«I nostri 37 anni di amore con Ale in semi coma»
Trentasette anni di vita, di tante vite, spesi per una semi-vita. È quello che è accaduto alla famiglia Guarnieri per assistere Alessandro, morto per una crisi respiratoria sabato scorso a 54 anni. Ne aveva 17 il 15 settembre 1987 quando entrò in coma a causa di un incidente stradale. Guidava la moto del fratello, un amico sul sedile posteriore, quando un camion sbucò senza rispettare lo stop. Per trentasette anni è sopravvissuto in stato semi-vegetativo. Il paziente più longevo d’Europa. Non parlava. Non si alimentava autonomamente. Non controllava le funzioni corporee. Genitori, fratelli e amici lo hanno accudito un giorno alla volta per 13.283 giorni. Il quotidiano diventa eroico e l’eroico diventa quotidiano in silenzio. Ora il fratello Andrea, libero professionista nel campo delle politiche del lavoro, due anni più vecchio di lui, e il padre Giampaolo, ottantasettenne, mi ricevono nella casa in pieno centro a Padova.
Che cosa vi ha sostenuto in tutti questi anni?
Giampaolo Guarnieri: «La speranza di un miracolo. Forse il Signore non ci ha considerato degni. Oppure aveva piani diversi che adesso non conosciamo».
Andrea Guarnieri: «In un certo senso, si può dire che l’amore per lui di mia mamma, di mio papà, di mia nonna, di mio fratello Stefano, delle nostre mogli e dei nipoti, oltre a quello di tutte le persone che sono state vicine ad Alessandro in questi lunghi anni è stato qualcosa di miracoloso».
Giampaolo: «Si immagini che, alla prima udienza in tribunale, l’avvocato dello Stato disse che la colpa dell’incidente era di mio figlio perché a 17 anni non poteva portare un passeggero sulla moto».
Era un avvocato dello Stato perché il camion coinvolto era dell’esercito?
Giampaolo: «Della divisione Julia. Quando sentii quel discorso, urlai: “Se continua a dire queste cose la prendo a calci in culo”. Il giudice sospese l’udienza. Siamo ancora in causa per ottenere il risarcimento. Finora abbiamo chiesto i danni morali, per le lesioni e lo stato semi-vegetativo di tutti questi anni. Adesso li chiederemo per la morte derivata dall’incidente».
Andrea: «Pensi che non ci hanno mandato neanche un telegramma di scuse. E che non si è mai arrivati alla condanna penale perché ci fu l’amnistia».
Come ricordate quel giorno?
Giampaolo: «Avevo fatto tardi al lavoro e, impaziente, Alessandro era salito sulla moto di Andrea per provarla. Il camion non si era fermato all’incrocio. Mi chiamarono dall’ospedale. Dopo l’operazione dissero che Alessandro non sarebbe sopravvissuto più di 72 ore. Ci proposero di donare gli organi. Un paio d’anni prima, qui a Padova, il professor Vincenzo Gallucci aveva fatto il primo trapianto di cuore…».
Andrea: «Alessandro aveva un ematoma subdurale, un’emorragia nel cervello, le prime ore sono state le più critiche. Non prendemmo nemmeno in considerazione la donazione degli organi».
Poi che cosa accadde?
Andrea: «Alessandro rimase un mese in rianimazione. Pian piano cominciavamo a prendere coscienza della situazione. Lo trasferimmo all’ospedale di Innsbruck per traumatizzati cranici, dov’era stato ricoverato anche lo sciatore Leonardo David, finito in coma per una caduta in discesa libera. Lo operarono una seconda volta. Poi lo portammo al Montecatone di Imola, un istituto all’avanguardia per questo tipo di malati. Mia madre stava lì tutta la settimana. Mio padre li raggiungeva il sabato, con me e Stefano».
Che cure gli prestavano?
Andrea: «Faceva molta fisioterapia e riabilitazione per aiutare il cervello a recuperare le funzioni vitali. Poi continuammo la rieducazione all’ospedale di Abano. Attività in acqua, esercizi di logopedia. Infine, decidemmo di portarlo a casa. Era passato un anno».
Una volta a casa?
Andrea: «Ci accorgemmo di tutte le implicazioni che aveva una situazione che non avevamo mai affrontato. La nostra vita si adeguò. La professoressa Cecilia Morosini, una grande neuro-riabilitatrice chiamata “la signora dei risvegli”, studiò un nuovo programma che prevedeva l’ausilio di molte persone, anche cinque contemporaneamente per un esercizio al tappeto. In totale, lo aiutavano 15 persone al giorno, alcuni volontari, altri professionisti. Poi passammo all’assistenza di una persona specializzata che vivesse con noi e lui».
Alessandro aveva qualche consapevolezza della sua condizione, reagiva in qualche maniera?
Andrea: «Rideva alle nostre battute, manifestava preoccupazione se si avvicinava un medico o qualcuno di estraneo. Riusciva a entrare in comunione con le persone che lo assistevano. Sapeva trasmettere i suoi sentimenti».
Com’era la vostra giornata?
Andrea: «Quando stava “meglio”, al mattino faceva una colazione omogeneizzata con mia madre. Poi la fisioterapia fino all’ora di pranzo. Al pomeriggio riposava, merenda e ancora fisioterapia. Durante la notte mia madre si alzava per cambiargli la posizione e per qualsiasi altro bisogno».
Quando iniziò a stare meno bene?
Andrea: «Dal 2014 siamo dovuti ricorrere all’alimentazione per via nasogastrica a causa delle sue difficoltà respiratorie, ma nonostante questa limitazione aveva una qualità della vita accettabile. Purtroppo il Covid l’ha indebolito molto entrambe le volte per quanto sia stato curato con attenzione. Questo ci ha costretto a limitare la fisioterapia e anche l’unica ora a settimana che ci garantiva il servizio pubblico è venuta meno. Per il resto in questi 37 anni tutti i fisioterapisti li abbiamo pagati noi».
Voi fratelli che ruolo avevate?
Andrea: «Io e Stefano abbiamo molto aiutato finché siamo rimasti in casa. Quando ci siamo sposati lo scenario è cambiato. In due abbiamo avuto sette figli, ma non abbiamo mai smesso di dedicare tutto il nostro tempo libero a lui. Soprattutto quando nostra madre non era più al 100%. Tutte le decisioni le abbiamo condivise. Questo approccio ha garantito una sopravvivenza straordinaria ad Alessandro, visto che di solito questi malati sopravvivono sei o sette anni».
Pregavate perché avvenisse un miracolo?
Giampaolo: «Continuo a farlo anche adesso sia per mia moglie che per lui. Perché le loro anime siano accolte in paradiso e sono convinto che è così, anche se qualche volta dubito. Chi non dubita mai?».
Andrea: «Di miracolo ha parlato anche il dottor Fabio Della Valle del reparto di medicina interna quando, in seguito a una crisi respiratoria, dopo Natale è stato dimesso: per noi è un miracolo che possa tornare a casa».
Vostra madre si è assunta la parte maggiore dell’assistenza.
Andrea: «Gli ha dedicato la vita. Sperava di accompagnarlo fino alla fine. Ma a un certo punto ha capito che le possibilità si affievolivano perché stava invecchiando».
Che rapporto avete avuto con il sistema sanitario?
Andrea: «Non c’è stata un’assistenza adeguata. Al di là dei medici di base che sono sempre stati presenti, non c’è un vero servizio per questi malati. Ci siamo arrangiati. Quando per qualche crisi venivano a prenderlo con il 118 dovevamo raccontare tutto da capo perché non c’era un diario clinico condiviso. Tante volte, di fronte a un aggravamento, abbiamo firmato per portarlo a casa, perché conoscevamo la situazione meglio del personale. Riportarlo nel suo ambiente lo aiutava a stabilizzarsi».
Faccio una sintesi che potrebbe fare chi è favorevole al suicidio assistito o all’eutanasia: le vostre vite sono state determinate dalla sua non vita?
Andrea: «Non è l’espressione esatta, la sua non era una non vita. Aveva delle reazioni, si relazionava con le persone e l’ambiente. In secondo luogo, non si può scegliere per un’altra persona. Avevamo il dovere di curarlo al meglio perché abbiamo dei valori diversi. Il padre di Eluana Englaro decise di sospendere l’alimentazione. Come si può decidere per gli altri? Se Alessandro avesse fatto un testamento biologico, l’avremmo rispettato. Ma un ragazzo di 17 anni come può pensare alla fine della sua vita?».
Giampaolo: «Siccome noi cattolici crediamo nel libero arbitrio, per conto mio ognuno può scegliere se sopravvivere in un certo modo o volere il suicidio assistito. Dio ci ha dato la libertà di scegliere e non colpevolizzo chi sceglie. Critico quel padre che ha voluto la morte della figlia».
Andrea: «Il punto è che, se da un lato c’è il libero arbitrio, dall’altro ci dev’essere un sistema che garantisce i livelli adeguati di assistenza. Ma non è così. Per avere un materasso antidecubito di ricambio abbiamo atteso tre mesi, dopo 72 ore dal suo decesso sono venuti a ritirarlo. Non tutte le famiglie possono sostenere autonomamente una situazione così per 37 anni. Se sei lasciato solo, è più facile decidere di farla finita. Perché ti senti un peso per i tuoi familiari. Anche vite come quella di Alessandro hanno un valore e un significato profondo».
Guardando indietro rifareste tutto quello che avete fatto?
Andrea: «Assolutamente sì. È stata una scelta basata sul rispetto per la vita e sull’amore per un fratello che non aveva nessuna colpa. Non potevamo fare diversamente, Alessandro c’era. Certo, se oggi a 56 anni dovessi scegliere per me forse sceglierei di non affrontare tutta questa fatica, soprattutto perché non c’è un sistema di cure adeguate a questi casi».
Giampaolo: «Ma sarebbe una scelta un po’ egoistica».
Andrea: «È vero. Qui abbiamo l’esempio di Alex Zanardi che ha saputo reinventarsi con enorme coraggio».
Qual è il vostro pensiero sulla proposta di legge sul fine vita del governatore del Veneto Luca Zaia che si è discussa nei giorni scorsi?
Andrea: «Vorremmo che ci fosse vera libertà di scelta. Che non si scegliesse il suicidio assistito perché i livelli di cura non sono garantiti. Il sistema deve garantire assistenza 24 ore al giorno anche a domicilio. Allora le alternative sarebbero davvero confrontabili. Finché l’assistenza non è pensata così c’è il rischio che vinca la cultura dello scarto. È necessario espandere e rendere accessibili a tutti le cure palliative. All’università di Verona c’è un Master su questa materia».
Senza Alessandro, com’è la nuova vita?
Andrea: «La prima reazione è un senso di vuoto. Subito dopo cresce la consapevolezza di essere uscito arricchito da questa storia. Amare le persone che incontriamo al di là di quello che apparentemente possono darti, gratuitamente e senza aspettarsi nulla. È la scelta migliore per noi stessi».
Giampaolo: «Mi sento più solo, ma ho l’aiuto degli altri miei figli. Qui, sulla carrozzina non posso muovermi come vorrei. Certe volte mi sembra di non essere vivo e, dopo la perdita di Alessandro, mi vien voglia che il Signore mi prenda, anche se ho paura della morte. Anzi, non della morte: di “sora morte corporale”».
La Verità, 3 febbraio 2024