Con Saviano la storia di Maniero non appassiona
In trasferta dal suo appartamento nell’elegante quartiere di Williamsburg a Brooklyn, Roberto Saviano è comparso l’altra sera accomodato nel sedile posteriore di una vettura con autista che lo accompagnava a intervistare Felice Maniero per il primo di tre episodi della serie Kings of crime prodotta da ZeroStories e ItvMovie di Beppe Caschetto (Nove, mercoledì, ore 21.33, share dell’1.6%, 350.000 spettatori medi). «Comandare una mafia significa scalare un’organizzazione che esisteva prima di te e che esisterà dopo di te», sottolinea lo scrittore indossando i panni del boss. Tranne nel caso di quella, «ricchissima, con centinaia di membri, che ha compiuto rapine, trafficato droga e terrorizzato per vent’anni un’intera regione». È la Mafia del Brenta creata da Felice Maniero, scomparsa dopo la decisione del capo di diventare collaboratore di giustizia. Scontata una decina d’anni di reclusione intervallati da un paio di clamorose evasioni, nel 1994 l’ex Faccia d’angelo che viaggiava in Ferrari e controllava i casinò ha cominciato a rivelare i segreti della banda, contribuendo all’arresto di circa 500 ex collaboratori. Oggi vive da uomo libero con un’altra identità ed è questa la ragione per cui, sebbene si tratti della prima intervista televisiva, il volto è oscurato. Sneakers ai piedi e camicia azzurra arrotolata sugli avambracci, in qualche momento s’intravedono occhiali e baffi, ma il pathos rimane modesto. Lo scrittore e il criminale siedono uno di fronte all’altro in una stanza (nell’abitazione dell’intervistato?) arredata da librerie fino al soffitto. Maniero narra l’infanzia nel paese della Riviera del Brenta, il fascino per gli amici malavitosi dello zio, la scelta di dedicarsi alle rapine per non dover fare l’operaio, il racket delle bische, il suo sentirsi più bandito che mafioso, l’ingresso nel narcotraffico per evitare che il territorio finisse in mano alle mafie del sud con i cui capi trattava da pari a pari. Il racconto intervallato dalle immagini dei giornali dell’epoca e dalla testimonianza di Francesco Saverio Pavone, il magistrato che seguì indagini e processi, ci consegna un delinquente scaltro e sufficientemente cinico, pronto a tradire i compagni per rifarsi una vita. Un ritratto avvolto nella normalità che può affascinare il criminologo Saviano, ma che, privo di drammaticità, non riesce a diventare documento. L’unica digressione, costruita scientemente con una sequenza di domande, concerne, guarda caso, la legalizzazione delle droghe, in favore della quale lo scrittore riesce a far schierare il criminale. Per la sua battaglia «libertaria» Saviano arruola anche Maniero.
La Verità, 16 novembre 2018