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Un coro di complici per il gran narciso Scalfari

Chissà perché Rai 3 lo ha trasmesso alle 17,30 del sabato pomeriggio. Scalfari – A sentimental journey è il documentario che le figlie Enrica e Donata hanno dedicato al padre Eugenio, scritto con Anna Migotto, diretto da Michele Mally e realizzato per Rai Documentari, la struttura diretta da Duilio Giammaria. Quando ci si avventura in un ritratto biografico di una persona cara, tanto più un padre ingombrante come in questo caso, dubbi e remore sono il primo ostacolo da superare. Per un genitore «ormai vecchio, avere due figlie che gli raccontano la vita fatta insieme, è una cosa eccellente», acconsente Scalfari nel ruolo di soggetto-oggetto al centro del cosmo. Seduto al pianoforte, mentre nuota lentamente o legge brani dai suoi libri, nel tinello di casa. Donata, giornalista a Mediaset, Enrica, fotografa, leggono diari, sfogliano album e raccolte di giornale, convocano un coro di amici e testimoni, tutti variamente complici (l’unico accenno critico è di Lucia Annunziata riguardo alla vendita di Repubblica), per comporre il viaggio sentimentale nella vita del giornalista, editore, politico, scrittore, filosofo, poeta e amico del Papa. Ce n’è «abbastanza per fare di te un monumento, abbastanza anche per demolirlo», ammettono. Com’è essere figlie di Eugenio Scalfari? «Ci si abitua». Col tempo, probabilmente, e non senza sofferenze. Per esempio per il suo sdoppiarsi con due compagne e altrettante famiglie. A 97 anni il fondatore di Repubblica resta nelle sue certezze. «L’interesse per il presente è il suo grande psicofarmaco», suggerisce Bernardo Valli. «È la scrittura il primo psicofarmaco», rettificano le figlie che ne stimolano i ricordi portandogli la vecchia Olivetti Lettera 22. «Ma questa io la smisi, adesso uso il telefono. Però non detto, perché non ho niente di scritto». «Sì, tu parli», dice Enrica. «Creo, io creo… vogliamo usare un termine un po’ più carino», la corregge lui che scrisse L’uomo che non credeva in Dio. Roberto Benigni lo paragona a Kant. Per altri è un divoratore di vita. La definizione più calzante è quella di grande narciso. Barbapapà considerava una famiglia anche Repubblica, il giornale-partito che si è battuto per l’emancipazione della sinistra. «Per liberarla dai suoi ritardi, dai suoi errori. E anche da qualche orrore», riflette Ezio Mauro. «E non so se quella battaglia l’abbiamo vinta. O forse l’abbiamo vinta tutti insieme, ma con molto ritardo. E quindi, in parte, l’abbiamo persa», ammette con onesta autocritica il direttore, suo erede. Alla fine i dubbi di partenza sono fugati. Non il mistero della bizzarra programmazione.

 

La Verità, 27 ottobre 2021

Alfredino, la serie che supera i limiti della fiction

Eravamo tutti con gli occhi fissi in quel buco nella terra dove Alfredino Rampi era scivolato il 10 giugno 1981, quarant’anni fa esatti, nei giorni dello scandalo della P2, della caduta del governo Forlani e del rapimento di Roberto Peci, fratello di Patrizio, primo grande pentito delle Brigate rosse. Erano queste le notizie che monopolizzavano i telegiornali, fin quando il disperato tentativo di salvare quel bambino precipitato nel ventre della campagna romana catalizzò l’intero Paese, prendendo il sopravvento sulle priorità istituzionali e le scalette dei notiziari. Anzi, asfaltò completamente il palinsesto della Rai, che dedicò a quel tentativo un’interminabile diretta, nella segreta speranza che si sarebbe risolta nel lieto fine. «L’Italia ha bisogno di una buona notizia», ripete il giornalista che per primo rivela cosa stia accadendo a Vermicino. Ma è proprio la conoscenza della tragica conclusione a rendere claustrofobica la visione di Alfredino – Una storia italiana, la serie in quattro episodi (21 e 28 giugno su Sky Cinema e in streaming su Now), realizzata da Marco Belardi per Lotus production e diretta da Marco Pontecorvo.

Raramente un evento così limitato nello spazio e nel tempo ha ipnotizzato e segnato in profondità la coscienza dell’opinione pubblica come avvenne in quei tre giorni. Man mano che passano le ore, a Vermicino convergono i pompieri, gli speleologi, i volontari, il personale medico, il presidente della Repubblica e un’enorme folla di curiosi, in un marasma che non favorì la lucidità degli interventi. Curando sceneggiatura, interpretazioni e ambientazione, e scegliendo, in accordo con i genitori di Alfredino, di non mostrarlo mentre era dentro il pozzo, in un certo senso la storia si scrive da sola. La prova di tutto il cast, nel quale spiccano Anna Foglietta (Franca Rampi) e Francesco Acquaroli (il capo dei Vigili del fuoco, Elveno Pastorelli), è certamente notevole. Ma la potenza dei fatti è così elevata che il compito degli autori (Barbara Petronio e Francesco Balletta) risulta paradossalmente facilitato. Mentre il regista, creando momenti di sospensione, riesce a trasmettere la trepidazione e l’altalena di speranza e sconforto collettivi.

Si è scritto che a Vermicino è nata la tv del dolore. E che, per merito dei genitori di Alfredino e volontà del presidente Sandro Pertini (Massimo Dapporto nella serie), nacque la Protezione civile (anche se formalmente venne istituita nel 1992). Di sicuro, Alfredino – Una storia italiana mostra che, di fronte a quei fatti, le distinzioni tra fiction e documentario sono superflue.

 

La Verità, 22 giugno 2021

La realtà avvince più delle sceneggiature creative

C’è il capo della squadra omicidi di Copenaghen dagli occhi grandi e asimmetrici, soverchiato da un’indagine di grande complessità sulla scomparsa di una giornalista nelle acque del mar Baltico. C’è uno strano sommergibile affondato e poi rinvenuto dagli investigatori, di proprietà di un enigmatico inventore. Ci sono dei sommozzatori che devono scandagliare palmo a palmo i fondali marini per rinvenire il cadavere della giornalista e comprovare la versione del proprietario del sottomarino che asserisce di averla affidata agli abissi dopo che, colpita dal portellone dell’imbarcazione, è morta. Ci sono, infine, le due famiglie: quella dei genitori della giornalista, dilaniati dalla morte dell’unica figlia, e quella del capo della polizia, votato al lavoro per il quale, a sua volta, ha a lungo trascurato la sua figlia unica. È la trama di The Investigation, miniserie in sei episodi di 45 minuti di Hbo, in onda su Sky Atlantic e on demand. Solo che non è fiction, ma la ricostruzione dell’indagine sull’omicidio realmente avvenuto della giornalista svedese Kim Wall, collaboratrice di The Guardian, The New York Times, Vice, uccisa dall’inventore danese Peter Madsen nell’agosto del 2017. Una storia che i media scandinavi ribattezzarono rapidamente «il giallo del sottomarino».

Nella luce livida delle terre baltiche, già territorio fecondo di molta ottima serialità, Jens Møller (Søren Malling) sembra ipnotizzato dal caso che l’ha investito. Spesso inquadrato di spalle mentre cammina nei corridoi della stazione di polizia, rintuzza le richieste dei giornalisti e cerca di rispondere in qualche modo alle domande dei genitori della vittima. Quando lo si vede in faccia, il suo sguardo esprime un senso di sproporzione. Più passano i giorni e più la soluzione sembra allontanarsi. Serviranno la dedizione dei collaboratori, i cani da cadavere, le carte di un oceanografo studioso di correnti, l’abnegazione della squadra di sommozzatori, guidati da un capo comprensibilmente scettico.

Sembra un documentario e invece è una serie, magnetica forse proprio per la sua rarefazione, per i dialoghi essenziali, per le tante cose che non si vedono ma s’immaginano del racconto che procede per sottrazione. «Questo programma è consigliato ad un pubblico adulto», si avverte come spesso accade, all’inizio di ogni episodio. Ma vien da pensare che qui «adulto» stia per maturo. Non c’è bisogno di romanzare come in molte serie italiane, da Leonardo ai libri di Andrea Camilleri, per ruffianarsi un pubblico che evidentemente si ritiene acerbo. La realtà, ben raccontata, è già avvincente di suo.

 

La Verità, 30 marzo 2021

Lo strano caso dell’on. Walter e mister(o) Veltroni

E poi c’è Veltroni. Walter Veltroni, con la W. Il sindaco di Roma, l’antagonista di Massimo D’Alema, la pietra angolare dell’Ulivo, il vice di Romano Prodi, il fondatore del Pd. Ex di tutto. Ma sempre presentissimo e protagonista. Creativo, poliedrico, instancabile. Ogni mese un’idea nuova, un libro, un documentario, un film. Per non parlare delle fluviali articolesse, ponderosi amarcord e ritrattoni con gli occhi al Novecento sul Corriere della Sera, o le intervistone e i commenti sulla Gazzetta dello Sport… L’ultima creazione, Fabrizio De André & Pfm. Il concerto ritrovato, sarà nelle sale cinematografiche il 17, il 18 (De André compirebbe ottant’anni) e il 19 febbraio: i fan si preparano ad assaltare le biglietterie. Walter Veltroni è un caso unico nel panorama politico-mediatico-cultural-intellettual-social… Campione mainstream, sempre neo qualcosa – regista, autore, giallista – ma anche post, pop e pure flop.

Con l’eccezione di Prodi, che ha messo la prua sul Quirinale, gli altri big della politica dell’epoca si sono defilati, hanno scelto un buen ritiro, una terrazza, una fondazione appartata. Massimo D’Alema ufficialmente lavoricchia con tutta la sua antipatica intelligenza a «Italianieuropei», salvo interessarsi di nomine di Stato dando qualche consiglio al premier. Piero Fassino dopo la sconfitta alle elezioni per la poltrona di sindaco di Torino si dedica alla Fondazione Italia Usa. Francesco Rutelli, predecessore di Uolter come primo cittadino di Roma, è presidente dell’Anica (Associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali). Altri storici sindaci ex comunisti come Antonio Bassolino e Sergio Cofferati si sono ritirati a vita privata. Come pure Nichi Vendola, altro astro del firmamento de sinistra, ora testimonial delle adozioni gay e dell’utero in affitto sul settimanale Chi? Poi ci sono Achille Occhetto, Rosy Bindi e Fausto Bertinotti che ha qualche anno in più e tiene conferenze in giro per l’Italia. Oliviero Diliberto, invece, coetaneo di WV, è tornato alla facoltà di Legge della Sapienza di Roma e, alla Giorgio Gaber, dice che, siccome «la mia generazione ha fallito, l’unico dovere morale è scomparire».

Chi conosce bene Veltroni dice che ce n’è un altro, meno noto e più gigione. Collezionista di figurine, tifoso sfegatato (della mainstreamica Juventus), goliarda, esperto, espertissimo di cinepanettoni. Purtroppo lui espone alla telecamera sempre il lato ispirato e buonista.

Più che un caso, il suo sembra un mistero. I suoi cimenti, le prove cinematografiche, autoriali e letterarie non si possono rubricare come successi, eppure… Il programma su Rai 1 Dieci cose, autunno 2016, annunciato da un’intervista su Repubblica umilmente intitolata «Così cambierò il sabato sera in tv», si arrampicò all’11% di share medio, puntualmente doppiato dallo show di Maria De Filippi su Canale 5. I film e documentari, uno all’anno dal 2014 in poi, prevalentemente trasmessi da Sky, non hanno certo sbancato il botteghino: Quando c’era Berlinguer (prodotto da Sky e Palomar, 620.000 euro al cinema), I bambini sanno (Sky, Wildside e Paolomar), Gli occhi cambiano (Rai), Indizi di felicità (Sky e Palomar, 60.000 euro), Tutto davanti a questi occhi (ancora Sky e Palomar), fino al vero e proprio film per il cinema, C’è tempo, con Stefano Fresi, che nel 2019 ha incassato 320.000 euro. Opere del Veltroni ispirato, immancabilmente accompagnate da benevole candidature ai Nastri d’argento o ai David di Donatello. Si sa come gira il fumo a Cinecittà. Nel frattempo, l’inesausto Uolter non ha trascurato la produzione letteraria sfornando, a ritmo annuale, accorati romanzi. Sconfinando infine nella narrativa noir con Assassinio a Villa Borghese (Marsilio), sempre in bella vista sui banconi cruciali delle librerie di catena.

Quindi: se le creazioni veltroniane non sono propriamente boom cinematografici o letterari come se ne spiega l’indefessa proliferazione? Lo strano caso dell’onorevole Walter e del mistero Veltroni è presto risolto: chi può dirgli di no? Realizzato da Except, puntuale come il carnevale, in questi giorni esce il documentario in cui l’ex vice di Prodi confeziona con prologo ed epilogo il filmato di Piero Frattari, un altro regista che il 3 gennaio 1979 riuscì a infilarsi al concerto di Genova con la Premiata Forneria Marconi. Alle preziose immagini, rispolverate dalla soffitta, Veltroni ha aggiunto la cornice narrativa e una serie di testimonianze di chi c’era, i musicisti della Pfm, Franz Di Cioccio, Patrick Djivas, Franco Mussida e Flavio Premoli, il fotografo Guido Harari, oltre, ovviamente, a Dori Ghezzi.

I giornaloni – chi può dirgli di no? – lo hanno annunciato come la scoperta del Sacro Graal. L’altro giorno SkySport24 ha allestito persino un salottino con Di Cioccio e Djivas per parlare di calcio da tifosi, ma anche del ritrovamento del concertone che ha segnato «l’incontro tra due diversità che sarebbero rimaste parallele se, a un certo punto, non fosse venuta la voglia di eliminare un recinto», ha buonisteggiato WV alla conferenza stampa. Dove, a chi gli chiedeva quanto pensa incasserà il nuovo documentario, ha replicato, piccato: «Non è detto che ciò che vende di più sia di per sé più bello». Quantità e qualità non sempre vanno a braccetto; giusto. Però, chissà cosa ne pensano i suoi produttori…

 

La Verità, 15 febbraio 2020

 

I tesori del Vaticano a misura di telespettatore

Ora, a cose fatte, ci si chiede come mai nessuno aveva pensato prima a una visita alla scoperta delle meraviglie e dei segreti della Città del Vaticano. Si intitolava Viaggio nella Grande bellezza il documentario proposto da Canale 5 e mai titolo è sembrato più adeguato (mercoledì, ore 21,40, share del 12.4%, 2,3 milioni di telespettatori). I 44 ettari del piccolo Stato costituiscono una concentrazione di tesori artistici e architettonici imparagonabile con qualsiasi altro territorio del pianeta. Dunque, la domanda è lecita: perché, avendo a portata di telecamera una realtà tanto straordinaria, nessuno aveva provato a farsi aprire le tante porte delle stanze, dei musei, degli archivi e dei giardini vaticani? Forse la risposta va rintracciata nello sforzo produttivo che la visione di questo speciale documentario, realizzato da Rti in collaborazione con RealLife Television e Vatican media, fa intravedere. E che, per guidare il telespettatore in questo sbalorditivo percorso, ha portato Cesare Bocci a svelarci ogni angolo e ogni anfratto della Santa Sede, dalla Basilica di san Pietro alla Cappella Sistina, luogo dei misteriosi conclavi, dal palazzo Santa Marta, residenza di Francesco, fino a Castel Gandolfo, dove vive Benedetto XVI, dalla cupola eretta da Michelangelo alla tomba di san Pietro, consultando, tra gli altri, il cardinal Angelo Comastri, vicario per la Città del Vaticano, monsignor George Gänswein, prefetto della Casa pontifica, Barbara Jatta, direttore dei Musei vaticani, Andrea Tornielli, direttore del dicastero per la Comunicazione e l’archeologo Umberto Broccoli.

Proprio la scelta di Cesare Bocci, il Mimì Augello del Commissario Montalbano anche conduttore su Tv2000 di Segreti, i misteri della storia, particolarmente assorto davanti alla Deposizione di Caravaggio, suggerisce l’obiettivo che stava a cuore ai dirigenti Mediaset. Non l’illustrazione erudita del critico d’arte, ma l’accostarsi rispettoso della persona comune a tanta bellezza di fronte alla quale, probabilmente, lo sguardo corretto è quello dell’umiltà e dello stupore. Anche con l’inevitabile rischio del ricorso alle iperboli («La piazza più famosa del mondo»; «La chiesa più grande del mondo»; «Un luogo unico che ha in sé tutta la potenza della storia e della bellezza»), pur sempre documentate da fatti e numeri. Un viaggio splendido, con l’unico neo, forse, di una musica un po’ ridondante, che rischiava di appannare una fruizione più profonda di tanta meraviglia. Un viaggio che stimola a intraprenderlo nella realtà.

 

La Verità, 20 dicembre 2019

Santoro a Napoli, oltre Gomorra c’è la realtà

Ancora Napoli? Dopo tutto quello che abbiamo letto e visto in questi anni, da Marcello D’Orta a Saviano, dai film con Toni Servillo alle pièces teatrali fino alla Gomorra televisiva? Ancora Napoli, un’altra Napoli, in questo Robinù, opera prima di Michele Santoro, presentato nella sezione Cinema in Giardino della 73esima Mostra del Cinema di Venezia (ci sarà Napoli anche il 5 ottobre su Raidue, nella prima delle quattro serate con l’ex conduttore di Servizio Pubblico). Per smentire i politici, premier e sindaco De Magistris compresi, usi a ripetere “questa non è Napoli, non è l’Italia” quando si trovano davanti a una fotografia scomoda. O davanti a volti come quelli di questi di baby-boss, protagonisti della “paranza dei bambini” di cui i media non parlano – “l’altro giorno in una piazza ce n’era uno di otto anni che brandiva una pistola”, rivela il giornalista – perché non fanno più notizia, perché rimane una cosa locale, perché si ammazzano tra loro. E allora eccoci dentro i bassi di Forcella, Porta Capuana, i Tribunali, dentro il carcere di Poggioreale e di Airola, enclave criminali abbandonate dalle istituzioni.

Gioventù bruciata a Poggioreale, Michele al centro

Gioventù bruciata a Poggioreale, Michele al centro

Robinù è un tuffo nella realtà cruda di una gioventù carbonizzata. Realtà di adolescenti che hanno come traguardo “mettere paura” alla gente, “più reati fai, più macelli fai, più la gente ti teme” ripetono spavaldi, incoscienti, occhi che brillano. Realtà, non finzione. “Più che i protagonisti di Gomorra, che necessariamente diventano maschere, il modello di questi ragazzi con le loro barbe e le loro acconciature, sono i militanti dell’Isis, il radicalismo nel proteggere il territorio, la sfida continua con la morte, la mitologia del terrore”, analizza Santoro. È una disarmante galleria di adolescenti malavitosi, teorici della via criminale alla maturità che comincia con  il figlio di una guardia carceraria, abbonato alle bocciature, professori e genitori che si arrendono. “Non è che siccome mio padre vive così io non posso scegliere ‘o malamente e devo seguire la sua…”. Il discorso s’inceppa, le parole non vengono, il sorriso è malizioso: “… la sua”. Punto. Un altro sostiene che la carriera camorristica è normale, si può fare il carabiniere, il brigadiere, o il boss, evoluzione naturale del ragazzo di strada. Ma devi cominciare presto “perché se vai in galera a vent’anni, almeno quando esci a 40 hai tutta la vita davanti”. Per continuare a delinquere. Imbracciare ‘o kalash provoca adrenalina come “avere Belén tra le braccia”, esemplifica Mariano in un monologo da brivido.

Mariano, autore di un elogio del kalashnikov

Mariano, autore di un elogio del kalashnikov

Il volto più sconfortante è quello di Michele, ventiduenne con 16 anni da scontare a Poggioreale. Carismatico, irridente, consapevole. Rifiuta l’arruolamento nelle cosche perché vuole essere boss da subito. Poi ci sono i genitori. Madri e padri dilaniati dal dolore. Divorati dai rimorsi, impotenti, commoventi. Altri no. Mamme spacciatrici che finito di cucire il grembiule al bambino iniziano a distribuire ovuli di cocaina. Che ammirano i ragazzi di strada perché affidabili. C’è da fare a botte, ci sono. C’è da controllare il quartiere , ci sono. C’è da uccidere: ci sono sempre. Per la festa di compleanno di Michele si sparano i fuochi d’artificio davanti alle grate del carcere. I neomelodici intonano serenate sotto le finestre di chi è agli arresti domiciliari. Il carcere è tutt’uno con il quartiere. Le gerarchie, le preoccupazioni, lo scorrere del tempo sono uguali. La rassegnazione, l’abbandono delle istituzioni e del mondo adulto sembrano inevitabili. Ma in questo ritratto che Santoro definisce “pasoliniano c’è anche una grande passione per la famiglia e per la vita. In un Paese a crescita zero dove si fanno le campagne per la fertilità, quello è uno dei pochi posti dove si fanno figli con gioia”.

C’è di che riflettere. Santoro riparte da questo lavoro durato un anno e mezzo, realizzato con Maddalena Oliva e Micaela Farruocco, che sarà nei cinema a metà ottobre, distribuito dalla Videa di Sandro Parenzo, anche lui presente in sala. Ci sono anche Alba Parietti che si aggiusta il rossetto, il magistrato di Napoli, John Henry Woodcock, abbronzatissimo, Giulia Innocenzi in abito lungo, Gianni Barbacetto, in smoking, tutti nelle file della delegazione. In sala anche Enrico Ghezzi e Angelo Guglielmi. Si sperava nella presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma non s’è visto. Santoro si augura che la Rai pensi a una prima serata, e che Mattarella, Renzi e magari il ministro della Pubblica Istruzione, Giannini, possano vederlo.

Michele Santoro ha presentato a Venezia Robinù, sua opera prima

Michele Santoro ha presentato a Venezia Robinù, sua opera prima

Nell’ottobre 2013 – permettemi questa digressione personale – scrissi sul blog del Giornale un post intitolato “Caro Santoro, fatti non parole”, dicendo che quell’anno alla Mostra aveva vinto un doc come Sacro Gra, che le chiacchiere dei talk show avevano stancato e le inchieste sul campo avevano un’altra forza. Con un’ironia che difetta a conduttori molto meno blasonati di lui, Michele m’inviò un sms così: “Caro Caverzan, fatti i fatti tuoi”. “Caro Michele, ho fatto solo il mio mestiere”, fu la mia replica. Oggi Santoro è al Lido con un documentario e con una preoccupazione umana, educativa. Diceva D’Orta che i ragazzini si arruolavano nella camorra perché era l’unica proposta credibile in campo. “C’è una sorta di welfare della criminalità, dobbiamo ammetterlo, finora vincente. Ma questi ragazzi hanno energia, passione, fanno figli. A 15 anni sparano nelle strade, a venti sono genitori, a 40, se ci arrivano, sono già nonni. Non possiamo dire che non sono Napoli. Dobbiamo offrir loro una strada, partire dall’educazione. Creare scuole dove non si sentano estranei. È difficile, ma è l’unica strada”. Sostiene Santoro.

Il Presidente, divulgazione di qualità che merita un altro orario

“Se c’è qualcuno, là fuori, che ancora dubita che l’America sia un posto dove tutto è possibile, e ancora mette in dubbio il potere della nostra democrazia, questa notte ha avuto le risposte che cercava”. Comincia con il celebre discorso della notte del 4 novembre 2008 la puntata de Il Presidente trasmessa da Retequattro. Lì, nella spianata di Chicago, la città dove Barack Obama si è formato e affermato, prima come avvocato poi come community organizer infine come leader politico, s’è riunita una folla enorme nella quale s’intravede una Oprah Winfrey rapita dal carisma dell’oratore. In quelle poche parole, pronunciate con pacatezza e le giuste pause, c’è tutta la forza tranquilla del leader e la consapevolezza della svolta storica che la democrazia non solo americana sta vivendo. Ora che il secondo mandato del primo presidente americano di colore sta declinando e è entrata nel vivo la corsa per l’elezione del suo successore, la rete diretta da Sebastiano Lombardi ha dedicato il terzo biopic (i primi due a Vladimir Putin e alla Regina Elisabetta) a Obama. La ricca e approfondita documentazione si basa sul documentario Becoming Barack – Evolution of A Leader, che ne ripercorre la vita dagli anni ’80 ai ’90. I brani sono intervallati dagli interventi di Alessandro Banfi che, grazie alla padronanza dell’argomento, si rivolge al pubblico della rete “più anziana” di Mediaset senza scontentare chi vuole approfondire i dettagli del sistema elettorale Usa.

Il presidente Barack Obama intervistato da Steve Kroft per 60 Minutes

Il presidente Barack Obama intervistato da Steve Kroft per 60 Minutes

Il documentario e anche la successiva intervista concessa da Obama a Steve Kroft di 60 Minutes, il programma della Cbs, sono ricchi di testimonianze e approfondimenti sugli otto anni alla Casa Bianca del presidente nero. Si capiscono le ragioni della scelta di non risolvere con le armi la crisi asiatica, dell’accordo nucleare con l’Iran, le motivazioni del Nobel per la pace, la decisione di uccidere Bin Laden, l’errore della cattura di Gheddafi senza avere un progetto successivo, il merito di aver ripristinato la relazione con Cuba, la prima visita di un presidente americano a Hiroshima. Banfi usa frasi brevi sottolineate dalla mimica delle mani, è immediato senza essere banale, un po’ alla Minoli, ma senza concitazione. Così Il Presidente è un programma di divulgazione, equilibrato e approfondito nello stesso tempo, una formula che, con un po’ di coraggio, potrebbe conquistare una frequenza più assidua e un orario meno da nottambuli.