegnato le opere di bene»; «Motta canta Dov’è l’Italia? L’ha scritta durante gli scorsi Mondiali»; «Sanremo è l’apostrofo rosa tra un duetto di Baglioni e uno spot della Tim»; «Ricordiamo che in questo momento le tv del Venezuela stanno parlando della drammatica situazione a Sanremo»; «Stavo pensando che avendo vinto Sanremo Giovani l’anno scorso, Ultimo avrebbe potuto ritirarsi all’apice della carriera»; «Quando vedo duetti in cui non è coinvolto Baglioni me lo immagino dietro le quinte legato tipo Ulisse». Sono alcuni dei tweet di Spinoza Live, account di Spinoza.it, antidoto cult alla lentezza liturgica delle serate. Viva l’irriverenza.

 «Ho sempre detto di no perché è una fatica immane, ma se mi alleno bene non lo escludo». Ha risposto così Al Bano Carrisi a Giorgio Lauro e Geppi Cucciari di Un giorno da pecora che gli chiedevano se avesse mai pensato di condurre Sanremo. «Anni fa me lo proposero, ma ora sulla base delle due trasmissioni che mi hanno fatto condurre su Canale 5, ho notato che ci potrebbe essere una chiave nuova». Che sarebbe? «Basta aver visto 55 passi Nel Sole per capirlo…». Quanto all’edizione in corso Al Bano ha commentato: «Se fossi stato al posto del mio amico Baglioni avrei tagliato un po’ di più certe referenze nei miei confronti». Troppo autoreferenziale? «Sì. Ma non so se sia un difetto o un pregio». L’occhio del critico.

 Ma se non fosse stato «meno invadente dell’anno scorso» Baglioni che cosa avrebbe potuto fare? Fra i tanti, dittatore artistico è il nomignolo più adeguato al suo egocentrismo. «In realtà il Festival di Sanremo è il gruppo spalla del concerto di Baglioni», ha sintetizzato @fraguarino su Twitter. Straripante.

La Verità, 8 febbraio 2019

 

Il Festival degli «amici e compari» perde ascolti

Camminare dritti, allineati e coperti. Il binario è stretto e come ci si sposta un attimo si rischia il precipizio. È cominciato il 69° Festival di Sanremo, mancano tre serate all’alba di domenica. Di alba si deve parlare, considerata la lunghezza delle nottate dall’Ariston. Dopo l’ultima canzone la linea passa direttamente a Unomattina che inizia a scandagliare classifica e dietro le quinte. Poi, di collegamento in collegamento, si arriva alla nuova serata. Dunque, pochi margini di manovra e festival contratto, ingessato, con poca verve. Il dittatore artistico e i suoi vicepremier fanno squadra, stretti sul palco. Claudio Baglioni, Virginia Raffaele e Claudio Bisio sembrano un governo in scadenza. Non perché litigano come quello vero, ma perché il capo è stato nominato dalla dirigenza precedente.

Se si muovono di lato, diciamo a destra senza implicazioni, spuntano le insidie della politica e meglio non parlarne più come ha esortato Bisio. Se inclinano a sinistra sempre senza implicazioni, lato musica e artisti, ecco il campo minato del conflitto d’interessi con l’incombente Friends & Partners, amici e compari, ad allungarsi sul palco (s)fiorito, dove di «armonia» neanche l’ombra. A guardare verso l’alto non è che vada meglio, rapporti formali con i vertici a cominciare dal direttore di Rai 1 Teresa De Santis. Quindi, portiamo a casa il risultato e buonanotte ai suonatori, ai cantanti e anche al pubblico, estenuato e parecchio meno di quello dell’anno scorso (10,08 milioni e il 49.5% di share contro 11,6 milioni e il 52.1% del 2018): il risultato più basso dal 2008. Come mai questa débàcle? In fondo, è semplice. L’edizione numero 69 del festivalone è ripresa dove si era fermata la numero 68. Nessuna novità, nessun guizzo. Sono cambiate le spalle del direttore, il copione no. Ci si aspettava lo smalto della Raffaele, ma cambiata di ruolo risulta contratta anche lei. Non a caso dà il meglio come Mary Poppins. A questo punto l’unica parte dove voltarsi è l’autoreferenzialità, la conduzione egoriferita. Ancor più dell’anno scorso: un lungo megaconcerto di Baglioni intercalato dalle canzoni in gara. Pronti via e parte Via, cantata a tre voci. Il monologo dell’impacciato Bisio è sul direttore sovversivo di Passerotto non andare via, con incorporata caduta di stile sui migranti «paciarotti, col pentolone, che cantavano Hakuna matata». Tra una canzone e l’altra – Abbi cura di me di Simone Cristicchi la migliore, quindi non vincerà – i duetti con lo stesso Bisio, Andrea Bocelli, Giorgia. Fortuna che quest’anno il direttore-conduttore è meno invadente…

La Verità, 7 febbraio 2019

«Vorrei tornare all’Ariston da direttore artistico»

Lui il primo Festival di Sanremo l’ha presentato a 28 anni. Era il 1980, preistoria. L’alba di un decennio di svolta. Irripetibile. Visto da qui, dall’Ufficio rotondo, Milano zona San Siro, tutt’altro che archeologia. È presente, attualità, nella storia di Claudio Cecchetto: dj, talent scout, fondatore di radio, produttore musicale, manager dello spettacolo, autore e conduttore televisivo. 65 anni, nativo di Ceggia, paesino della provincia di Venezia, figlio di un camionista. Una discreta parabola. Condurre la più importante manifestazione italiana a quell’età è da vertigini. Un sogno che si avvera ancor prima di essere sognato. Come si fa a non montarsi la testa? A iniziare a guardare tutti dall’alto? E soprattutto: dopo, che si fa? Si presenta il secondo e il terzo, in rapida successione. Senza fermarsi a pensare che sei andato più veloce del tempo. Che hai preso il destino in contropiede. E che a trent’anni hai già vinto tutto, come Beppe Bergomi campione del mondo a 19 anni, nel 1982. Cose che succedevano a quei tempi.

Nella sua biografia, parlando della proposta di condurre Sanremo, scrive: «Nella mia carriera ho sempre avuto l’impressione che quando c’era qualcosa da cambiare chiamassero me».  

«È così. Poi bisogna trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Gianni Ravera mi aveva visto a Discoring e voleva rinnovare il Festival reduce da un’edizione un po’ così. Era il momento delle radio libere. Sono stato fortunato a essere il rappresentante del cambiamento. Non ero io il cambiamento, ci ero dentro. Peraltro, c’era anche un problema. Che mi guardai bene dal sollevare».

Cioè?

«Era il Festival della canzone italiana, ma io conoscevo quasi solo musica straniera. Nelle radio si mettevano dischi d’importazione, dance, new wave, rock. Ma non volevo certo porre dubbi. E siccome la fortuna aiuta gli audaci, un mese dopo seppi che, oltre all’attrice Olimpia Carlisi, nella serata finale ci sarebbe stato anche Roberto Benigni».

Claudio Cecchetto con Roberto Benigni e Olimpia Carlisi al Festival di Sanremo del 1980

Claudio Cecchetto con Roberto Benigni e Olimpia Carlisi al Festival di Sanremo del 1980

Come ricorda quei momenti? Oggi sarebbero possibili?

«Negli anni Ottanta si osava molto più di adesso. Sì, stava nascendo la tv commerciale, ma si poteva ancora sperimentare. Per me era tutto un regalo, non volevo diventare un personaggio televisivo. Il mio sogno era la radio. Avevo l’incoscienza dell’età: più che per l’opportunità professionale, ero contento che mi vedessero mio padre e mia madre».

Le è piaciuto il Festival di Claudio Baglioni?

«Mi è piaciuto, sì. Sono abituato ad aspettare prima di dare giudizi: se una proposta è diversa dalle tue aspettative non significa che sia brutta, diamole una chance. Dopo la seconda serata ho mandato questo sms a Baglioni: “Volevo farti i complimenti per Sanremo. La tua presenza in video rende piacevole tutti i contenuti del festival e grazie a te emerge anche il talento delle persone che hai scelto. Grande, un abbraccio. Ps. Mai visto il pubblico in sala a Sanremo così contento”. Questo è quello che penso».

Non c’è stato solo Fiorello.

«Perciò ho aspettato la seconda serata. Fiorello è una forza della natura, il divario è così evidente. Invece, guardando meglio, mi sono accorto che aspettavo riapparisse Baglioni. La sua presenza metteva a posto le cose, dava le misure. Michelle Hunziker e Pierfrancesco Favino sono entrambi bravi e professionali, ma è stato Baglioni la ricchezza del Festival».

Il «dittatore artistico» che ha inserito tanti artisti della Friends & Partners, la società che lo produce.

«Queste sono cattiverie per i titoli dei giornali. Se devi fare un bel Festival chiami chi fa squadra. E magari così riesci a spendere meno. Poi ci sono anche gli altri, i Negramaro non erano di Friends & Partners. Anche quando conducevo il Festivalbar dicevano: Cecchetto fa cantare i suoi, Sandy Marton, Tracy Spencer… Ma era gente affermata a livello internazionale. Conta che il pubblico sia contento e mi pare lo sia stato».

Cosa fa quando c’è Fiorello in tv? Vi sentite prima e dopo?

«Ci siamo sentiti, era contento. Fiorello non è un Robocop. Ha bisogno di avvertire affetto attorno a sé. Quando è salito all’improvviso sul palco quell’uomo, lui ci avrebbe fatto mezza serata. È un’anima sorridente, un cuore allegro, diverso da un comico».

Però fa divertire.

«Che non è solo far ridere. Ha la comicità della nostra gang, che ricorda i vecchi caffè degli artisti, dove si discuteva e si cresceva. Il posto favorisce le contaminazioni: Jovanotti che incontra Fiorello che incontra Gerry Scotti che incontra Fabio Volo che incontra Max Pezzali. Una catena del talento».

Fiorello è stato presentato come lo scaldapubblico.

«È riduttivo. Fiorello garantisce una partenza positiva. È uno generoso, preferisce essere all’inizio delle cose. Non dice: prima voglio vedere se funziona. Piuttosto, la sua partecipazione alza l’asticella per quelli che arrivano dopo».

Fiorello ospite della prima serata del Festival con Baglioni e Michelle Hunziker

Fiorello ospite della prima serata del Festival con Claudio Baglioni e Michelle Hunziker

Come fa un ragazzo nato a Ceggia, seimila anime, a diventare Claudio Cecchetto?

«Culo. Volevo intitolare Che culo il mio libro. Sottotitolo: quello che ho avuto e quello che mi sono fatto».

Ha un’immagine di questa storia?

«Ci dev’essere qualcuno lassù che ha pensato a me. Io ho cercato sempre di farmi trovare pronto e nello stesso tempo di non montarmi la testa. Ho cercato di trasmettere questa semplicità anche ai ragazzi. Quando vedevo il rischio, partiva il discorso preventivo: ricordiamoci sempre da dove veniamo, che la nostra è una condizione fortunata e non dovuta. Ringraziamo il cielo che ci sia, ma quello che abbiamo ottenuto è gratis. Ho sempre pensato che se fai bene le cose prima o poi i risultati arrivano».

Da ragazzino voleva fare il batterista. Un giorno di riposo della band andò nello studio per cambiare le pelli dei tamburi e vi trovò i suoi compagni che suonavano con un altro batterista.

«Da ragazzi si pensa che la batteria permetta di non studiare la musica. A me piaceva il ritmo. Mi piace sentire suonare bene la batteria; ma se io non la suono bene non piace neanche a me. Volevo stare in quella band, ma dopo il primo momento di stupore, mi accorsi che quel ragazzo suonava meglio. Lì è scoccata la scintilla del talent scout. Se trovo uno che sa fare bene una cosa e collaboriamo affinché si affermi, in qualche modo mi affermo con lui».

Dice Jovanotti che «il mondo di Claudio Cecchetto è un posto dove un ragazzo che mixa i dischi diventa un cantante che scrive le sue canzoni, il commesso di un panettiere diventa lo scrittore che vende di più e un animatore di villaggi diventa il più grande showman in circolazione». Scoprire e valorizzare i talenti degli altri è il talento dei talenti?

«Certamente è un talento. Bisogna vedere le persone, intravederle. Fabio Volo venne a Radio Capital per convincermi a trasmettere un suo disco. Rimanemmo mezz’ora a parlare: “Cosa ti piace fare?”. “Leggo molti libri”. Gli proposi un baratto: “Ti metto il disco a patto che tu venga a trasmettere da me”. Ero pieno di dj che sapevano solo di musica, finalmente uno che legge. Fiorello arrivò a Radio Deejay con Bernardo Cherubini, fratello di Lorenzo, che gli aveva detto che lì era pieno di ragazze. Andammo a cena e vidi subito quell’energia, un po’ grezza, ma esplosiva e incontenibile. Peraltro, lui imitava cantanti italiani e Deejay trasmetteva solo musica inglese. Poco alla volta ci siamo integrati, modernizzati, ognuno rimanendo sé stesso».

Jovanotti, Fiorello, Max Pezzali, Amadeus, Gerry Scotti, Leonardo Pieraccioni, Fabio Volo, Dj Francesco, Sandy Marton. Si parla poco di Sabrina Salerno…

«Ho prodotto il suo primo album che conteneva Boys boys boys, ma non faceva parte della mia organizzazione. Ha camminato con le sue gambe. È una figura legata agli anni Ottanta e Novanta, anche se mi risulta abbia ancora seguito in Spagna».

Sanremo e Fantastico, poi il lancio di Radio Deejay: erano gli anni delle ideologie, gli anni di piombo. Non è mai stato sfiorato dalla politica?

«Avevo così tanto da fare… Finivo un progetto ed entravo direttamente in un altro».

C’era la guerra in Italia.

«Pensavo a creare un mondo migliore con i miei mezzi. Mia sorella è psicologa e si occupa di far star bene chi soffre. Anch’io mi sono sempre occupato del benessere delle persone. Sono figlio degli anni Settanta, ero partito dagli ideali: ci sono i problemi, i conflitti, ma possiamo anche divertirci. Non mi spiegavo come mai se i giovani partono sempre di sinistra, alla fine la sinistra perdeva lo stesso. Vorrei vedere più giovani in politica. Ma non come i giovani di Sanremo, che sono istruiti dai vecchi e fanno le stesse cose dei vecchi».

È uno dei pochi ad aver lavorato in Rai, in Mediaset e con il Gruppo Espresso: come se lo spiega?

«Avevo un prodotto di successo, che per loro era un business. La radio volevo venderla a Berlusconi, ma Adriano Galliani disse che non erano interessati. Glielo dissi quando Berlusconi mi chiese: “Perché non l’hai venduta a me?”. Se volevo che Deejay crescesse dovevo associarmi a un grande marchio. Nonostante tutto, il Gruppo Espresso ha usato Deejay per la musica non come veicolo politico».

Adesso che cosa sta facendo?

«Faccio il Cecchetto, come al solito, mille cose insieme».

Ok, il progetto principale?

«Sto seguendo il tour di Max Pezzali, Nek e Francesco Renga. Era un’idea buona, ma vogliamo creare un evento musicale che vada oltre la somma dei fan dei tre artisti».

Che rapporto ha con il web?

«È la nuova frontiera del talent scout. Radio e tv sono sature e hanno tempi sempre più stretti. Internet è il pianeta dove trovare gli artisti del futuro. Con Stefano Longoni cerchiamo ragazzi da lanciare attraverso un format che abbiamo chiamato Starcube e che è il contrario di The Voice. Dentro un cubo vedo l’artista muoversi e ballare con l’audio abbassato: dev’essere la sua presenza a farmi venir voglia di alzare il volume. È il mio metodo di lavoro: non ho mai fatto provini sulla voce, è il contatto con la persona a svelarne il talento. Se mi fossi basato sull’estensione vocale forse non avrei lanciato Jovanotti».

Claudio Cecchetto con Fiorello e Max Pezzali, due degli artisti da lui lanciati

Claudio Cecchetto con Fiorello e Max Pezzali, due dei tanti artisti da lui lanciati

Accoglienza finora?

«Tiepida, ma non demordo. Oggi i dirigenti tv producono solo format garantiti. Io non voglio sostituire prodotti già in voga, ma aggiungere un’alternativa. Prima o poi produrrò una puntata pilota».

Cosa pensa dei talent show?

«Sono il matrimonio giusto tra tv e discografia. La tv ha suggerito alla discografia di fare spettacolo e non solo musica. Il primo talent show fu Castrocaro. Gli artisti di successo possono emergere anche altrove, non è colpa dei talent se non esce l’artista».

Qualcuno che le piace di più di questi anni?

«Marco Mengoni ha buone possibilità di diventare un artista storico. Del livello di Tiziano Ferro, Cesare Cremonini, Negramaro, Max Pezzali, Biagio Antonacci. L’X Factor che produce più artisti è quello inglese perché c’è Simon Cowell, un talent scout. Per un cantante è difficile giudicare un altro cantante».

Mara Maionchi?

«È una discografica, un’animale televisivo. Un piacere sentirla su qualsiasi argomento».

Il momento che ricorda con più piacere della sua carriera?

«Il Festival del 1981. Uscendo alla fine della finale, il mondo mi era cambiato davanti. La gente mi voleva abbracciare, le ragazze m’infilavano il numero di telefono in tasca, scene di fanatismo. Quella volta ho pensato ai Beatles».

E quello che le provoca dispiacere?

«Ognuno ha qualche rimpianto. Ma con la fortuna che ho avuto non è proprio il caso di lamentarsi».

Un progetto ancora da realizzare?

«Ho avuto due nascite, quella naturale a Ceggia, e quella artistica, a Sanremo. Per questo, mi piacerebbe tornare a Sanremo da direttore artistico».

In un libro sul lavoro Primo Levi scrive che si avvicina alla felicità l’uomo che riesce a far coincidere la sua passione con il mestiere.

«Le prime volte che andavo in radio non c’era lo stipendio, si mangiava gratis al ristorante in cambio della pubblicità. Non mi mancava nulla, non pensavo a guadagnare. La felicità di svegliarsi ogni giorno sapendo di fare la cosa che mi piaceva di più era appagante. Se poi ti pagano anche, è il massimo».

Non c’è il rischio che la vita coincida con il lavoro?

«Solo così si hanno grandi risultati. Una passione non prevede il part time. Per esempio, in discoteca mi annoiavo. O mettevo i dischi o niente».

Va in vacanza?

«All’Elba. Sono amico del padrone dell’hotel. Organizzo la serata di Ferragosto. Metto i dischi, li scelgo, preparo la scaletta. Una settimana di preparativi. Spotify, I-tunes, un’ora in spiaggia al giorno. Dal 16 mi annoio. Quando mi chiedono che musica metto in sottofondo, rispondo: in sottofondo non esiste, quello che faccio è in sottofondo. Per questo non posso fare l’amore con la musica».

Il genere musicale del futuro?

«La musica trap. Quella di Ghali e Sfera Ebbasta».

Come talent scout su chi scommetterebbe?

«Su Oel, quello delle Focaccine dell’Esselunga».

Diciamo che non deve fare molta strada.

«Diciamo che lo conosco bene».

Che cos’è la gratitudine?

«È un sentimento ambivalente, che serve al gratificato e al gratificante. Si deve anche stare attenti a non pretendere una gratitudine maggiore di quella che ci si merita. Quando lanci un artista è come un figlio: dev’essere libero di andare e sbagliare, senza pensare di doverti ringraziare tutta la vita. L’artista ha la sua strada, lo sa che sei suo padre. Bisogna avere le palle per essere grati. I miei artisti le hanno».

La Verità, 11 febbraio 2018