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«Perché mi piace marinare la scuola dell’attualità»

L’intervista è finita quando mi accorgo che Claudio Magris ha compiuto 81 anni venerdì santo, l’altro ieri per chi legge.

Come ha festeggiato, professore?

«Anche se non sono praticante non ho ceduto a libagioni. Quando, da giovane, comunicai a mio padre che non avrei più frequentato la Chiesa, lui, nemmeno praticante, mi rispose che si trattava di una scelta da ponderare bene. Perciò, sobrietà. Ho fatto un brindisi la sera prima con i miei figli che sono venuti a trovarmi. Venerdì, invece, ho allungato un po’ la passeggiata sul lungomare, quella sì. Ma non mi hanno arrestato». Le parole di Magris sono venate di ironia, di memorie visive e di un certo spirito asburgico fatto di austerità e rispetto. Sentimenti che attraversano la sua letteratura. Compreso l’ultimo libro, Tempo curvo a Krems (Garzanti), composto di cinque brevi racconti con protagonisti diversi, tutti un po’ avanti negli anni e inclini a un’esistenza riservata. Al telefono trattiamo le condizioni della nostra chiacchierata – «parliamo della Pasqua, non di politica» – e ci diamo appuntamento. Triestino molto affezionato a Torino dove si è laureato e ha a lungo insegnato letteratura tedesca, collaboratore da cinquant’anni del Corriere della Sera, in possesso di una cultura sterminata che, senza riuscirci, fa di tutto per dissimulare – «sono un tipo da birreria» – Magris è per Mario Vargas Llosa «uno dei più grandi scrittori del nostro tempo».

Come trascorre la clausura?

«Paradossalmente incalzato. Sto finendo un lavoro che devo consegnare alla Mondadori. Dovrebbe intitolarsi Vere e improbabili, come le tre storie che racconto. Una delle quali, protagonista una missionaria salesiana, richiedeva molte verifiche. Poi rispondo alle lettere, sto con mia moglie… Vivo quello che Giuseppe Ungaretti ha chiamato “il deserto di chi sopravvive”. Ho perso molte persone care e amici. Egoisticamente, mi dispiace più per me che per loro. Ci vorrebbe un tuffo in mare…».

Già in questa stagione?

«Quest’anno il clima è particolarmente mite. Da metà aprile a ottobre, quando il tempo lo consente mi immergo ogni giorno per una mezz’ora».

È un nuotatore?

«No, non è un’abitudine sportiva. Non m’interessano prestazione e velocità, ma l’abbandono. Nuoto a lungo, lentamente».

Le manca molto?

«Non credo ci sarebbero controindicazioni se uno nuota da solo… Capisco che non si possa perché poi lo imiterebbero altri. E io sono ligio alle regole. Però, senza il mare per me anche l’amore è impensabile… Vederlo, ascoltarlo, ma soprattutto essere dentro. È una confidenza che ho ereditato da mia mamma. Avrò avuto 4 anni, poco più, quando imparai a nuotare. Ero appeso alle sue spalle mentre s’inoltrava nell’acqua. Deve aver percepito che non avevo paura e mi lasciò scivolare dentro, tranquillamente…».

C’è qualcos’altro che le manca in questi strani giorni?

«Certi aiuti pratici che risolvono la mia disabilità digitale. Non un vezzo, una vera incapacità. Registro su cassette, un paio di persone ascoltano e trascrivono. Ci vediamo sotto casa per scambiarci il materiale come fosse una refurtiva. Mi aiutano anche i miei figli, ma non voglio pesare troppo su di loro».

Che cosa fanno i suoi figli?

«Il maggiore è nato qualche ora prima che morisse mio padre. La notte tra il 29 e il 30 maggio 1966 andavo da un reparto all’altro dell’ospedale… Ha studiato all’estero, insegnato in Belgio, in Francia, ora è tornato. Il secondo si è laureato in legge, si occupa di appalti, ma ama girare e produrre corti cinematografici. Lui ha sempre vissuto a Trieste. Il paradosso è che, mentre del primo, giramondo, sapevo tutto, del secondo, stanziale, non so niente. È un’omertà che serve a proteggerlo e proteggermi, sono un padre ansioso».

Siete molto complici?

«Un triumvirato. Viviamo in ganga, come si dice a Trieste».

Oltre al mare e agli aiutanti che cosa le manca ancora?

«Le passeggiate, la città, il caffè. Lo so, in interiore homine habitat veritas (nell’intimo dell’uomo risiede la verità ndr), però a me piace uscire, fermarmi anche per poco con un amico. Amo una certa coralità perché appartengo a una generazione fortunata. Sono nato nel 1939 e la guerra l’ho vissuta attraverso i racconti dei miei genitori e dei nonni. Dopo la laurea a Torino ho trovato facilmente lavoro, in un’epoca in cui le cose che so fare erano più apprezzate».

Il lavoro intellettuale e la conoscenza della letteratura.

«Sì, non ho mai temuto di restare disoccupato come accade ai ragazzi di adesso. Oggi, dopo che un docente e uno studente si sono incontrati in studio, al pomeriggio si scambiano email per precisare i contenuti. Al mio corso erano iscritti 500 studenti, Claudio Gorlier di letteratura anglosassone ne aveva duemila: pensi se dopo averli incontrati fosse stato necessario precisare il colloquio per iscritto. Siamo stati fortunati, nel rapporto con il tempo…».

In che senso?

«Il presente si allargava nelle memorie degli adulti. La guerra e il dopoguerra… tutto era vissuto in una specie di fraternità. Non voglio fare il vecchio che deplora, ma oggi subiamo la dittatura dell’attualità. Presente uguale attualità».

Invece?

«Non parlo della Prima guerra d’indipendenza e di Carlo Alberto. Ma la Prima guerra mondiale, quella sì apparteneva alla mia formazione grazie ai racconti degli adulti. Era un presente dilatato. Oggi se non hai letto Il Codice Da Vinci devi giustificarti. Innanzitutto, ci vuole una motivazione per fare, prima che per non fare una cosa. Secondariamente: posso avere la libertà di preferire un’opera di Fëdor Dostoevskij che ancora non ho letto? Si può non stare in fila con la marcia del progresso?».

Rivendica il diritto di non accodarsi…

«Credo che Robinson Crusoe possa darmi più di tante riflessioni sul coronavirus. Non c’è nulla di reattivo in questo. Come non c’è nel fatto che preferisco la musica leggera di qualche decennio fa all’hip hop. Credo si possa marinare la scuola dell’attualità. Anche se poi il politically correct vorrebbe riportarci all’ordine».

Come, per esempio?

«Gliene faccio due. Il primo: Leggere Lolita a Teheran, titolo di un libro molto coccolato. Premesso che Lolita è un grande romanzo, che nessun libro va bandito e che la condizione della donna in Iran grida vendetta, come titolo avrei preferito Leggere Madame Bovary a Teheran, per dire. Invece, bisogna sempre indossare il distintivo. Il timore di non essere à la page finisce per guastare anche la causa più giusta».

Il secondo esempio?

«Lo rubo a mio figlio. Avrei voluto vedere i contestatori di Benedetto XVI quando disapprovò il matrimonio omosessuale scagliare almeno qualche pomodoro contro le ambasciate dei paesi dove venivano decapitati gli omosessuali adulti e consenzienti».

Che cosa pensa dei balconi canterini e di slogan come andrà tutto bene?

«Distinguerei. Certi slogan dovrebbero essere rivisti. Anch’io tendo a essere ottimista con la volontà ma pessimista con la ragione. Tutto bene per chi sopravvive. I balconi invece li sento più vicini. Sono un segno di quella coralità che amo. Nell’atrio del mio palazzo c’è un cesto dove gli inquilini mettono i propri libri a disposizione di tutti. Sono contento. Certo, sarebbe ingenuo sopravvalutare questi gesti, ma riterrei sbagliato arricciare il naso. Qualche giorno fa mi è arrivato un testo di Bergoglio quand’era cardinale, un commento agli esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Tra i motti nelle prime pagine citava Il capitano della compagnia, un vecchio canto degli alpini. Non possiamo fare gli aristocratici».

Le piace papa Francesco?

«Ha un’idea avventurosa e coinvolgente di Dio e del cristianesimo. Trovo ingiusto accusarlo di non pronunciarsi in difesa della vita, perché quando ha detto che l’aborto equivale ad <assoldare un sicario>, ha usato una delle espressioni antiabortiste più forti».

Che impressione le ha fatto la preghiera nella piazza san Pietro deserta?

«Ha avuto la forza di una poesia. Ho pensato che il cristiano non può essere solo anche quando sembra che lo sia. La piazza vuota mi ha ricordato anche il “non praevalebunt” citato da Benedetto XVI in uno dei suoi libri. E di cui parlammo…».

Cosa le disse?

«Ero andato a presentare il secondo volume della sua trilogia su Gesù. In un colloquio mi disse che potrà accadere che anche per mille anni il cristianesimo sia testimoniato da sparuti gruppi di fedeli, nascosti in qualche paesino di montagna, per poi rinascere. Ecco, una Chiesa lontana dai trionfalismi… Benedetto XVI mi citò la frase di Gesù: “La vita eterna è che conoscano Te e Colui che hai mandato”».

Il tempo va messo in relazione alla verità più che allo scorrere di ore e giorni?

«Da qui deriva il senso della storia della Chiesa. Questa drammaticità ce l’aveva anche Woytjla, il Papa polacco nato e formatosi in Polonia, nel regime comunista. Che, a un certo punto, capì che il comunismo tramontava, mentre il dio mercato era deciso a eliminare il cristianesimo».

Che cosa pensa della Pasqua con le chiese chiuse?

«Penso sia una grande privazione anche l’impossibilità di accedere ai sacramenti. Il cristianesimo non è una religione. Oggi il primo dietologo che passa spaccia i suoi consigli per un credo, una religione, una verità. Ma l’opinione è il contrario della verità. Per fortuna non mi ha chiamato opinionista».

Sta parlando della testata per cui scrivo?

«Sì, un po’ ambiziosa. Ma anche del cristianesimo, Gilbert Keith Chesterton parla del materialismo del cristianesimo, di Cristo sudato nel Getsemani. È tutto nell’anagramma di sant’Agostino della domanda di Ponzio Pilato a Gesù “Quid est veritas?” (Cos’è la verità?) “Est vir qui adest” (È l’uomo qui presente). Lo citò anche Carlo I d’Inghilterra prima di essere decapitato».

L’intervista è finita. Ma stavolta è Magris a richiamare: «Volevo dirle che c’è qualcosa di manzonianamente provvidenziale nel fatto che Matteo Salvini quest’estate abbia fatto cadere il governo. Altrimenti ci sarebbe stato lui adesso…», butta lì, ironico. Ma non si era detto che non si parlava di politica?

 

La Verità, 12 aprile 2020

Il virus e il «suggeritore» della Preghiera del Papa

Quell’immagine resterà a lungo nella mente dei fedeli e degli uomini di tutto il mondo. Come un frame, un fotogramma del grido dell’umanità, a testimonianza di quest’epoca di tragedia. Per quanto contano, lo confermano anche i dati di ascolto da record di Rai 1, in proporzione un’antenna locale: 8,6 milioni di telespettatori e il 32,7% di share, (ai quali vanno aggiunti i 2,8 milioni con il 10,6% di Tv2000, e le platee minori di RaiNews24 e SkyTg24). C’era idealmente tutto il mondo nella piazza san Pietro deserta. Tutto il mondo «flagellato dalla tempesta». La piazza solitamente affollata, gremita. Meta abituale dell’assembramento devoto. Pioveva al tramonto, a Roma. E, nella luce bluastra, si è udito il silenzio. Si è udita la voce flebile di papa Francesco. Si è udito il suono delle campane. Si è udito l’urlo delle ambulanze. Tutto si è fuso nella preghiera elevata da Bergoglio, protetto da una tettoia approntata sul sagrato della basilica. «Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città, si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti», ha detto Francesco. E poi ancora. «Con la tempesta è caduto il trucco degli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ego». Dallo studio di Rai 1, commentavano il vaticanista Ignazio Ingrao e monsignor Filippo Di Giacomo.

Mentre si ascoltava colpiva l’immagine dell’uomo vestito di bianco, sotto una tettoia anch’essa bianca, solo in mezzo al colonnato del Bernini. Francesco ha riproposto il vangelo della barca nel mare in tempesta, con gli apostoli spaventati mentre Gesù dorme, in apparenza indifferente. Fino a quando lo svegliano perché si vedono in pericolo. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?», si sentono rispondere. «La fede non è tanto credere che Tu esista», ha chiosato Francesco, «ma venire a Te, fidarsi di Te… Con Dio a bordo non naufragheremo». L’immagine della barca è servita a Bergoglio per sollecitare tutti alla solidarietà, «fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme». È giusto, tutti insieme. Ma il Papa ha fatto il Papa. E davanti alla pandemia sembra che la voce della massima autorità religiosa mondiale sia la più dotata di credibilità.

Era stato don Marco Pozza, durante una puntata domenicale di A sua immagine, collegato dal carcere di Padova di cui è cappellano, a invitare il Pontefice a un gesto di preghiera da piazza san Pietro. Un gesto con tutte le televisioni collegate, che avesse il sapore dell’evento. Bergoglio gli ha dato ascolto, come sta facendo da qualche tempo. Don Marco lo intervista da tre anni nei cicli sulla preghiera trasmessi da Tv2000. Insieme con alcuni detenuti del carcere padovano, ha partecipato alla stesura delle riflessioni della prossima Via crucis. Ha collaborato anche al testo della preghiera di venerdì sera. Al termine della quale, dopo l’adorazione al Santissimo in una ritualità che ha mostrato tutto il peso di duemila anni di storia, Francesco ha impartito la benedizione Urbi et Orbi con la concessione dell’indulgenza plenaria. Che, nell’impossibilità di accedere ai sacramenti in tempo di quaresima, accorda il perdono a tutti coloro che lo chiedono. Mentre la impartiva dall’ingresso della basilica, le sirene delle ambulanze si confondevano con il suono delle campane.

 

La Verità, 29 marzo 2020

Il Rosario per l’Italia su Tv2000 fa boom di ascolti

Le chiese sono chiuse, e quelle aperte non sono facili da raggiungere. Niente funzioni in tempo di quaresima che, a suo modo, è una forma di quarantena. Neanche un prete per chiacchierar mentre la paura è nuova compagna. Sarà tutto questo ad aver fatto lievitare gli ascolti del Rosario per l’Italia indetto dalla Conferenza episcopale italiana, recitato dalla basilica di San Giuseppe al Trionfale di Roma e trasmesso da Tv2000. Risultato: 12.8% di share, 4,2 milioni di telespettatori, seconda rete assoluta dietro Rai 1 (che trasmetteva l’episodio finale della stagione di Don Matteo, 26.5%, 7,4 milioni). Record assoluto per l’emittente dei vescovi.

Introdotto da papa Francesco che, collegato dal suo appartamento, nella giornata del 19 marzo, ha letto un messaggio davanti a un dipinto di San Giuseppe, l’evento religioso è durato una quarantina di minuti. Bergoglio si è rivolto al «falegname di Nazareth» chiedendogli di proteggere «questo nostro Paese» e di illuminare «i responsabili del bene comune perché sappiano, come te, prendersi cura delle persone affidate alla loro responsabilità». A seguire, la recita delle orazioni officiate dal segretario generale monsignor Angelo Russo, ispirate ai misteri della luce e introdotte da letture mistiche di Santa Caterina da Siena. Le reti generaliste trasmettevano i talk show, la replica dei Soliti Ignoti, Striscia la notizia e l’inizio dei programmi di prima serata. Personalmente, alle 21, ero uscito furtivamente per depositare la spazzatura differenziata. Sentite le campane di una chiesa non troppo lontana, mi è tornato in mente l’appuntamento promosso dalla Cei. E pazienza per Lilli Gruber e soprattutto per Barbara Palombelli.

I sociologi lo constatano puntualmente: quando il pericolo incombe, la popolazione si attacca alla preghiera e alla devozione. Per dare il polso dell’evento, normalmente il canale diretto da Vincenzo Morgante si assesta su una media di share vicina all’1%. Anche se in questi giorni gli ascolti stanno crescendo un po’ durante tutta la giornata. È l’eccezionalità del momento combinata con le chiese off limits, che ha spinto il pubblico a sintonizzarsi sul canale 28 del digitale o 5028 della piattaforma satellitare.

Domenica scorsa don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, collegato con A sua immagine di Rai 1, aveva invitato Francesco a un grande gesto di preghiera da trasmettere in mondovisione. Considerata anche l’audience del Rosario per l’Italia potrebbe essere un suggerimento da vagliare.

 

La Verità, 21 marzo 2020

I laici citano sant’Agostino, il Papa Fabio Fazio

Apro il Tg1 delle 13.30 e trovo come prima notizia l’intervista di Francesco a Repubblica. In bella evidenza copia del quotidiano e il sorprendente endorsement papale a Fabio Fazio. In fondo, è pur sempre un conduttore di Mamma Rai. Cambio canale, perplesso. Ma il tg di La7, di proprietà di Urbano Cairo, editore del Corriere della Sera, la ignora. Sarà mica che Bergoglio è finito dentro il gioco dei media e dei poteri forti?

Un Papa nonno non me l’aspettavo. Soprattutto, mi aspettavo di più da un Papa. Da papa Francesco. Lo dico con dolore. Con rammarico e delusione, purtroppo. In mezzo a tanti guru da quarantena che imperversano ovunque, sui giornaloni, sui social e in tv, da Bergoglio mi aspettavo parole ultime. Parole che vanno all’essenziale. Siamo messi faccia a faccia con la morte. Con il destino. Non alla rinuncia all’apericena sui Navigli. Siamo a confronto con il pericolo massimo che si fa prossimo, in modo imprendibile come raramente capitato dalla fine della Seconda guerra mondiale. C’è una pandemia, uno scenario dai risvolti drammatici che coinvolge l’intero pianeta.

Ci era andato vicino domenica scorsa Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, scrivendo che «torna la voglia di parole vere». E, non a caso, aveva citato proprio Bergoglio che, sempre domenica, con un gesto commeovente era andato a piedi a pregare nella chiesa di Santa Maria Maggiore davanti all’icona della Vergine «Salus populi romani». Un pellegrinaggio, meglio di tante parole. Per questo, in mezzo alla selva di consigli, decaloghi e omelie di tanti telepredicatori, da Francesco ci aspettavamo qualcosa più di un paterno buffetto sulla guancia. «Dobbiamo ritrovare la concretezza delle piccole cose, delle piccole attenzioni da avere verso chi ci sta vicino, famigliari, amici. Capire che nelle piccole cose c’è il nostro tesoro». Fin dalle prime righe sembrava di sentir parlare Fazio. Lui. Possibile? Ma di fronte a questa situazione un Papa non dovrebbe parlarci del Salvatore? Di un Tizio che è morto in croce per riscattarci dalla fragilità, dalla provvisorietà? Antonio Scurati agli albori dell’epidemia ha scritto che dobbiamo ricostruire «una coscienza collettiva della nostra finitudine». Se non è questo il cristianesimo che cosa lo è? Se non lo dice la massima autorità mondiale, il Vicario di Cristo, chi lo fa? Avete presente, qui ci vorrebbe l’emoticon con il faccino interrogativo e il pollice e l’indice attorno al mento.

Immerso nelle perplessità ho proseguito la lettura fino all’epifania. «Mi ha molto colpito l’articolo scritto su Repubblica da Fabio Fazio…». Ma dai? «Che cosa in particolare?» gli ha chiesto il giornalista. «Tanti passaggi, ma in generale il fatto che i nostri comportamenti influiscono sempre sulla vita degli altri». E poi, «quando dice: “È diventato evidente che chi non paga le tasse non commette solo un reato ma un delitto: se mancano posti letto e respiratori è anche colpa sua”. Questo passaggio mi ha molto colpito». Papale.

Ora questa faccenda si presta ad alcune considerazioni. La prima è una domanda. Davvero Francesco aveva letto Fabio Fazio del giorno prima? O qualcuno gliel’ha segnalato? E davvero il Papa ha confessato questa impressione senza che magari il suo confidente abituale a Repubblica incoraggiasse, diciamo così, la conversazione di ieri? E se così fosse, a che situazione saremmo di fronte? Sono solo domande, eh.

Il secondo quesito è nel merito. Stiamo sempre parlando del custode della cristianità o di un ministro del Tesoro italiano che stigmatizza le conseguenze, pur nefaste, dei comportamenti degli evasori?

La terza è una considerazione. Gli psichiatri e gli intellettuali laici in questo momento tanto drammatico citano Le confessioni di Sant’Agostino, per dire, e il pontefice eleva Fazio a nouveau philosophe.

’Namo bene, direbbero a Roma.

«È finita l’era della finta concordia tra i due Papi»

È l’osservatore più acuto di ciò che succede nei Sacri Palazzi. 76 anni, con studi alla Facoltà Teologica di Milano e poi all’università Cattolica del Sacro Cuore e autore di colpi giornalistici come la pubblicazione in anteprima, nel marzo 2018, della lettera integrale di Joseph Ratzinger, manipolata per simulare il suo sostegno a teologi bergogliani, Sandro Magister tiene sul sito dell’Espresso il seguitissimo blog Settimo cielo, diffuso in quattro lingue. A lui ci siamo rivolti per illuminare i fatti di questi giorni e capire come potrà proseguire la convivenza tra i due Papi dopo la tortuosa pubblicazione del libro sul celibato dei sacerdoti, uscito ieri in Francia e atteso per fine mese in Italia.

Che idea si è fatto del saggio Dal profondo dei nostri cuori (Cantagalli) scritto dal cardinale Robert Sarah e da Benedetto XVI?

«Il 2019 è stato un anno chiave per la convivenza che, banalizzando, chiamiamo dei due Papi. Perché in quest’ultimo anno il Papa emerito ha deciso di uscire allo scoperto su temi scottanti che riguardano il magistero e la pastorale ecclesiastica. Nell’aprile scorso ha affidato a un mensile tedesco gli Appunti sugli scandali degli abusi sessuali, nei quali delineava una causa della crisi della Chiesa diversa da quella prospettata da Francesco. Ora ha deciso di pubblicare una riflessione sul celibato sacerdotale prima che Francesco si pronunci con la sua Esortazione sul Sinodo dell’Amazzonia. Se ha scelto di rompere il silenzio che si era autoimposto all’atto della rinuncia è perché ritiene particolarmente grave la situazione della Chiesa di oggi».

Una situazione che rende «impossibile tacere», come hanno scritto gli autori del libro citando Sant’Agostino?

«Esatto. È una scelta che richiama alla memoria quella dei grandi monaci antichi che, quando vedevano in pericolo la vita delle comunità, abbandonavano l’isolamento per soccorrerle. Così oggi, il Papa emerito lascia la sua posizione di ritiro e preghiera per accompagnare con la sua voce autorevole la Chiesa in un momento di grande incertezza».

Questa vicenda fa esplodere l’anomalia dei due Papi: diventa urgente regolamentare l’azione e la parola di Benedetto XVI?

«Effettivamente questi ultimi avvenimenti hanno messo in luce qualcosa di non risolto. La compresenza dei due Papi, uno regnante e uno emerito, è un primum assoluto. La figura del Papa emerito non ha codificazione canonica e viene inventata da colui che lo è per la prima volta. Il quale, all’atto della sua abdicazione, lasciò nel vago gli indirizzi relativi agli ambiti del suo agire, mostrando di potersi comportare in modo originale e creativo».

Aveva promesso una posizione ritirata e di preghiera mentre ha recuperato un protagonismo diverso?

«Per di più su argomenti cruciali. Non va trascurato il fatto che Benedetto XVI ha attribuito la causa degli abusi sessuali alla perdita della vicinanza a Dio di gran parte della Chiesa, mentre per Francesco la causa va individuata nel clericalismo. Quanto al celibato dei sacerdoti, Ratzinger ne ritrova addirittura nell’antico testamento il fondamento teologico, per il quale la totale dedizione a Dio è incompatibile con un’altra dedizione assoluta com’è quella richiesta nel matrimonio».

C’è chi osserva che il celibato dei preti non è un dogma, ma una scelta recente della Chiesa.

«Non è il pensiero di Benedetto XVI. Egli ammonisce che toccare questo cardine non è semplice perché fonda lo stato ontologico del consacrato a Dio».

La pubblicazione di questo testo è una forma di pressione su papa Francesco che sta per promulgare l’Esortazione del Sinodo dell’Amazzonia? Qualcuno ha parlato anche di interferenza sul suo magistero.

«Credo vada inteso come un segnale di allarme levato da personalità di grande autorevolezza, Benedetto XVI in particolare, per richiamare l’attenzione sulla gravità della decisione che sta per essere presa. Se si apre uno spiraglio per l’Amazzonia, nel tempo potrà valere per tutta la Chiesa».

Dopo il ritiro della firma in copertina e la scelta di specificare che il libro viene pubblicato «con il contributo» di Benedetto XVI ci si chiede come il Papa emerito potesse non sapere di partecipare a una pubblicazione a doppia firma.

«Se anche potessimo ammettere che il Papa emerito non avesse nozioni precise della veste editoriale della pubblicazione, tuttavia la sostanza del suo pensiero non lascia spazio a interpretazioni. E non lascia dubbi anche il fatto che abbia voluto essere parte di questo libro con un suo testo, e leggendo e approvando tutte le altre parti della pubblicazione, come dimostrano le sue lettere rese pubbliche dal cardinal Sarah».

Secondo lei che cosa scriverà papa Francesco nel documento sul Sinodo?

«Per quanto visto in questi sette anni di pontificato non mi sorprenderei se aprisse uno spiraglio ai presti sposati, magari in una nota a piè di pagina. Da un lato potrebbe confermare genericamente la dottrina attuale, dall’altro consentire eccezioni che verranno affrontate con prassi più o meno disinvolte. È ciò che è accaduto sulla dottrina del matrimonio dopo il Sinodo sulla famiglia».

Accadrà anche sul celibato ecclesiastico?

«Gli indizi non mancano. Al ritorno dal viaggio a Panama, parlando in aereo con i giornalisti, papa Bergoglio citò e condivise l’espressione di Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato sacerdotale”. Ma dopo quella frase proseguì riferendosi a situazioni particolari nelle isole del Pacifico e citando come interessante un libro del teologo tedesco Fritz Lobinger, divenuto vescovo in Sudafrica, favorevole all’ordinazione sia di uomini che di donne sposate, ai quali affidare il solo compito dell’amministrazione dei sacramenti, senza le altre due funzioni, di insegnamento e di governo, che indissolubilmente sono proprie del sacerdozio».

Perché dovremmo temere qualche eccezione?  

«Perché un’eccezione consentita in Amazzonia o in un’isola del Pacifico diventerebbe presto la regola in una Chiesa cattolica come quella di Germania, tra le più disastrate al mondo per declino di fedeli e di fede eppure curiosamente guardata da papa Francesco come l’avanguardia del rinnovamento ecclesiale».

Nella Chiesa ortodossa ci sono da sempre i preti coniugati.

«Intanto, nella Chiesa ortodossa i vescovi sono soltanto celibi. Inoltre, nel libro Ratzinger ricorda che la Chiesa universale dei primi secoli prevedeva sì ministri coniugati, ma chi veniva ordinato doveva cessare di avere rapporti con la propria moglie. Successivamente, all’ordinazione sacerdotale sono stati ammessi solo celibi».

La scarsità di vocazioni non è motivo sufficiente per ammettere «anziani» coniugati di provata fede?

«Anche nella Chiesa nascente scarseggiavano le vocazioni eppure la cristianità è fiorita ugualmente. Le comunità cattoliche del Giappone sono eroicamente sopravvissute 250 anni senza che ci fosse un solo sacerdote. Così è avvenuto per numerose comunità nascoste nel mondo. Esistono i modi per supplire all’assenza di sacerdoti».

Per esempio?

«La domenica, dove manca chi può celebrare l’eucarestia, i laici possono leggere le letture, recitare il credo e distribuire le ostie consacrate e conservate dall’ultima volta che il prete è venuto. È una prassi non così diversa da quella che si adotta portando la comunione ai malati».

I fautori dell’apertura ai preti sposati osservano che gli apostoli avevano tutti moglie e figli.

«Tutti no. L’apostolo Paolo era celibe. E naturalmente lo era Gesù. Il lasciare casa e famiglia per seguire Gesù non era una metafora ma la realtà. Gesù ammirava chi identificandosi pienamente in lui “si fa eunuco per il regno dei Cieli”».

Nelle lettere esibite dal cardinal Sarah, Benedetto XVI approva la forma della pubblicazione prevista. Il ritiro della firma è dovuto a pressioni o a cos’altro?

«Le parole cantano. L’adesione di papa Benedetto XVI al progetto è evidente. Non c’è stato niente di cui fosse all’oscuro. La polemica è nata dalla volontà dei sostenitori di papa Francesco di sminuire la portata del libro e forse da una certa fragilità dell’arcivescovo Georg Gänswein, segretario di papa Benedetto XVI e prefetto della Casa pontificia, nel resistere a tali pressioni».

Nel marzo 2018, quando fu chiara la strumentalizzazione di Ratzinger per sostenere la pubblicazione di alcuni testi di teologi bergogliani, il prefetto della Segreteria per le comunicazioni, monsignor Dario Viganò, si dimise. Stavolta che conseguenze ci saranno?

«Credo nessuna. Non c’è un capro che deve espiare. Il cardinal Sarah sarà magari destituito da prefetto della Congregazione per il culto divino al compimento dei suoi 75 anni. C’è un contrasto vistoso tra le sue posizioni e quelle di papa Francesco. Ma nella Chiesa questo non dovrebbe sorprendere perché le contrapposizioni ci sono sempre state, anche durante i pontificati di Benedetto XVI, di Giovanni Paolo II e di Paolo VI».

Secondo lei c’è relazione tra queste due vicende?

«La similitudine è nel vano tentativo di esibire una totale concordia tra Benedetto XVI e Francesco».

Come potrà proseguire la convivenza tra loro?

«Temo che sarà sempre più ridotta a delle formalità. Oggi le distanze risultano più evidenti di quanto si potesse prevedere subito dopo l’abdicazione di Benedetto XVI e l’elezione di Francesco. Un motivo in più dell’oggettiva difficoltà di convivenza tra due Papi, mai sperimentata prima».

Qual è la sua valutazione del pontificato di Bergoglio?

«È un pontificato che ha messo in moto dei processi, moltiplicando le opzioni, ma senza contemporaneamente orientarli. In più occasioni Francesco ha detto che il pastore non si pone tanto davanti o in mezzo al gregge, ma dietro, perché il gregge sa già lui dove andare. Francamente, questo a me pare uno svilimento del ruolo di guida affidato in origine al successore di Pietro, a partire dal Nuovo Testamento».

 

 La Verità, 16 gennaio 2020

 

 

Iacona, tecnica perfetta dell’inchiesta pilotata

Le inchieste si possono fare in tanti modi. Con rigore o partigianeria, pilotando i servizi o dando pari dignità alle fonti. Quella di Presa diretta di lunedì s’intitolava «Attacco al Papa» e due ore di servizi, interviste e ricostruzioni sono servite per dire, in buona sostanza, che Francesco è un papa scomodo che vuole rivoluzionare la Chiesa, renderla più adeguata ai tempi, ma che subisce attacchi provenienti da tutte le parti, soprattutto da forze interne alla Chiesa, sinteticamente identificate come «i cattolici tradizionalisti» (Rai 3, ore 21.20, share del 6.9%, 1,7 milioni di telespettatori).

L’architettura dell’inchiesta era già bella e pronta quando a Riccardo Iacona è scoppiata in mano la bomba del libro Dal profondo del nostro cuore (Castelvecchi) scritto dal cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino, e con un contributo di Benedetto XVI sull’intangibilità del celibato dei preti. A quel punto il conduttore ha potuto solo convocare in studio il vaticanista dell’Asca Iacopo Scaramuzzi, consulente dell’inchiesta, per inglobare anche la riflessione di Ratzinger e Sarah nella strategia dell’«attacco» a Bergoglio.

Tornando all’inchiesta, le questioni che stanno a cuore al conduttore della Rai 3 ancora diretta da Stefano Coletta ma direttore in pectore di Rai 1, sono due: le aperture verso i divorziati risposati e gli omosessuali e la catechesi dell’accoglienza ai migranti ribadita da Bergoglio. Le inchieste si possono fare in tanti modi: ricostruendo sbrigativamente lo scandalo degli abusi dell’ex cardinale statunitense Edgar McCarrick, ridotto allo stato laicale solo dopo le insistenze dei vescovi americani e la denuncia dell’ex nunzio apostolico Carlo Maria Viganò. Oppure, identificando le critiche al magistero attuale con l’attività di una tv militante del Michigan, con ingenui ambienti leghisti, o ponendo frettolose domande al cardinal Gerhard Muller, già prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Si possono fare ascoltando come oro colato le analisi del priore della comunità di Bose, padre Enzo Bianchi, e del fondatore della Comunità di sant’Egidio Andrea Riccardi. E, contemporaneamente, si possono fare evitando qualsiasi accenno ai Dubia espressi nel 2016 da quattro autorevoli cardinali a proposito di alcuni passaggi dell’Amoris laetitia. O, infine, guardandosi bene dall’interpellare voci significative come Aldo Maria Valli, già vaticanista del Tg1, Sandro Magister, esperto analista dell’Espresso, Antonio Socci, autore di qualche saggio in argomento, il sito La Nuova bussola quotidiana… Le chiamano inchieste.

 

La Verità, 15 gennaio 2020

«Spero che il Papa edifichi la Chiesa, prego per lui»

Antonio Socci fa tutti i giorni la spola da Siena a Perugia per andare alla Scuola di giornalismo della Rai che dirige dal 2004. Tre ore al giorno di macchina: come le impieghi e dove trovi il tempo per leggere i tomi che citi in Il dio Mercato, la Chiesa e l’Anticristo (Rizzoli)? «In macchina ascolto la radio, telefono, prego… Quanto ai libri, questo è un argomento che bazzico da parecchio». Da quando era ragazzo, si può dire. Fin dai tempi del Sabato, il settimanale dove entrambi abbiamo lavorato e al quale, nell’introduzione, riconosce l’intuizione illuminante di questa controversa epoca, sulla scorta di due pilastri della letteratura del Novecento: Il racconto dell’Anticristo del pensatore russo Vladimir Sergeevic Soloviev e il romanzo distopico Il padrone del mondo di Robert Benson. Era il 1988, il Muro di Berlino doveva ancora cadere e negli anni successivi, dopo esser divenuto un classico del movimento di Comunione e liberazione, il dialogo tra l’imperatore e lo starets Giovanni fu riproposto dal cardinale Giacomo Biffi negli esercizi spirituali alla Curia romana del 2007 e, in diverse occasioni, da Benedetto XVI. Il passaggio più significativo è nel faccia a faccia tra l’imperatore, un «messia del politicamente corretto», cui i rappresentanti delle religioni si sottomettono, e il mistico, testimone degli ultimi cristiani, che gli resiste. Al quale l’imperatore chiede, irritato: «Che cosa posso fare ancora per voi? Strani uomini! Che volete da me? Io non lo so. Ditemelo dunque voi stessi, o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, condannati dal sentimento popolare, che cosa avete di più caro nel cristianesimo?». La risposta, umile ma fiera, dello starets è un manifesto: «Grande sovrano, quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente la pienezza della divinità».

Socci è da alcuni anni un acceso critico del magistero di papa Francesco, perciò, accostandosi alla lettura di un saggio che ha l’Anticristo nel titolo c’è di che temere. Invece si conclude con l’invito a raccogliere l’esortazione di papa Francesco a pregare per lui.

Come mai?

«Perché lo chiede. E prego affinché si converta e si ponga sulla strada di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Finora sembra quasi volersi identificare con inquietanti figure bibliche. Vorrei che lo salvassimo da questa deriva».

È una conclusione che sorprende perché sei considerato uno degli antagonisti più intransigenti del magistero di papa Francesco. Qualcosa ti ha frenato?

«No. Ho scritto liberamente ciò che penso. Ma non mi riconosco nel ruolo di antagonista. Sono solo un giornalista. Ogni giorno da sei anni mi auguro di scoprire di avere torto. Faccio il tifo contro di me, ma purtroppo Bergoglio provvede da solo a confermare i miei timori. Da povero cristiano, con dolore, scrivo su questa situazione solo per dovere di coscienza. Mi costa. Preferirei continuare a pubblicare testi di apologetica come ho fatto per trent’anni».

Fino a un certo punto sembrava che la tua riflessione portasse a identificare Francesco con l’Anticristo.

«Nel suo libro L’Anticristo Joseph Roth scrive che l’Anticristo è in ognuno di noi. Ciò che si oppone a Cristo è anche in noi. Nell’Apocalisse si profetizza poi che questa opposizione al Redentore diventerà un giorno un sistema, un potere politico ed economico planetario. Il catechismo della Chiesa cattolica ci spiega che avrà un’ideologia anticristiana, ma mascherata da umanesimo. Sarà una “impostura religiosa”. È una filantropia che usa parole cristiane, ma in realtà espelle Cristo e pone l’uomo al posto di Dio. Chi ha autorità nella Chiesa deve fare come Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, non può essere supporto a questa impostura».

Oltre l’affermazione, condivisibile, temi che questo stia avvenendo?

«Sì».

L’Anticristo è un sistema economico, una nuova seducente religione basata su filosofie facilmente condivisibili o «un sorridente inquinatore» come dice Vittorio Messori?

«Ci sono tutte queste componenti. Solovev lo dipinge come “un messia del politicamente corretto”, perfino europeista ed ecologista. Anche Massimo Cacciari vede nella modernità un potere fortemente anticristiano. Quello che fa pensare è la divinizzazione del mercato. Sono formidabili le pagine di Walter Benjamin sul “Capitalismo come religione”. Nel libro riporto le riflessioni di Jacques Attali, di Giulio Sapelli e Giulio Tremonti, non tre pericolosi sovversivi, che descrivono lo strapotere del “mercatismo” che si mangia la democrazia, i popoli e gli Stati. Inoltre si associa ad esso il prometeico potere della tecnica che ormai minaccia l’umano fin nella sua essenza. Del resto per la prima volta nella storia l’uomo ha il potere, premendo un solo bottone, di distruggere il mondo e l’umanità. Se non è apocalittico questo…».

Papa Francesco è danneggiato dalla narrazione dei media che ne enfatizzano gli interventi organici alle filosofie umanitarie, mondialiste, ecologiste?

«No. Lui finora è stato così.».

Per esempio, sottolineano in chiave anti Salvini i pronunciamenti favorevoli all’accoglienza ai migranti.

«Ma papa Bergoglio ha fatto delle sue battaglie politiche il connotato del suo pontificato. Come ha detto Marcello Pera, in lui non senti il Vangelo, ma solo la politica. Del resto se i media mainstream che attaccavano i suoi predecessori ora applaudono lui acriticamente, vorrà pur dire qualcosa».

Ma tu all’inizio gli avevi fatto un’apertura di credito.

«Certo. Era doveroso. Ma sono bastati sei mesi per farmi ricredere. Anzitutto fu il commissariamento dei Francescani dell’Immacolata, una famiglia religiosa mirabile, piena di vocazioni, che viveva di ascesi, preghiera e povertà. Non essendo cattoprogressista era guardata male. Poco dopo, nell’ottobre 2013, arrivò la prima intervista a Eugenio Scalfari e a quel punto mi fu chiaro chi è Bergoglio».

Scalfari non ha l’abitudine di prendere appunti o di registrare, tanto che i contenuti di quelle conversazioni hanno collezionato smentite.

«Non sono state vere smentite, infatti quei colloqui sono stati ripubblicati dalla Libreria editrice vaticana, perciò… Se un giornalista attribuisce a un papa delle enormità e questo non smentisce categoricamente, fa ripubblicare quelle interviste e addirittura torna a farsi intervistare da lui che si deve pensare?».

Qualche giorno fa, ricevendo i membri del centro studi Rosario Livatino, Francesco ha condannato decisamente il ricorso all’eutanasia.

«Ogni tanto si allinea al magistero dei suoi predecessori. Ma capita molto sporadicamente e i suoi sostenitori e i media lo elogiano proprio per la discontinuità. Infatti piace a Repubblica invece che ai cattolici. I quali sono disorientati anche per le enormità pastorali che caratterizzano il suo pontificato. Del resto i fatti hanno dimostrato che cedere alla mentalità mondana non solo non porta alla fede i lontani, ma allontana anche i fedeli. Come già era accaduto in America latina dove si è consumato il colossale fallimento del cattoprogressismo che ha visto fuggire dalla Chiesa milioni e milioni di fedeli. Purtroppo nel 2013 un cattoprogressista argentino è stato messo a capo della Chiesa universale, così ora si replica quel fallimento su scala planetaria».

In questi giorni, in una lettera apostolica ha parlato del presepio come di un «mirabile segno», invitando a farlo nelle case e nei luoghi di lavoro.

«Lo ha fatto per cercare di rifarsi l’immagine dopo la catastrofica figuraccia del Sinodo amazzonico. E dopo aver elogiato il presepio ha specificato anche di non strumentalizzarlo. Quindi alla fine è pure questa un’iniziativa anti Salvini. Anche le, poche, cose condivisibili che dice sono minate da una logica politica».

Dicevamo che il tuo è un libro apocalittico. Siamo già nel tempo dell’apostasia che precede il giudizio finale?

«Cito il grande teologo del Concilio Jean Danielou il quale spiega che il tempo cristiano è per definizione un tempo apocalittico. Con la morte e resurrezione di Cristo tutto è già compiuto, nulla di sostanzialmente nuovo può più accadere. Il tempo è dato per scegliere: con Cristo o contro. Anche Ivan Illich conferma che dopo l’era cristiana non esiste un’era post cristiana, ma solo un tempo apocalittico, quello dell’Anticristo. Invece, al convegno di Firenze del 2015, papa Francesco ha detto che “oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca”. Come se potessero esistere epoche nuove e la Chiesa dovesse adeguarvisi. Ma la Chiesa non deve adeguarsi ai tempi, deve salvare tutti i tempi».

Cos’è questo tempo apocalittico, questa «grande apostasia»?

«La Chiesa rivive in tutto la vicenda di Gesù. Questo tempo è il suo venerdì santo. Il momento in cui Gesù è stato tradito e abbandonato. I papi del Novecento hanno avvertito la drammaticità di quest’ora, documentata anche dagli eventi del secolo breve. Le parole di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che riporto nel libro sono impressionanti».

La presunta sintonia tra Benedetto XVI e papa Francesco è appunto molto presunta?

«Bergoglio è agli antipodi di tutti i suoi predecessori. Faccio solo un esempio. Interpellato dalla Stampa su quale sia l’emergenza per l’umanità contemporanea Bergoglio ha parlato della diminuzione della biodiversità. Sinceramente una risposta così può darla il presidente del Wwf. Qualunque papa del nostro tempo avrebbe indicato la cancellazione di Dio come la tragedia di questa epoca. Nei suoi ultimi interventi Benedetto XVI lo ha ripetuto».

Perché secondo te papa Francesco non ha mai risposto al documento dell’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti Carlo Maria Viganò sul fatto che fosse a conoscenza delle pratiche dell’ex cardinale Theodore McCarrick?

«Penso che monsigor Viganò abbia fatto scacco al re e il re ha deciso di buttare per aria la scacchiera.

Non c’è il pericolo di strumentalizzare Benedetto XVI in chiave anticomunista e antibergoglio?

«Piuttosto, vedo un altro pericolo, e cioè che quella parte del mondo cattolico cresciuta nella fede con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI oggi, per reazione, rischi di lasciarsi sedurre dalle sirene lefebvriane. Non a caso questi ambienti ipertradizionalisti sono molto più critici verso il magistero di Karol Woytjla e Joseph Ratzinger che non verso Jorge Mario Bergoglio».

L’insistenza sulle radici cristiane dell’Europa era la battaglia degli atei devoti, perché è così importante?

«No, è stata la battaglia di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. L’eliminazione del richiamo alle radici cristiane è la prova che la nuova Unione europea, laicista e tecnocratica, voleva tagliare le sue fondamenta. Questo odio del cristianesimo è un capitolo dell’odio di sé dell’Occidente in nome del multiculturalismo. Ma se non si sa più qual è la propria identità non è possibile neanche la famosa integrazione. L’Europa di Maastricht non voleva essere più ancorata alla sua storia, al cristianesimo e a ciò che questo significava, per esempio sui temi etici».

La Chiesa attuale non si accorge di tutto questo?

«Bergoglio è allineato all’ideologia dominante. Dice che l’Europa deve identificarsi con “accoglienza” e che non bisogna essere “identitari”. Questo è nichilismo».

Forse ritiene i temi sociali più importanti dei temi etici?

«Nel mondo si praticano ogni anno circa 50 milioni di aborti. Due giganti come Giovanni Paolo II e Madre Teresa ritenevano questa la più grande tragedia del nostro tempo. Non è solo una tragedia etica, ma anche sociale: quei bimbi sono gli ultimi degli ultimi diceva Madre Teresa. La globalizzazione ha due facce complementari ed entrambe disastrose: la deregulation finanziaria e la deregulation antropologica. La Chiesa deve combatterle entrambe».

L’insistenza sul katechon, sul tenere a freno, non rischia di fare della Chiesa un’entità antimoderna?

«Modernità è una categoria ideologica, presuppone che la storia marci per sua natura verso il Bene: basta vedere cosa è stato il Novecento per capire che è un’idea farlocca».

Ma criticando papa Bergoglio non si rischia di sottovalutare le esigenze dei popoli più poveri e dei conseguenti movimenti migratori o della situazione climatica del pianeta?

«È esattamente il contrario. È il Papa che sottovaluta la complessità di queste emergenze, usando slogan degli anni Settanta sui ricchi e i poveri. Siamo in uno scenario diverso nel quale domina il dio mercato che pretende di essere legge a se stesso e dagli anni Novanta ha imposto una globalizzazione la quale trova negli Stati e nelle sovranità dei popoli l’unico ostacolo. Per questo attaccare i sovranisti ed esaltare i globalisti e la Ue come fa Bergoglio è perfettamente funzionale ai poteri forti. Anche sull’emigrazione. Come non vedere che i movimenti migratori rispondono alla necessità del mercato di disporre di manodopera a basso costo e senza garanzie sociali? Non a caso i vescovi africani e il cardinal Robert Sarah sostengono a gran voce che favorire i flussi migratori porterà alla morte dell’Africa. Al contrario, Bergoglio da anni ha fatto del migrazionismo la sua bandiera».

Ora la battaglia che conta è quella contro il cambiamento climatico.

«Bergoglio ha assunto come indiscutibile dogma di fede quel riscaldamento globale per cause umane che la scienza stessa considera un’ipotesi, su cui oltretutto ci sono opinioni diverse. Ma, quand’anche fosse un’idea fondata, Gesù è venuto a salvare le anime, non il pianeta. Anzi, ha detto che <il cielo e la terra passeranno>. È solo Lui che non passerà. La Chiesa dovrebbe annunciare cieli nuovi e terra nuova e non trasformarsi nella guardia forestale del pianeta. San Tommaso e Sant’Agostino dicono che agli occhi di Dio la salvezza di una sola anima vale più di tutto l’universo creato».

 

La Verità, 8 dicembre 2019

D’Agostino: «Le strade che portano a Conte»

La crisi italiana, l’elevazione di Giuseppe Conte a statista, la riabilitazione del nostro Paese. Sono novità derivate tutte dal contesto internazionale. «Me lo fece capire una volta Francesco Cossiga», racconta Roberto D’Agostino, fondatore proprietario e direttore di Dagospia, il sito di anticipazioni, inchieste e scenari che Politico.eu, la testata online di analisi politica più compulsata a Washington e Bruxelles, ritiene «una lettura obbligata per le élite». «Cossiga mi disse che contano gli equilibri internazionali. E che dobbiamo ricordarci di essere un Paese sconfitto della Seconda guerra mondiale. All’estero non si dimentica tanto in fretta. Invece la nostra stampa non sa guardare fuori dai confini. Alberto Arbasino suggeriva ironicamente di fare una gita oltre Chiasso. Magari potremmo riuscire a capire perché, nel giro di tre giorni, dal rischio di essere come la Grecia, improvvisamente siamo diventati la nuova Svizzera».

Con le dita cerchiate da anelli, i tatuaggi che ricoprono gran parte del corpo, la barba mefistofelica sebbene si dichiari credente, il sulfureo blogger autore dell’imprescindibile Dago in the Sky ora viene invitato a parlare nelle università, non solo italiane. Panorama gli ha chiesto di essere lo storyteller della crisi appena conclusa.

Quanto durerà il Conte bis?

«Quanto decideranno i poteri internazionali che lo hanno voluto. In Italia pochi hanno notato un fatto rilevante. Il 23 agosto scorso, davanti ai colleghi delle banche centrali, Jerome Powell, presidente della Federal reserve, portando le prove del rallentamento dell’economia globale, dopo aver citato la recessione in Germania, le difficoltà della Cina, le tensioni a Hong Kong e il rischio di una hard Brexit, ha parlato della dissoluzione del governo italiano. Perché, mi sono chiesto, con quello che accade in Iran e la guerra dei dazi, il più potente banchiere del mondo parla della crisi del governo italiano?».

E come si è risposto?

«Mi sono risposto che il caso italiano ha un’influenza notevole nello scacchiere globale con i suoi precari equilibri. La nostra stampa però, sempre ripiegata sui due Mattei, Di Maio e Zingaretti, non se n’è accorta. Ma il mondo non è su Rete4 e su La7».

Tutti hanno voluto Conte, Angela Merkel, Emmanuel Macron, Donald Trump: se l’aspettava?

«Anche Bill Gates».

Persino lui. E poi gli euroburocrati, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, le borse, la sinistra post-blairiana, i gesuiti, la Cei, la Cgil, senza parlare di Renzi e Beppe Grillo…

«Già, abbiamo trovato una sorta di Garibaldi che si chiama Giuseppe Conte».

Un salvatore, uno statista.

«Risulta un gigante perché si contrappone a uno che faceva il dj al Papeete di Milano Marittima. Negli ultimi tempi Salvini le ha sbagliate tutte».

Spicca per contrasto. Ma le sue doti personali quali sono?

«Conte non nasce per caso. La prima spia mi si è accesa quando da avvocato del popolo, formula inventata da Rocco Casalino, ha voluto tenersi le deleghe sui servizi segreti. Come mai? Perché voleva mantenere il collegamento con il Deep state e le burocrazie? La seconda spia si è illuminata quando ho visto che frequentava il cardinale Achille Silvestrini, pace all’anima sua, il segretario di Stato Pietro Parolin, ed è stato ricevuto in pompa magna da Bergoglio che invece non ha mai voluto vedere Salvini nonostante le richieste. E qui c’è un’altra scelta sbagliata del Capitone, come lo chiamo io: schierarsi con la curia romana in guerra con il Papa».

Anche il rapporto con Mattarella si dice sia contato parecchio.

«Fino a un certo punto Mattarella non sapeva nulla di Conte. Al Quirinale ha molta influenza Ugo Zampetti, colui che ha svezzato Di Maio quando, ignaro di tutto, è diventato presidente della Camera. Tra i due è sbocciato un gran rapporto. Già dopo il voto del 2018 Zampetti spingeva per il governo giallorosso. Era tutto fatto. Poi Maria Elena Boschi, sulla quale c’era il veto del M5s per le inchieste su Banca Etruria, s’impuntò: voleva esserci anche lei. E Renzi, ospite di Fabio Fazio, disse che mai si sarebbe alleato con i grillini».

Tutto per la Boschi?

«Certo, ha indotto Renzi a stracciare un accordo fatto. Voleva diventare ministro. Con Gentiloni aveva ottenuto la segreteria della presidenza del Consiglio alla quale ambiva anche nel governo Renzi. Solo che quella volta fu la moglie Agnese a opporsi. E lei accettò il ministero per i Rapporti con il Parlamento».

Tornando a Mattarella e Conte?

«È la filiera dei figli a spiegare al Capo dello Stato chi è questo sconosciuto avvocato e a garantire per lui. Suo figlio, Bernardo Giorgio Mattarella, docente di diritto amministrativo alla Luiss, e il figlio di Napolitano, Giulio, professore della stessa materia a Roma Tre, con il suo socio, il potente avvocato Andrea Zoppini. Oltre che dal Vaticano e dai figli professori, Conte è spinto dal mondo forense con il suo coté massonico. Il suo maestro Guido Alpa, nello studio del quale ha iniziato la carriera, sta ovunque. All’università di Firenze, dove insegna, Conte conosce anche la Boschi».

Ancora lei?

«Lavora nello studio dell’avvocato Tombari e fa da tramite per un incontro a tre: Alpa, Conte e Renzi. Ma il futuro premier non s’innamora dell’avvocaticchio. Allora, fallito il tentativo di entrare nel giglio magico, Conte incontra Alfonso Bonafede, anche lui con studio a Firenze, che lo porta da Di Maio. Il resto è storia dell’ultimo anno. Un avvocato anonimo, perciò manipolabile, diventa il possibile successore di Mattarella al Quirinale, come l’altro giorno ha ipotizzato un articolo della Stampa».

Sembra la trama di un film: tutto grazie solo ad alcune buone relazioni?

«E, come dice suo padre, a una straordinaria ambizione che trasforma “Giuseppi” in un abile tessitore di rapporti internazionali, il vero trampolino. A cosa sono serviti i viaggi in Europa e al G7? Agendo da regista del voto in favore di Ursula von der Leyen, l’avatar della Merkel, Conte ha superato l’esame di affidabilità. È diventato organico all’establishment. Ricordiamoci cos’era il movimento di Grillo un anno fa sull’euro e sull’Europa. Il voto pro-Ursula è stato il motivo dello scontro finale fra il M5s e la Lega».

Che invece ha sempre sottovalutato i rapporti con Bruxelles?

«Basta dire che non si era accorta che gli altri partiti sovranisti erano nel raggruppamento del Ppe della Merkel. Salvini invece è andato ad allearsi con Marine Le Pen, la spina nel fianco di Macron. A quel punto le perplessità si sono moltiplicate: questo Masaniello con il rosario minaccia di scassare l’euro. Missione compiuta: appena Salvini cade, lo spread rincula e la borsa decolla».

E adesso inizia la «ricompensa»?

«Certo. Non si parla più dei 40 miliardi necessari per l’aumento dell’Iva e la legge di bilancio. L’Italia che sembrava come la Grecia, diventa la nuova Svizzera. Ora che l’uomo nero non c’è più si può arrivare al 3% di rapporto Pil/deficit e magari anche oltre, come ha detto Von der Leyen, nel caso si facciano investimenti verdi».

Morale della favola?

«Non si può avere la siringa piena e la moglie drogata. L’Europa è come un club, un minimo di regole devi rispettarle. Altrimenti puoi solo uscire, come ha fatto la Gran Bretagna. Non puoi stare un po’ con la Russia, un po’ con l’America, un po’ con la Cina e fare la Via della seta. Le superpotenze non perdonano. Quando Putin ha incontrato a Roma Conte, Di Maio e Salvini chiedendo impegno contro le sanzioni gli è stato risposto di alleggerire la posizione sulla Crimea. Due giorni dopo è uscita la storia dell’hotel Metropol di Mosca e dei finanziamenti russi alla Lega».

Non sarà una lettura troppo complottarda?

«Ma no, i complotti escono dopo, soprattutto se cominci a fare i giochini tra Putin e Trump. Com’è possibile che il presidente americano sponsorizzi il governo più a sinistra della storia italiana? Sovranista grande mangia sovranista piccolo. La storia del Metropol è stata ferma cinque mesi prima di spuntare da un sito americano. Possibile che i servizi segreti, quelli su cui aveva le deleghe Conte non avvisino Salvini? Vuol dire che li aveva contro, era uno zombie che camminava. Siamo sempre lì, il Deep state è decisivo. Citofonare a Berlusconi: anche lui era anomalo, nemico dell’establishment e gliel’hanno fatta pagare. Lo hanno chiamato e gli hanno detto: con lo spread a 500 le tue aziende vanno al macero. E lui è andato a casa».

Così sono stati addomesticati anche i propositi e le promesse di Nicola Zingaretti di puntare al voto?

«La promessa c’era stata, ma le pressioni sono state più forti. Sarà arrivata la telefonata dell’ambasciatore americano o la spinta di qualche alto prelato».

Il Pd torna in campo, ma perde la faccia andando al governo ancora senza passare dalle elezioni.

«E chissà quando ci si ripasserà. Adesso devono tagliare 345 parlamentari, poi fare il referendum e la nuova legge elettorale. Si voterà nel 2022, con un nuovo Capo dello Stato».

Che sarà Romano Prodi?

«Non credo, troppo filocinese».

Il M5s che doveva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno è rimasto inscatolato?

«Il M5s è diventato il tonno, il movimento è diventato partito. Quella era la propaganda di Grillo. Ricordiamoci che Gianroberto Casaleggio andava alle convention di Cernobbio».

Conte è una figura doubleface? Quando ha detto che il 2019 sarebbe stato un anno bellissimo ha omesso di dire che si riferiva a sé stesso?

«Già, non ha finito la dichiarazione. Ma, tutto sommato, forse sarà un buon anno anche per noi. Meno tensioni, meno incubo migranti, meno social sobillatori».

Di sicuro più tasse. Grillo che propone ministri tecnici di alto profilo dà ragione a Salvini che vede nel Conte bis la riedizione del governo Monti deciso a Bruxelles?

«Dopo i Vaffa è arrivato il nuovo Coniglio mannaro di forlaniana memoria. È entrato in scena il giorno delle dimissioni al Senato. Casaleggio voleva conquistare il potere attraverso Grillo. Ma quando prendi il 33% devi metterti in una prospettiva governativa. Conte dà questa prospettiva. L’errore di Salvini è stato puntare sull’uomo solo al comando. È sempre andata così: Berlusconi, Renzi, adesso lui. La politica è fatta di relazioni. A Roma ci si “attovaglia” per fare le strategie. Magari la si pensa in modo diverso, ma a tavola si fanno le parti. E ce n’è un po’ per tutti».

 

Panorama, 4 settembre 2019

«La capriola di Renzi record di spregiudicatezza»

È una delle menti più lucide del panorama scientifico italiano. Sociologo, docente di analisi dei dati all’università di Torino, Luca Ricolfi è presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume: leggere le sue riflessioni aiuta a diradare la nebbia che avvolge il paesaggio politico nostrano. In questi giorni sta completando la stesura di La società signorile di massa, il saggio in uscita a ottobre per La nave di Teseo, ma ha ritagliato un po’ di tempo per rispondere alla Verità sulla crisi più anomala della storia della Repubblica.

La differenza tra i due populismi è venuta al pettine. Quello del Nord e del fare e quello del Sud e della decrescita. Si aspettava che il governo gialloblù durasse più a lungo?

«No, pensavo che sarebbero andati avanti ancora un po’, dal momento che Salvini poteva dettare l’agenda».

Secondo lei che cosa davvero ha fatto rompere gli indugi a Matteo Salvini? I no ribaditi del M5s, la prossima manovra (flat tax o salario minimo?), il nodo giustizia, i sondaggi segreti…

«Nessuna di queste cose. Secondo me, ma posso sbagliare, Salvini ha puntato sul voto per altri due motivi. Primo: il delirio di onnipotenza che verrebbe anche a me e a lei se andassimo in costume da bagno in una spiaggia e la folla andasse in visibilio per noi. Secondo: l’imminente arrivo al pettine del nodo dell’autonomia, che gli avrebbe alienato il consenso del Sud. Il progetto di Salvini era incassare anche i voti del Sud, e questo poteva farlo solo prima di scoprire le carte antisudiste sull’autonomia».

Con questa decisione ha messo all’angolo le opposizioni?

«No, ha messo all’angolo sé stesso».

Non crede che se si voterà in ottobre raccoglierà percentuali superiori a quelle delle europee, mentre se si rinvierà a primavera, con in mezzo un esecutivo di scopo, del Presidente, di garanzia ecc. potrebbe avere un consenso ancora superiore?

«In realtà potrebbe anche andare in tutt’altro modo. A mio parere una parte del consenso di Salvini, specie al Sud, è legato al suo essere al comando, al suo essere percepito come vincente. È quello che i sondaggisti chiamano bandwagon: saltare sul carro del vincitore. Se l’effetto bandwagon finisce, e la vicenda della sfiducia a Conte finisce malamente, il consenso a Salvini potrebbe tornare sotto il 30%».

Il leader leghista non potrà condurre la campagna elettorale da ministro dell’Interno. Come pensa che Mattarella supererà questo vincolo?

«Ritengo improbabile che si vada al voto, e tutto sommato marginale il problema che al Ministero dell’interno ci sia Salvini. O qualcuno pensa che potrebbe manipolare i risultati?».

Tutti si affidano all’equilibrio del Capo dello Stato e ognuno lo tira dalla propria parte. Concorda con la sensazione che non si abbasserà a legittimare accordi artificiosi di Palazzo?

«No, non concordo. E non penso nemmeno che sia un abbassarsi. Certo, io ritengo più saggio e più giusto andare al voto, ma è una mia personale convinzione. Finché la Costituzione è quella che è, non è solo legittimo, ma è doveroso che il Capo dello Stato verifichi se esistono altre maggioranze in Parlamento. Il problema non è Mattarella, il problema è il trasformismo di Pd e Cinque stelle».

Si può dire, in astratto, che questa crisi coglie tutti tranne Lega e FdI a metà del guado?

«Sì, tutti sono a metà del guado, ma Lega e Fratelli d’Italia sono a loro volta impelagati: rischiano di essere sommersi dall’attaccamento di tutti gli altri ai seggi parlamentari».

Solo ritornando forza d’opposizione il M5s può far risalire le sue azioni? O ha altre alternative davanti? Un accordo con il Pd potrebbe diventare un boomerang alle prossime elezioni, quando saranno?

«Non so rispondere, perché il M5s è un ectoplasma cangiante, forse per riconquistare i voti perduti dovrebbe innanzitutto darsi una linea non ondivaga».

Che giudizio dà delle mosse di Matteo Renzi?

«La capriola di Renzi sul governo con i Cinque stelle è la più spregiudicata della storia della Repubblica».

Che consenso e che credito potrà avere la sua Azione civile o un’altra sigla analoga se dovesse varare un nuovo partito?

«Secondo me, allo stato attuale, un partito di Renzi non andrebbe oltre il 5%. E questo per una precisa ragione politica, non solo perché il ragazzo è ancora parecchio antipatico a buona parte degli italiani».

Quale ragione?

«Renzi è la destra del Pd sulla politica economica, vedi jobs act, ma è la sinistra sulla politica migratoria: ancora oggi difende “mare nostrum” e l’accoglienza senza se e senza ma. Credo che sia per questo che ha bloccato la candidatura di Marco Minniti alla segreteria del Pd. Difficile che tanti elettori votino un ircocervo come il partito di Renzi».

Quanto è demagogica l’imprescindibilità della riduzione dei parlamentari proclamata da Luigi Di Maio, e abbracciata da Renzi, dopo l’annuncio della crisi?

«Diciamo che se la demagogia va da 0 a 100, siamo a 90».

È stato un errore da parte di Salvini aprire al taglio dei parlamentari dopo aver deciso la sfiducia a Conte?

«Più che un errore è stata una mossa inutile. L’errore è stato fatto prima, e secondo me non è un errore di tempi, ma di sottovalutazione degli avversari. Salvini credeva di essere lui il più spregiudicato, ma ha dovuto prendere atto che c’è chi è più spregiudicato di lui».

Quante probabilità di riuscita ha un accordo di largo respiro tra Pd e 5 stelle?

«Le probabilità di un accordo mi paiono altissime. Quelle di un accordo “di largo respiro” un po’ meno, ma comunque non sono trascurabili. Perché il Pd e il movimento Cinque stelle potevano sembrare due animali politici molto diversi prima delle elezioni del 2018, quando al timone del Pd non c’era Nicola Zingaretti, e al governo non c’era ancora Di Maio. Ma ora si assomigliano moltissimo, e credo che se faranno un governo avranno il problema opposto a quello che hanno avuto Salvini e Di Maio».

In che senso?

«Salvini e Di Maio dovevano lottare per trovare qualcosa che li unisse, Di Maio e Zingaretti dovranno ingegnarsi a trovare qualcosa che li differenzi».

La strategia «Tutti tranne Salvini» è il modo più efficace per fermarlo?

«Non so se è il più efficace, ma è comunque molto efficace, come lo è stata contro Berlusconi. È in fondo anche l’unico possibile, in mancanza di vere idee e veri progetti politici».

Allargando l’alleanza a Berlusconi e Giorgia Meloni, Salvini dimostra di aver capito che sarebbe un errore giocare «io contro tutti»?

«Non so, Salvini mi sembra estremamente confuso».

Contro i giornali, contro gli altri partiti, l’Europa, le banche, la magistratura. Rischio deriva plebiscitaria, rischio Paese spaccato, tensioni sociali… Anche contro il Papa. Come valuta i pronunciamenti di Bergoglio in tema di Europa e sovranismi? Possono avere un’influenza importante?

«Bergoglio fa il Papa, l’errore è nostro che lo ascoltiamo come fosse un politico. La sua testa funziona come quella di un terzomondista degli anni Sessanta, che una macchina del tempo ha trasportato ai giorni nostri».

Berlusconi accetterà un ruolo subalterno nella coalizione di centrodestra?

«Sì, se gli daranno abbastanza collegi sicuri».

Se si votasse in autunno vede il pericolo di una deriva antieuropea?

«No, semmai vedo il pericolo di una deriva proeuropea. La paura per le reazioni dei mercati finanziari rinforza i partiti tradizionali, e rischia di far dimenticare i problemi che le forze sovraniste hanno sollevato, dai migranti al ristagno economico. Il dramma dell’Italia è che, per i problemi principali del Paese, né i sovranisti né i loro nemici hanno soluzioni che funzionerebbero».

Quanto crede alle tentazioni politiche di Urbano Cairo? Anche per lui le prossime elezioni sono premature?

«Sì, se si vota in ottobre nessuno, non solo Cairo, riesce a creare un partito competitivo. Forse l’unico che potrebbe combinare qualcosa è De Luca, il governatore della Campania, che sta preparando una lista sudista per stoppare l’autonomia delle regioni del Nord».

Anche questo spiega la contrarietà del Corriere della Sera alle elezioni in autunno?

«Il Corriere è istintivamente per la stabilità. Credo che, per come è fatta la loro forma mentis, i giornalisti del Corriere non facciano grandi sforzi per autoconvincersi che le elezioni in autunno, con la legge di bilancio alle porte, siano un rischio».

Come giudica la narrazione poco istituzionale del Papeete Beach?

«A me piace il popolo quando mette le élite di fronte a problemi veri, non quando sta al gioco dell’élite – Salvini è élite a tutti gli effetti – che si fa acclamare fingendosi popolo. Non sta scritto da nessuna parte che per essere amati dal popolo si debbano assumere atteggiamenti trash, o da spaccone. Non sono mai stato comunista, ma se devo indicare un modello di rapporto fra élite e popolo penso a Berlinguer, non ai commedianti di terz’ordine che oggi passa il convento».

In che senso Salvini è élite?

«Lo considero élite per il reddito, è stato parlamentare europeo, è per il potere: ministro e capo del primo partito italiano. Nelle scienze sociali, diversamente da quel che accade in alcuni media, il termine élite è avalutativo, o addirittura connotato positivamente».

Ogni volta che le sinistre attaccano, sempre con una dose di superiorità morale con il tono di rimprovero, torna il boomerang e Salvini sembra non patire questi attacchi. È accaduto con il Papeete, Carola Rackete, il Russiagate…

«Potrebbe non accadere di nuovo, e solo per colpa di Salvini. Una parte del suo consenso è dovuto alla tendenza degli italiani a stare con il più forte, e potrebbe svanire quando cambierà il vento».

Sembra che quella supponenza diventi un lievito che fa risaltare il carattere pop del leader leghista.

«C’è pop e pop. Si può essere pop senza essere volgari e offensivi».

Concorda con il fatto che, mai come questa volta, fotografa ciò che sta accadendo la famosa frase di Bertolt Brecht: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo»?

«Concordo. Però la riformulerei così: “Poiché il popolo non è d’accordo, e noi non siamo in grado di nominarne uno nuovo, meglio togliere la parola al popolo”».

 

La Verità, 18 agosto 2019

Il Papa, don Marco e il cristianesimo di oggi

Un Papa ospite fisso di una trasmissione televisiva non s’era ancora visto. È accaduto mercoledì sera su Tv2000, nella prima di otto puntate di Padre nostro, il nuovo programma ideato e condotto da don Marco Pozza, il cappellano del carcere di Padova. L’unico precedente (oltre la famosa telefonata di Giovanni Paolo II a Porta a Porta di Bruno Vespa) di un Papa che va in tv fu la partecipazione di Benedetto XVI ad A sua immagine di Lorena Bianchetti. Qui però, è un’altra storia perché Francesco ha concesso una lunga intervista rispondendo alle domande di don Marco sulla preghiera del Padre nostro che verrà frammentata in tutte le puntate. Il sacerdote e Bergoglio sono seduti uno di fronte all’altro in una saletta dell’Aula Paolo VI in Vaticano, il Papa in abito bianco, don Marco in giacca e sneakers ai piedi. «Chi è un Dio che si fa chiamare Padre e si fa dare del tu?», gli chiede il sacerdote, dando a sua volta del tu al Pontefice. Oppure che cosa vuol dire che «Dio sta nei cieli se poi è lui che si mette in cerca di noi?». Il Papa risponde attingendo all’esperienza personale, alla vita di bambino, non alla dottrina né alla teologia. Cita la volta in cui suo papà lo accompagnò a togliere le tonsille, per anestesia un gelato e, al ritorno, lo vide pagare l’autista del taxi. Quando gli ritornò la voce gli chiese perché avesse pagato l’uomo della macchina: «Da bambino credevo che tutte le macchine della città fossero sue… Invece no, Dio è il Dio della gloria, ma è anche uno che cammina con te, che ti offre il gelato quando è necessario». Anche il Papa accetta pone e si pone domande. In altri passaggi dell’intervista anticipati dall’emittente della Conferenza episcopale italiana non risparmia critiche al mondo musulmano e si chiede se «oggi il nome di Dio è santificato nelle ragazze rapite di Boko Haram?» o nei cristiani che lottano fra loro per il potere. Domande e riflessioni che interrogano i credenti e la società contemporanea scristianizzata. Alla fine, Padre nostro è un’ora di catechismo sulla paternità e non solo. Un’ora di cristianesimo elementare e profondo che, grazie alla curiosità di don Marco Pozza, si confronta con lo spirito del tempo. Commovente l’intervista di don Marco a suo padre, che si chiama Francesco pure lui: «Questa è una delle conversazioni più lunghe che abbiamo mai fatto». E quella alla figlia di un carcerato, condannato all’ergastolo, che lei ha conosciuto e visto solo in galera.

La Verità, 27 ottobre 2017