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«La sinistra non ha più l’egemonia culturale»

Con un nonno partigiano e l’altro che ha fatto la marcia su Roma, Alessandro Giuli ricerca la conciliazione degli opposti. E, ora che siede alla presidenza della Fondazione MAXXI, opera affinché il dialogo tra destra e sinistra si realizzi. La summa di questo tentativo si trova in Gramsci è vivo, dotto pamphlet appena pubblicato da Rizzoli.
Che cosa tiene ancora in vita Antonio Gramsci?
«La lezione che ci ha offerto come testimone di una libertà conculcata da un regime e l’aver rotto lo schema pseudoscientifico del marxismo-leninismo, mettendo la cultura al centro del discorso rivoluzionario».
Più precisamente?
«Con Gramsci la rivoluzione, il progetto sbagliato della dittatura del proletariato, non avviene solo in base al mutamento dei rapporti socio-economici, ma attraverso la cultura. Non si lasciano tracce durevoli se non si passa per la cultura».
In che modo è ancora attuale il teorico dell’egemonia culturale e della conquista delle casematte del potere?
«Quello è uno schema invecchiato male perché tipico del partito-Stato dei Soviet. Oggi l’egemonia non si crea dall’alto, ma dalla società civile, con i romanzi, le sceneggiature, le pièce teatrali, l’accademia. Se sei bravo e fortunato ti ritrovi in una comunità di persone che rappresentano la sensibilità conservatrice, maggioritaria in Italia, come si vede quando si vota. Tuttavia, questo processo non si realizza per volontà di un partito, dev’essere uno schema condiviso, altrimenti è una distopia».
Come quella in cui abbiamo vissuto negli ultimi decenni, nei quali l’egemonia culturale aveva un colore diverso dal sentire della maggioranza?
«In questo mezzo secolo si è consolidata una divaricazione tra consenso e potere che neanche il lungo intermezzo berlusconiano è riuscito a scalfire se non nelle nomenclature. Abbiamo dovuto aspettare un ministro come Gennaro Sangiuliano per avere un titolare della cultura non frenato nel modificare l’esistente».
Perché un libro che racconta quasi due anni di presidenza della Fondazione MAXXI teorizza il dialogo come caratteristica della cultura di destra?
«Perché i monologhi sono noiosi. Ne abbiamo ascoltati per decenni e ora preferiamo mettere la nostra identità a disposizione della contesa delle idee. Tanto meglio se producendo anche buoni risultati».
Scrivi che «alla retorica irrazionale del barbaro alle porte, che nasce da un malriposto suprematismo e sfocia nel disprezzo antropologico, si può e si deve contrapporre la forza della persuasione e del confronto».
«Esatto. Spesso ci si aspettano dei quadrumani con il lanciafiamme nei luoghi delle istituzioni più alte come il MAXXI e poi ci si stupisce di trovarvi dei bipedi ragionanti».
Il dialogo rispettoso e costruttivo è un obiettivo ottimista?
«No, magari ha una venatura di strategia. Parto dal presupposto che una buona visione del mondo di chi viene da destra può e deve contenere anche schemi e formule di una sinistra che ha abdicato alla propria funzione. La destra vince nelle urne perché soddisfa un bisogno di sicurezza e di identificazione. Non mi interessa piacere a quelli che chiamiamo salotti della sinistra, le idee sono plurali per definizione».
Quindi, non c’è un bisogno di legittimazione?
«Dal Foglio in poi ho sempre lavorato senza cercare approvazioni. Oggi sono gli stessi intellettuali di sinistra a voler dialogare con il mondo che idealmente personifico».
Nel tuo saggio fai l’esempio di Roma che diventa comunità universale spostando i confini e includendo le province. Più che includere non sarebbe corretto dire che ingloba o annette?
«Una corrente di pensiero di sinistra ritiene addirittura che “includere” sia espressione aggressiva perché significa chiudere dentro. In realtà, significa racchiudere. La lezione di Roma è trasformare genti diverse in un’unica comunità».
Questa inclusione così di moda significa che si assorbe una diversità?
«Non c’è dubbio. Cicerone, che odiava Cesare, scriveva al suo amico Attico che Cesare aveva appena conquistato le Gallie e già aveva fatto senatori alcuni di loro. Nel momento in cui hai un’idea di diritto e di sacralità della vita puoi includere chiunque sottoscriva i tuoi canoni, a patto che lo faccia davvero. Noi i canoni li abbiamo».
Ma pochi li sottoscrivono?
«Quelli che non lo fanno vivono male nella nostra comunità. Accade anche a molti con il passaporto italiano, bianchi, biondi e con gli occhi azzurri che pure non meriterebbero la cittadinanza. Se sei fuori dai canoni della Costituzione, non rispetti la sacralità della vita e l’altro da te, compresa la sovranità che appartiene al popolo, sei fuori da questa comunità».
Chi non rispetta la Costituzione dovrebbe andare in galera, quanto al rispetto della sacralità della vita potremmo scrivere un’enciclopedia.
«Se fai l’infibulazione a una donna è evidente che non rispetti né la donna né la vita, ma se ti comporti da razzista e vuoi decidere chi è italiano e chi no, come il generale Vannacci, non rispetti la sacralità della vita e la Costituzione. Il che vale pure per l’ambiente, anche se vediamo molti estremismi e fanatismi, di cui parla l’articolo 9 della Costituzione insieme al rispetto del paesaggio e alla promozione della ricerca scientifica».
Vannacci ha fatto una considerazione inerente ai tratti somatici di Paola Egonu non rappresentativi dell’italianità, non ha detto chi può o non può essere italiano.
«Accetto questa definizione a patto di immaginare che fra 100 anni ci sia un pronipote nero di Vannacci che dica che il mio pronipote bianco non rappresenta l’ideal-tipo dell’italiano».
Fra 100 anni ne riparleremo. Cosa significa che la cultura può fare per la politica quello che la politica non riesce a fare per la cultura?
«Che la politica vive di confronti, che a volte sono conflitti, con pensieri spesso biodegradabili, mentre la cultura ragiona con una gittata più lunga e sorregge le leadership politiche che si succedono. Se creo MAXXI Med a Messina ci sarà un premier che un giorno se lo ritroverà e ne beneficerà come buon esempio di diplomazia culturale rivolta al Mediterraneo, mentre noi come persone fisiche saremo altrove. Questo a prescindere dal colore di chi sarà al governo».
Citi Emilio Isgrò che sostiene che nell’arte non c’è destra e sinistra perché l’arte è come il ciclismo e tutti pedaliamo allo stesso modo. Cosa vuol dire esattamente?
«Vuol dire che l’arte proviene da artisti che possono avere o no idee politiche personali, ma non è quella l’unità di misura dell’opera d’arte. Per questo la sinistra divora Céline e pensa che sia il più grande scrittore del Novecento».
È un obiettivo ingenuo, pur appellandosi a Norberto Bobbio, rigettare la polarizzazione degli intellettuali in rossi e neri?

«Ho goduto molto quando il ministro Sangiuliano in un’intervista alla Stampa di Torino, tempio del pensiero azionista, ha citato proprio Bobbio ritorcendo le sue categorie contro chi a sinistra ragiona ancora con il bianco e nero anziché con i colori».
Che cosa pensi di ciò che è accaduto in occasione delle scelte per la rappresentanza italiana alla Fiera del libro di Francoforte anche dopo l’invito di Mauro Mazza a Roberto Saviano?

«Premesso che è un perseguitato dalla camorra e che a mio parere dopo Gomorra Saviano non ha scritto nulla di altrettanto interessante, mi piacerebbe che fossero valorizzati altri scrittori come, per esempio, Sergio Claudio Perroni. Il quale, purtroppo, è morto, ma il suo peggior libro vale quanto il miglior libro di Saviano».
Altra obiezione al dialogo è l’espansione della cancel culture e della cultura woke, che partono dalla superiorità del presente sul passato e delle élite sul popolo?
«Il suprematismo antropologico e la violenza distruttiva della cancel culture sono un’abiezione. Ma se la si guarda da vicino, come per esempio ha fatto Piergiorgio Odifreddi nel suo libro in cui ha ridicolizzato la scwha, si capisce che la cancel culture morirà di autofagia, perché tutti i suoi protagonisti non fanno che trovare elementi inibitori da cancellare. Finché non cancelleranno anche loro stessi».
Ci vorranno decenni?
«La fase di rigetto della cancel culture inizia a coinvolgere anche la sinistra».
Perché sostieni che creare occasioni di dialogo sia un discorso di destra?
«Perché la sinistra vive con le cuffiette e ascolta solo la propria musica. Ma ora una destra matura e avanzata cambia spartito e fa scoprire anche alla sinistra una musica migliore».
Gli intellettuali di Capalbio o con l’attico a New York sono davvero meno ascoltati?
«All’intellettuale di Capalbio, dove ha appena vinto la destra, che sopravvive come categoria dello spirito, non vorrei contrapporre l’intellettuale di Coccia di morto. Anziché attaccare i radical-chic che si stanno estinguendo, dovremmo essere un po’ più chic noi, imparando le buone maniere».
A me pare che siano ancora riveriti, accolti come oracoli nelle televisioni e premiati all’estero, dove esibiscono sussiego e disprezzo per chi non si allinea. Questo zoccolo è ancora duro?
«È duro e spesso anche abbastanza qualificato e ben sostenuto dal sistema culturale. Ma questo lo sosteneva già Giuseppe Berto. Appena diventeremo tutti come Giuseppe Berto li annienteremo perché valgono la metà dei suoi coetanei. Ma la vera domanda è: diventeremo come Giuseppe Berto?».
Secondo te?
«È un compito più che una certezza. Penso che siamo pieni di Giuseppe Berto potenziali che stanno suggendo il latte della mamma e noi dovremo farli crescere».
Il primo anno di gestione della tv pubblica fa ben sperare?
«È stato un anno di transizione. Confido che la nuova dirigenza saprà dare il meglio di sé una volta che l’assetto sarà consolidato e talune incertezze, come quelle che abbiamo tutti, serviranno da lezione».
Nel mondo ideale ipotizzato da Daniel Salvatore Schiffer «l’intellettuale del ventunesimo secolo sarà prismatico o non sarà. Sarà artistico prima che politico, amante del dubbio e nemico del dogma, impegnato ma non militante, e qualsiasi sua adesione a una rivoluzione sarà sempre metafisica e mai ideologica, libera e non partigiana, critica e non fanatica». Chi può realizzare questa utopia?
«Un’idea del genere è talmente liberale che la può esprimere solo una destra illuminata».
Una visione realistica evidenzia il prevalere dell’intolleranza, soprattutto a sinistra.
«Parlando di coloro che vivono nella realtà senza consapevolezza Eraclito li definiva presenti assenti. Al contrario, gli intellettuali di destra sono stati assenti presenti. Ora è arrivato il momento di essere presenti presenti».

 

La Verità, 22 giugno 2024

 

«Dopo Adriano e Sanremo rompo i recinti dei salotti»

Francesco Baccini, Caterina Caselli, Adriano Celentano, Dario Fo, Mogol, Gianni Morandi, la Nazionale italiana cantanti, Shimon Peres e Yasser Arafat, Sanremo nel senso del Festival. In ordine alfabetico, all’inizio ci andrebbe l’Arena di Verona. Gianmarco Mazzi è tutto questo e tutti loro, e anche molto di più. Perché ci sono anche Riccardo Cocciante, Massimo Giletti, Zucchero Fornaciari… star con cui ha lavorato, nella sua precedente vita. E perché ora, Mazzi, veronese, da sempre uomo di destra, deputato di Fratelli d’Italia, è sottosegretario alla Cultura del governo Meloni.

Oggi compie 63 anni, come festeggerà?

«Sarò a Genova alla cerimonia della partenza per il giro del mondo dell’Amerigo Vespucci, la nave scuola della Marina militare che in 19 mesi toccherà cinque continenti e 28 Paesi».

È il giorno giusto per chiederle che cosa le sta più a cuore nella vita, che cosa o chi vorrebbe salvare se fosse costretto a scegliere una sola persona, una cosa, un ricordo…

«Non so se è il giorno giusto, forse no. Quando compio gli anni mi fermo a pensare al tempo che passa e divento mediamente cupo. Ma le voglio rispondere. Mi sta a cuore essere in pace con me stesso, sapendo di aver fatto le cose per bene, al massimo delle mie possibilità. Salverei Evelina, l’amore della vita e poi i tre gol di Paolo Rossi al Brasile nel 1982. L’Italia mai doma, sul tetto del mondo. Una metafora, una sensazione indescrivibile che ancora oggi mi commuove e incoraggia».

Lei è sottosegretario alla Cultura, organizzatore musicale o agente di artisti?

«Dal 2 novembre 2022, sottosegretario di Stato al ministero della Cultura».

Qualcuno ha osservato che i ruoli potrebbero confondersi.

«Sia la legge che la giornata di 24 ore mi consentono di fare solo e orgogliosamente il sottosegretario. L’agente di artisti e l’autore televisivo sono esperienze significative della mia vita precedente».

Com’era il rapporto con Celentano?

«Adriano è un geniale visionario, devi stargli vicino da amico fidato. Ama molto dialogare e mettersi in discussione. Con lui e Claudia (Mori ndr) mi diverto da matti. Sono cresciuto con loro».

Un episodio che vuole ricordare?

«Ricordo la volta che chiesi ad Adriano: “Se non fossi diventato Celentano che cosa avresti fatto?”. E lui: “Avrei potuto fare qualsiasi altro lavoro, anche l’imbianchino o l’idraulico, meglio”. Rimasi spiazzato, ma lui proseguì, “mi sarei dato da fare per diventare l’idraulico della città, pensa che bello, andare nelle case, risolvere i problemi alla gente”. Lo diceva festoso, credendoci sul serio. Questo è Adriano; appassionato a ciò che fa, dà sempre il meglio di sé. Non male come insegnamento».

Beppe Caschetto ha imparato da Bibi Ballandi, lei ha avuto dei maestri?

«Sì, gli artisti. Celentano, Mogol, Gianni Morandi, all’inizio Caterina Caselli. Potrei dire anche Caschetto, che è manager colto, dall’estro prezioso».

Qual è l’evento internazionale che ricorda con più emozione?

«Una partita della pace del 2000, allo stadio Olimpico di Roma. C’erano Shimon Peres e Yasser Arafat con il presidente Carlo Azeglio Ciampi. E poi Pelè, Sean Connery, Michael Schumacher. Tutti nella stessa sera.

A ripensarci una cosa da non credere. Nel giro di una settimana ero andato a Los Angeles e a Ramallah. Ne parlavo con Morandi pochi giorni fa, mi emoziono ancora al ricordo. Mentre la vivevo, mi sembrava quasi normale».

Ha organizzato anche parecchi Festival di Sanremo con Lucio Presta: chi era il gatto e chi la volpe?

«Io ero il direttore artistico, Lucio mi consigliava e mi guardava le spalle. A Sanremo bisogna essere astuti come serpenti per mantenersi puri come colombe. E noi ci aiutavamo».

Come si trova nel ruolo attuale, più politico e istituzionale?

«All’inizio male, adesso comincio a orientarmi. Devo contenere l’impulso di realizzare subito un’idea che mi viene in mente. Le tempistiche dell’emisfero pubblico sono molto più lente. Ogni giorno devo mediare con la mia indole».

Per i cento anni del Festival lirico dall’Arena di Verona su Rai 1 è andata in onda un’edizione speciale dell’Aida: soddisfatto dell’accoglienza o qualche critica di troppo?

«No, non mi sembra. Da due anni, con la sovrintendente dell’Arena Cecilia Gasdia, lavoravo alla realizzazione di una serata televisiva memorabile per il mondo dell’opera. Un qualcosa di mai visto prima. Con Sophia Loren, la Rai, le Frecce Tricolori, Alberto Angela, Luca Zingaretti, Milly Carlucci e grazie a Giuseppe Verdi, agli artisti e ai tecnici dell’Arena ce l’abbiamo fatta. E il mondo ha apprezzato».

«Italia loves Romagna» è stato un successo, ma qualcuno ha notato l’assenza dei contadini che hanno allagato le loro terre per preservare dall’alluvione la città di Ravenna suggerendo di assegnare a loro la medaglia della cultura e dell’arte. Cosa ne pensa?

«È un’idea buona, come altre. In realtà l’evento è nato per la raccolta fondi e come abbraccio affettuoso ai romagnoli. I contadini sono stati meravigliosi ma tutta quella gente, intendo la popolazione della Romagna, è stata protagonista di tali e tanti gesti di generosità che abbiamo scelto di non farne una classifica».

Secondo lei c’è davvero la prevalenza della cultura progressista o è un falso problema e gli intellettuali conservatori ci sono ma non sono illuminati dai media, questi sì orientati a sinistra?

«Le definizioni progressista e conservatore, in questo ambito, sono categorie fuorvianti. Da anni vedo una cultura dominante che non produce dibattito, ma solo pensiero convenzionale, fatto di quattro concetti, sempre i soliti, espressi con un vocabolario povero, di una ventina di parole. Mi annoia. La cultura deve essere libera e arricchire il confronto con idee diverse, anche in contrapposizione tra loro, senza pregiudizi. Così ognuno può farsi la sua, di idea. Poi il sistema culturale italiano più che a un big bang creativo fa pensare a un centro per l’impiego, dei soliti noti. Ma questo è un altro discorso».

Proprio a questo riguardo Pietrangelo Buttafuoco dice che il governo Meloni serve a rompere i recinti e a dare una «casa a chi casa finora non ne ha avuta una». Concorda?

«Buttafuoco ha ragione. In realtà una casa forse esiste, ma i recinti l’hanno sempre costretta oltre i bordi della periferia più estrema. Penso che in futuro anche gli abitanti di quella casa potranno esprimere la loro opinione non conformista e lo faranno con calma, senza la supponenza di chi li ha emarginati sino a oggi».

Le è piaciuta la partecipazione del presidente Sergio Mattarella all’ultimo Festival? E in generale ha apprezzato l’ultima edizione?

«Per la prima volta dopo 73 anni, il Presidente della Repubblica ha presenziato alla manifestazione più conosciuta e amata dagli italiani nel mondo. È stato giusto. Ha impreziosito un’edizione di grande successo, costruita con passione e cura da Amadeus. Sanremo è uno spettacolo di canzoni, ma anche una sceneggiatura in cinque puntate, quasi una fiction. Deve coinvolgere il pubblico per una settimana intera, anzi per un anno, e lo fa attraverso vari strumenti narrativi, sviluppando un’alternanza di stati emozionali diversi, a contrasto. Come dire, dalla provocazione dei primi giorni fino alla pacificazione, magari nell’ultima sera e nei giorni successivi. È un lavoro più complesso e raffinato di quello che può apparire».

Parlando di provocazioni non le pare che ultimamente si sia un po’ esagerato?

«Mah, esagerato… Alla fine Sanremo resta una festa in famiglia. Qualcuno che fa casino c’è sempre, ma famiglia si rimane».

Magari famiglia arcobaleno… Quest’anno sarà l’ultimo festival di Amadeus. Si sentirebbe di dare un suggerimento per gli anni a venire? Per esempio, affidarlo davvero a Mina, cosa ventilata in passato, ma mai presa sul serio?

«Lei è davvero convinto che Mina aspiri a quel ruolo?».

Da quel poco che so credo che se ci fosse un progetto che le lasciasse carta bianca ci penserebbe.

«Lo scopriremo solo vivendo».

Tra pochi giorni verranno presentati i nuovi palinsesti della Rai: si aspetta un cambio di passo rispetto ai precedenti?

«Vedo concentrazione e impegno da parte della nuova dirigenza. Sono professionisti di grande esperienza e livello, con una visione culturale ampia e sfaccettata. Diamo loro tempo e si faranno apprezzare».

È giusto a suo avviso che la Rai si prefigga di contribuire «alla promozione della natalità della genitorialità»?

«Molto giusto, sono valori importanti, per i cattolici fondamentali, che è importante salvaguardare, rappresentandoli alle nuove generazioni. Bisogna riflettere sulla vacuità dei social e sulla dilagante aggressività di modelli che vogliono imporsi, umiliando la tradizione. Tutto troppo frenetico. A volte sembra un mondo all’incontrario, porta a una sorta di dittatura delle minoranze. Penso che ci voglia più rispetto, da tutti per tutti».

È stato a lungo amministratore delegato della società Arena di Verona: che cosa si può fare per rendere economicamente autosufficienti i teatri italiani?

«Ci vuole pazienza, avvicinare il pubblico alla cultura con semplicità e spiegare serenamente agli operatori che per ricevere contributi pubblici bisogna meritarseli, dandosi da fare, mostrando dinamismo e intraprendenza, anche economica. Ci vuole capacità di attrarre gli investimenti di quei privati che amano l’arte. Per un ministero pubblico ci vuole responsabilità. La cultura non può essere un concetto astratto, buono per la propaganda, ma va collegata al concetto di impresa. Va considerata come industria culturale, un settore vivo che produca lavoro, stimoli interesse, affascini i giovani e cresca in autorevolezza».

C’è un progetto, un’idea, un’iniziativa che ha in serbo per i prossimi mesi e che vuole rivelare in anteprima?     

«Il mondo dello spettacolo aspetta dal 1967, oltre 55 anni, un codice nuovo, lo stiamo scrivendo con serietà, dialogando con i protagonisti del settore. Poi vorrei valorizzare una scoperta archeologica eccezionale fatta a Verona, una residenza alberghiera di epoca romana con caratteristiche uniche al mondo. Per convenzione e per darmi un tono la chiamo “piccola Pompei”. Ma se mi sente il ministro Gennaro Sangiuliano, si arrabbia. Pompei non si tocca».

 

La Verità, 1 luglio 2023

«Vogliamo vere identità, non finte trasgressioni»

Storico, politologo, giornalista, Giovanni Orsina dirige il dipartimento School of government della Luiss Guido Carli. Sebbene di formazione moderata, la sua autorevolezza è riconosciuta anche a sinistra. Non a caso collabora con La Stampa dove, qualche giorno fa, ha scritto un editoriale molto critico sulla cultura espressa dal Festival di Sanremo.

Professor Giovanni Orsina, è indovinato l’aforisma «Festival pieni urne vuote»?

«Sì, anche se, come tutte le sintesi, un po’ semplifica. Tuttavia, fotografa un certo scollamento tra le avanguardie artistico-culturali e il sentire comune delle persone. Chi fa spettacolo, arte e cultura si sofferma su forme di trasgressione che una parte importante della popolazione rifiuta, ritenendole pericolose o stucchevoli. In più, c’è un’aggravante».

Quale?

«Negli anni Sessanta del secolo scorso esistevano le avanguardie e la società le seguiva. Oggi non si può dire che ci sia un ritardo dell’opinione pubblica. Al contrario, c’è una reazione alle avanguardie, un desiderio di tornare indietro».

È trasgressione vera quella cui assistiamo?

«La trasgressione è vera quando comporta un prezzo ed esprime una contestazione delle regole sociali. A quel punto la società reagisce e ti colpisce. La reazione della società definisce il valore della protesta. Se invece per la tua trasgressione la società ti applaude e ti paga, che trasgressione è?».

Queste presunte trasgressioni sono in realtà mainstream?

«Viviamo nel mondo della trasgressione istituzionalizzata. Il messaggio continuamente replicato è: sii te stesso, fa ciò che vuoi, esprimi la tua personalità. È il conformismo dell’anticonformismo».

Dopo il voto alle regionali arrivato post Festival di Sanremo qualche analista ha scritto che la destra vince le elezioni, ma non esprime lo spirito del Paese reale che è più rappresentato dal mondo dello spettacolo.

«Il fatto è che non c’è un Paese reale, ma ce ne sono cento. A me pare che lo spirito del tempo lo esprima maggiormente la destra, soprattutto nella ribellione ai processi di globalizzazione. Tuttavia, questo spirito del tempo non sempre coincide con il Paese reale, che è molto frammentato».

Al contrario, si può dire che gli artisti hanno in mano la comunicazione ma, anche se vantano audience da record, non rappresentano il Paese reale?

«Il pubblico si è sintonizzato per seguire il Festival senza necessariamente condividerne il messaggio. Chiara Ferragni sposta voti? Se sì, sono numeri marginali. È un errore pensare che un messaggio proposto dalla cultura pop diventi automaticamente politico. Quando si diceva che le tv di Berlusconi condizionavano le campagne elettorali era vero solo in parte. Il meccanismo non è automatico come schiacciare un pulsante. Il rapporto tra orientamento culturale ed espressione politica o elettorale è qualcosa di molto più complesso e sofisticato».

Qual è secondo lei il motivo dell’astensionismo?

«La prima causa è la sensazione di perdita di potere della politica. È inutile andare a votare perché ciò che la politica può cambiare è marginale rispetto alla mia vita quotidiana».

Se la politica estera si fa a Washington e quella economica a Bruxelles che senso ha votare per le regioni?

«Le istituzioni nazionali e locali hanno poco potere. Ciò che possono fare è già predeterminato. Non possono aumentare il debito pubblico né abbassare le tasse, non ce lo possiamo permettere. Infine, è venuto meno il rapporto di fedeltà politica. Non ci sono più il partito e le persone con cui identificarsi».

Qualche osservatore sostiene che l’astensionismo sia frutto della mentalità dei diritti. Se le conquiste non sono esito di impegno e sacrifici ma sono dovute, che senso ha votare?

«Andrei più a fondo: una società costruita sui diritti individuali perde il senso dell’azione collettiva. La quale richiede il sacrificio di sé. Nel gruppo vige la disciplina che consiste nel mettere il proprio ego al servizio di una causa collettiva».

E nell’era del narcisismo…

«Non si è più disposti a subordinare la propria libertà presente per una libertà collettiva futura. È una delle grandi contraddizioni del Sessantotto. Il narcisista non aderisce al gruppo, al massimo condivide delle emozioni. Prendere la tessera del partito, accettarne la disciplina, spendere il proprio tempo in una liturgia: nessuno ci crede ed è disposto a farlo».

Alle liturgie novecentesche, piazze, congressi, dibattito, non ne sono subentrate altre?

«È subentrato Sanremo. Una cosa che dura cinque giorni, fatta di provocazioni che sollevano un immenso polverone di cui poco dopo non si parla più».

Come spiega la distanza tra vita della popolazione e società dello spettacolo?

«La società dello spettacolo si basa sulla proposta del nuovo, bello o brutto che sia non importa. Ha istituzionalizzato la provocazione. Ma l’opinione pubblica comincia a essere stanca della provocazione continua che non va in profondità. Johan Huizinga diceva che la vera cultura dovrebbe basarsi su una metafisica. Siccome non abbiamo più una vera metafisica, non abbiamo più una vera cultura».

Per questo in un suo editoriale ha parlato di cultura progressista lamentosa e conformista?

«Guardiamo le serie tv. L’elemento trasgressivo deve spuntare nei primi minuti del primo episodio. Personalmente non vedo niente di nuovo rispetto alle grandi provocazioni degli anni Sessanta e Settanta. Sono cresciuto con Renato Zero e i suoi dischi me li compravano i miei genitori, che sono dei conservatori. David Bowie era un fior di musicista, non solo una figurina gender fluid. Allora la provocazione serviva a veicolare un contenuto artisticamente notevole».

Guardando al cinema, alle serie tv e alla pubblicità si può dire che la cultura woke è diventata canone, codice riconosciuto?

«Ha scritto tutto Augusto Del Noce nel Suicidio della rivoluzione, anno 1978. La modernità nasce con una spinta rivoluzionaria poderosa: distruggiamo tutto il passato per costruire il mondo nuovo. Poi, a un certo punto, ci siamo accorti che questo mondo nuovo non riuscivamo a costruirlo. Così è rimasta in piedi solo la distruzione del passato che, a quel punto, è fine a sé stessa. Cambiare per cambiare».

La cultura progressista non è in grado di dare idee nuove?

«L’unica idea è la trasgressione per la trasgressione. Come detto siamo alla fine, al suicidio della rivoluzione. La proposta più importante della cultura progressista si chiamava marxismo. Fallito il quale non resta che il liberi tutti: ciascuno faccia quello che vuole. Ma se così è, non si può più dire ciò che è bello e buono e ciò che non lo è. Non può più dirlo chi teorizza il libero arbitrio assoluto. Spariscono i criteri di giudizio e resta solo il “Tana, liberi tutti”».

Eppure questa cultura fatica ad accettare lo spoil system come si vede sulla scelta della direzione del Salone del libro di Torino.

«Certo. Perché i criteri di giudizio sono spariti, ma il potere no. Anzi: il potere vale proprio perché almeno nel breve periodo riesce a imporre criteri che, da soli, non avrebbero la forza per imporsi. La forza della cultura progressista consiste, appunto, nella sua forza, nel suo avere occupato le “casematte» gramsciane. Perdute quelle…».

Sono paradossalmente più avanti quegli esponenti politici che riconoscono l’abilità di Giorgia Meloni?

«La politica è costretta ad avere un sia pur minimo rapporto col mondo reale. La cultura no».

Se la sinistra manca di idee nuove, per assurdo la destra sta ancora peggio?

«Me la sono presa con Sanremo perché non c’è un evento pop di destra, ma se lo immagino mi prende lo sconforto. Che cosa potrebbero fare, celebrare la maternità e la nazione?».

La destra è in grado di andare oltre la critica al pensiero unico?

«La destra si aggrappa ai valori della tradizione Dio, patria e famiglia. Ma li propone in una società secolarizzata, nella quale le famiglie sono sempre più fragili e, a causa dei processi di globalizzazione, anche l’idea di patria è in crisi. Sono valori che hanno perso mordente. Non basta neanche l’orgoglio dell’italianità. Insistere sulla tradizione, che è stata decostruita, è un tentativo che suona strano, un po’ fuori dal tempo».

Non ci sono vie d’uscita?

«La tarda modernità ha sminuzzato tutto come un rullo compressore. Il valore su cui ricostruire è, forse, un dato antropologico di base. Gli esseri umani chiedono identità, chiedono comunità. In fondo, il populismo esprime una ribellione contro questo eccesso di liquidità, di fluidità, di globalizzazione. L’infelicità degli esseri umani si è condensata in una rabbia che si è espressa nel voto populista. Per ripartire, bisogna provare a chiedersi di cosa hanno veramente bisogno le persone in questo mondo destrutturato».

Ripartire dal dato antropologico vuol dire ripartire dalle domande fondamentali dell’esistenza che implicano l’apertura al trascendente, ciò che qualcuno ha chiamato «senso religioso»?

«Volerei più basso, anche se Del Noce diceva che non ci sarebbe stata rinascita senza un risorgimento di tipo religioso. Simone Weil parlava dei bisogni vitali dell’animo umano senza ricorrere al trascendente. Parlava dei bisogni di comunità e di ordine, fondamentali tanto più in una società globalizzata. In una parola, il bisogno di radicamento, di appartenere a un luogo, come ha scritto in uno dei suoi saggi più importanti. In fondo, il populismo è una domanda di protezione, di salvaguardia del contesto nel quale si è cresciuti. È una domanda di contestualità di fronte alla globalizzazione che decontestualizza».

Sfida tosta in un’epoca in cui si parla di diritto all’emigrazione più che di diritto di crescere a casa propria.

«Emigrare è un diritto, ma immigrare no. Ciò detto, l’emigrazione non va bloccata, ma gestita. È una richiesta avvertita in tutto il mondo. La crisi della sinistra deriva dalla posizione radicale assunta sull’immigrazione. Se vivo in una comunità nella quale arrivano migliaia di persone o si trova il modo di governare quell’immissione oppure quella comunità è finita. Nessuna comunità deve vivere a compartimenti stagni, ma se non posso decidere chi entra a casa mia vuol dire che non ne sono più il padrone. Simone Weil dice che l’uomo deve avere radici. La cultura globalista sostiene che per l’uomo del futuro la casa è il mondo. Io sono scettico, non mi piacerebbe neanche. La gestione dei flussi migratori è un tema centrale dei prossimi decenni. Ritengo che dare del razzista a chi vuole mantenere il controllo di casa propria sia una semplificazione intollerabile».

 

 La Verità, 18 febbraio 2023

«Costruiamo il futuro, no alla società del controllo»

Caro Giordano Bruno Guerri, per cominciare le chiedo un piccolo sforzo di fantasia: oggi che consiglio darebbe Gabriele d’Annunzio a Giorgia Meloni?

«Se parlasse ai suoi tempi direbbe di rifare grande l’Italia. Ma non credo che oggi D’Annunzio spingerebbe il nazionalismo, semmai l’innovazione: perché è questo il modo per difendere la nazione».

Invece lei, uomo contemporaneo, come valuta i primi due mesi del nuovo governo?

«Due mesi sono pochi, eppure leggo già molti giudizi taglienti. All’inizio un governo, per di più nato nelle condizioni che sappiamo, si deve organizzare com’è capitato a tutti gli esecutivi. La mia prima sensazione è positiva, Giorgia Meloni mi sembra solida ed essenziale. D’altra parte ravviso la tendenza a un conservatorismo che non mi piace».

Dove lo vede?

«Per esempio, sulla scuola. Il merito è certamente un criterio da valorizzare, ma non vedo ancora gli strumenti per farlo. Oppure la legge sui rave party, intendiamoci, una legge necessaria, ma all’inizio stesa molto male. Gli esempi non mancano».

Se non ho capito male, è contento di non essere diventato ministro.

«Ha capito bene. L’avrei fatto per senso del dovere e gusto della sfida. Sarei entrato in un mondo che non ho mai frequentato se non marginalmente. Ma la mia vita ne sarebbe stata devastata, soprattutto perché avrei dovuto lasciare il Vittoriale».

Presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani dal 2008, Giordano Bruno Guerri, scrittore, storico eminente e già direttore editoriale di marchi prestigiosi, è impegnato a rendere sempre più attraente e moderna la casa museo più visitata al mondo. Nell’anno che si sta chiudendo il Vittoriale ha superato i 260.000 visitatori, 19.000 in meno del 2019, anno record, ma 100.000 in più del 2021. Perciò si può dire che «si è messo alle spalle la crisi del Covid e la guerra e ora prepara nuove iniziative in occasione delle manifestazioni per Bergamo e Brescia Capitale italiana della cultura per il 2023 come GardaLo!, il primo festival culturale della sponda lombarda del lago di Garda».å

Oltre alla cura del Vittoriale, qual è la vita che da ministro sarebbe stata compromessa?

«Adesso, per fare un esempio concreto, sono all’estero con la mia famiglia…».

Come trascorrerà il Natale?

«Visiterò il Marocco. Ritengo sia un bene che i miei figli conoscano il mondo arabo. E poi mi depurerò dall’assalto di luci, presepi e babbi natale».

È una presa di distanza dal cristianesimo o dal consumismo?

«È un allontanamento dai riti e dalle abitudini di questo periodo, dalla finzione di armonia e dai pranzi eccessivi».

Tornando al governo, trova conferma l’idea che Meloni e il suo partito non dispongano di una valida classe dirigente?

«Credo che la classe dirigente la stiano preparando, ma non si forma né in un anno né in dieci. È un lavoro lungo e complesso, nel frattempo si opera con quello che c’è».

L’esecutivo ha perso compattezza sulla legge contro i rave party e sui temi economici?

«Credo ci sia una visione diversa fra i partiti della maggioranza che crea conflitti che si spera restino piccoli. Non vedo un difetto nel correggere alcune decisioni, ma la capacità di riconoscere gli errori e di porvi rimedio».

Un’altra obiezione della campagna elettorale riguardava il ritorno al potere del fascismo in caso di vittoria di Giorgia Meloni.

«Il fascismo è un fenomeno storico morto e sepolto. Credo che nessuno ai vertici di Fratelli d’Italia lo rimpianga. Piuttosto, ci potrebbe essere un ritorno al conservatorismo di Dio, patria e famiglia che non è una formula propria del fascismo, ma tipica anche dei governi democristiani. Personalmente penso che converrebbe puntare energie e risorse in altre direzioni».

Quali?

«Vigilerei sul dominio degli algoritmi e dell’economia digitale sulle persone. A questo proposito apprezzo il comportamento di Giorgia Meloni nei confronti dell’Europa. Che non è una chiusura pregiudiziale, ma la difesa del controllo nazionale di fronte alla pressione economica europea che spesso si configura come un secondo governo, potenzialmente schiacciante».

Con il movimento «Italiani liberi» fondato con l’antropologa Ida Magli avevate messo in guardia da questi pericoli.

«A metà anni Novanta denunciavamo la possibilità di una sopraffazione dei popoli in favore di un’omogeneità non realizzabile in tempi così brevi. Mi sembra che il governo Meloni stia muovendosi nella direzione giusta, collaborando con l’Unione europea ma, quando occorre, mantenendo una politica distinta come sulla gestione degli sbarchi e l’arrivo degli extracomunitari».

O come sull’adesione al Mes: si è detta pronta a firmare con il sangue la decisione di non prenderlo.

«Concordo nel merito della decisione, ma forse certe battute a effetto andrebbero evitate perché l’Europa non è spiritosa».

La cultura del politicamente corretto e l’avvento della pandemia hanno rafforzato la tendenza all’omologazione?

«La pandemia ha aperto un varco terribile all’estensione del controllo degli individui. La possibilità di chiudere tutti in casa, di dire a che ora uscire e a che ora rientrare è un precedente di gestione delle masse molto pericoloso. Se si verificasse una crisi economica di gravi proporzioni, chissà cosa potrebbe fare un governo per limitare l’indipendenza dei cittadini».

È il capitalismo della sorveglianza.

«Possiamo chiamarlo così ed è sempre più pressante. Non solo nella sorveglianza, ma anche nell’indirizzo del pensiero e dei comportamenti. Il politicamente corretto è già una componente e un risultato di questo indirizzo che non si limita al divieto di pronunciare la parola “negro”, ma tende a promuovere una forma di pensiero unico».

Qualcosa si è visto negli annunci di alcuni politici di vertice europei che si sono auto-investiti del compito di vigilare sul comportamento del governo italiano.

«Il pensiero unico avanza e si estende. Mi ha molto confortato sapere che in America alcuni intellettuali come Noam Chomsky stanno fondando nuove università per rompere questo accerchiamento».

L’emergenza sanitaria giustificava la richiesta di maggiore disciplina ai cittadini?

«Io non sono no vax e penso che la salute venga prima di tutto. Ma si è visto che si sono commessi degli errori e che la stretta dei governi italiani, al plurale, è stata inferiore solo a quella del governo cinese. Che ci siano stati eccessi è comunemente riconosciuto. È particolarmente grave che per proteggerci dal Covid si sia danneggiata la salute riguardo ad altre malattie più gravi, per esempio rinviando o cancellando gli esami preventivi per il cancro. Sembra sia stata un’esercitazione generale per un controllo strettissimo. Lo si vede anche oggi… La difesa a oltranza del pos e il rifiuto di alzare il tetto al contante potrebbero preludere a nuove forme di controllo».

Viviamo in una specie di distopia?

«Il timore è che questo sia l’inizio, non un episodio estemporaneo».

Ci vorrebbe un volo sopra Bruxelles come quello di D’Annunzio su Trieste?

«Non credo basterebbe. Probabilmente lo abbatterebbero».

L’accusa di ritorno al potere del fascismo è un’intimidazione preventiva prima che Meloni muova le sue pedine?

«Certamente. Il pericolo fascista viene usato come un manganello dalle sinistre. Che deve fare quella povera donna più che piangere durante la visita al museo ebraico di Roma?».

È stato un pianto un po’ tardivo?

«E quando doveva farlo, appena nata? Non mi sembra che abbia mai manifestato amore per il fascismo. C’è quella sua intervista a 16 anni… Ma lei si riconoscerebbe in ciò che pensava a 16 anni? È politicamente scorrettissimo rinfacciargliela, per altro da parte dei più strenui militanti del politicamente corretto».

È giusto che il nuovo governo estenda la sua influenza nei posti di comando o dovrebbe mostrarsi più liberale?

«A me sembra sia una cosa normale, sempre avvenuta e sia giusto che avvenga. L’esempio americano di spoil system è limpido e nessuno si scandalizza. Piuttosto dev’esserci attenzione affinché vengano scelti uomini di qualità perché se sostituisci un bravo avversario con un amico inetto ti giochi una fetta di credibilità».

Dopo decenni di egemonia culturale della sinistra è giusto puntare a una nuova mappa?

«Ho paura delle egemonie di sinistra come di quelle di destra. La cultura è un unicum in movimento e non ha colore… Non auspico che si passi dal rosso al nero, ma che si realizzi un processo di maturazione attraverso la scuola e nelle istituzioni, senza preoccuparsi di instaurare nuove egemonie».

Qualcuno osserva che Meloni è troppo timida, per esempio sulla Rai.

«Il governo è in carica da due mesi e sta affrontando la legge di bilancio e il Pnrr. Buttarsi sulla Rai sarebbe una mossa goffa e sbagliata. Credo sia una necessità da affrontare in un secondo momento, sempre se ci saranno gli uomini giusti per farlo».

Concorda con la decisione del ministro Giuseppe Valditara di vietare l’uso dei cellulari in classe?

«Certamente, il cellulare è uno strumento privato che permette attività che non c’entrano con il lavoro scolastico. Spero che verrà un momento in cui le classi saranno dotate di computer per favorire una didattica più adeguata e moderna. Una cosa è aiutare la ricerca, un’altra andare su TikTok. Finché non si potrà fornire tutti di i-pad è corretto proibire il cellulare. I miei figli li mando a scuola senza telefono senza che me lo dica il ministro».

Non legge Tolkien né Roger Scruton: che autore consiglierebbe a Meloni?

«Premetto che non detesto Tolkien, ma non ho interesse per Il Signore degli anelli. Personalmente trovo affascinante Yuval Noah Harari, l’autore di Homo Deus. Breve storia del futuro e 21 lezioni per il XXI secolo».

Vorrebbe maggiore attenzione alla contemporaneità?

«Auspico una classe dirigente più vigile e progettuale sul futuro. Per esempio, il problema della denatalità è gravissimo perché si rischia la scomparsa di un popolo e di una cultura. Giustamente ci vantiamo del made in Italy, ma quando non ci saranno più persone in grado di realizzarlo sparirà. Servono misure energiche per favorire la natalità, uno dei problemi principali del nostro Paese».

Il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo dice che nel 2070 ci saranno 11 milioni d’italiani in meno.

«Il cittadino comune se ne frega del 2070, ma è giusto che gli uomini di Stato si pongano questo problema come priorità assoluta. Progettare il futuro è il massimo compito della politica».

 

La Verità, 24 dicembre 2022

I guru brulicano più dei ribelli alla quarantena

Ricette. Risposte. Buonismi. Moralismi. Esortazioni. Richiami. Inviti. Migliorismi. Non passa giorno senza che qualche maestrino dispensi le proprie tavole dell’etica. La propria pensata. Ho imparato questo, ho imparato quello. Dobbiamo fare così, dobbiamo vivere colà. Si comincia a non poterne più di questi guru da quarantena. Anzi, per dirla elegante, cominciano a devastarci… Pontificano dai giornaloni. Sui social. Tutti indistintamente. Nei talk show c’è sempre un telepredicatore, un saggio autonominato. La lista è lunga. C’è lo scrittore premiato (A. S. indovinate) che dice che questa pandemia «ha messo fine alla modernità» e bisogna ricostruire una cultura della morte. C’è il conduttore televisivo mainstream (F. F.) che dice che si è accorto che «non ci sono più i confini» (mentre tutti li chiudono, non solo a noi italiani). C’è l’ex politico di primissimo piano, fondatore di partiti e alleanze, ora scrittore e regista (W. V. facilissimo), che tratteggia «la nostra strategia di vittoria» e dice che dopo saremo migliori se faremo come dice lui. C’è l’attore da festival e da cover di settimanale (E. G. fattibile) che dice che «la felicità è quando riusciamo a perderci negli altri» e che lui non sta nei social perché sta nei (centri) sociali. C’è la titolare di un salottino di snob tv (D.B.) che dice che ha imparato «qual è l’ora esatta in cui spunta il sole» (càspita!). C’è lo scrittore magistrato in odore di premio (G. C. non è difficile) che dice che ha imparato che è meglio aspettare di conoscere prima di pontificare. Solo che per esprimere questo concetto nudo e crudo, quattro parole di numero, impiega un’intera pagina del solito giornalone con profluvio di citazioni colte e esibizione di travaglio interiore.

È così, perché a volte, i guru con cattedra mediatica, sono protagonisti di disinvolte piroette. Prima sottovalutatori, minimizzatori, stigmatizzatori del razzismo incipiente, coniatori di hashtag modaioli, do you remember #abbracciamouncinese, illuministi frequentatori di chinatown, mangiatori d’involtini primavera a scopo dimostrativo, poi improvvisamente convertiti al pugno duro con sanzioni, o alle prudenze e alla sobrietà, diffusa in posa pensosa da qualche talk show left oriented di cui sono assidui. State sicuri, accendete la tv o andate in edicola sfidando il pericolo, e un cantautore moraleggiante, un attore di teatro con il fervorino incorporato lo trovate sempre. È un brulicare quasi più fitto di quello dei ribelli agli arresti domiciliari. Gli assembramenti di maître à penser sono roba da aperitivo sui Navigli ai tempi della Milano da bere. Nella melassa dominante non hanno bisogno di esibire autocertificazioni, tanto nuotiamo tutti nello stagno del buonismo politicamente corretto. Gli apocalittici sono perfettamente integrati.

Questa è la situa. Alla tragedia della pandemia si aggiunge la farsa dei sacerdoti del bene. E la distopia si tramuta in fantasy horror. Perché, in fondo, tutto questo proliferare di decaloghi nasconde un deficit, un’impasse, un gigantesco, sinistro vuoto d’aria. È l’insufficienza, lo spiazzamento dell’umanitarismo, della cultura liberal, del positivismo scientista, della filantropia dei buoni. Una particella invisibile sta mettendo in ginocchio secoli di progresso. La morte falcia come ai tempi della peste. Su una cosa aveva ragione il primo guru, Antonio Scurati sul Corriere della Sera: «L’epidemia ha messo la parola fine su un’idea di modernità». Un’idea basata sull’onnipotenza della scienza e l’invulnerabilità dell’uomo. Del superuomo. Com’è possibile che la scienza non abbia la soluzione? Che la medicina non abbia il vaccino? La vertigine e il panico ci assalgono. E come nei laboratori scientifici è tutta una corsa alle sperimentazioni per trovare le contromisure, così nei dorati pensatoi del progressismo è tutto un proliferare di alambicchi e alchimie alla ricerca delle formulette per la psiche.

Ricette e risposte, si diceva. E se, invece fosse il caso di fermarsi un po’ di più sulle domande? Sugli interrogativi che questa situazione pone alla nostra società lanciata verso il radioso futuro promesso dalla globalizzazione?

Volevate la decrescita felice? Eccovi accontentati. Come dite? Non è felice? Ah, ok. Ricalcolo…