«Vogliamo vere identità, non finte trasgressioni»

Storico, politologo, giornalista, Giovanni Orsina dirige il dipartimento School of government della Luiss Guido Carli. Sebbene di formazione moderata, la sua autorevolezza è riconosciuta anche a sinistra. Non a caso collabora con La Stampa dove, qualche giorno fa, ha scritto un editoriale molto critico sulla cultura espressa dal Festival di Sanremo.

Professor Giovanni Orsina, è indovinato l’aforisma «Festival pieni urne vuote»?

«Sì, anche se, come tutte le sintesi, un po’ semplifica. Tuttavia, fotografa un certo scollamento tra le avanguardie artistico-culturali e il sentire comune delle persone. Chi fa spettacolo, arte e cultura si sofferma su forme di trasgressione che una parte importante della popolazione rifiuta, ritenendole pericolose o stucchevoli. In più, c’è un’aggravante».

Quale?

«Negli anni Sessanta del secolo scorso esistevano le avanguardie e la società le seguiva. Oggi non si può dire che ci sia un ritardo dell’opinione pubblica. Al contrario, c’è una reazione alle avanguardie, un desiderio di tornare indietro».

È trasgressione vera quella cui assistiamo?

«La trasgressione è vera quando comporta un prezzo ed esprime una contestazione delle regole sociali. A quel punto la società reagisce e ti colpisce. La reazione della società definisce il valore della protesta. Se invece per la tua trasgressione la società ti applaude e ti paga, che trasgressione è?».

Queste presunte trasgressioni sono in realtà mainstream?

«Viviamo nel mondo della trasgressione istituzionalizzata. Il messaggio continuamente replicato è: sii te stesso, fa ciò che vuoi, esprimi la tua personalità. È il conformismo dell’anticonformismo».

Dopo il voto alle regionali arrivato post Festival di Sanremo qualche analista ha scritto che la destra vince le elezioni, ma non esprime lo spirito del Paese reale che è più rappresentato dal mondo dello spettacolo.

«Il fatto è che non c’è un Paese reale, ma ce ne sono cento. A me pare che lo spirito del tempo lo esprima maggiormente la destra, soprattutto nella ribellione ai processi di globalizzazione. Tuttavia, questo spirito del tempo non sempre coincide con il Paese reale, che è molto frammentato».

Al contrario, si può dire che gli artisti hanno in mano la comunicazione ma, anche se vantano audience da record, non rappresentano il Paese reale?

«Il pubblico si è sintonizzato per seguire il Festival senza necessariamente condividerne il messaggio. Chiara Ferragni sposta voti? Se sì, sono numeri marginali. È un errore pensare che un messaggio proposto dalla cultura pop diventi automaticamente politico. Quando si diceva che le tv di Berlusconi condizionavano le campagne elettorali era vero solo in parte. Il meccanismo non è automatico come schiacciare un pulsante. Il rapporto tra orientamento culturale ed espressione politica o elettorale è qualcosa di molto più complesso e sofisticato».

Qual è secondo lei il motivo dell’astensionismo?

«La prima causa è la sensazione di perdita di potere della politica. È inutile andare a votare perché ciò che la politica può cambiare è marginale rispetto alla mia vita quotidiana».

Se la politica estera si fa a Washington e quella economica a Bruxelles che senso ha votare per le regioni?

«Le istituzioni nazionali e locali hanno poco potere. Ciò che possono fare è già predeterminato. Non possono aumentare il debito pubblico né abbassare le tasse, non ce lo possiamo permettere. Infine, è venuto meno il rapporto di fedeltà politica. Non ci sono più il partito e le persone con cui identificarsi».

Qualche osservatore sostiene che l’astensionismo sia frutto della mentalità dei diritti. Se le conquiste non sono esito di impegno e sacrifici ma sono dovute, che senso ha votare?

«Andrei più a fondo: una società costruita sui diritti individuali perde il senso dell’azione collettiva. La quale richiede il sacrificio di sé. Nel gruppo vige la disciplina che consiste nel mettere il proprio ego al servizio di una causa collettiva».

E nell’era del narcisismo…

«Non si è più disposti a subordinare la propria libertà presente per una libertà collettiva futura. È una delle grandi contraddizioni del Sessantotto. Il narcisista non aderisce al gruppo, al massimo condivide delle emozioni. Prendere la tessera del partito, accettarne la disciplina, spendere il proprio tempo in una liturgia: nessuno ci crede ed è disposto a farlo».

Alle liturgie novecentesche, piazze, congressi, dibattito, non ne sono subentrate altre?

«È subentrato Sanremo. Una cosa che dura cinque giorni, fatta di provocazioni che sollevano un immenso polverone di cui poco dopo non si parla più».

Come spiega la distanza tra vita della popolazione e società dello spettacolo?

«La società dello spettacolo si basa sulla proposta del nuovo, bello o brutto che sia non importa. Ha istituzionalizzato la provocazione. Ma l’opinione pubblica comincia a essere stanca della provocazione continua che non va in profondità. Johan Huizinga diceva che la vera cultura dovrebbe basarsi su una metafisica. Siccome non abbiamo più una vera metafisica, non abbiamo più una vera cultura».

Per questo in un suo editoriale ha parlato di cultura progressista lamentosa e conformista?

«Guardiamo le serie tv. L’elemento trasgressivo deve spuntare nei primi minuti del primo episodio. Personalmente non vedo niente di nuovo rispetto alle grandi provocazioni degli anni Sessanta e Settanta. Sono cresciuto con Renato Zero e i suoi dischi me li compravano i miei genitori, che sono dei conservatori. David Bowie era un fior di musicista, non solo una figurina gender fluid. Allora la provocazione serviva a veicolare un contenuto artisticamente notevole».

Guardando al cinema, alle serie tv e alla pubblicità si può dire che la cultura woke è diventata canone, codice riconosciuto?

«Ha scritto tutto Augusto Del Noce nel Suicidio della rivoluzione, anno 1978. La modernità nasce con una spinta rivoluzionaria poderosa: distruggiamo tutto il passato per costruire il mondo nuovo. Poi, a un certo punto, ci siamo accorti che questo mondo nuovo non riuscivamo a costruirlo. Così è rimasta in piedi solo la distruzione del passato che, a quel punto, è fine a sé stessa. Cambiare per cambiare».

La cultura progressista non è in grado di dare idee nuove?

«L’unica idea è la trasgressione per la trasgressione. Come detto siamo alla fine, al suicidio della rivoluzione. La proposta più importante della cultura progressista si chiamava marxismo. Fallito il quale non resta che il liberi tutti: ciascuno faccia quello che vuole. Ma se così è, non si può più dire ciò che è bello e buono e ciò che non lo è. Non può più dirlo chi teorizza il libero arbitrio assoluto. Spariscono i criteri di giudizio e resta solo il “Tana, liberi tutti”».

Eppure questa cultura fatica ad accettare lo spoil system come si vede sulla scelta della direzione del Salone del libro di Torino.

«Certo. Perché i criteri di giudizio sono spariti, ma il potere no. Anzi: il potere vale proprio perché almeno nel breve periodo riesce a imporre criteri che, da soli, non avrebbero la forza per imporsi. La forza della cultura progressista consiste, appunto, nella sua forza, nel suo avere occupato le “casematte» gramsciane. Perdute quelle…».

Sono paradossalmente più avanti quegli esponenti politici che riconoscono l’abilità di Giorgia Meloni?

«La politica è costretta ad avere un sia pur minimo rapporto col mondo reale. La cultura no».

Se la sinistra manca di idee nuove, per assurdo la destra sta ancora peggio?

«Me la sono presa con Sanremo perché non c’è un evento pop di destra, ma se lo immagino mi prende lo sconforto. Che cosa potrebbero fare, celebrare la maternità e la nazione?».

La destra è in grado di andare oltre la critica al pensiero unico?

«La destra si aggrappa ai valori della tradizione Dio, patria e famiglia. Ma li propone in una società secolarizzata, nella quale le famiglie sono sempre più fragili e, a causa dei processi di globalizzazione, anche l’idea di patria è in crisi. Sono valori che hanno perso mordente. Non basta neanche l’orgoglio dell’italianità. Insistere sulla tradizione, che è stata decostruita, è un tentativo che suona strano, un po’ fuori dal tempo».

Non ci sono vie d’uscita?

«La tarda modernità ha sminuzzato tutto come un rullo compressore. Il valore su cui ricostruire è, forse, un dato antropologico di base. Gli esseri umani chiedono identità, chiedono comunità. In fondo, il populismo esprime una ribellione contro questo eccesso di liquidità, di fluidità, di globalizzazione. L’infelicità degli esseri umani si è condensata in una rabbia che si è espressa nel voto populista. Per ripartire, bisogna provare a chiedersi di cosa hanno veramente bisogno le persone in questo mondo destrutturato».

Ripartire dal dato antropologico vuol dire ripartire dalle domande fondamentali dell’esistenza che implicano l’apertura al trascendente, ciò che qualcuno ha chiamato «senso religioso»?

«Volerei più basso, anche se Del Noce diceva che non ci sarebbe stata rinascita senza un risorgimento di tipo religioso. Simone Weil parlava dei bisogni vitali dell’animo umano senza ricorrere al trascendente. Parlava dei bisogni di comunità e di ordine, fondamentali tanto più in una società globalizzata. In una parola, il bisogno di radicamento, di appartenere a un luogo, come ha scritto in uno dei suoi saggi più importanti. In fondo, il populismo è una domanda di protezione, di salvaguardia del contesto nel quale si è cresciuti. È una domanda di contestualità di fronte alla globalizzazione che decontestualizza».

Sfida tosta in un’epoca in cui si parla di diritto all’emigrazione più che di diritto di crescere a casa propria.

«Emigrare è un diritto, ma immigrare no. Ciò detto, l’emigrazione non va bloccata, ma gestita. È una richiesta avvertita in tutto il mondo. La crisi della sinistra deriva dalla posizione radicale assunta sull’immigrazione. Se vivo in una comunità nella quale arrivano migliaia di persone o si trova il modo di governare quell’immissione oppure quella comunità è finita. Nessuna comunità deve vivere a compartimenti stagni, ma se non posso decidere chi entra a casa mia vuol dire che non ne sono più il padrone. Simone Weil dice che l’uomo deve avere radici. La cultura globalista sostiene che per l’uomo del futuro la casa è il mondo. Io sono scettico, non mi piacerebbe neanche. La gestione dei flussi migratori è un tema centrale dei prossimi decenni. Ritengo che dare del razzista a chi vuole mantenere il controllo di casa propria sia una semplificazione intollerabile».

 

 La Verità, 18 febbraio 2023