Non venero i cantautori, ma se si convertono…
Uffa, ancora i cantautori. È stata questa la mia reazione alla doppietta di interviste del Corriere della Sera a Francesco Guccini e Roberto Vecchioni. Un mese e mezzo prima c’era stata quella, un po’ diversa, a Jovanotti, da cui tutto è partito. Megainterviste, doppie pagine dense e ricchissime. Al netto del fatto che a un giornale come il nostro mai la concederebbero – non si sa se per snobismo o per pregiudizio ideologico – tuttavia continuo a chiedermi perché nella terza decade del Terzo millennio continuiamo a regalar loro cattedre magistrali. I cantautori storici, come Guccini e Vecchioni, hanno conquistato il successo in una stagione precisa, un decennio disgraziato di violenza e terrorismo, eppure pontificano tuttora su canzoni di mezzo secolo fa da pulpiti argentati: programmi tv, case editrici, testate giornalistiche, tutto molto chic.
Perdonerete la digressione: musicalmente, non sono mai stati la mia preferenza. In casa, con un fratello e una sorella maggiori, si ascoltavano di più Mina, Lucio (Mogol) Battisti e «i complessi». Poi, grazie a un amico, mi avvicinai al rock progressivo dei Jethro Tull e della Premiata Forneria Marconi da Impressioni di settembre in poi e, da lì, alla fusion e al jazz, sempre per il primato della musica sulle parole cariche di implicazioni ideologiche. E se qualcuno dei cantautori mi emozionò, fu il Lucio Dalla visionario ed esistenziale di L’ultima luna, Caro amico ti scrivo, Anna e Marco, prima della scoperta dell’intelligenza anarchica e abrasiva di Giorgio Gaber, tuttora attualissimo. In ogni caso, erano ascolti che non avevano nulla di assoluto. Perché buona parte di quel decennio lo trascorsi impegnato in altre faccende – frequentando da fuori sede e privo di attrezzature musicali dignitose, la facoltà di Scienze politiche di Padova, egemonizzata da Toni Negri – essendomi imbattuto, senza meriti, in una storia che aveva riferimenti ben diversi dai cantautori. Non essendolo stati allora, meno ancora li venero maestri oggi. Anche quando, nelle serate tra amici, qualcuno ci invita a riflettere su una frase di un loro brano con l’enfasi degna di una lirica lepoardiana, ne riconosco la qualità, ma senza riuscire a sperticarmi. Così come mi è accaduto leggendo le interviste di cui sopra.
Devo dire che Jovanotti non parlava da un po’, causa il grave incidente di cui è rimasto vittima. E chissà, forse per la travagliatissima esperienza, me l’ha fatto trovare diverso da come lo ricordavo. Meno allineato al mainstream. Più coraggioso su temi come fede e ragione: credere «è una scelta, ed è anche un lavoro, dettato dal destino. Sono un illuminista riluttante… Ho una formazione razionale. Ma lascio la porta aperta al mistero, anzi spalancata. E ci passa una corrente travolgente. Una volta Saviano mi invitò in una sua trasmissione a cantare Imagine. Dissi di no… Non voglio cantare un mondo in cui non esista la religione. Un mondo senza religioni sarebbe peggiore, perché la fede è la cosa più umana di te». Su papa Francesco: «Umanamente, Francesco mi piace, mi diverte, mi emoziona. Gli si vuole bene. Ma l’idea che la Chiesa si debba trasformare in una onlus non mi pare del tutto condivisibile». Su Donald Trump e la sinistra: «Trump è un fenomeno del nostro tempo, e come tutti i fenomeni, anche i più inquietanti, è un’occasione per distinguere cosa Trump non è, e farla fiorire. Ha vinto nettamente, e gli elettori meritano rispetto. Dall’altra parte gli altri non sono riusciti a darsi una leadership forte, che si occupasse dei temi che davvero interessano… Gli eccessi della cultura woke sono controproducenti». Jovanotti con quell’intervista è stato la molla delle successive perché ha avuto l’azzardo di dire che non lo convince «la distinzione tra cultura alta e cultura bassa. Gloria di Umberto Tozzi non ha nulla da invidiare alla Locomotiva di Guccini». Proprio questo non si perdona a Lorenzo Cherubini: la pari dignità alla cultura bassa rispetto a quella alta. Così le interviste successive sono nate per rimarcare la differenza di lignaggio. «Al Corriere stavamo pensando a una serie di interviste ai grandi artisti italiani, per farci raccontare la “loro” canzone. Inevitabile a questo punto cominciare da lei e dalla Locomotiva. Quali libri ci sono dietro?», ha stuzzicato Guccini, Aldo Cazzullo. Adombrato, il «maestrone» di Pavana, che pure iniziò come cantante e chitarrista di orchestrine da balera, ha evidenziato tutta la filigrana del suo inno all’anarchia. Ora non vi tedierò con un’altra raffica di citazioni gucciniane salvo quella in cui si stupisce che il cardinal Matteo Zuppi, presidente della Cei, sia «un amico, per quanto mi sembra impossibile avere un amico cardinale», con cui va persino in pellegrinaggio in Vaticano (ma questo al Corriere non l’ha detto). «Pensi se un giorno fossi amico di un Papa… Ma forse sarebbe troppo grossa», ha messo le mani avanti.
Vecchioni, invece, arrivato a stretto giro, ha condito con citazioni di Orazio Luci a San Siro e di Somerset Maugham e del Talmud babilonese Samarcanda. Ma la sua intervista è densa di rivelazioni dolorose, il suo alcolismo e il suicidio del figlio, affetto da sindrome bipolare, e bisogna inchinarsi davanti alla generosità di Vecchioni, forse in parte debitrice alla moda dell’oversharing, l’eccesso di condivisione, di cui sono fatte queste confessioni (lo dico da parte in causa, dedicandomi al genere) contenenti traumi ed esperienze drammatiche che non sempre si sa dove sfocino. Nel caso di Vecchioni, sembra in modo più esplicito e consapevole rispetto a Guccini, a uno sguardo di fede, che ha ben «tre motivi», e che l’ha portato qualche mese fa a tenere un concerto in piazza San Pietro, alla presenza di papa Francesco.
Ecco, curiosamente si finisce sempre lì. Tuttavia, la mia irritazione di partenza, lungi dallo sparire perché non amo la facile distribuzione di patenti magistrali della società dello spettacolo, è solo compensata da quello che sembra l’arrivo degli esponenti della «cultura alta» allo stesso approdo del più popolare e umile Enzo Jannacci. Il cantore dei perdenti e dei disperati che diceva che «abbiamo tutti bisogno della carezza del Nazareno» (la prima volta quando si parlava di Eluana Englaro).
Dunque, cari cantautori, benvenuti tra noi.
Post scriptum Se vi capita di andare su Spotify, provate ad ascoltare i podcast ricavati per Chora Media dalle lezioni di don Luigi Giussani…
La Verità, 8 gennaio 2025