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«Il pubblico ha meno pregiudizi dei critici»

Incontro Paolo Sorrentino, ultimo Premio Oscar italiano, in un hotel di Bari durante una pausa del tour promozionale di Parthenope, il film in cui, attraverso la vita della protagonista, abbozza una meditazione sullo scorrere del tempo e il rapporto con la bellezza e l’amore.
È soddisfatto di come sta andando il film al botteghino?
«Molto, non è scontato di questi tempi. Sono felice delle reazioni di molti spettatori che lo vedono come una rappresentazione della grande avventura della vita. Non come un film bello o brutto, ma come un’emozione profonda nella quale specchiarsi e rinvenire le domande che ci corrispondono. È un lavoro con una trama emotiva e sentimentale».
Si aspettava questo successo dopo l’accoglienza della critica?
«Ero molto preoccupato perché la critica non è stata benigna. Migliore quella italiana, più aspra quella anglosassone. Fa parte del gioco».
I critici sono più freddi sui temi esistenziali?
«Non so se questa sia la chiave giusta. Ci sono due modi per vivere un film: esaminarlo nelle sue diverse parti o immergersi nel flusso dei sentimenti che affronta. Il primo modo appartiene alla critica, il secondo al pubblico. Questo fa sì che questo film piaccia di più al pubblico. Se è vero che la nostra cultura è la somma dei nostri pregiudizi, come dice Alessandro Piperno, allora, secondo me il pubblico ha meno pregiudizi».
Che cosa ha innescato questa meditazione sul tempo?
«Sono entrato in un’età in cui si comincia a interrogarsi su come è passato il tempo e come scorrerà successivamente. Mi sembra il tema dei temi… quando uno guarda alla propria vita… Trovo commovente lo scorrere del tempo, la cosa più decisiva che accade a ognuno di noi».
Chi è Parthenope?
«Una donna libera, che si ostina nel mantenimento della sua libertà. Questo la rende un personaggio epico, in un’accezione moderna dell’epico. Non rinuncia alla spontaneità e alla bellezza della seduzione».
È una donna in ricerca che non si accontenta delle risposte che offre una città caleidoscopica come Napoli?
«È una donna che si lascia vivere, quando è giovane. Forse per questo a molti risulta emozionante, ci si lascia andare a quella vertigine di estasi che tutti abbiamo provato in gioventù. Quando entra nell’età della responsabilità guarda la città più da fuori, senza lasciarsi sopraffare. E le capita di andare via».
È anche una donna che non si compromette e resta sempre un po’ distante?
«Sì. Avendo questa vocazione all’antropologia guarda la sua vita da fuori. Però a Capri si lascia andare…».
Per usare le sue chiavi interpretative, sa cos’è l’irrilevante, ma le sfugge il decisivo?
«Secondo me sa anche cos’è il decisivo, come di solito lo sanno le donne. È una generalizzazione, certo, ma mi pare che le donne sappiano sempre come stanno le cose».
Per malizia?
«No, per una forma istintiva di conoscenza della vita che le donne hanno più degli uomini».
L’intelligenza emotiva vince su quella razionale?
«È come se i presentimenti delle donne siano più vicini alla realtà di quanto lo siano i presentimenti degli uomini. La mia è una sensazione».
Parthenope non si convince a fare l’attrice, delusa dall’incontro con Greta Cool alias Sophia Loren…
«Non è Sophia Loren, ci tengo a dirlo, ma la rappresentazione di una diva di quegli anni».
In tanti abbiamo riconosciuto lei.
«Contro il mio parere, visto che l’ho creata io».
Lei è soddisfatto di essere un artista?
«Sono molto fortunato e privilegiato. Faccio un lavoro molto divertente che la maggior parte del tempo non percepisco nemmeno come lavoro».
Parthenope cerca invano una complicità d’intelligenza con lo scrittore John Cheveer: a lei il mondo della letteratura ha dato le soddisfazioni che cercava?
«Sì, ho scritto nel tempo libero, non frequento il mondo della letteratura. Hanno tutti ragione è nato nell’attesa che Sean Penn fosse libero da impegni, per non ciondolare un anno a casa in pigiama. Mi ha dato soddisfazione, è un libro che ha avuto successo e ancora viene letto».
Anche con la contestazione Parthenope non si coinvolge: lei ha partecipato ai movimenti studenteschi?
«No, sono stato adolescente negli anni Ottanta quando erano diventati più occasionali».
Il suo interesse per la politica è diminuito perché mancano figure come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi o, magari da cittadino, fa credito a qualcuno?
«Da regista è abbastanza calato. Da cittadino ho grande ammirazione per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Anche per Mario Draghi. Per il resto la scena politica m’interessa meno del passato».
Le elezioni americane l’hanno appassionata?
«Più che appassionarmi a una parte o all’altra mi sono preoccupato nel vedere che un Paese tanto importante era così coinvolto in dinamiche che hanno poco a che fare con la democrazia».
Adesso è più preoccupato?
«Francamente sì».
Non per le guerre nel mondo, però?
«Tendo a fidarmi quando una persona mostra equilibrio, saggezza e prudenza, doti che non ravviso in Donald Trump. Questo non c’entra con l’essere di destra o di sinistra».
Per la protagonista del film c’è la possibilità dell’amore e vediamo il triangolo incestuoso con il fratello e il fidanzato e il rapporto con il cardinal Tesorone: non lo sa proprio gestire questo sentimento.
«Secondo me, invece lo gestisce bene. L’amore, per definizione, è abbastanza ingestibile perché è una dinamica travolgente e quando si è travolti non si gestisce nulla. Mi sembra che il repertorio dei suoi incontri sia simile a quello di tanti di noi. Ha a che fare con le varie facce dell’amore, anche quella sordida quando incontra il camorrista. Poi è tentata dalla seduzione di una persona che, in teoria, sarebbe l’anti-seduzione come il cardinale. Ci capita di essere attratti da persone che non pensiamo possano attrarci. S’imbatte nell’amore impossibile per John Cheveer che è omosessuale. Poi c’è l’amore giovanile con il primo fidanzatino e un altro amore impossibile per il fratello, nel triangolo della nostalgia. Ho provato a raccontare le diverse imprevedibilità dell’amore».
Non è gestibile perché è un dono che ci supera?
«Non so  definire l’amore. Faccio dire al cardinale quella frase sulla sua grandezza per cui tutti provano a insegnarci a gestirlo. Ma siamo come squali che girano intorno alla preda, senza riuscire ad afferrarla».
Invece,
il rapporto tra Parthenope e il cardinale come lo definirebbe?
«Mi sembra una gentilissima, delicata, meravigliosa schermaglia di seduzione tra due esseri umani pienamente liberi e coscienti. La seduzione è bellissima perché è l’unico duello in cui si può giocare senza farsi del male».
Fino
a prima dell’atto.
«La seduzione ha a che fare con il prima, non con il sesso, che è una conseguenza marginale e non deve necessariamente accadere. Il cardinale è abilissimo perché è allenato a sedurre le anime».
Mette in relazione il miracolo di San Gennaro con il contatto fra il cardinale e Parthenope: hanno qualche ragione a risentirsi i cattolici devoti al santo?
«Per me no. Io so qual è il mio approccio alla religione, sempre rispettoso. Il fatto che metta in scena dinamiche inusuali non vuol dire che siano irrispettose, sono legate alla realtà. Il mondo è pieno di religiosi che seducono uomini e donne. E sul sangue di san Gennaro non ho detto niente di nuovo, i credenti lo reputano un miracolo, i non credenti un non miracolo».
Da The Young Pope al dissoluto cardinal Tesorone, è più incuriosito dalla Chiesa che da Gesù Cristo?
«Sì».
Però la dipinge spesso corrotta.
«Lo nego. In The Young Pope e The New Pope non era corrotta».
Molto trasgressiva?
«In mondi in cui le regole sono rigide è inevitabile trasgredire. Nelle serie mi sono sforzato di raccontare l’incredibile capacità della Chiesa di navigare da 2000 anni in acque sempre molto agitate».
I suoi conterranei si sono risentiti per l’invettiva di Greta Cool?
«I miei conterranei sanno benissimo che siamo legati alla città, ma allo stesso tempo anche autocritici».
L’antropologia è vedere, la possibilità che rimane quando tutto il resto viene a mancare, dice il professor Marotta. È per questo che l’antropologo Sorrentino vorrebbe essere invisibile?
«Sì, perché così potrei vedere veramente. Anche quello che la gente adesso non mi lascia vedere».
È incuriosito da qualcosa in particolare?
«Mi è sempre piaciuto irrompere nelle case. Se fossi invisibile potrei farlo nel migliore dei modi. Nelle case vivono i segreti».
Che cosa le fa dire che i ragazzi di oggi sono migliori di quelli del suo tempo?
«Un po’ quello che vedo quando li incontro per questo film. Poi ho due figli giovani. Mi sembra ci siano tanti luoghi comuni su di loro. Quando lo ero io, giovane, si diceva che stavamo sempre davanti alla tv, ora si dice che sono sempre davanti al telefonino. Anche se in parte è vero, a me pare che questi ragazzi sappiano ritagliarsi degli spazi per vedere le cose della vita e andarci dentro».
Mostrando così mostruoso il figlio del professor Marotta voleva rappresentare lo scandalo del dolore?
«Non ha molta importanza cosa volevo rappresentare io, lo ha di più cosa ci vede lo spettatore».
Però è una scena cercata, che fa sobbalzare
sulla poltrona.
«Ho un’idea molto ampia di bello. E quell’essere umano lì mi sembra bellissimo e stupefacente, e può essere evocativo per lo spettatore. Nel momento in cui lo devo spiegare perde di senso».
A me ha fatto pensare al
mistero del dolore.
«È qualcosa che appartiene a una generazione che ha avuto figli con dei problemi, facendoli diventare dei tabù. In casa c’era qualcosa di cui non si parlava e che non si poteva mostrare all’esterno. Marotta è un professore universitario degli anni Ottanta. Oggi non è più così».
Perché sembra spesso annoiato?
(Ride) «Lo sono come tutti. Alle volte lo sono, altre no».
La noia è un derivato dello snobismo?
«Non penso».
Convive bene con il successo?
«Sì, è un fatto che ha molti lati positivi e pochissimi negativi».
Che cosa le fa dire che «Dio non ama il mare»?
«Avevamo finito di girare alle 4 di notte e a Lanzetta, stanchissimo, è uscita quella frase, come uno sberleffo. Non le darei troppa importanza, cazzeggiavamo come ragazzi sul muretto».
Fa il paio con «Il mare mi ha deluso»
di un pensoso Renato Carpentieri in È stata la mano di Dio.
(Ride a lungo)
Che cosa appassiona Paolo Sorrentino?
«Gli esseri umani. Per il mio lavoro mi occupo di esseri umani. Quando trovo quelli che mi piacciono ci faccio i film».

 

La Verità, 9 novembre 2024

Cinque motivi (e mezzo) per salvare il clown Joker

È vero, è cominciata da un paio di giorni la Festa del cinema di Roma e, stando alle prime recensioni, abbiamo già in Berlinguer – La grande ambizione il capolavoro di stagione. Ma mentre si aspetta di andare a vedere, il 31 ottobre, l’unanimemente esaltata opera di Andrea Segre, con Elio Germano nelle vesti e nelle posture dello storico segretario del Partito comunista italiano, voglio spezzare una lancia in favore di Joker: Folie à deux che, alla Mostra del cinema di Venezia, il regista Todd Phillips ha presentato come un sequel «tutt’altro che classico, quasi una storia a sé stante». Tuttavia, siccome la critica ufficiale ha già deciso che si tratta del «più grande flop dell’anno» e di «una vera catastrofe commerciale», questa è un’operazione donchisciottesca fuori tempo massimo.

Ecco i cinque (e mezzo) buoni motivi per salvare il clown Joker.

L’interpretazione Loro due: Joaquin Phoenix e Lady Gaga, fior di attori al meglio della forma. Sciorinano entrambi un’interpretazione superlativa, perfettamente immedesimati nei ruoli. La mimica, la camminata e l’introspettiva convulsa di Arthur Fleck. Gli sguardi, l’intrigo e la passione ribelle di Harley Quinn. È un sogno, una vertigine, un’epopea di amore salvifico: «Insieme costruiremo una montagna». Straordinari i duetti, i dialoghi ravvicinati, i primissimi piani. Nella cella del carcere, quando immaginano un futuro libero dalle costrizioni e la follia sembra a portata di mano. Magnetica la sua parte, lei regge il confronto con il volto congestionato di lui. Lui non sfigura quando canta. Sono pur sempre il più grande attore e la più grande popstar in circolazione.
Il musical Scelta insolita. La storia tra il clown fragile e la sua fan, innamorata e devota, vola sulle note degli standard americani del Novecento, da Frank Sinatra a Burt Bacharach, da Gene Kelly a Nat King Cole. È il linguaggio scelto dal regista per trasmettere il lievitare della passione, per comunicare l’amore salvifico. «Io e Joaquin cantiamo perché è il modo di esprimere meglio quello che a parole non riusciamo a dirci», ha confidato Lady Gaga. I testi (rivisitati) di Gonna build a mountain, That’s entertainment, Get happy, That’s life infilati nei dialoghi sarebbero risultati melensi anziché commoventi premesse della follia. Una follia musicale, per nulla fuori contesto.

I generi Brani d’animazione, dramma carcerario, dramma giudiziario, commedia sentimentale. Il «sequel non classico» di Joker frequenta diversi registri cinematografici. Ma la storia scorre facile perché sono generi pop, che appartengono al grande pubblico. Ci si orienta facilmente nei corridoi cupi dell’Arkham State Hospital, il manicomio criminale dov’è rinchiuso Fleck/Joker in attesa di giudizio. Così come nell’aula di tribunale dove depongono i testimoni davanti al procuratore. Si comprende che i brani d’animazione, a cominciare dal prologo, suggeriscono le chiavi interpretative della storia.

La regia Avendo diretto l’adattamento cinematografico di Starsky & Hutch e la trilogia di Una notte da leoni, Phillips si muove con disinvoltura in queste situazioni. Forse non soddisferà pienamente la ricerca estetica e autoriale della critica colta, ma la storia cresce senza che mai si possa prevedere l’epilogo, mantenendo viva l’attenzione del pubblico. Più efficaci le riprese all’interno del carcere.

L’identità Dopo l’inaspettato successo del 2019, a restare delusa è soprattutto quella parte di pubblico e critica che si aspettava di vedere Joker ancora nei panni del leader antisistema. Cinque anni fa il clown dalla risata convulsa aveva interpretato la rivolta dei deboli in un momento di disorientamento generale. Poi sono arrivate la pandemia, le guerre e le ribellioni populiste e violente che hanno messo in ginocchio lo Stato sociale a tutte le latitudini. Inevitabile che il nuovo lavoro battesse altre strade. Il prologo animato annuncia che non abbiamo bisogno di altre prove e sofferenze. Ma abbiamo bisogno di amore, tutti singolarmente ne abbiamo bisogno. «Scaveremo ancora più in profondità la psiche di Joker», aveva annunciato il regista. Così ci si addentra nella sua doppia natura: il disadattato violento e la maschera da clown. Chi siamo, veramente? Siamo la stessa persona in privato e in società? O indossiamo una maschera per coprire le nostre fragilità? Joker ritrova motivazione quando incontra Harley: «Sono cambiato perché c’è qualcuno che ha bisogno di me». È qualcosa di più di un semplice sentimento. È lo svelamento di sé attraverso l’incontro con un altro. Il «tu» fa consistere l’«io». «Non c’è nessun Joker», dice Arthur Fleck nell’arringa finale, ci sono solo io. E strappa il sipario. Ma è una prospettiva che delude i seguaci. Più facile attardarsi sul progetto politico. Sull’ideologia. I fan vogliono la rivolta contro le istituzioni. E anche Harley… Resta da ascoltare la canzone finale.
Il flop annunciato Anche la critica engagé rifiuta il Joker esistenziale. Il film dev’essere un flop. Anzi, «il più grande flop dell’anno», forse della storia, secondo Variety, ripreso acriticamente dalla stampa internazionale. Anche i nostri giornali si accaniscono nell’accreditare la catastrofe di Warner Bros. Il film è costato 200 milioni di dollari, più 100 di promozione. Uscito il 2 ottobre, finora ha incassato 50 milioni in America e 165 nel mondo. Si stima che arriverà a 65 negli Usa e a 215 all’estero. Poi sarà venduto alle piattaforme. Di flop planetari se ne sono visti di peggiori.

Salviamo il clown Joker, in attesa di farci dire da Segre chi era Berlinguer.

 

La Verità, 18 ottobre 2024

Non più antisistema, Joker riscopre l’amore

Musical, dramma carcerario, dramma giudiziario, con anche qualche inserto d’animazione. Per il sequel di Joker, kolossal del 2019 che sbancò a livello mondiale, oltre un miliardo di dollari d’incasso, il regista Todd Phillips sceglie di non lesinare su generi e linguaggi. E, soprattutto, sceglie di costruire un racconto centrato sul binomio ad alta intensità interpretativa composto da Joaquin Phoenix e Lady Gaga, quest’ultima fortissimamente voluta per fare da alter ego all’eroe del primo racconto. Joker: Folie à deux è, infatti, il titolo del seguito visto ieri in anteprima qui al Lido (sarà nei cinema italiani dal 2 ottobre). Trascorsi cinque anni dal successo in odore di populismo pre Covid e pre Capitol Hill, ad attendere il nuovo lavoro c’è lo scetticismo che abitualmente circonda i sequel, tanto più dopo il Leone d’oro conquistato qui a Venezia (oltre ai due premi Oscar all’attore protagonista e alla colonna sonora e una serie di altri riconoscimenti). Puntuali, ieri in sala stampa, alcune sopracciglia inarcate. «Abbiamo atteso a lungo per riprendere in mano la storia perché volevamo creare qualcosa di totalmente inaspettato anche se si trattava di un sequel», ha argomentato Phillips. «Io e Joaquin cantiamo perché è il modo di esprimere meglio quello che a parole non riusciamo a dirci», ha confidato Lady Gaga, in grado di reggere perfettamente il confronto con un attore carismatico come Phoenix. Che rivela: «Ci siamo divertiti ad adattare anche i classici di Frank Sinatra sui nostri personaggi per dirci quello che provavamo». Nemmeno lui, però, all’inizio era convinto della realizzazione di un nuovo capitolo, «ma ben presto ci siamo accorti che non stavamo facendo un sequel, bensì un film con una storia autonoma». Una storia più profonda, forse, che sfiora temi religiosi e l’attesa dell’iniziativa dell’angelo Gabriele.
Dopo Diva futura, il lungometraggio di Giulia Louise Steigerwalt sull’agenzia che lanciò Ilona Staller, Moana Pozzi ed Eva Henger, con Pietro Castellitto nelle scarpe di Riccardo Schicchi – visione problematica per l’audio infelice quanto la recitazione in romanesco, con dizioni frenetiche al limite dell’incomprensibile – Joker 2 sembra iniziare proprio là dove la storia sulle pornostar di successo termina. Vari preti rifiutano il funerale in chiesa di Schicchi fin quando il richiedente non mostra la corposa busta ripiena di banconote. Dentro l’Arkham state hospital di Gotham city, invece, dove adesso un Arthur Fleck-Joker più che mai scheletrico è recluso in attesa di giudizio, nella barzelletta che un secondino gli racconta, è un cane ad ambire alle esequie religiose. Ma il sacerdote cede solo quando il suo affezionato padrone gli parla di 2000 dollari: «Non mi avevi detto che il tuo cane era cattolico». Lo spettrale Arthur Fleck, però, non ride.
Del resto, Joker ha esaurito la vena clownesca con la quale divertiva le guardie che ora lo trattano con deferenza perché il processo, con annessa esposizione mediatica, è imminente. Su di lui è stato fatto anche un film che lo ha reso ancora più popolare di quanto già fosse prima dell’arresto per l’assassinio di cinque persone, ultimo dei quali un famoso anchorman (Robert De Niro), freddato in diretta. Allo scopo di tenerlo buono in vista del dibattimento in aula, Arthur-Joker viene inserito nel coro di un istituto frequentato anche da donne, dove incontra l’avvenente e devota Harley Quinn (Lady Gaga). Per conquistarlo, Harley gli racconta di esser cresciuta nel suo stesso quartiere, di aver subito la perdita del padre e le vessazioni della madre, e di aver visto decine di volte il suo magnifico film. La scintilla scocca, inevitabile. La coppia tenta anche una scenografica, ma velleitaria fuga. Tuttavia, l’accendersi della passione e la dedizione di Harley, commovente negli incontri ravvicinati dietro le sbarre, non possono che convincere Arthur a giocarsi la difesa al processo nella speranza di costruirsi un futuro. Ora non è più solo, «insieme costruiremo una montagna», è la promessa reciproca dei reietti innamorati. Ma visto che niente è come sembra, nella prima mezz’ora succedono più cose che in tutto Queer di Luca Guadagnino.
Più esistenziale e introspettivo, secondo quanto aveva promesso il regista quando aveva accettato l’invito di Warner Bros al sequel («scaveremo ancora di più nella psiche di Fleck»), questo nuovo lavoro abbandona gli eccessi della rivolta antipotere alimentata dal clown-giustiziere nel precedente. «Ma questo film non è una risposta alla critica di nichilismo rivolta al primo Joker», sottolinea Phillips. È un film che cammina da solo e contiene la presa di coscienza dell’eroe, la comprensione che serve l’amore di qualcun altro per essere sé stessi. Anche a costo di prendere le distanze da un progetto apparentemente buono e dalle migliori intenzioni dei suoi stessi seguaci. Insomma, dall’ideologia che non salva. Lo può fare un evento totalmente altro, che s’intuisce appena nell’ultima canzone del musical. Buona visione.

 

La Verità, 5 settembre 2024

 

 

 

 

 

 

«Perché la Chiesa non può addolcire l’etica sessuale»

Il cardinale Willem Jacobus Eijk, arcivescovo metropolita di Utrecht, già presidente della Conferenza episcopale dei Paesi bassi, ha da poco pubblicato Sull’amore – Matrimonio ed etica sessuale. Grazie all’editore Cantagalli, che lo distribuisce in Italia, ho realizzato questa intervista via mail. Spiace che il coraggio mostrato sostenendo i Dubia riguardo all’Amoris Laetitia non abbia aiutato Sua Eminenza a rispondere alle domande sull’esortazione apostolica di papa Francesco, sulla Fiducia supplicans e sull’Ultima cena queer dell’inaugurazione delle Olimpiadi.
Eminenza reverendissima, la morale sessuale è il terreno in cui oggi si registra la distanza maggiore fra mondo e Chiesa?
«È certamente così. Nell’annunciare Cristo e la sua risurrezione, la Chiesa incontra anche molti fraintendimenti, ma in genere la gente non si emoziona per questo. Tuttavia, l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla sessualità tocca le persone nella loro vita personale. La sua proclamazione può suscitare le emozioni necessarie».
Quali sono le cause della rottura della connessione tra matrimonio, morale sessuale e procreazione, la triade che ha orientato la vita collettiva fino alla metà del Novecento?
«Una causa diretta, ovviamente, è la secolarizzazione associata all’odierno individualismo. L’individuo autonomo decide da solo ciò che crede; per inciso, spesso segue inconsciamente l’opinione pubblica. Di conseguenza, il matrimonio non è più visto come un’istituzione creata da Dio con determinate intenzioni da cui derivano norme per l’esperienza del matrimonio e della sessualità. Nell’epoca attuale, gli individui scelgono quale interpretazione dare al matrimonio o ad altre relazioni sessuali. Anche il facile accesso al materiale pornografico crea un’immagine distorta della sessualità umana».
Le cause di questa rottura sono esterne o esistono anche responsabilità della Chiesa e della sua predicazione?
«Sono principalmente cause esterne. Gli insegnamenti della Chiesa in generale, e certamente quelli sul matrimonio e sulla sessualità, sono stati accolti con incomprensione, poiché la cultura occidentale è cambiata radicalmente a partire dagli anni Sessanta con l’aumento dell’individualizzazione e della secolarizzazione. Ciò non toglie che anche la Chiesa sia stata inadempiente, poiché nell’ultimo secolo la catechesi è stata trascurata».
La morale sessuale è scomparsa dalla predicazione perché fino agli anni Sessanta del secolo scorso è stata troppo presente?
«No, la morale è scomparsa dalla predicazione perché negli anni Sessanta la cultura occidentale ha subito cambiamenti radicali e di conseguenza è stata poco ricettiva alla proclamazione dell’insegnamento della Chiesa».
In quei decenni essere cristiani coincideva con l’irreprensibilità nel comportamento sessuale dettata da un moralismo fatto di divieti?
«Non è vero. Fino ad allora, gli occidentali vivevano in una cultura profondamente cristiana. Vita e fede erano intrecciate. La Chiesa, con le sue numerose celebrazioni, processioni e pellegrinaggi, era al centro della vita della maggior parte delle persone. Fino agli anni Sessanta, le norme relative al matrimonio e alla sessualità venivano predicate ma non spiegate. Quando Paolo VI pubblicò l’enciclica Humanae vitae nel 1968, non esisteva un’analisi teologica o filosofica della natura del matrimonio sulla base della quale si potesse chiarire perché l’uso della contraccezione, a prescindere dall’intenzione o dalle circostanze, è sempre un atto moralmente cattivo. La situazione è cambiata solo quando Giovanni Paolo II ha esposto la sua teologia del corpo nella catechesi tenuta durante l’udienza generale. In essa descrive il matrimonio come un dono totale reciproco dell’uomo e della donna, che riflette il dono totale reciproco tra Cristo e la sua Chiesa o quello tra le tre Persone divine nella Trinità. Così, è comprensibile spiegare perché l’uso della contraccezione è moralmente malvagio: il dono reciproco degli sposi non è allora totale, perché a livello fisico il dono reciproco della genitorialità è bloccato».
Nella predicazione è rimasta troppo implicita la proposta di un modello alto del matrimonio come imitazione dell’amore fra Cristo e la Chiesa?
«Nelle omelie manca comunque una chiara spiegazione dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio. Per inciso, è anche deplorevole che relativamente pochi teologi morali si occupino di teologia del corpo».
I coniugi che si accostano al sacramento sono adeguatamente aiutati a comprendere che si tratta di una via privilegiata alla santità, con tutto quello che può comportare?

«Nell’arcidiocesi di Utrecht organizziamo corsi di matrimonio che illustrano la teologia del corpo e l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia. I partecipanti, giovani coppie che intendono sposarsi in Chiesa e di solito scelgono consapevolmente di farlo, sono entusiasti: <Che bello, non l’abbiamo mai sentito prima>, è la loro reazione. Sono anche aperti a ciò che la Chiesa suggerisce riguardo alla contraccezione e al possibile uso di mezzi naturali per il controllo delle nascite».
Come la comunità cristiana può testimoniare la bellezza del matrimonio, unione feconda e «per sempre», a fronte di mode e unioni chiuse in sé stesse e spesso passeggere?
«Le migliori coppie di sposi esperti che vivono il loro matrimonio secondo le intenzioni di Dio possono testimoniare la bellezza del matrimonio come legame indissolubile aperto al trascorrere della vita umana. Nel fare questo, dobbiamo essere consapevoli del fatto che non è così facile ottenere un matrimonio felice. Le persone non sono perfette. Per questo motivo, i nostri corsi di matrimonio prevedono serate tenute da coppie di sposi esperti che mostrano ai giovani le difficoltà che possono aspettarsi nella loro vita matrimoniale e come possono affrontarle».
Perché a proposito della teoria gender papa Francesco dice che «la rimozione della differenza è il problema non la soluzione»?
«Ci sono spesso aspettative irrealistiche riguardo alle applicazioni della teoria del genere. Ciò è particolarmente vero per la teoria del genere di più ampia portata, che sostiene che il genere – i ruoli sociali di uomini e donne – può essere completamente dissociato dal sesso biologico. Ciò significa che un uomo che pensa che il suo genere sia quello di una donna può avere il suo sesso biologico adattato al genere femminile che ha scelto come identità attraverso trattamenti ormonali e procedure chirurgiche che alterano il sesso. Si tratta di un’aspettativa irrealistica. Al massimo si possono cambiare gli organi sessuali e le caratteristiche sessuali secondarie, come la voce e i peli del corpo, ma dal punto di vista del suo genere genetico rimane un uomo. Deve continuare ad assumere ormoni femminili per il resto della sua vita. Inoltre, il trattamento di riassegnazione del sesso comporta la sterilizzazione. Ci sono anche persone che si sono sottoposte a un trattamento di riassegnazione del sesso in giovane età e se ne pentono. Non è possibile annullare il cambiamento di sesso».
Quali sono le cause dell’esplosione della teoria del gender?
«La teoria del genere trae origine dal femminismo radicale degli anni Sessanta e Settanta. Le femministe vedevano nella contraccezione ormonale la liberazione della donna dal ruolo di genere che la società le aveva imposto in passato. Questo ruolo di genere significava che la donna doveva concentrarsi principalmente sul suo compito di procreare e crescere i figli. Dopo essersi liberata da questo ruolo grazie alla contraccezione, sarebbe stata finalmente in grado di scegliere la propria identità di genere. Questa idea è stata presto estesa a tutte le persone: ognuno dovrebbe essere in grado di fare ciò che vuole dal punto di vista sessuale».
I cattolici hanno consapevolezza sufficiente che la condanna della contraccezione da parte della Chiesa è motivata dal fatto che ricorrervi significa impedire a Dio di «di usare l’atto coniugale nell’ambito del suo piano di creazione per far nascere un nuovo essere umano»?
«Temo di no. Fino agli anni Sessanta, i cattolici vedevano generalmente il proprio figlio come un dono di Dio. L’uomo e la donna realizzano il concepimento attraverso il rapporto coniugale. Dio crea un’anima e la riversa nel frutto rendendolo un essere umano vivente. Ora, molti cattolici battezzati non vivono più il bambino come un dono di Dio. Come i non cattolici, parlano di “prendere” o “fare” un bambino».
Assistiamo a un’espansione del diritto dei genitori di avere o non avere figli: mentre si considera l’aborto un diritto da stabilire nelle Costituzioni, allo stesso tempo si ritiene un diritto avere figli con qualsiasi metodo, compresa la maternità surrogata. Qual è il suo pensiero in proposito?
«Il diritto all’aborto e il diritto ad avere figli attraverso le tecniche di inseminazione artificiale sembrano in contraddizione. Uno sguardo più attento mostra che non è così. Nelle tecniche di fecondazione artificiale, come la fecondazione in vitro, la maggior parte degli embrioni umani creati in laboratorio va persa. Dopo che la coppia ha ottenuto il numero di figli desiderato una volta attraverso le tecniche di fecondazione artificiale, il resto degli embrioni rimane in laboratorio. Questi embrioni vengono distrutti o consumati nella ricerca medica. L’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede del 1987 sulle tecniche di fecondazione artificiale, Donum vitae, sottolinea che l’accettazione dell’aborto indotto rende accettabile la grande perdita di embrioni nella fecondazione in vitro».
Confrontando la radicalità del catechismo cattolico con la pervasività dei modelli che promuovono l’individualismo e l’edonismo bisogna accettare che i cristiani siano un’esigua minoranza nel mondo contemporaneo?
«Il fatto che i cristiani siano sempre più una minoranza è una conseguenza dei cambiamenti culturali che fanno sì che Cristo e il suo Vangelo non siano più compresi e accettati dalla maggioranza. È stato suggerito che la Chiesa attirerebbe più persone se fosse disposta a modificare il suo insegnamento sulla moralità del matrimonio e sull’etica sessuale. In primo luogo, la Chiesa non può farlo, perché il suo compito è annunciare le intenzioni di Dio sulla creazione e non può cambiarle. Ma in secondo luogo: il mondo del protestantesimo mostra che soprattutto le chiese liberali, che hanno una visione molto ampia della morale, sono state le prime a svuotarsi».

 

La Verità, 3 agosto 2024

Faenza ci accompagna nei tormenti di Alda Merini

È il racconto della solitudine drammatica e incolmata di Alda Merini, il film per la tv andato in onda giovedì su Rai 1 con la direzione di Roberto Faenza e l’interpretazione di Laura Morante, Rosa Diletta Rossi, Federico Cesari, Giorgio Marchesi e Mariano Rigillo (ore 21,30, share del 16,5%, 2,9 milioni di telespettatori). Folle d’amore è un racconto dolente e accidentato, che scorre sui testi della «poetessa dei Navigli», liberamente ispirato a Perché ti ho perduto nel quale la psicanalista Vincenza Alfano ha a sua volta riscritto pagine della biografia della tormentata artista. Dunque, un lavoro che si avvale di fonti plurime, compresa la testimonianza di Arnoldo Mosca Mondadori, visibile nel finale e ringraziato «per l’unicità della collaborazione», amico intimo negli ultimi anni della poetessa e curatore della sua opera mistica (Sei fuoco e amore, Sperling e Kupfer).

Proprio dall’incontro con lui in un caffè dei Navigli parte il viaggio a ritroso, dalla casa di famiglia e dall’insofferenza alle richieste materne, dettata dalla volontà dell’adolescente di seguire il proprio talento letterario. Che ben presto inizia a essere riconosciuto anche dove conta. Ingenua e senza difese, la giovane Alda stimata dai salotti della Milano colta, frequentati da David Maria Turoldo e Maria Corti, si abbandona all’amore per Giorgio Manganelli che, già sposato, non potrà pienamente corrisponderla. Altre relazioni con relative delusioni, come quella con Salvatore Quasimodo, segneranno la sua poetica. Anche da sposata con l’umile Ettore (Luca Cena) il bisogno d’amore la porta, paradossalmente, a trascurare gli obblighi di madre e moglie. E, al colmo del dissidio, il marito opta per l’internamento in manicomio. Dove, finalmente superata l’epoca dell’elettroshock, troverà comprensione in uno psichiatra che ne conosce e apprezza l’opera.

Sorretto da quella fede cui sul finire dell’esistenza sembra avvicinarsi anche la poetessa, Mosca Mondadori raccoglie le confidenze rese da lunghi flashback che ci portano su e giù per il Novecento e dentro l’anima tormentata dell’artista. Non potendo puntare sulla somiglianza fisica con la protagonista, il regista la racconta attraverso l’abbigliamento, il modo di parlare, i tic, il suo essere sempre un po’ strana e straniante, riuscendo a trasmettere al telespettatore il travaglio di un’esistenza sul crinale tra follia e genialità, comune ad altri giganti come Ezra Pound e Dino Campana, anche loro internati e afflitti da quella solitudine che Merini prova a lenire con la compagnia di una buona sigaretta.

 

La Verità, 16 marzo 2024

«I nostri 37 anni di amore con Ale in semi coma»

Trentasette anni di vita, di tante vite, spesi per una semi-vita. È quello che è accaduto alla famiglia Guarnieri per assistere Alessandro, morto per una crisi respiratoria sabato scorso a 54 anni. Ne aveva 17 il 15 settembre 1987 quando entrò in coma a causa di un incidente stradale. Guidava la moto del fratello, un amico sul sedile posteriore, quando un camion sbucò senza rispettare lo stop. Per trentasette anni è sopravvissuto in stato semi-vegetativo. Il paziente più longevo d’Europa. Non parlava. Non si alimentava autonomamente. Non controllava le funzioni corporee. Genitori, fratelli e amici lo hanno accudito un giorno alla volta per 13.283 giorni. Il quotidiano diventa eroico e l’eroico diventa quotidiano in silenzio. Ora il fratello Andrea, libero professionista nel campo delle politiche del lavoro, due anni più vecchio di lui, e il padre Giampaolo, ottantasettenne, mi ricevono nella casa in pieno centro a Padova.

Che cosa vi ha sostenuto in tutti questi anni?

Giampaolo Guarnieri: «La speranza di un miracolo. Forse il Signore non ci ha considerato degni. Oppure aveva piani diversi che adesso non conosciamo».

Andrea Guarnieri: «In un certo senso, si può dire che l’amore per lui di mia mamma, di mio papà, di mia nonna, di mio fratello Stefano, delle nostre mogli e dei nipoti, oltre a quello di tutte le persone che sono state vicine ad Alessandro in questi lunghi anni è stato qualcosa di miracoloso».

Giampaolo: «Si immagini che, alla prima udienza in tribunale, l’avvocato dello Stato disse che la colpa dell’incidente era di mio figlio perché a 17 anni non poteva portare un passeggero sulla moto».

Era un avvocato dello Stato perché il camion coinvolto era dell’esercito?

Giampaolo: «Della divisione Julia. Quando sentii quel discorso, urlai: “Se continua a dire queste cose la prendo a calci in culo”. Il giudice sospese l’udienza. Siamo ancora in causa per ottenere il risarcimento. Finora abbiamo chiesto i danni morali, per le lesioni e lo stato semi-vegetativo di tutti questi anni. Adesso li chiederemo per la morte derivata dall’incidente».

Andrea: «Pensi che non ci hanno mandato neanche un telegramma di scuse. E che non si è mai arrivati alla condanna penale perché ci fu l’amnistia».

Come ricordate quel giorno?

Giampaolo: «Avevo fatto tardi al lavoro e, impaziente, Alessandro era salito sulla moto di Andrea per provarla. Il camion non si era fermato all’incrocio. Mi chiamarono dall’ospedale. Dopo l’operazione dissero che Alessandro non sarebbe sopravvissuto più di 72 ore. Ci proposero di donare gli organi. Un paio d’anni prima, qui a Padova, il professor Vincenzo Gallucci aveva fatto il primo trapianto di cuore…».

Andrea: «Alessandro aveva un ematoma subdurale, un’emorragia nel cervello, le prime ore sono state le più critiche. Non prendemmo nemmeno in considerazione la donazione degli organi».

Poi che cosa accadde?

Andrea: «Alessandro rimase un mese in rianimazione. Pian piano cominciavamo a prendere coscienza della situazione. Lo trasferimmo all’ospedale di Innsbruck per traumatizzati cranici, dov’era stato ricoverato anche lo sciatore Leonardo David, finito in coma per una caduta in discesa libera. Lo operarono una seconda volta. Poi lo portammo al Montecatone di Imola, un istituto all’avanguardia per questo tipo di malati. Mia madre stava lì tutta la settimana. Mio padre li raggiungeva il sabato, con me e Stefano».

Che cure gli prestavano?

Andrea: «Faceva molta fisioterapia e riabilitazione per aiutare il cervello a recuperare le funzioni vitali. Poi continuammo la rieducazione all’ospedale di Abano. Attività in acqua, esercizi di logopedia. Infine, decidemmo di portarlo a casa. Era passato un anno».

Una volta a casa?

Andrea: «Ci accorgemmo di tutte le implicazioni che aveva una situazione che non avevamo mai affrontato. La nostra vita si adeguò. La professoressa Cecilia Morosini, una grande neuro-riabilitatrice chiamata “la signora dei risvegli”, studiò un nuovo programma che prevedeva l’ausilio di molte persone, anche cinque contemporaneamente per un esercizio al tappeto. In totale, lo aiutavano 15 persone al giorno, alcuni volontari, altri professionisti. Poi passammo all’assistenza di una persona specializzata che vivesse con noi e lui».

Alessandro aveva qualche consapevolezza della sua condizione, reagiva in qualche maniera?

Andrea: «Rideva alle nostre battute, manifestava preoccupazione se si avvicinava un medico o qualcuno di estraneo. Riusciva a entrare in comunione con le persone che lo assistevano. Sapeva trasmettere i suoi sentimenti».

Com’era la vostra giornata?

Andrea: «Quando stava “meglio”, al mattino faceva una colazione omogeneizzata con mia madre. Poi la fisioterapia fino all’ora di pranzo. Al pomeriggio riposava, merenda e ancora fisioterapia. Durante la notte mia madre si alzava per cambiargli la posizione e per qualsiasi altro bisogno».

Quando iniziò a stare meno bene?

Andrea: «Dal 2014 siamo dovuti ricorrere all’alimentazione per via nasogastrica a causa delle sue difficoltà respiratorie, ma nonostante questa limitazione aveva una qualità della vita accettabile. Purtroppo il Covid l’ha indebolito molto entrambe le volte per quanto sia stato curato con attenzione. Questo ci ha costretto a limitare la fisioterapia e anche l’unica ora a settimana che ci garantiva il servizio pubblico è venuta meno. Per il resto in questi 37 anni tutti i fisioterapisti li abbiamo pagati noi».

Voi fratelli che ruolo avevate?

Andrea: «Io e Stefano abbiamo molto aiutato finché siamo rimasti in casa. Quando ci siamo sposati lo scenario è cambiato. In due abbiamo avuto sette figli, ma non abbiamo mai smesso di dedicare tutto il nostro tempo libero a lui. Soprattutto quando nostra madre non era più al 100%. Tutte le decisioni le abbiamo condivise. Questo approccio ha garantito una sopravvivenza straordinaria ad Alessandro, visto che di solito questi malati sopravvivono sei o sette anni».

Pregavate perché avvenisse un miracolo?

Giampaolo: «Continuo a farlo anche adesso sia per mia moglie che per lui. Perché le loro anime siano accolte in paradiso e sono convinto che è così, anche se qualche volta dubito. Chi non dubita mai?».

Andrea: «Di miracolo ha parlato anche il dottor Fabio Della Valle del reparto di medicina interna quando, in seguito a una crisi respiratoria, dopo Natale è stato dimesso: per noi è un miracolo che possa tornare a casa».

Vostra madre si è assunta la parte maggiore dell’assistenza.

Andrea: «Gli ha dedicato la vita. Sperava di accompagnarlo fino alla fine. Ma a un certo punto ha capito che le possibilità si affievolivano perché stava invecchiando».

Che rapporto avete avuto con il sistema sanitario?

Andrea: «Non c’è stata un’assistenza adeguata. Al di là dei medici di base che sono sempre stati presenti, non c’è un vero servizio per questi malati. Ci siamo arrangiati. Quando per qualche crisi venivano a prenderlo con il 118 dovevamo raccontare tutto da capo perché non c’era un diario clinico condiviso. Tante volte, di fronte a un aggravamento, abbiamo firmato per portarlo a casa, perché conoscevamo la situazione meglio del personale. Riportarlo nel suo ambiente lo aiutava a stabilizzarsi».

Faccio una sintesi che potrebbe fare chi è favorevole al suicidio assistito o all’eutanasia: le vostre vite sono state determinate dalla sua non vita?

Andrea: «Non è l’espressione esatta, la sua non era una non vita. Aveva delle reazioni, si relazionava con le persone e l’ambiente. In secondo luogo, non si può scegliere per un’altra persona. Avevamo il dovere di curarlo al meglio perché abbiamo dei valori diversi. Il padre di Eluana Englaro decise di sospendere l’alimentazione. Come si può decidere per gli altri? Se Alessandro avesse fatto un testamento biologico, l’avremmo rispettato. Ma un ragazzo di 17 anni come può pensare alla fine della sua vita?».

Giampaolo: «Siccome noi cattolici crediamo nel libero arbitrio, per conto mio ognuno può scegliere se sopravvivere in un certo modo o volere il suicidio  assistito. Dio ci ha dato la libertà di scegliere e non colpevolizzo chi sceglie. Critico quel padre che ha voluto la morte della figlia».

Andrea: «Il punto è che, se da un lato c’è il libero arbitrio, dall’altro ci dev’essere un sistema che garantisce i livelli adeguati di assistenza. Ma non è così. Per avere un materasso antidecubito di ricambio abbiamo atteso tre mesi, dopo 72 ore dal suo decesso sono venuti a ritirarlo. Non tutte le famiglie possono sostenere autonomamente una situazione così per 37 anni. Se sei lasciato solo, è più facile decidere di farla finita. Perché ti senti un peso per i tuoi familiari. Anche vite come quella di Alessandro hanno un valore e un significato profondo».

Guardando indietro rifareste tutto quello che avete fatto?

Andrea: «Assolutamente sì. È stata una scelta basata sul rispetto per la vita e sull’amore per un fratello che non aveva nessuna colpa. Non potevamo fare diversamente, Alessandro c’era. Certo, se oggi a 56 anni dovessi scegliere per me forse sceglierei di non affrontare tutta questa fatica, soprattutto perché non c’è un sistema di cure adeguate a questi casi».

Giampaolo: «Ma sarebbe una scelta un po’ egoistica».

Andrea: «È vero. Qui abbiamo l’esempio di Alex Zanardi che ha saputo reinventarsi con enorme coraggio».

Qual è il vostro pensiero sulla proposta di legge sul fine vita del governatore del Veneto Luca Zaia che si è discussa nei giorni scorsi?

Andrea: «Vorremmo che ci fosse vera libertà di scelta. Che non si scegliesse il suicidio assistito perché i livelli di cura non sono garantiti. Il sistema deve garantire assistenza 24 ore al giorno anche a domicilio. Allora le alternative sarebbero davvero confrontabili. Finché l’assistenza non è pensata così c’è il rischio che vinca la cultura dello scarto. È necessario espandere e rendere accessibili a tutti le cure palliative. All’università di Verona c’è un Master su questa materia».

Senza Alessandro, com’è la nuova vita?

Andrea: «La prima reazione è un senso di vuoto. Subito dopo cresce la consapevolezza di essere uscito arricchito da questa storia. Amare le persone che incontriamo al di là di quello che apparentemente possono darti, gratuitamente e senza aspettarsi nulla. È la scelta migliore per noi stessi».

Giampaolo: «Mi sento più solo, ma ho l’aiuto degli altri miei figli. Qui, sulla carrozzina non posso muovermi come vorrei. Certe volte mi sembra di non essere vivo e, dopo la perdita di Alessandro, mi vien voglia che il Signore mi prenda, anche se ho paura della morte. Anzi, non della morte: di “sora morte corporale”».

 

La Verità, 3 febbraio 2024

«Contro gli stupri il vero argine è il ruolo del padre»

Tostissima e dalle idee chiare, Maria Rachele Ruiu è mamma e moglie, counsellor laureata in psicologia, attivista dei diritti umani, in particolare vita, famiglia e libertà educativa, membro del direttivo di Pro Vita & Famiglia e del Family day. Quando parla scolpisce.

Qualche giorno fa l’ho vista molto agguerrita in tv all’Aria che tira estate sul tema degli stupri di gruppo. Che cosa la motiva in particolare?

«Mi motiva il fatto che questa società è schizofrenica: si parla molto della violenza contro le donne, ma solo in modo ideologico».

In che senso?

«Per esempio, in occasione dell’8 marzo il movimento “Non una di meno”sponsorizza la prostituzione chiamandola sex worker mentre è stupro a pagamento, nicchia sulla pornografia che è prostituzione filmata e ammicca a siti come Onlyfans».

Accuse pesanti, che nesso hanno con gli stupri di gruppo?

«Questa cultura aumenta l’oggettivizzazione della donna. L’8 marzo è solo la più eclatante di tante occasioni. Quando sono ancora piccole, alle nostre figlie viene insegnato che è un bene mostrarsi sexy, puntare sull’aspetto fisico e sui like».

La soluzione è la repressione?

«Studi scientifici indicano che ciò che viene chiamato online disinhibition effect, determinato dalla costante esposizione a immagini fortemente sessualizzate, alla pornografia e a certe scene dei reality, riduce il grado di empatia verso le vittime di stupro e aumenta l’accettazione della violenza contro le donne. Quando sono sessualizzate, le donne vengono percepite attraverso le sinapsi che si usano per gli oggetti».

Lo stupro di gruppo di Palermo e quello di Caivano: perché i nostri adolescenti agiscono così?

«Io vedo due cause. La prima è che si ripete che vietare non è educare. Gli adulti stanno rinunciando a equipaggiare i ragazzi e a fornire loro gli strumenti per comprendere chi sono e che cosa fanno al mondo. La seconda causa è il cocktail maledetto di cellulari e pornografia».

L’altro giorno Giorgia Meloni è andata a Caivano su invito di don Maurizio Patriciello: è il disagio sociale la causa principale di questi comportamenti?

«Abbiamo visto che, in realtà, le cause sono socialmente trasversali, perché a Palermo il branco non era composto da appartenenti alle fasce povere. Detto questo, serve il coraggio di spendersi per gli ultimi. Caivano è un posto terribile, abbandonato, come ripete don Patriciello. Il premier ha fatto bene a coinvolgersi, mostrando disponibilità al sacrificio e l’idea che sono sacre anche le vite di coloro che vivono nelle periferie più estreme».

In questi anni la famiglia ha abdicato al compito di porre dei limiti?

«Più che aver abdicato, è stata distrutta. Ma la bella notizia è che proprio la famiglia è la soluzione di questa crisi. Per esempio, un fattore protettivo imprescindibile contro la sessualità malata è la figura del padre».

Completamente rimossa.

«Le ricerche scientifiche confermano che migliore è il rapporto tra padre e figlio e la loro comunicazione sui temi della sessualità, più i ragazzi imparano ad astenersi da attività impulsive e comportamenti a rischio e sviluppano maggiore controllo del livello di eccitazione. Un padre che supporta la propria compagna, ecco la famiglia, aiuta la figlia femmina a cercare nelle relazioni romantiche l’intimità e il sostegno emotivo senza ricorrere alla sessualità per ottenerlo. Una relazione stabile tra marito e moglie aiuta gli adolescenti e le adolescenti a dare il giusto valore alla fedeltà e alla responsabilità nei rapporti».

Anche la scuola ha abdicato ai suoi compiti?

«Spesso nei programmi scolastici di educazione sessuale i ragazzi vengono confusi dall’ideologia gender. Ancora più spesso si spiega ai ragazzi come trarre piacere dal corpo dell’altro con contenuti permissivi espliciti, contrari ai convincimenti di molte famiglie. In tutto il mondo occidentale questi programmi, presentati come educazione sessuale Cse (Comprehensive sexuality education ndr), insegnano a ricorrere al preservativo o all’aborto e puntano a normalizzare la pornografia. Il problema è che non sono efficaci».

Come fa a dirlo?

«In Svezia, in Norvegia e in Olanda, dove sono applicati da più tempo, i crimini sessuali sono aumentati. Un recente report del governo norvegese si chiede come ciò sia possibile dopo i tanti fondi spesi in questi programmi».

L’educazione sessuale dovrebbe partire più da lontano?

«Bisogna tornare a educare alla libertà e all’amore. Libertà di scegliere il bene, sapendo che, a volte, questo significa rinunciare. Libertà di amare è anche fare spazio all’altro, sacrificarsi per l’altro. Cioè, in sintesi, renderlo sacro. Con le dovute accortezze, provo a educare così i miei figli che hanno 5 e 3 anni. Bisognerebbe aiutare i genitori a comprendere che non esiste un’educazione sessuale che non contempli anche prudenza e astinenza. E, per contro, che ne esiste una molto diffusa fatta di disvalori. Che è, ultimamente, diseducazione».

Si parla dei pericoli generati dalla pornografia, che però c’era già nelle riviste dal barbiere e nei cinema a luci rosse.

«Anche sui vasi etruschi compaiono scene pornografiche».

Quindi?

«Non spetta a me cambiare il cuore dell’uomo che ha anche questa spinta verso la lussuria. Ma intanto dobbiamo sapere che la pornografia è sempre più violenta. Lo dice anche Rocco Siffredi. Grazie al combinato disposto cellulari-siti porno, per cui con il grooming i bambini incappano nel primo video senza cercarlo, la pornografia sta diventando un’emergenza infernale».

Perché?

«Perché provoca dipendenza per cui bambini, ragazzi e adulti si ritrovano a cercare stimoli sempre maggiori, finanche video pedopornografici, come denuncia da tempo don Fortunato Di Noto».

Oggi il materiale pornografico è più sofisticato, diffuso e accessibile di un paio di decenni fa?

«Si è passati dalla proliferazione alla normalizzazione della pornografia sempre più violenta».

Rocco Siffredi la pensa come il ministro Eugenia Roccella?

«Rocco Siffredi approfitta dell’invito del ministro a frenare la diffusione della pornografia per normalizzarla. Va ripetendo che non si deve demonizzarla, forse per eliminare qualche concorrente».

Ha detto che è disposto a chiudere il suo sito.

«Non l’accademia e i laboratori».

Anche Luce Caponegro, l’ex pornostar Selen, concorda sulla necessità di controllare l’accesso ai siti porno.

«Mi auguro che si arrivi a vietarli veramente ai più piccoli. Noi come Pro Vita & Famiglia abbiamo fatto una campagna per avere misure di verifica dell’età online più restrittive. Ma l’Agcom ha applicato la norma approvata nella scorsa legislatura solo per i servizi telefonici rivolti ai minori, ignorando che la maggior parte di loro ha i piani tariffari degli adulti e svuotando così l’efficacia della norma sul parental control».

All’estero come si comportano?

«Paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna e Belgio stanno correndo ai ripari e regolamentando l’accesso a internet perché si sono accorti che contro l’impero dell’hard l’autodifesa casalinga non basta».

Approva che Rocco Siffredi vada nelle scuole a dire che le riprese porno sono alterate da iniezioni dopanti?

«Mi ha colpito il suo racconto sulle attrici che vengono anestetizzate per poter recitare in quelle situazioni estreme. Siffredi ha detto pubblicamente di essere dipendente dal sesso, mi domando come possa essere credibile la sua testimonianza. Sarebbe come se un drogato che fa ancora uso di stupefacenti andasse nelle scuole a dire: drogatevi, ma sappiate che fa male. Non è che sapere che la pornografia è finzione blocchi il processo della dopamina e della dipendenza quando se ne fruisce. Vorrei che nelle scuole andassero le ex pornostar pentite e gli ex dipendenti dal porno che hanno distrutto la loro vita, le loro relazioni, il loro corpo a causa della pornografia».

Cosa pensa delle parole pronunciate da Andrea Giambruno su Rete 4 che, pur deplorando la violenza, ha invitato le ragazze a non ubriacarsi per poter fronteggiare i pericoli?

«Sono parole banali: qualsiasi genitore invita figli e figlie a non stordirsi e a rimanere lucidi quando sono fuori di notte».

Come mai è stato molto contestato?

«Perché è il compagno di Giorgia Meloni. Ha semplicemente detto: ragazze restate lucide e prudenti».

Si colpevolizza sempre la donna?

«Non ha colpevolizzato nessuno. Non ha detto che chicchessia ha diritto a sfiorare una donna se ubriaca, ma ha invitato le adolescenti e anche le adulte a non perdere il controllo di sé e della situazione in cui si trovano».

Non è un ragionamento del tipo «la donna se l’è cercata»?

«Non l’ha detto, hanno provato a farglielo dire».

Concorda con Giovanni Valentini che sul Fatto quotidiano, studi alla mano, ha evidenziato la relazione tra ricorso all’alcol e alle droghe e maggior vulnerabilità nelle situazioni di pericolo?

«Certo, basta il buon senso per ammetterlo. Quando si è ubriachi o sotto effetto di sostanze o nudi su Instagram si è più fragili e non ci si può esporre alla vicinanza di certi maiali. Questo non vuol dire che te la sei cercata. Preferisco non andare da sola alla Stazione termini di Roma dopo mezzanotte perché se mi derubano non è giusto e non me la sono cercata: ma se ci vado con mio marito è più facile che non accada».

Ha letto il libro del generale Roberto Vannacci?

«No, ho letto alcuni stralci e alcune interviste».

Perché ha scatenato questo putiferio?

«Perché non è politicamente corretto e oggi non siamo abituati a posizioni così schiette. Personalmente, alcune cose le avrei scritte in modo diverso e su altre non concordo. Però penso sia importante difendere la libertà di espressione di chiunque. Soprattutto perché siamo in una società in cui si possono scrivere bestialità contro la famiglia, contro i cristiani e si può dire che si odiano i bambini solo perché bambini».

Anche lei vede un mondo al contrario?

«Un posto dove, per esempio, elogia Siffredi che dice che il porno è normale e crocifigge Giambruno per una raccomandazione come quelle che facevano le nostre mamme è un mondo al contrario. Vannacci è osteggiato perché ha toccato temi intoccabili come il gender, la famiglia, e l’ideologia Lgbtq+».

Perché Carlos Santana ha dovuto ritrattare la dichiarazione, fatta a un concerto, che un uomo è un uomo e una donna è una donna?

«Perché c’è il pensiero unico della cultura woke che nasconde gli interessi economici delle case farmaceutiche e delle cliniche che operano gli adolescenti per la transizione, facendo soldi a palate sulla pelle dei più fragili».

 

La Verità, 2 settembre 2023

Dante al cinema ci aiuta a pensare e amare in grande

Dante campione d’incassi al cinema. E chi se l’aspettava? Chi se l’aspettava che il Sommo Poeta sbaragliasse la concorrenza dei filmoni americani e scalasse il botteghino? In pochi, diciamo la verità. Forse nemmeno lui, Pupi Avati, il regista che ha atteso 18 anni per mandare la sua opera nelle sale cinematografiche, azzardava previsioni tanto ottimistiche. Invece, da giovedì scorso, quando ha esordito al sesto posto con 65.000 euro circa, Dante è salito pian piano fino in vetta. Quarto, poi terzo e l’altro ieri, primo, con poco più di 56.000 euro e oltre 10.000 spettatori, in un giorno di partite di Champions League ed eventi vari. L’incasso totale sfiorava il mezzo milione di euro e, va detto, non si tratta certo di una cifra iperbolica. Ma, in tempi di vacche magrissime per i nostri cinema, è un risultato notevole. Prova ne sia il fatto che martedì il film di Avati (prodotto dalla Duea Film con Rai Cinema e MG production e distribuito da 01), interpretato, fra gli altri, da un magnifico Sergio Castellitto nei panni di Giovanni Boccaccio «pellegrino» nei luoghi e nell’animo del Sommo Poeta, si è messo alle spalle cartoon come Dragon Ball Super: Super Hero, blockbuster come Avatar di James Cameron e le altre pellicole italiane, a cominciare dallo sponsorizzatissimo Siccità di Paolo Virzì con Valerio Mastandrea e Silvio Orlando, per proseguire con Il signore delle formiche di Gianni Amelio e Ti mangio il cuore con Elodie.

Ma al di là dei modesti incassi delle nostre produzioni, quello che conta mettere in rilievo perché in controtendenza è il caso Dante. È presto per parlare di fenomeno, perché meno di una settimana di programmazione non basta a far primavera. Bisognerà vedere se funzionerà il passaparola e se i risultati dei primi giorni troveranno conferma anche il prossimo weekend. Ma il segnale va colto. Ricordiamoci che stiamo parlando di Dante Alighieri, gigante della letteratura mondiale, ma anche figura che oltre a suscitare universalmente soggezione, per molti è sinonimo di faticosi pomeriggi sui libri. Finora le poche eccezioni considerate in grado di allungare la vita alle agonizzanti sale cinematografiche erano i film di Supereroi, i blockbuster americani, i sequel di titoli di successo (Top gun) con platee di pubblico molto definite. È lunga la lista di opere prodotte per la fruizione diretta nelle piattaforme. O, se distribuite ottimisticamente nei cinema, resistite in sala pochi giorni prima di cedere il grande schermo a qualche commedia godereccia o a qualche cinepanettone. Invece, con Dante, il sismografo segnala che sul pianeta del pubblico italiano c’è vita.

Come detto, non era nelle previsioni. L’exploit ha spiazzato anche un critico attento come Marco Giusti, firma prestigiosa di Dagospia che quotidianamente ci aggiorna su ogni cosa si muova nel cielo della settima arte. Fin dal primo giorno di uscita ha confessato la sua «sorpresa», poi sconfinata in stupore, per il risultato di Dante. Al contrario, Camillo Langone ha raccontato di essere tornato a vedere un film al cinema dopo tre anni di diserzione dalle sale: «Corra a vederlo chi ama la poesia, le donne, il Medioevo», ha scritto sul Foglio. Ma ogni critico e ogni testata ha le proprie idiosincrasie: «A vedere Pupi Avati non ci voglio andare…», ha ribadito Giusti, chiamando in correità altri autorevoli addetti ai lavori che hanno preferito snobbarlo: «E tutti i festival, a cominciare da Venezia, che hanno fatto finta di niente?». Su questo il critico di Dagospia ha ragione da vendere: il film di Avati non è stato considerato dalla Mostra di Venezia, dove invece sono puntualmente passati Siccità, Il signore delle formiche, Ti mangio il cuore… Così ora è facile ascrivere il successo di Dante al cambio di scenario scaturito dalle urne del 25 settembre e all’avvento dell’Italia «melonsalviniana». Personalmente, non credo c’entri granché. Non credo che per andare a vedere un bel film, quando c’è, serva «la vittoria delle destre». Credo, piuttosto, c’entri il fatto che Dante è, appunto, un bel film, che narra, attraverso gli occhi del suo primo biografo, l’amore di un giovane per una ragazza, il cui sguardo gli ha rapito il cuore, lo ha cambiato e, di conseguenza, ha cambiato la storia della letteratura mondiale. Una storia vera. Fatta di esilio, di debiti e di talento artistico. Un film d’amore, di poesia e di grazia, sebbene con l’odore della peste addosso. Perché amore e poesia non sono qualcosa di etereo e sfuggente. Ma pulsioni carnali, sentimenti passionali e ispiratori, come la storia ha dimostrato.

Intervistato sabato scorso dalla Verità, Pupi Avati aveva detto che Dante è «una cartina al tornasole per vedere se c’è un pubblico per un film culturalmente ambizioso eppure accessibilissimo, distante dalle accademie e dalle sbrodolature della fiction». Il primo responso del botteghino sembra dire che questo pubblico, seppur piccolo, esiste. Che esiste un pezzetto d’Italia ancora ambizioso, disposto a pensare in grande e ad appassionarsi al «per sempre» dell’amore. E che rifiuta di accontentarsi della finzione del gossip, del chiacchiericcio e dei turbamenti delle coppie annoiate e ultramilionarie.

 

La Verità, 6 ottobre 2022

Cattelan cerca la felicità cazzeggiando

Tanti anni fa, forse troppi perché Alessandro Cattelan possa ricordarlo, c’era un gioco per bambini che si chiamava «Fuoco fuochino». Considerato il suo linguaggio pop ludico, è un gioco che all’eterno golden boy della tv italiana potrebbe piacere. Consisteva nel nascondere un oggetto e farlo trovare al rivale, guidandolo con espressioni come «acqua» «diluvio» «alto mare» quando si era distanti dal tesoro, o «fuochino» e «fuoco» se ci si stava avvicinando. In Una semplice domanda (Fremantle) su Netflix, Cattelan cerca la felicità ponendo una serie di domande e cercando risposte dialogando con persone che potremmo definire realizzate (Roberto Baggio, Paolo Sorrentino, Gianluca Vialli, Geppi Cucciari, Elio, Francesco Mandelli). L’idea non è male e il modo di realizzarla ha tratti divertenti perché la cifra di Cattelan è il cazzeggio e anche qui riesce a parlare di argomenti tosti buttandola sul ridere. A casa di Baggio (la sua malinconia), dopo essersi sottoposto a una breve seduta di meditazione buddista si fa confidare la difficoltà di ricominciare una vita dopo la fama, il successo e qualche rimpianto. La cornice sono migliaia di stampi di anatre da caccia di cui il Divin codino è collezionista. In un altro episodio Cattelan si chiede con aria compunta se «nei momenti bui possiamo davvero trovare la felicità in Dio?». E subito dopo, da ragazzo cresciuto a pane e tv, annuncia euforico: «Benvenuti a 4 religioni», un mini talent con rappresentanti dell’islam, dell’ebraismo, dell’induismo e un prete, che aggiudica il titolo di miglior religione. Dal canto suo, Sorrentino (la sua ironia) rivela che gli piace «la religione cattolica» perché è ben congegnata in quanto i divieti e le regole creano le premesse di una vita rassicurante. Poi certo, «credere in Dio è un’altra cosa». Già… Fuochino o annegamento imminente? Ma ecco «la prova Aldilà». C’è felicità nel dolore? chiede Cattelan a Vialli mentre giocano a golf, «grande metafora della vita». Da quando ha scoperto di avere il cancro, Vialli (la sua ritrovata ingenuità) ha realizzato che il tempo è molto più prezioso, che alle sue figlie vuole trasmettere ciò  che conta e che è arrivato il momento di «fare le cose che mi piacciono, lasciando perdere le stronzate». Annunciando di aver imparato la lezione, Cattelan si butta in piscina con cinque ragazze per fare la sirena con una monopinna di nylon. Fate voi… Poi, con Geppi Cucciari, si chiede se l’amore renda felici. Due le ipotesi considerate: un corso per fidanzati in vista del matrimonio in chiesa e una coppia di attori porno. Buttarla in ridere è anche un po’ buttarla in vacca?

 

La Verità, 23 marzo 2022

«I nuovi eroi? Una coppia che sfida il tempo»

Paolo Genovese ha molto da raccontare. Supereroi, il suo film ora nelle sale, ben interpretato da Jasmine Trinca e Alessandro Borghi, narra di una coppia che attraversa il tempo e qualche sventura. È un’opera coraggiosa, anche più di quanto lui ammetta: oggi, per stare insieme a lungo, servono i superpoteri.

Il film nasce dal libro omonimo che, a sua volta, da cosa nasce?

«È stata un’evoluzione curiosa perché stavo lavorando a un altro copione e, per paura di perdere questa storia, ho deciso di scriverla. Finora avevo sempre fatto film corali, ma avevo in testa una coppia… Che però non volevo aggiungere alle tante già viste. Così ho trovato la chiave del tempo, una mia ossessione, una costante di tanti film. Come regge una coppia allo scorrere del tempo? In pratica abbiamo girato due film, uno sui primi 10 anni e un altro sui secondi 10, e al montaggio li abbiamo intrecciati».

Uno scrittore che firma le regie dei suoi romanzi sul set indossa una t-shirt con la frase «The book was better». Per l’autore di un libro è facile trasformarlo in film?

«In assoluto non lo è perché il libro scava e racconta di più. Io, da regista, sono abituato a pensare per immagini anche quando scrivo. Perciò le scene mi passano in testa 100 volte. Poi c’è un altro vantaggio: lo scrittore ha solo la parola per dire tutto, sensazioni, odori… Il cinema invece usa tanti linguaggi, recitazione, fotografia, musica. La sceneggiatura è come un manuale di istruzioni».

Un altro sceneggiatore sarebbe stato più spietato con il suo libro?

«Probabilmente sì, l’autore è più affezionato alle sue storie. Io stesso quando adatto l’opera di un altro vado più facilmente di accetta. All’inizio Supereroi durava due ore mezza, abbiamo tagliato mezz’ora di romanzo».

Pensa di essere riuscito a raccontare l’amore senza cadere nel déjà vu?

«Dai fratelli Lumière a oggi, tutto è già stato raccontato. In cucina, pur usando gli ingredienti tradizionali, alla fine conta che ci sia il tuo sapore. Sono sempre critico sui miei lavori, ma credo che il viaggio in vent’anni nella vita di una coppia abbia una sua originalità».

Anna e Marco vengono fuori dalla canzone di Lucio Dalla?

«Me lo sta chiedendo mentre mi trovo davanti alla sua casa a Bologna. Sono venuto qui nell’ora di tempo che mi avanzava, prima di una presentazione… Dalla è uno dei cantautori che prediligo, scegliendo quei nomi volevo rendergli un piccolissimo omaggio».

La frase chiave del film è «una coppia è tale se dura, altrimenti sono due persone che stanno insieme»?

«È una delle frasi che ha colpito di più, vedo che sui social la ripetono. La vita di coppia aggiunge una prospettiva futura al semplice stare insieme».

I suoi supereroi sono tali perché si confrontano con il tempo o, più precisamente, con la durata?

«Sono tali perché decidono di accettare che il tempo scorra e li trasformi. È la prima cosa con la quale una coppia deve fare i conti: accettare la trasformazione della persona con cui vivi da tanti anni, anche in una direzione non voluta».

Possiamo definirlo un film controcorrente nel senso che oggi, per durare, una coppia dev’essere eroica?

«È il motivo per cui il film s’intitola così. Anna e Marco incarnano qualcosa di non ordinario. Per la generazione dei miei genitori la separazione non era socialmente accettata. Ci si sposava e si restava insieme, il divorzio è arrivato nel 1974. Anche la condizione lavorativa delle donne era diversa. Essendo solo mamme, separandosi non avevano la possibilità di essere autonome. Oggi c’è maggiore libertà sociale e psicologica… Una coppia che non funziona si molla. Si deve capire fino a che punto lottare per stare insieme, quanto provare a ricominciare da capo o riguadagnare la propria indipendenza».

Concorda che nei media e nel costume tutto concorra a rapporti brevi, se non fugaci o strumentali?

«Dipende da ciò che dicevamo prima. Essendo la separazione meno imbarazzante la durata media della coppia è inferiore. La fugacità delle storie dipende da questo. Anche il fatto che si facciano meno figli rende più facile separarsi. Oggi fino a trent’anni ci si conosce in prevalenza sui social, che accelerano incredibilmente gli avvicinamenti, ma anche gli allontanamenti».

Il film è un inno alla vita e un elogio dell’amore che accetta la diversità dell’altro: lei ha avuto esempi di questo tipo o è un’invenzione della fantasia?

«Non racconto mai storie autobiografiche perché temo la noia del pubblico. I filmini dei matrimoni divertono solo gli sposi e pochi intimi. Anche se sto con la mia compagna da vent’anni, qui narro situazioni sublimate più che drammi precisi o realmente vissuti. La scrittura della sceneggiatura è stata una sorta di psicanalisi a tre, con Paola Costella e Rolando Ravello, sul concetto di durata nell’amore».

Perché secondo lei oggi è sparita l’ambizione del «per sempre»?

«Non penso sia sparita l’ambizione, penso sia molto difficile da realizzare. E quindi la scelta è non faticare troppo. Tuttavia, non bisogna stare insieme a tutti i costi. Anna e Marco vogliono stare insieme per sempre ma bene, non a tutti i costi. Se non si perpetua quello stare bene, è giusto interrompere».

Il primo step sono persone che stanno insieme, il secondo è la coppia: l’ultimo è la famiglia, una delle istituzioni più in crisi del momento?

«È uno degli step. La famiglia con figli è un’evoluzione, un brusco cambio di marcia. Al centro non siamo più noi due, ma qualcosa che abbiamo creato. La coppia prende una direzione più impegnativa. Però i figli non devono essere la panacea, tipo: siamo in crisi allora facciamo un figlio. Ma il contrario: stiamo bene, allora facciamo un figlio».

L’eroismo avviene nel quotidiano, nella normalità come ebbe a dire una volta Giovanni Paolo II?

«Certo. Una possibile definizione di supereroi è: qualcuno che fa qualcosa per qualcun altro senza aspettarsi nulla in cambio. Nella coppia è fondamentale. L’eroismo è nella quotidianità. L’abbiamo sperimentato ora, durante la pandemia, nella voglia di tanti di aiutare gli altri. Il gesto singolo, una tantum, non basta a costruire qualcosa di durevole nel tempo».

Per lei cosa può essere questo eroico che diventa quotidiano?

«Liberarsi del proprio egoismo, non porre se stessi al centro di tutto. Nel lavoro, nella coppia, negli affetti, in qualunque circostanza».

Le sale sono invase da altri supereroi come Superman, Diabolik… garanzia di buoni incassi perché rivolti ai giovani che vanno di più al cinema. Il suo film è controcorrente anche in questo?

«Oggi un film italiano è controcorrente per il solo fatto di andare in sala. La tentazione forte per un produttore è scegliere la piattaforma. Con Medusa abbiamo preferito compiere un atto di coraggio. Credo sia uno sforzo necessario se non vogliamo essere ricordati come la generazione che ha fatto chiudere i cinema».

Con l’esplosione dello streaming è sempre più forte la concorrenza tra grande e piccolo schermo?

«Ora più che mai. Fino a 10 anni fa la concorrenza era tra i diversi film in programmazione: si usciva per andare al cinema e poi si sceglieva. Oggi è tra l’enorme offerta fruibile dal divano e andare al cinema. I muscoli delle piattaforme sono molto tonici, perciò siamo in un momento di svolta, quest’anno capiremo che ne sarà della sala cinematografica. Credo che dobbiamo tutti dare qualcosa in più. A cominciare da noi autori: il pubblico ce lo dobbiamo meritare più che mai, convincendolo a regalarci mezza giornata per uscire di casa, cercare parcheggio… Detto questo, non demonizzo le piattaforme».

Supereroi è coprodotto da Amazon Prime.

«Ci andrà alla fine della sua vita in sala. Mentre la piattaforma veleggia da sola, la sala ha bisogno dell’aiuto delle istituzioni oltre che degli autori».

Che cosa intende per aiuto delle istituzioni?

«In qualsiasi settore, dalla musica al cinema al teatro, per avere un pubblico colto serve un’educazione. Il cinema dovrebbe entrare nelle scuole. In un’epoca in cui i ragazzi si nutrono di audiovisivo, penso che potrebbe essere uno strumento didattico complementare alle lezioni tradizionali su tanti capitoli della nostra storia. Un produttore francese mi raccontava che nel suo Paese la passione per il cinema la inculcano a scuola fin da bambini. È qualcosa di imprescindibile, mi diceva, come per voi italiani la cultura del cibo. In Italia non si berrebbe mai un buon vino in un bicchiere di carta o non si mangerebbe la carbonara da un barattolo. Così, da noi si impara presto a guardare i buoni film in sala».

Da spettatore che cosa predilige?

«Sono onnivoro, ma preferisco il cinema italiano, per vedere nuovi autori e nuovi attori. Mi piace provare tutte le emozioni che il cinema offre, dalla risata alla riflessione, dalla fantasia alla paura. Ma più di tutte amo le storie che mi smuovono qualcosa nella pancia, che mi commuovono».

Con È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Diabolik dei Manetti Bros, il prossimo Belli ciao con Pio e Amedeo il cinema italiano sta rialzando la testa?

«La qualità c’è, ma il momento rimane difficile. Soffre tutta la filiera produttiva. In alcune città si registrano cali del 70% che non permettono alle sale di sopravvivere. Con la pandemia si è radicata l’abitudine di godersi i film a casa con televisori sempre più grandi. Come detto, sarà un anno decisivo. Oltre alle istituzioni e agli autori, anche gli esercenti devono fare la loro parte affinché andare al cinema sia un’esperienza sensoriale appagante, con sale più attrattive, schermi davvero grandi, audio definito, poltrone comode…».

Per finire, in quella canzone Dalla si chiede per conto di Anna e Marco «dov’è la strada per le stelle»: lei ce l’ha una risposta?

«Magari l’avessi. Più che la risposta è importante avere la domanda, perché ci stimola a cercare».