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Amadeus, il finto buono pronto a tutto per lo share

In realtà, i finti buoni sono tremendi. Furbetti, maliziosi, determinatissimi. Per un punto di share metterebbero il proprio figlio adolescente in prima fila all’Ariston a godersi la pomiciata tra un rapper che viene dai centri sociali e gira in Lamborghini e un ex graffitaro e modello di Gucci che canta vestito da donna. E se al ragazzo cresce la disforia di genere, pazienza. Quello che conta è il risultato. Bisogna sempre migliorare. Superarsi. Ama(poco)deus ex-machina lo sa bene. Un Festival dopo l’altro. Il terzo più del secondo e il quarto più del terzo. Purtroppo arriverà anche il quinto. E poi chissà.

«Nella vita, al di là dei festival, dipende tutto dal risultato», ha teorizzato nella conferenza stampa di chiusura. «Se si ottengono questi risultati hai una forza. Se avessi fatto il 15-20% in meno sarei un allenatore esonerabile. Qualsiasi allenatore è forte finché la squadra vince, se la squadra perde anche i più grandi sono a rischio esonero. Ecco perché devo portare quello che sento, bisogna sbagliare con le proprie idee». Il pluridirettore artistico di Sanremo, con moglie perennemente al seguito, non si pone limiti. Colpa anche dei vertici Rai. Se dai troppo potere a un solo artista facile che si pensi un supereroe. Sembra preistoria la perculata di Checco Zalone: «Grazie a nome di tutti gli italiani, tu Amadeus ci fai sentire dei geni». Dopo che nel terzo è riuscito a emanciparsi da Fiorello, il quarto Festival di fila ha completato la metamorfosi. Da conduttore a condottiero. Quest’anno Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna, gavetta nelle radio locali e a DeeJay prima di sfiancarsi nella spola Mediaset-Rai, ha replicato senza giri di parole al vicepremier Matteo Salvini, al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, ai politici di Fratelli d’Italia, autoinvestendosi di un compito che sarebbe toccato a qualche dirigente. Un cambio di ruolo. Un’autopromozione.

Sul palco, invece, nello spasmodico inseguimento dello share, ha confezionato un Sanremo grondante politica. Infarcito di messaggi obliqui. Come quello ordito la prima sera da Roberto Benigni alla presenza di Sergio Mattarella e indirizzato alla premier: cara Giorgia Meloni, se vuoi fare il presidenzialismo devi passare sul nostro corpo. E di altri più espliciti. Come quello che si è inverato nella soave slinguazzata di cui sopra. «Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna: è normale, l’amore non ha etichette. E questo va portato ovunque, anche nello spettacolo», aveva argomentato nei panni di guru del Festival di Zan Remo. C’è la fascia protetta per proteggere i minori? Quella vale per impedire ai bambini dell’innocente coro di Mr. Rain di esibirsi dopo la mezzanotte. Non al pubblico infantile di assistere alla twerkata del rapper in abiti femminili sul pacco del marito di Chiara Ferragni.

In realtà, i finti buoni sanno andare al sodo. Le regole sono fatte per essere piegate a proprio piacimento. Se c’è da invitare il capo dello Stato all’Ariston la trattativa la conducono il pluridirettore artistico e il suo agente Lucio Presta (lo è anche di Benigni e Morandi, il prossimo è Mattarella?), scavalcando l’amministratore delegato Carlo Fuortes, la presidente Marinella Soldi, il direttore dell’Intrattenimento prime time Stefano Coletta e il cda al completo. Se c’è da lasciare Fedez prendere a pesci in faccia mezzo governo ci si trincera dietro il rispetto della libertà artistica. Infine, a forza di mitragliare Festival, Ama(poco)deus ex-machina ha disimparato anche a fare la scaletta, confinando dopo l’una di notte il monologo di Chiara Francini, il migliore e il più originale tra tutti quelli che, invece, hanno incantato il demi-monde di riferimento.

Più che mai quest’anno, il segreto del successo è stata la quantità. L’espansione. L’occupazione sistematica di tutti gli spazi. Dai telegiornali ridotti a newsletter ai megaschermi di Urban vision nelle grandi città che trasmettevano la diretta delle serate. Orizzonte ingombrato. Un Leviatano mediatico capace di triturare qualsiasi ostacolo, con la compiacenza dell’informazione mainstream al completo. Peccato che, a forza di fare lo «swiffer delle polemiche» come dice Fiorello, non abbia ancora imparato a gestirle. Prendete la faccenda delle foibe. Amadeus/1 ha risposto che «ci sono tante ricorrenze, non possiamo commemorare tutto». Poi, pur di non dare l’impressione di piegarsi ai politici di destra, Amadeus/2 ha detto che il ricordo «era già previsto».

Adesso per lui qualcuno ipotizza un cambio di passo. Nella disperata ricerca di figure carismatiche, c’è chi lo vede in politica. Che poi, carisma… Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna è un medio man, un normal one. Però «la sinistra riparta da Sanremo», ha twittato qualche sagace commentatore. «Ora che avevamo trovato come fare opposizione il Festival è finito».

In realtà, i buonisti sono spietati. Con gli altri, s’intende. Quelli che non li elogiano, non li lisciano. Avete presente Fabio Fazio? Più che Baudo, è lui il suo modello. Dietro la patina un po’ untuosa da bravi ragazzi, c’è gelido zinco. Intoccabili. Se si dissente, cliccano sulla consolle e parte la recita da martire. «Se mi mandano via me ne vado», ha detto sperando nella sollevazione popolare. Se se ne va, magari l’opposizione trova un leader, i telespettatori ridono, la moglie sempre al seguito piange e in Rai si devono mettere a lavorare. Perché in questi anni gli hanno appaltato mezzo palinsesto.

 

La Verità, 14 febbraio 2023

Il golpetto di Amadeus per Mattarella all’Ariston

Il Cda Rai si preoccupa di non essere stato informato della presenza del presidente Mattarella all’Ariston. Per me è qualcosa che valorizza l’intera azienda Rai e al loro posto direi grazie a qualunque persona abbia fatto in modo che il presidente fosse all’Ariston. Invece di colpevolizzarlo andrei a stringergli la mano». Parole e musica stonate di Amadeus, direttore artistico e conduttore del Festival della canzone italiana. In buona sostanza, i dirigenti Rai dovrebbero ringraziarlo ora che, nei fatti, lui e il suo manager hanno preso il loro posto. Il giorno dopo la trasferta sanremese del presidente della Repubblica i contorni di tutta l’operazione vanno chiarendosi. A tracciare il bizzarro scenario che abbiamo osservato in queste ore sull’asse Ariston-Quirinale concorrono diversi fattori. C’è una Rai priva di un vertice solido e di una catena di comando autorevole e operativa. C’è un Cda, rappresentante del Parlamento, che non sa farsi rispettare, come già visto in occasione della querelle sull’ospitata del presidente ucraino Volodymyr Zelensky (attivata da un pur autorevolissimo giornalista che ha svolto compiti di intermediario in forma privata). C’è un organo di controllo, peraltro da abolire, come la Commissione di Vigilanza, che attende da mesi d’insediarsi. C’è un ubiquo presentatore al quale ormai è stato appaltato mezzo palinsesto Rai, che dirige e conduce la più importante manifestazione culturale del Paese per il quarto anno di fila (arriverà anche il quinto). C’è il suo potente e molto manovriero agente senza il quale sembra impossibile organizzare la kermesse, che pure vorrebbe portarla fuori dal teatro in cui si realizza da sempre, come per altro ripetutamente auspicato dall’altro presentatore di punta del gruppo (Paolo Bonolis), che potrebbe avvicendare quello in carica fino al 2024.

Sono le condizioni del colpo di mano in Viale Mazzini consumato in questi giorni. Parlare di colpo di Stato sarebbe troppo, anche considerando che protagonisti dell’azione che ha portato Sergio Mattarella sul palco dell’Ariston per l’inaugurazione del Festival sono gli uffici del Quirinale e della tv pubblica, due organismi statali. Sarebbe troppo, certo. Ma fino a un certo punto. Lucio Presta, agente di Amadeus, e Giovanni Grasso, consigliere per la comunicazione del presidente della Repubblica, «si conoscono e si stimano da tempo. Ecco perché la trattativa è stata gestita da loro», ha rivelato il conduttore, buttandola sul tenero. L’ad Rai Carlo Fuortes è intervenuto solo nella fase finale. Nessuna parte in commedia hanno, invece, avuto gli altri dirigenti, informati a cose fatte come attestato dalla lettera alla presidente Marinella Soldi dei consiglieri d’amministrazione, infuriati per essere rimasti all’oscuro della laboriosa trattativa. In Rai hanno fatto tutto Amadeus e il suo manager. Che poi ha coinvolto Roberto Benigni, anch’egli della sua scuderia, chiamato per confezionare l’avvertimento della serata al governo in carica. Se volete fare le riforme costituzionali, presidenzialismo e autonomia territoriale, dovrete avere il nostro benestare, quello dei vertici istituzionali e dell’establishment del Paese.

Per recapitare il messaggio si poteva ricorrere anche a qualche violazione del protocollo. Ed è ciò che successo. Lo ha confermato ieri mattina il direttore artistico del Festival tra un’esultanza per lo share da record (drogato dal nuovo sistema di rilevazione, infatti in termini numerici il dato è inferiore all’anno scorso) e un mea culpa per la sbroccata di Blanco. «Grasso e Presta da un anno lavoravano insieme a me affinché questo nostro sogno si potesse realizzare», ha ammesso Amadeus. «Questa operazione, segreta per una ragione di sicurezza, è avvenuta quasi in forma privata, non istituzionale. Il Quirinale ci ha chiesto di non dirlo a nessuno, di tenerlo per noi tre».

Dunque, esautorato il Cda, esautorata la presidente Soldi, esautorato è stato anche il direttore dell’Intrattenimento del prime time, Stefano Coletta. Il quale ha sussurrato: «Non ho partecipato all’operazione, ma quando nell’imminenza ne sono stato informato, sono stato molto contento che avvenisse, molto emozionato». Prima di chiudere, con voce flautata: «Non mi sono sentito sminuito per nulla». Insomma, dopo che il regalo è arrivato, qualcuno, aprendolo, si è molto risentito e qualcun altro ha fatto buon viso anche se chi l’ha scelto non ne aveva i titoli. Così è se vi pare: in assenza di decisioni della politica, le leve di comando della Rai vengono impugnate da chi è più lesto. Nel suo delirio di onnipotenza, Amadeus ha risposto anche al vicepremier Matteo Salvini che aveva criticato la scelta di difendere la Costituzione dal palco di Sanremo e annunciato che sabato non guarderà la serata finale: «Sono quattro anni che se la prende con il Festival: basta non guardarlo», ha concesso il presentatore. «So che sabato vedrà un film, spero sia bello». L’articolo 21 della Costituzione garantisce anche la libertà di telecomando.

 

La Verità, 9 febbraio 2023

Il Festival di Alcatraz e la Ferragni allo specchio

Le pagelle della serata d’esordio del 73° Festival di Sanremo.

Il Festival di Alcatraz. Voto: 3

È il dogma stesso del Festival da rimettere in discussione. Obbligo sociale, politico, civile. Una sorta di prigione in cui la Rai sta chiudendo il pubblico. Non solo come entità televisiva, ma proprio come spazio. Il martellamento a tutte le ore e in tutti i programmi, dal Tg1 agli spot fino alle rubriche periferiche, sono il luogo della costrizione. Asfissiante. Anche nell’ora d’aria si resta in galera. La macchina fagocita tutto come un mostro onnivoro. E nell’opinione pubblica che si avvertono i conati pre-rigetto.

La prima serata. Voto: 5

Manca soprattutto il ritmo, l’idea, il profilo della serata, prigioniero della sua eccessiva istituzionalizzazione. Il Festival è quasi coetaneo della Costituzione e l’Ariston sembra La Scala. Quando entrano Anna Oxa e non si capiscono le parole, e quando compaiono Mamhood e Blanco e si capiscono i lamenti, tutto precipita. E non risale neanche con le stecche dei Pooh…

L’asse Fuortes-Presta. Voto: 7

La coppia amministratore delegato superagente ha messo a segno il colpo dell’anno: Sergio Mattarella all’Ariston ad ascoltare Roberto Benigni che esalta la Costituzione. Senza il 75º anniversario della Carta vivevamo lo stesso, ma il pretesto è servito per allestire il momento patriottico introdotto dall’Inno di Mameli (da non chiamare Fratelli d’Italia). Messaggio primario: per cambiare la Carta in tavola, Giorgia Meloni dovrà passare sul nostro corpo. Effetto secondario: Fuortes e Presta si sono autoblindati.

Roberto Benigni costituzionalista. Voto: 5

A un certo punto, vista l’enfasi, pareva che parlasse del Vangelo. Un libro che salva e redime da tutto. Ci si aspettava un collegamento tra la Carta e l’arte, è arrivato il poco originale elogio dell’articolo 21 («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero»), in perfetto stile Repubblica. Unico guizzo quando, rivolto a Mattarella, ha detto che la Costituzione è praticamente «sua sorella», riferendosi alla presenza del padre di lui tra i costituenti.

Gianni Morandi finto tonto. Voto: 7

Con tutto quello che ha fatto e visto in carriera non conosce l’ansia da prestazione. Finge di non capire, gioca a fare la spalla, si prende in giro cantando le sue ciofeche. Sta sul palco come a casa sua. Infatti, dopo la sbroccata di Blanco, impugna la scopa e spazza. Risolutivo.

I favoritissimi della gara. Voto: 6

La tuta nera di pelle di Marco Mengoni, a metà tra i Village people e Alberto Sordi, rischia di distogliere dal testo della canzone. Idem l’esplosiva Elodie in versione come ti svesti. Piace il crescendo di Ultimo, ma anche lui non è aiutato dall’audio. Ricorrere ai sottotitoli?

Chiara Ferragni, la vita è un selfie. Voto: 4

La maggiore delusione della serata. Non s’infierisce solo perché è un esordio. Per tutto il tempo parla e dice di sé. Della sua emozione, del suo nervosismo, di come si è preparata, di cosa dicono i suoi abiti (il terzo era la tutina glitterata smessa da Achille Lauro?). Vive davanti allo specchio. Il primo post è rivolto a sé stessa: «Pensati libera». La letterina da terza media del monologo pure. Una galleria di banalità nel mood del piagnisteo vittimista. Si rimpiangono Drusilla Foer, Sabrina Ferilli, Diletta Leotta e Gegia.

Blanco, una bestemmia in chiesa. Voto: 4

Prendere a calci i fiori nella città dei fiori è lo sfregio peggiore. Gli scenografi avevano addobbato il palco con migliaia di rose rosse, come da titolo della sua canzone (L’isola delle rose) e da video della stessa nel quale le strapazza. Il ricevitore sbagliato consegnato dai tecnici non gli faceva sentire la voce in cuffia. E lui ha perso il controllo, magari perché troppo carico…

Arbore: «Non è una tv ad Alto gradimento»

Come una madeleine di gioventù, se ancora oggi, trascorso mezzo secolo, rimbalzano nell’aria le note del rock and roll che annunciava Alto gradimento, una scarica di euforia si propaga a tutto il corpo. Il programma che Renzo Arbore e Gianni Boncompagni condussero dal 7 luglio 1970 al 2 ottobre 1976 su Radio2 è stata la più dirompente, anticonformista ed eversiva trasmissione dei nostri migliori anni. Perciò, per estensione nient’affatto iperbolica, la più bella di ogni tempo e luogo. Eccoci al telefono con Arbore dalla sua casa romana, lo studio di Striminzitic show, il programma che conduce con Gegè Telesforo nella notte di Rai2.

Quale fu la scintilla di Alto gradimento fra lei e Boncompagni?

Lo vuole sapere? Ero appena stato caciato da Per voi giovani che avevo inventato io. Il direttore della radio, Giuseppe Antonelli, allargò le braccia, affranto: «È stata una scelta politica».

Di chi?

Dei cattocomunisti che allora sembravano dover dominare.

Nomi?

Non posso, alcuni sono morti.

La scintilla?

Boncompagni veniva da Chiamate Roma 3131, ideato da Luciano Rispoli. Per la prima volta, il telefono era a disposizione del pubblico, ma presto era diventata una radio del dolore…

Le rispettive cacciate vi accomunarono?

Dissi a Gianni: «Tu vieni dalla radio del dolore e io sono stato mandato via, ma il direttore ha promesso di aiutarmi». Così pensammo a un programma di risate. In quegli anni di ideologie e terrorismo ridere era vietato. Perciò, andammo da Antonelli e gli proponemmo Musica e puttanate.

E lui?

«Con questo titolo non può passare, inventatevene un altro».  Siccome io prediligo i titoli negativi, tipo Indietro tutta o Meno siamo meglio stiamo, pensai Basso gradimento, che Gianni corresse con Alto. C’erano Giorgio Bracardi e Mario Marenco, fuoriclasse assoluti. Il programma esplose.

Se dovesse sintetizzare con un episodio quella follia?

Ricorderei il colonnello Buttiglione, che diventò subito un simbolo. Il fatto è che Buttiglione esisteva davvero e non ne poteva più di essere apostrofato per strada. Ci chiamò il ministero dell’Interno per chiederci di modificare lo scherzo. Così nacque il generale Damigiani.

Un altro ricordo?

Andai dai segretari di partito per chiedere la licenza di sfottò: furbamente me la concessero tutti.

Nella sigla finale di Indietro tutta, con sapido doppiosenso cantava «vengo dopo il Tg»: ora Striminzitic show viene dopo che cosa?

Purtroppo viene durante. Ho constatato che la seconda serata è defunta in quanto la prima, cominciando tardi e prolungandosi per far lievitare lo share, salta direttamente alla terza. Qualche sera fa ho perso l’inizio di Striminzitic per vedere come finiva Fuga da Alcatraz.

E quando ha girato su Rai2 Telesforo e Arbore erano già avanti.

Esatto, ma mi consolo perché il nostro show è seguito dagli «arborigeni» ed è molto apprezzato sui social.

Il meglio arriva late?

Come in America, dove ci sono i Late night show. Senza snobismi, è un tipo di televisione che conta sul pubblico più acculturato perché non si deve svegliare alle 5 di mattina. L’importante è che non sia too late, troppo tardi.

L’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini dice che vuole ripristinare la seconda serata.

Speriamo, ma se non si mettono d’accordo tutti, Rai, Mediaset, La7 eccetera, non se ne farà niente. Senza presunzione, la seconda serata l’abbiamo inventata nel 1985 io e Giovanni Minoli, allora capostruttura di Rai2. Alle 23 c’era il monoscopio, non a caso il programma s’intitolò Quelli della notte.

La seconda serata era la palestra dei nuovi autori.

Infatti, sono scomparsi. La carenza di oggi è proprio l’assenza di autori e talenti per la tv leggera.

Salini vuole anche ridurre l’influenza degli agenti esterni.

È una bella battaglia perché loro conoscono molto bene il cosiddetto prodotto.

Colgo una certa ironia.

Appartengo alla generazione che parlava di programmi più che di prodotti. Gli autori erano Antonello Falqui, Enzo Trapani, Corrado, Pippo Baudo… Ora si rincorrono i format stranieri.

Pochi autori bravi, agenti influenti e società di produzione esterne sono i lati della tv di oggi: la Rai è uno scheletro?

Se ci si affida alle produzioni esterne è difficile recuperare quelle interne. Anche perché, di grandi tecnici Rai ne sono rimasti pochi. E quei pochi se ne vanno, com’è accaduto con Eleonora Andreatta, per tanti anni capo della fiction. I veri inventori di programmi sono rari. L’intrattenimento è il genere che si è meno rinnovato e il pubblico ricorda ancora Raffaella Carrà, Mina e i grandi show della tv senza tempo. Il contrario della fast tv di oggi.

Per questo in Striminzitic show estrae dal suo archivio chicche da far invidia alle Teche Rai?

Non ho voluto se non qualche piccola citazione di Indietro tutta e Quelli della notte. In tanti anni ho creato parecchi format, perciò posso pescare dal repertorio meno sfruttato. Poi ci sono i filmati fatti con telecamere e telecamerine che mi sono sempre portato dietro quando m’invitavano come ospite o in certe incursioni stradaiole. Infine, c’è internet: con un click passi da un blues d’annata a Walter Chiari. È una miniera di cui solo Roberto D’Agostino ha colto le potenzialità.

Lei è stato il primo a raccogliere la provocazione di Pupi Avati a fare del lockdown un’occasione teleculturale: è un’intesa tra amanti di jazz?

Io e Pupi siamo amici, certo. Entrambi abbiamo constatato che i millennials non conoscono il nostro cinema migliore. Quello del neorealismo e della grande commedia che ebbe successo in tutto il mondo perché era pieno di idee.

Ci vorrebbe un Per voi giovani del cinema?

Se pensa che non conoscono Miracolo a Milano, La grande guerra, Umberto D., Le vacanze intelligenti di Alberto Sordi… Adesso per fortuna Cine 34 qualcosa ripropone.

Ha guardato molta tv durante il lockdown?

Moltissima. A Natale avevo avuto la bronco polmonite perciò sono entrato in clausura in anticipo. Ne ho approfittato per ordinare l’archivio e l’angolo della casa da dove con Gegè trasmettiamo lo show con due sole telecamere. Noi che abbiamo visto la guerra e il dopoguerra non ci scoraggiamo, ma quando leggo certi paragoni…

Cosa pensa?

Che allora c’erano il buio, la fame, il freddo, non c’era il riscaldamento. E manco la radio.

Chi le piacerebbe riportare in televisione?

Adriano Celentano, il protagonista dello spettacolo del Novecento e anche del Duemila.

L’ha visto su Canale 5? Anche lui ha bisogno di autori?

Sì, ma è sempre originale. Credo sia giusto si faccia conoscere dai giovani come artista, cantante, attore. Lui e Mina sono i più grandi, lui ha fatto anche film che andrebbero riletti, come Joan Lui

Puntualmente stroncato dalla critica.

Ma pieno di novità. E l’altro, Juppy Du: andrebbe studiato a scuola. Prisencolinensinanciusol è stato il primo rap al mondo.

Ha riproposto un Benigni ballerino sulle note di un brano di Elvis Presley. Le piace il Benigni esegeta e pedagogo?

Roberto ha arricchito il suo umorismo istintivo con la ricerca culturale. A me piaceva molto Tuttobenigni. È un talento straordinario, come abbiamo visto al cinema anche insieme a Massimo Troisi. Gli auguro di trovare un altro film di grande successo che ci faccia sorridere e pensare.

Chi può reggere il confronto con lui?

Forse Checco Zalone, passato anche lui dal cabaret al cinema.

Tra i giovani vede qualcuno che si avvicini a Marenco, Bracardi, Riccardo Pazzaglia, Nino Frassica, D’Agostino, Maurizio Ferrini?

Che improvvisi come loro no. Noi eravamo jazzisti della parola, oggi prevale il pop. Quella razza di improvvisatori è in estinzione.

È vero che era l’incubo di Baudo?

Sono malignità di Antonio Ricci. Siamo diversissimi, ma siamo amici e «conterroeni».

Lei era socialista e lui democristiano.

Simpatizzavo. Anche Craxi aveva simpatia per me. Una volta mi fermò e mi disse: «Non ho capito se mi vuoi bene o mi sfotti».

E lei si guardò dal risolvere il dubbio?

Votavo repubblicano, ma nella stagione della Milano da bere, con Craxi che era appassionato d’arte e di canzoni c’era un rapporto di cordialità.

Il presidente Mattarella è riuscito a procurarsi un televisore funzionante per vedere il suo show o è rimasto ostaggio di protocolli e gare d’appalto?

(Ride) Ha ancora il televisore di Pertini. È amabilissimo il presidente nell’accettare le nostre facezie…

Che cosa le dice il fatto che il portavoce di Palazzo Chigi sia un ex concorrente del Grande fratello?

Abbiamo visto tanti talenti cresciuti nei villaggi turistici, non mi pronuncio.

Tra migliaia di gadget possiede una statuetta di Abramo Lincoln: cosa pensa della profanazione del suo monumento a Washington come manifestazione di antirazzismo?

Sono profondamente antirazzista. Però profanare i monumenti, come quello di Montanelli che mi onorava della sua amicizia, o altri, è una deformazione di opinioni politiche momentanee che disapprovo.

Panorama, 1 luglio 2020

L’eredità di Sanremo? Il gender fluid è «avanti»

A bocce ferme… Oddio, non fraintendete, non fate i soliti maschilisti («Qui c’è del boccismo», direbbe Fiorello). Insomma, a riflettori spenti, che cos’ha lasciato in eredità la settantesima edizione del Festival di Sanremo? Oltre alla vittoria di Diodato, alla reunion dei Ricchi e Poveri, alla disunion di Bugo e Morgan, alla resilienza di Paolo Palumbo e all’amicizia tra Fiore & Ama (auguri per Sanremo 2021, podologo permettendo); oltre a tutto questo, qual è il vero messaggio, il testimone consegnato ai posteri dal Festivalone appena concluso? Pensiamoci bene. Più ancora della lotta alla violenza contro le donne, con tanto di monologhi e schieramenti di star (nessuno che abbia ripescato Donne di Zucchero, Festival 1985), qual è stato il vero lascito, strisciante, ma ribadito in svariate forme e situazioni più o meno artistiche e poco subliminali? Qual è il pensiero unico tracimato dall’Ariston? L’avanguardia è gender fluid, ecco il messaggio, e dite se non è vero. Gli outfit di Achille Lauro, il sermone di Roberto Benigni con la password biblica all’amore omosex, le fierezze di Tiziano Ferro… Uniamo i puntini. La bisessualità, anzi, la polisessualità, l’amore tra uomo e uomo, tra donna e donna, che però non disdegnano la contemporanea e tradizionalissima eterosessualità: tutto questo è il futuro, il progresso, persino l’ecosostenibilità, considerato che c’è chi comincia a suggerire la rinuncia a far figli come arma anti inquinamento. L’uscita dalla vetusta sessualità binaria (c’è del «binarismo»?) è contemporanea, moderna, disinibita, persino ecologica. Libera: ecco la parola (ma «liberismo» non va bene). Quello che va bene è assecondare gusti e inclinazioni. Nessuno può dettarci come esprimere le nostre passioni. Siamo nel Terzo millennio. Questa è la nuova frontiera del costume e del lifestyle. Ancora ci si scandalizza? Tiziano Ferro monologheggia: «Non sono sbagliato. Nessuno lo è». Parliamone senza manicheismi. Ma considerata l’aria che tira e il protagonismo della minoranza omo e bisex, non vorremmo si ribaltasse l’emisfero e, per compiacere mode e modernità, la maggioranza etero diventasse improvvisamente noioso simbolo rétro.

Tornando alle canzonette, nessuno scandalo, pura registrazione dei fatti. Meglio, fatterelli. Il gender fluid è stato il tema ricorrente della kermesse, testimonial ufficiale Achille Lauro fin dalla prima apparizione con body glitterato («glitteratismo»?). Dopo, molto altro. Al punto che vien da dubitare sia stato tutto studiato, programmato, scritto. O forse no, la polisessualità ormai è talmente naturale da venir fuori spontanea. Operazione studiata, ideologia o tendenza inarrestabile, non si sa cosa sia più preoccupante. Ecco i fatterelli. La precisazione di Tiziano Ferro dopo aver cantato «per la prima volta» al maschile Almeno tu nell’universo e la sua rima con «tu che sei diverso», canzone che Bruno Lauzi aveva destinato a una donna (Mia Martini, Sanremo 1989, èra di amori tradizionali). La lectio biblica di Benigni, il teologo di Sanremo, sul Cantico dei cantici gay friendly che ha fatto esultare una buona fetta del popolo dei social, intere redazioni di riviste patinate, backstage e passerelle del fashion, schiere di millennials queer e di critici snob per la demolizione della famiglia tradizionale consumata nell’orario di massimo ascolto. La tendenza era stata magistralmente anticipata da Dagospia che già la prima sera aveva appaiato le foto di Elettra Lamborghini e Achille Lauro in pigiama nude look sberluccicanti, con la fulminante didascalia Genitore 1 Genitore 2. Antimoralisti in visibilio. Poi dicono che la musica passa in secondo piano. A un festival della canzone, oltre che indossare capi firmati o citare look storici, bisognerebbe anche saper cantare, o no? Andiamo avanti. Ecco altri ammiccamenti e baci, compreso quello per la pace tra Fiorello e Ferro, con tanti saluti al marito di quest’ultimo e giuliva corsa nel retropalco. Altre apparizioni, nessuna esclusa, dell’interprete di Me ne frego nei suoi variopintissimi travestimenti da Ziggy Stardust, diva del cinema muto, Elisabetta Tudor regina d’Inghilterra e d’Irlanda. Una sfilata coreografica, una galleria d’invenzioni sceniche inneggianti al transessualismo e alla contestazione della famigerata sessualità tradizionale, sottolineata con altri baci e strusciamenti a Edoardo Manozzi (in arte Boss Doms), il truccatissimo chitarrista accompagnatore.

Impegnandosi, si potrebbe anche tollerare tutto questo fluidismo. Siamo nel Terzo millennio, appunto. La stonatura è negli osanna esagerati, anche quelli di Fiore, il mattatore di questo Festival, che ha voluto puntualmente farsi fotografare al fianco di Lauro. Perché «lui è avanti» («avantismo»?) e «ha riportato a Sanremo le performance che una volta erano di Anna Oxa, Patty Pravo, Renato Zero». Allargando il campo, si potrebbero citare anche Alice Cooper, David Bowie, Ozzy Osbourne, Marylin Manson e chissà quanti se ne dimenticano. Ma tant’è. «Se qualcuno lo fischia, vuol dire che è indietro», ha tagliato corto il talismano dell’Ariston nell’unica sentenza venutagli un po’ così, in un eccesso pedagogico forse sfuggitogli per stanchezza. Evitando i fischi, magari, ci permettiamo di dissentire e di non iscriverci a questo «avantismo». Anche perché, senza amore tradizionale, la stessa specie umana non farebbe molta strada, così per dire. E di difendere la libertà di continuare a baciare una persona dell’altro sesso senza doverci sentire «un passo indietro».

 

La Verità, 10 febbraio 2020

Fiore talismano Ama medioman Bugo-Morgan 0

Grazie al cielo il 70° Festival di Sanremo è finito. Però, vabbè: era l’unico programma desardinizzato della Rai. Dopo le gaffe da preambolo, il Festival di Ama & Fiore è partito subito bene e, di serata in serata, è andato migliorando pure negli ascolti, infrangendo record e paragonandosi ai risultati baudeschi del 1997, èra prepiattaforme. 13 milioni di telespettatori medi nelle prime parti, 56% lo share delle seconde. Oltre che nella presenza di Fiorello, il segreto è nella durata delle serate fino all’albeggiare. Non a caso, lo share lievita svoltando la mezzanotte, quando la concorrenza è a nanna. Intanto si è già cominciato a immaginare chi potrebbe condurre e dirigere il carrozzone nel 2021. Fabrizio Salini permettendo, Ama & Fiore si sono guadagnati il bis sul campo. Tra i loro meriti, aver tenuto la politica abbastanza lontana dal teatro Ariston, salvo qualche eccezione. Altra tendenza, la difficoltà crescente nel linguaggio: lentamente il politicamente corretto sta accerchiando anche «l’unica festa patronale di questo gran paesone» (Marcello Veneziani). Tracciamo un bilancio con voti decrescenti del Festival 2020 anche se, mentre scriviamo, ancora non si sa chi l’ha vinto. Anche su questo Fiorello aveva avuto l’idea giusta: «Chiudiamola qui», ha detto venerdì sera dopo l’inusitato forfait di Bugo, «proclamiamo una sera prima il vincitore e ce ne andiamo tutti a casa». Magari!

Fiorello La formula era su misura per lui: battitore libero, ad Amadeus la burocrazia della gara. Mattatore, showman a 360 gradi, funambolo, improvvisatore di monologhi (contagioso quello sui sessantenni e i problemi di minzione). Dispensatore di buonumore anche nel climax della scomparsa di Bugo («Allora, allora – con fare risolutivo – non ho capito niente di quello che è successo»), calamita di eccellenze come il numero uno del tennis, Novak Djokovic. Tutto questo si sapeva, come pure se ne conosceva la permalosità. L’istinto di razza si è visto nel tormentone anti accuse di sessismo. «Qui c’è del fiorismo», ha detto dopo aver apprezzato l’omaggio floreale ricevuto nei panni di Maria De Filippi. E poi «del cantismo», «del bacismo», «del machismo»… Genialissimo fuori copione indirizzato ai maestrini della sala stampa. Talismano. 10

Paolo Palumbo Avanguardia empatica. Aziona con gli occhi un sintetizzatore che emette «una voce da casello autostradale». Eppure le sue rime scaldano l’Ariston come poche altre. Il messaggio più positivo del Festival arriva da questo ragazzo di 22 anni malato di Sla: «Quando vi dicono che i vostri sogni non si possono realizzare, continuate dritti per la vostra strada seguendo il cuore, perché i limiti sono dentro di noi».  Resiliente. 9

Ricchi e Poveri Il vintage che vince. La reunion ha portato in vetrina una vecchia storia di corna e gelosie. Ma soprattutto ha innescato la festa in platea. Tutti in piedi a cantare La prima cosa bella, Che sarà, Se m’innamoro, Sarà perché ti amo, Mamma Maria. Da giovani ci si sarebbe vergognati a farlo. Come si cambia, canterebbe Fiorella Mannoia. Spensierati. 8

Amadeus Professionista. Muro di gomma. Perfetto medioman. Pian piano si è risollevato dalle gaffe di partenza. Sapeva che, stando a ruota dell’amico, poteva solo crescere. Ha subito ironie, sberleffi, gavettoni, alti e bassi. Ma lui non è permaloso, altrimenti… Sanremo è una giostra, impossibile non prendere qualche colpo. Non si è perso d’animo nemmeno quando Bugo si è dileguato. Il bravo ragazzo italiano che va a baciare mamma e papà in platea che fa simpatia a tutti. Punti deboli? La scelta delle canzoni, francamente non eccelse e troppo farcite di rap, e l’estenuante lunghezza delle serate. Sempre in piedi. 7,5

Antonella Clerici Tra tante dive bellissime (si può dire?) è parsa la più signorile. L’Ariston è casa sua e la conduzione il suo mestiere, commozione in conferenza stampa a parte. Si è portata due boys perché l’aiutassero a scendere le scale ornata in abiti coloratissimi e strascicatissimi. Dal librone del Festival ha letto i segreti del successo di Ama: le gaffe, gli orari antelucani… Se lo poteva permettere; anche lei, come lui, è della scuderia Lucio Presta. Disinvolta. 7,5

Vincenzo Mollica Comunque vada sarà un successo, diceva Piero Chiambretti. Si potrebbe applicare alle cronache sempre positive dell’inviato principe della Rai sugli eventi di spettacolo. Lezioni di stile e garbo. Il Festival gli ha tributato l’omaggio dei grandi, con i video di Stefania Sandrelli, Vasco Rossi, Roberto Benigni. I dirigenti erano lì a fianco ma, non si sono intromessi. Commozione, affetto, compostezza. Perché Mollica è Mollica. Storico. 7,5

Francesco Gabbani Ha vinto alla prima partecipazione Sanremo giovani nel 2016, poi tra i big nel 2017 battendo Fiorella Mannoia. La sua Viceversa parla di opposti che si aiutano e di condivisione. È una bella canzone, positiva, ben interpretata dal più teatrale fra i concorrenti. Outsider. 7

Tiziano Ferro Quando devi cantare Perdere l’amore e Almeno tu nell’universo hai vinto a tavolino. Con la sua propensione al soprarighismo, l’interprete di Sere nere è riuscito a pareggiare. Capriccioso causa collocazione nel palinsesto delle serate, enfatico nelle esibizioni. Come quando ha voluto specificare, tra le lacrime, che Bruno Lauzi aveva scritto per una donna Almeno tu nell’universo perché l’imprescindibile rima con «tu che sei diverso» non poteva essere volta al femminile, ma lui era felice di essere il primo uomo a cantarla, mantenendo la coniugazione al maschile. Egoriferito. 5

La saga di Deejay Neanche un tweet da Jovanotti sul Festival dei suoi amici. Lorenzo Cherubini all’Ariston non s’è visto: era in Perù. Claudio Cecchetto, invece, non è stato invitato. Dicono che in Rai non amino «i pacchetti» e con Amadeus, Fiorello, Nicola Savino, il Festival era già monopolizzato dall’emittente del gruppo Gedi. Speriamo il dissapore non finisca come al Fatto quotidiano. Era indispensabile imbarcare tutti nel carrozzone? Festival dell’amicizia incrinata? Primedonne. 5

Mannoia, Nannini, Pausini & Co Dopo il monologo di Rula Jebreal serviva ancora la comparsata delle sette cantanti sette per annunciare la campagna «Una, nessuna centomila» e il megaconcertone di Campovolo del poco prossimo 19 settembre? In piena overdose femminile e femminista, tra monologhi e denunce sparse, in mezzo alle tante interpretazioni di cover del passato e pur con l’ospitata dello stesso Zucchero, forse qualcuna poteva ripescare dalla storia festivaliera la sua Donne, meglio di tante parole… Pleonastiche. 4,5

Promo Rai Martellanti. Ridondanti. Sparati sempre in grappolo ad allungare i già incombenti break pubblicitari. La tv di Stato approfitta della vetrina per esporre tutto il meglio della programmazione in arrivo. Il meglio? C’è persino Mario Tozzi con Sapiens su Rai 3… Al centocinquantesimo sussurro tra le due amiche geniali cominci a sperare che si strozzino tra loro. Alla duecentesima telefonata di Catarella in siciliano stretto vorresti lanciare l’hashtag #Catarellaimparalitaliano. Asfissianti. 4,5

Roberto Benigni Il teologo di Sanremo. Il Cantico dei cantici apocrifo, presentato come «il libro più bello, più santo, più importante della Bibbia» (sono 15 pagine) con tanto di consulenti professori, poeti, biblisti, cardinali è stato forse il momento peggiore di tutta la kermesse. Il bello (o il brutto) è che se ne sono accorti in pochi. Un trailer molto arbitrario dell’amore omosessuale patrocinato dalle sacre scritture… Manipolatorio. 4

Junior Cally Rapper sardina. Per farci digerire i fiumi di polemiche pre Festival il suo brano avrebbe dovuto essere almeno un minuetto mozartiano. Invece arruola sei autori per martellare di «No, grazie» Matteo Salvini, Matteo Renzi, gli odiatori del web e gli yes men. Sai che novità. Rapper dell’establishment. Omologato. 4

Regia e dirigenti Rai Selfie continuo. Ogni inquadratura una zoommata di saliva. Al neodirettore di Rai 1 Stefano Coletta, al direttore generale Fabrizio Salini e a Giovanna Civitillo, moglie di Amadeus. Non si sono schiodati un minuto dalla prima fila per tutta la settimana. Compiaciuti. 4

Achille Lauro Idolo di Vanity Fair. Sotto la cappa nera con intarsi dorati sfoggia la tutina di strass effetto nude look che dovrebbe simboleggiare la rinuncia francescana ai lussi mondani. Peccato sia firmata Gucci alla modica cifra di 5.700 euro. La sera dei duetti eccolo invece con trucco pesante, abito di raso verde smeraldo e parrucca ramata: citazione di Ziggy Stardust, uno dei tanti travestimenti di David Bowie, simbolo di «una mascolinità non tossica». Minchia! si può dire? Fischiato all’ennesimo travestimento da diva del muto. Marylin Manson de noantri. Contraffatto. 3

Morgan e Bugo Dio li fa ma si accoppiano da soli. S’era capito già alla prima sera che l’ex leader dei Bluevertigo, occhi e bocca pittati, e il suo lugubre socio erano un binomio ad alta tensione. Morgan ha iniziato subito a scalpitare, inviando diffide dell’avvocato per le poche sessioni di prove. Per la serata delle cover in duetto, dopo le defezioni di Raffaella Carrà, Sergio Cammariere, Vittorio Sgarbi, Fast animals and the slow kids, i due soci… erano già un duetto (?). In compenso, per storpiare Canzone per te di Sergio Endrigo, l’ex giudice di X Factor si è fatto in tre, cantando, suonando il pianoforte e dirigendo l’orchestra. Bugo, invece, gorgheggiava per conto suo. Fino al colpo di scena finale con abbandono del palco. Autolesionisti. 0

 

La Verità, 9 febbraio 2020

Sky ci prova, ma i David restano autoreferenziali

C’è qualcosa che non torna nel bilancio dei David di Donatello in versione Sky. C’è un divario, una discrepanza, tra l’impegno profuso, la visibilità sui media, i mezzi e le partecipazioni prestigiose, e il riscontro nei gusti e negli interessi dei telespettatori. Le considerazioni della critica non devono basarsi sull’indice di ascolto, ciò che conta è il prodotto, la qualità dello spettacolo proposto, il suo valore estetico. Per una volta, però, fa pensare l’1,2 per cento di share (307.000 telespettatori) conquistato da Tv 8, il canale in chiaro che, insieme a Sky Cinema Uno, Sky Uno e Sky Arte, ha trasmesso in diretta la serata della 61ª edizione (673.000 gli spettatori totali). Il pericolo maggiore in questi casi è quello dell’autocelebrazione, il complesso di superiorità dell’élite culturale rispetto alla massa. La consegna dei David di Donatello, gli Oscar del cinema italiano, è un appuntamento annuale che si espone fatalmente al rischio autoreferenziale, appagato anche dal ricevimento della comunità al Quirinale. Consapevoli di ciò, autori e produttori di Sky, che da due anni ha strappato l’esclusiva alla Rai, hanno tentato una formula ironica e scanzonata della cerimonia. Lo si era visto fin dai promo con Claudio Santamaria. Lo si è rivisto nell’insolito prologo con decalogo delle regole imprescindibili per conquistare il David, recitato da Valerio Mastandrea, Luca Argentero e Alessandro Cattelan. Conferma ulteriore è stata la scelta di Maccio Capatonda e Fabio Rovazzi, autori di una breve satira filmata per il premio al montaggio. Bersagli: la patina intellettuale e l’enfasi autoriale che circondano il dorato mondo.

La conduzione a tutta velocità di Alessandro Cattelan

La conduzione a tutta velocità di Alessandro Cattelan

Anche la conduzione a velocità vertiginosa di Cattelan era pensata allo scopo. Tutto giusto, tutto studiato. Salvo il pericolo di scivolare sul lato opposto del crinale. Ovvero, perdersi un pizzico di magia e la lingua sognante tipiche del cinema. Ritrovate per un attimo con Roberto Benigni e la sua poetica dedica del David alla carriera a Nicoletta Braschi. Oppure, nello sconclusionato ed esilarante ringraziamento della miglior attrice Carla Bruni Tedeschi. Insomma, l’appuntamento c’era e lo spettacolo anche. I telespettatori sono anche cinespettatori e tutto concorreva al successo. Ma il grande evento non c’è stato. Forse, tra i candidati, mancava un grande film. Oppure un grandissimo interprete che potesse far uscire il cinema dal suo recinto, trasformando una serata autoreferenziale in un evento popolare. C’è di che riflettere: la strada è giusta, ma sembra ancora lunga.

La Verità, 29 marzo 2017

La tv di Freccero e quella di Campo Dall’Orto. Tre domande

Ma insomma, come sono questi palinsesti Rai? E perché uno che se ne intende come Carlo Freccero ha votato contro? Le domande sorgono spontanee, e la risposta alla seconda – senza che il giudizio dello Continua a leggere

Il libro del Papa e l’happening di Benigni

C’era anche Roberto Benigni a presentare il libro di papa Francesco intervistato da Andrea Tornielli, vaticanista de La Stampa e responsabile dell’autorevole sito Vatican Insider, intitolato Il nome di Dio è Misericordia (edizioni Piemme, traduzione in 85 lingue). A fianco dell’artista, presenziava in una delle sue rare uscite pubbliche, il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, e Zhang Agostino Jianqiang, un detenuto del carcere di Padova convertito al cristianesimo, invitato dalla platea per una toccante testimonianza. A conferma dell’importanza dell’evento, moderava gli interventi il direttore della Sala Stampa Vaticana padre Federico Lombardi. Giù dal palco, per la diretta esclusiva su Tv2000 dall’Auditorium Augustinianum, un parterre nel quale si son visti Eugenio Scalfari, Luciano Violante, Massimo Borghesi, padre Antonio Spadaro, Andrea Monda, alcuni ambasciatori, vari professori, teologi, giornalisti.

“Un libro-conversazione più che un’intervista per strappare qualche scoop, oltre che uno strumento per vivere in profondità il Giubileo in corso”, ha precisato padre Lombardi, sottolinenando che la misericordia è probabilmente il fulcro di questo pontificato. Un libro “esperienziale”, denso di vita vissuta.

Lo scopo di queste pagine non è stabilire ricette, definire casistiche, fissare paletti, ha osservato il cardinale Parolin nel suo intervento. Niente dogane spirituali, niente formule statiche e clausole per autenticare la fede delle persone. La misericordia è un Dio che ci attende a braccia aperte se appena abbiamo l’intenzione, anche se non la piena capacità, di compiere un piccolo passo verso di Lui. A Dio basta anche solo il desiderio di avvicinarsi a Lui.

Proprio perché si tratta di un libro esperienziale, il secondo intervento è stato la testimonianza di Zhang Agostino, un cinese trentenne, figlio di una famiglia buddista. Un ragazzo passato attraverso la dissoluzione, la disperazione e il rifiuto della famiglia. Finito in carcere dove, insieme al pentimento per il dolore provocato alla madre, gli è rinato il desiderio della felicità e del riscatto. L’incontro con altri carcerati lavoratori della Cooperativa Giotto, contenti di aver iniziato a frequentare la comunità cristiana, ha destato in lui la curiosità fino alla decisione di farsi battezzare e di ricevere i sacramenti nel carcere dove tuttora vive.

Una storia commovente. Dopo la quale non è stato facile intervenire per Benigni. Il libro-conversazione era stato definito da monsignor Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana, un vero “happening editoriale”. Definizione indovinata anche per la performance dell’artista. “Solo al Papa poteva venire in mente di organizzare una presentazione con un cardinale veneto, un carcerato cinese e un comico toscano – ha subito scherzato Benigni -. Sono emozionato per la mia prima volta in Vaticano, l’unico sul palco senza collarino… Ma già da bambino la vocazione ce l’avevo: quando in classe alla domanda su cosa volevo fare da grande risposi senza indugio il Papa, tutti capirono che ero tagliato per diventare un comico”.

La presenza di Benigni è stata il clou dell’evento. Pensando al percorso del comico toscano, alle sue recenti performance, dalle letture della Divina commedia all’esegesi dei Dieci comandamenti, dopo la quale ricevette la telefonata proprio di Francesco, si ha la percezione che, come scrive San Paolo ai Corinzi, anche per lui il tempo si sia fatto breve. E che, sfrondando corollari e contorni, il premio Oscar per La vita è bella abbia deciso di mostrare il suo vero volto, senza mediazioni. “Ieri ero lì, al breve incontro per questo libro – ha raccontato – e mentre aspettavo il Papa mi sentivo come Zaccheo che sale sul sicomoro in attesa di Gesù che quando passa si ferma per dirgli: ‘scendi perché stasera vengo a casa tua'”. Per Benigni, Il nome di Dio è Misericordia è un libro “che innalza i cuori senza annebbiare il cervello. Un libro che si tiene in tasca, si legge d’un fiato, mentre si aspetta il treno… Il Papa dice che la misericordia è la giustizia più grande, un mondo con solo la giustizia sarebbe un mondo freddo. La misericordia è il cuore del suo pontificato”. Misericordia è anche la prima parola che si pronuncia nel poema dantesco. È al centro del salmo 50 che parla del perdono di Davide, il preferito di Benigni. La misericordia non va confusa con la pietà perché “contiene la perla lucente della gioia, una grazia leggera, la gioia nel dolore. Questi due sentimenti ci sono tutti e due nel pontificato di Francesco e anche in questo libro. Del dolore parliamo spesso, ma la gioia la teniamo spesso nascosta, invece è il gigantesco segreto del cristianesimo… Gesù non disdegna i beni della vita… Che è una lotta tra amore di sé fino a dimenticarsi di Dio e amore di Dio fino a rinunciare a sé”.

Un Benigni travolgente, come sempre, anche in un contesto sobrio come quello dell’Auditorium e della diretta sull’emittente dei vescovi diretta da Paolo Ruffini e Lucio Brunelli. “Cosa fa Francesco, verso dove sta andando – si è chiesto il comico -. Sta traghettando la Chiesa verso Gesù, verso il cristianesimo, il vangelo, attraverso la misericordia che non è una virtù molle, buonista, ma severa, che il Papa mette in gioco nei luoghi più difficili. Il primo viaggio è stato a Lampedusa, poi la porta santa del Giubileo l’ha aperta in Africa… In un mondo che vuole l’odio e la condanna, Francesco risponde con la misericordia, andando nei posti del dolore”.

Dopo una lunga citazione del Papa tratta dal libro, il comico ha chiuso con le parole di San Giovanni della Croce: “Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore”. E forse qui c’è tutto il Benigni di oggi.