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Nazionale? Il nostro calcio ha minato l’idea di nazione

Perché le nostre squadre di club disputano finali europee e, in qualche caso, come quello dell’Atalanta, le vincono, e la nostra Nazionale colleziona figuracce in serie? La domanda sorge spontanea e, subito, ne chiama un’altra: che tipo di Nazionale vuoi mettere in campo se, negli anni, il tuo movimento calcistico ha demolito il concetto di nazione?
I processi al commissario tecnico Luciano Spalletti e ai nostri modesti giocatori sono già iniziati, ma rischiano di pagare dazio a un errore di prospettiva. Forse serve uno sguardo più lungo per individuare le ragioni dell’ennesima débâcle azzurra. Da otto anni la Nazionale non si qualifica ai Mondiali, l’ultima volta estromessa dalla medesima Svizzera, allenata da Murat Yakin, tecnico turco con una testa dotata di idee e di un’invidiabile chioma. La Svizzera, che non ha mai vinto nulla. Anche la Spagna, di un gradino superiore, ci aveva annichilito e solo la prestazione di Gigio Donnarumma aveva evitato il risultato da pallottoliere. Il pareggio all’ultimo secondo contro la Croazia aveva sciaguratamente illuso i numerosi analisti che si erano spinti a scrutare il tabellone oltre lo scoglio elvetico. È bastata l’incursione di Remo Freuler, che milita nel Bologna, a sgretolare le euforie che allignavano nel nostro spogliatoio e negli studi televisivi della teleparrocchietta, preoccupati dell’ombelico dell’audience. Quanto all’umiliazione finale hanno provveduto le geometrie di Garin Xhaka (Bayer Leverkusen) che ha guardato dall’alto in basso i nostri smarriti mediani e, a inizio ripresa, il destro a giro di Ruben Vargas (Augsburg) che ha concluso un’azione da manuale, indisturbata dal nostro presepe difensivo. Lo abbiamo visto tutti anche se la nostra Nazionale era inguardabile e la tentazione di cambiare canale cresceva con il passare dei minuti. Dunque, il bilancio di Euro2024 è terrificante e ora gli smarrimenti sono diffusi e incontrollati. Vedremo se si trarranno conseguenze adeguate. Tuttavia, sarebbe ancora fuorviante limitarsi a un’analisi di breve periodo. Perché le nostre squadre sono competitive nelle coppe e la Nazionale naufraga? La vittoria agli Europei di tre anni fa, era post Covid, ci aveva illuso, ma guardandola in prospettiva appare sempre più come il frutto di una serie di convergenze favorevoli.

Dai mondiali in Brasile del 2014, quando non superammo la fase a gironi, a Cesare Prandelli sono succeduti quattro commissari tecnici (Antonio Conte, Giampiero Ventura, Roberto Mancini fino a Luciano Spalletti), mentre il capo della Federazione Gabriele Gravina è inamovibile dal 2018. La nostra crisi viene da lontano. Da quanto non abbiamo campioni di livello mondiale? All’inizio del ritiro Spalletti aveva convocato i numeri dieci storici, Gianni Rivera, Giancarlo Antognoni, Roberto Baggio, Alessandro Del Piero e Francesco Totti per motivare la truppa. Da quanto tempo non abbiamo difensori (Claudio Gentile, Antonio Cabrini, Beppe Bergomi, Paolo Maldini, Franco Baresi), centrocampisti (Marco Tardelli, Salvatore Bagni, Carlo Ancelotti) e attaccanti (Aldo Serena, Luca Toni, Gianluca Vialli, Filippo Inzaghi, senza scomodare l’immortale Gigi Riva) di qualità? Ognuno faccia la propria lista inconfrontabile con lo status quo nel quale il primo italiano della classifica dei cannonieri è Gianluca Scamacca, undicesimo.
Il nostro movimento calcistico ha cancellato l’idea di Nazione, le squadre sono quasi interamente composte da stranieri: 8 titolari su 11 la Juventus e il Napoli, 10 su 11 il Milan, 6 su 11 l’Inter che infatti ha fornito la quota maggiore alla Nazionale suggerendo a qualcuno il patetico neologismo InterNazionale. Al contrario, solo due azzurri giocano all’estero: Gigio Donnarumma al Psg e Jorginho all’Arsenal (dimenticando Sandro Tonali, squalificato, al Newcastle). Questo è il termometro: i calciatori italiani nelle squadre italiane sono in stragrande minoranza, e il senso di appartenenza non può che difettarne. Il risultato si vede quando questi calciatori residuali vengono assemblati nelle competizioni che ancora si chiamano «per nazioni». L’intenzione di questa nota non è un rigurgito di anacronistico nazionalismo, quanto una riflessione pragmatica sull’impegno e la cura dei nostri vivai, sulla necessità di contingentare l’ingresso dei giocatori stranieri e sull’imperativo di ripristinare un minimo grado di umiltà negli spogliatoi giovanili (dove invece serpeggiano noia e vacuità, come i casi di ludopatia hanno di recente evidenziato, e senza aprire qui il capitolo di ciò che accade nelle tribune e nei campetti dei tornei per ragazzi). Urge ricominciare dall’abc dei fondamentali e subordinare alla tecnica gli apprendimenti di natura tattica che, invece, predominano. Perché, poi, quando ci si confronta a livello di nazionali, serve a poco conoscere le alchimie del 4-3-3 o del 3-5-2 se poi non si sa stoppare il pallone e completare tre passaggi di fila.

C’è molto da lavorare, dunque, e possibilmente in fretta, se si vuole invertire la rotta e provare a qualificarci per il mondiale americano del 2026. Le riforme e i cambiamenti difficili sono quelli che iniziano dalla mentalità e, solo di conseguenza, riguardano gli organigrammi. È da qui che bisogna ripartire, da un cambio di passo che cominci nei vivai, e che, forse, dovrebbe essere guidato da ex campioni, modelli in campo e fuori dal campo. Il precedente delle dimissioni di Roberto Baggio da presidente del settore tecnico della Figc, anno 2013, non fa ben sperare. Però, ugualmente, buon lavoro.

 

La Verità, 1 luglio 2024

Boomer torna allo stadio dopo anni, con suo figlio…

Erano anni che non andavo allo stadio e tornarci mi ha regalato una nuova ulteriore consapevolezza del mio inguaribile boomerismo. Del mio essere uomo di un altro tempo. Lo stadio, la partita di calcio, anche vissuta da tifoso, è un’esperienza coinvolgente, in un certo senso totalizzante. Ancora più ricca se interpretata con gli occhi aperti e un minimo spirito critico. Ero in compagnia di mio figlio millennial, più tifoso di me. Poco alla volta, la diversità delle sue reazioni è risaltata come un evidenziatore sul mio straniamento. Com’è noto, allo stadio non c’è solo il fatto agonistico. C’è tutto il contorno, l’arrivo all’impianto sportivo, che per me era quello di San Siro per la partita fra Milan e Lazio. Ci sono il popolo dei tifosi, i colori delle tribune, gli striscioni, i cori.

Bene, prima di entrare nel catino urlante di passione, ecco la prima notazione. Le magliette indossate dai tifosi. Sono espressione di generazioni ed ere calcistiche diverse, quasi sempre superate, archiviate da tempo. Si leggono sulle spalle delle persone, dove compaiono i nomi dei protagonisti. Kakà è uno degli idoli tuttora più gettonato. Ma poi ecco Kessie, Saelemekers, De Keteleare, Tonali. Tutta gente che non è più al Milan. Qualcuno rimpianto, altri meno. Donnarumma non se ne vedono. Molti Ibrahimovic, invece. E persino, Menez. Preistoria. Anche mio figlio ride di gusto. Qualcuno di mezza età si autoproclama, orgoglioso, Nesta. Poi sì, ci sono anche quelli aggiornati: Theo, Calabria, Giroud, Rafa Leao. Idoli che permangono. E qualcuno di nuovo nuovissimo: Pulisic. Così ci si rincuora, pensando che alla fugacità del tempo si oppone il perenne presente. E la speranza di migliorare che sempre anima il cuore del tifoso.

Finalmente si accede alle tribune e il posto assegnato è particolarmente felice. Primo anello rosso. La vista è ottima, il prato brilla lì davanti, i giocatori non sono pedine minuscole com’erano quando le scrutavo, ragazzo del terzo anello. I cori rimbombano, bellissima la coreografia di bandiere e striscioni. Sul corridoio che separa il nostro settore dalla tribuna che sta proprio a ridosso del campo di gioco è un via vai di persone che cercano il loro posto. O di quelle che cercano birre e panini. Scopro che allo stadio il pubblico ha molta sete e molta fame. Nella tribuna riservata ai vip spunta Zlatan Ibrahimovic. Poi arriva il Ct della Nazionale Luciano Spalletti. Osserverà soprattutto la Lazio, rifletto puntiglioso, visto che nel mio Milan di italiano c’è solo il capitano Davide Calabria, da qualche tempo uscito dal giro. Ibra e Spalletti catalizzano le attenzioni dei presenti. Poi finalmente la partita comincia e il traffico sul corridoio davanti si dirada. Ma non del tutto. Ogni tanto, per continuare a seguire un’azione di gioco, tocca allungare il collo per non restare impallati da qualcuno che transita reduce dal bar con boccali di birra, piadine e tranci di pizza come fossero tanti camerieri.

Intervallo. Spalletti esce dal box riservato e si avvicina ad altri spettatori vip. C’è Zlatan, come dicevo. C’è Paolo Scaroni, presidente del Milan. Ci sarà qualcuno che mi sfugge. Gli steward faticano a far scorrere il pubblico che si arresta catalizzato, cellulare alla mano per immortalare le celebrities. Molte donne hanno lineamenti pronunciati e indossano canottiere aderenti. Sta per cominciare il secondo tempo, i giocatori sono già schierati con la palla al centro, ma la muraglia di magliette onomastiche non si sgretola e, spalle al prato, innalza ancora gli smartphone per fotografare i famosi in tribuna. Il pallone ha cominciato a rotolare sul prato. A quel punto, rompo gli indugi. Ragazzi, guardate che la partita è dall’altra parte, non in tribuna. Va bene, va bene… ciondolano la testa e si allontanano. Mio figlio: ma papà, lascia che la gente faccia quello che vuole.

All’inizio del secondo tempo, il Milan entra in campo più determinato. Per i primi cinque minuti la Lazio non supera la metà campo. I cori si fanno più potenti e incalzanti. È un crescendo sia nella qualità del gioco che nella spinta dagli spalti. Quando, con una formula abusata, si dice che i tifosi sono il dodicesimo giocatore in campo… Infatti, la pressione raggiunge l’apice. E, al quarto d’ora, con una bellissima azione sulla sinistra che coinvolge quattro giocatori, il Milan passa. Più tardi, procurato da uno slalom vertiginoso di Leao, arriva anche il raddoppio. La festa è piena. I colori si accendono ancora di più. Sulla fila davanti a noi una famiglia, marito, moglie, bambino e figlia adolescente cantano. La più scatenata è la signora, conosce tutti i cori. Il marito è più compassato. La figlia adolescente si scatta raffiche di selfie, rivolta alla tribuna (non al campo di gioco).

La partita è finita. Per oggi il Milan è ancora primo in classifica (in condominio con l’Inter). Il popolo sciama euforico sul piazzale dello stadio con vincolo storico che i club presto abbandoneranno (scegliendo impianti fuori dal Comune a causa dell’insipienza della giunta cittadina). Una donna con le gambe storte da calciatrice parla animatamente con il tizio al suo fianco che inalbera la maglietta di Maldini

Se Parigi è la Ville ténèbre di Donnarumma

Meglio soli che gestiti dai procuratori. Chissà, forse la morale della faccenda è tutta qui. In uno di quei vecchi proverbi che anche i nonni di Gigio da Castellammare di Stabia sicuramente conoscevano e che avrebbero potuto rammentargli. Invece no. Si sa com’è andata. O, piuttosto, come non è andata. Per il Paris Saint-Germain, prima. Eliminato agli ottavi di Champions League, con un suo grave impaccio a innescare la remontada del Real Madrid. E per la nostra Nazionale, esclusa dai Mondiali in Qatar da un tiro di Aleksandar Traikovski che ha stanato il suo errato piazzamento. La Macedonia nel 2022 come la Corea nel 1966, entrambi del Nord. L’altra sera, invece, in uno stadio dell’altopiano anatolico, abbiamo dovuto segnare tre gol per ammortizzare le due papere del portierone. Non sembra più lui, Gianluigi Donnarumma, anima lunga e sempre più tormentata. Tuttora capace di balzi istintivi e voli pindarici a sventare altri schiaffi – perché la dotazione naturale è super, superba, superlativa. Poco lucido, impacciato e insicuro, invece, appena ha il tempo di pensare e la palla tra i piedi.

La perturbazione non è ancora passata. Lo si può capire, esposto com’è allo scherno dei social, soprattutto dei tifosi milanisti (tra i quali, confesso, mi annovero). Chissà se e quando si riprenderà da questa stagione incubo, ce lo auguriamo per lui e per le sorti della Nazionale. E chissà tra quanto gli Azzurri potranno tornare a giocare a Milano se non vogliono esporre ai fischi il loro numero 21.

Fa una certa tenerezza la parabola dell’ex candidato miglior portiere del mondo. Le cause del prolungato appannamento che lo avvolge da quando ha lasciato il Milan possono essere svariate. Ingenuità personale manovrata dal machiavellico procuratore. Eccesso di presunzione e ambizione. O, sempre attingendo alla solita saggezza popolare, l’accoppiamento operato da Dio tra esseri affini. Difficile credere che il ragazzo di Castellammare si sia fatto manovrare dal supermegaprocuratore. Però forse conveniva stare accorti. Mino Raiola ha da sempre sotto contratto uno come Zlatan Ibrahimovic. Il quale, pur avendo giocato nell’Ajax, nella Juventus, nell’Inter, nel Barcellona, nel Milan due volte, nel Paris Saint-Germain e nel Manchester United, a forza di cambiare squadra nel momento sbagliato non ha mai vinto la Champions League. Quando si sta bene in un ambiente di lavoro, il buon senso consiglia di non cambiarlo. Di non avventurarsi. Di non farsi prendere dall’ambizione.

Arrivato nella Ville lumière non tutto luccica come si aspetta. Lo spogliatoio è diviso, il rivale Keylor Navas un tipo tosto e Gigio siede in panchina più del previsto. Ma comprimere i rigurgiti di coscienza è difficile anche a colpi d’interviste e di troppe versioni del divorzio rossonero. «Avevo bisogno di cambiare per crescere, per migliorare e diventare il più forte. La vita è fatta di scelte, avevamo ambizioni diverse» (al Corriere dello Sport). «Quando leggo le critiche alla mia scelta mi faccio tante risate» (a Sky). «Il Psg mi seguiva da tempo, non ho esitato a firmare» (a France football). Infine, alla Gazzetta dello Sport: l’ultima telefonata del club «è stata per informarmi che avevano preso un altro portiere». Alla quale aveva replicato il direttore sportivo Frederic Massara: «Chiamarlo ci è sembrato un gesto di cortesia dopo i suoi rifiuti alle nostre proposte. Ci è sembrato corretto prima di ufficializzare l’acquisto di un nuovo portiere informare lui direttamente».

Alla vigilia del match con il Real il buon Gigio aveva svelato la complicità «del destino» nella sua scelta parigina. Poi Karim Benzema gli aveva soffiato il pallone e addio sogni di Champions. «Ha sbagliato a scegliere i soldi, l’ho detto anche ai suoi genitori», ha sentenziato Arrigo Sacchi dopo l’eliminazione. «Colpa sua. Il Real Madrid era morto», ha rincarato Fabio Capello, sottolineando anche la poca riconoscenza verso il club che l’aveva fatto crescere. Concetto nobile, ma forse legato a un calcio del passato. Le bandiere sono state ammainate ovunque. Il professionismo ha da tempo archiviato i romanticismi. I club cambiano proprietà con una certa frequenza, non ci sono più presidenti storici come Massimo Moratti o Silvio Berlusconi, i contratti vengono siglati dai manager e le società guardano solo al conto economico. Ma proprio per valutazioni strettamente professionali Donnarumma «doveva restare al Milan», ha ribadito Sacchi, «era il posto ideale per crescere». «Adesso a Parigi non so come se la passerà», si è preoccupato Capello. Il Psg è in testa alla Ligue 1, con 12 punti di distacco sull’Olimpique Marsiglia. Ma nelle ultime cinque partite ha perso tre volte e il clima di smobilitazione generale è palpabile. A fine stagione l’allenatore Mauricio Pochettino verrà sostituito. Kilian Mbappè andrà al Real e forse qualcun altro dei troppi fuoriclasse cambierà aria. Per superare i turbamenti del giovane Gigio, ex candidato miglior portiere del mondo, forse la Ville ténèbre non è il posto giusto.

 

La Verità, 31 marzo 2022

«Bravo Mancini, ma non si vince tanto senza bomber»

Dài, fammi le domande». Con l’entusiasmo e la vitalità che lo accompagnano a 83 anni, José Altafini gioca all’attacco anche nelle interviste. «Sto guidando, ma possiamo provare. Aspetta che metto il bluetooth…».

Dove sta andando?

«A Bergamo, per un appuntamento di lavoro. Collaboro con un’azienda che produce campi in erba sintetica».

Alla sua età ha bisogno lavorare?

«Gandhi diceva che l’uomo deve lavorare fino all’ultimo respiro. E poi, quando sto fermo, mi annoio. Il mio ufficio è l’auto, guidare mi dà un senso di libertà come dice quella canzone di Fabio Concato, Guido piano. Appena sono in macchina mi sento un altro, mi allontano dai casini. È il mio modo di vivere, sono andato dieci volte da Torino a Malaga».

Viaggio bello lungo.

«Quasi duemila chilometri. Ho una zia che vive lì e faccio un po’ di vacanza, la Spagna mi piace. Da quando c’è la pandemia non ci sono più andato. Scusa, non è che stai scrivendo il mio coccodrillo?» (ride).

Macché coccodrillo. Come mai vive ad Alessandria?

«A Torino non stavo così bene. Alessandria è strategica per andare in Liguria, in Toscana, a Torino e Milano».

Un paio di settimane fa è andato in un paesino della provincia di Rovigo per ricevere la cittadinanza onoraria.

«Sì. A Giacciano con Baruchella, dov’è nato mio nonno paterno. È la seconda onorificenza che prendo, l’altra me l’hanno data a Caldonazzo, dov’è nata la nonna materna».

Perché vuole che le sue ceneri siano sparse nel Po?

«Tanti dicono che vogliono farle gettare in mare, ma io ho sempre vissuto vicino ai fiumi. E allora voglio che siano sparse nel Po, così arrivano in Polesine e al mare. E magari fino in Brasile».

Si sente più italiano o brasiliano?

«Mi sento un uomo del mondo. Sono nato là e sono un patriota, ma in Italia ho vissuto tante belle cose, ho conosciuto l’amore. L’Italia è gemella del Brasile, ha la stessa indole, l’allegria, la gente affettuosa».

Ad Alessandria è nato Gianni Rivera con il quale vinse la Coppa dei campioni del 1963. La doppietta contro il Benfica sono i gol più importanti della sua carriera?

«Sono importanti perché hanno portato la prima vittoria europea di una squadra italiana. Come per il Brasile che ha vinto cinque mondiali, ma quello del 1958 è il più importante. Ci fu una festa fantastica perché la Seleção aveva perso la finale del 1950 con l’Uruguay. Quando arriva il momento delle coppe mostrano spesso quei gol. Per fare il secondo ho rubato la palla a Rivera che l’aveva intercettata a centrocampo, ma io ero più avanti e sono corso verso la porta».

Era più veloce di Rivera?

«Lo disse anche Cesare Maldini. I difensori del Benfica non sono riusciti a prendermi, come i contadini che non riuscivano ad acciuffarmi dopo che avevo rubato le arance».

Ha giocato con Milan, Napoli e Juventus: dove si è trovato meglio?

«Ho sempre amato il calcio. Volevo giocare nella squadra della mia città, Piracicaba, che militava in serie A. Fare il calciatore e restare vicino agli amici. Invece Dio mi ha premiato ancora di più. Sono arrivato al Milan a vent’anni e ho vinto scudetto, Coppa dei campioni, classifica cannonieri. A Napoli non ho vinto niente, ma con Sivori mi divertivo. Allo stadio c’erano sempre 80.000 persone, in trasferta 10.000. A 34 anni sono andato alla Juventus perché volevo giocare di nuovo la Coppa dei campioni. Mi sono divertito in tutti tre i posti».

Come mai ha giocato anche nel Chiasso?

«L’ultimo anno alla Juventus avevo deciso di fermarmi e di giocare solo un mese nella squadra italiana di Toronto. Invece venne il presidente del Chiasso che mi propose un anno nella serie B svizzera. Misi delle condizioni: “Mi alleno con la Juventus e vengo da voi per la partita”. Accettarono e il Chiasso fu promosso. A chi ama il calcio non importa se gioca in serie A, B o C».

È stato compagno di grandi numeri 10: Pelè, Rivera, Sivori.

«Ho giocato con tutti i grandi, Garrincha, Didì, Liedholm, Zoff, Capello, Bettega. Quando arrivai al Milan di Maldini e Schiaffino dissi che ero venuto per imparare. A 38 anni partecipai alla partita Anderlecht contro Resto del mondo per l’addio al calcio di Paul Van Himst, il Pelè bianco. L’attacco del Resto del mondo era formato da Amancio, Eusebio, Altafini, Pelé e Cruijff».

Perché Pelè è il più grande?

«Rasentava la perfezione. Era veloce, giocava bene di testa, destro e sinistro erano uguali al 100%. Chi ha giocato con lui non può paragonarlo ad altri».

S’impose con la ginga, che cos’era esattamente?

«Era una tecnica della capoeira. Ma è un’invenzione di quel film che lui usasse la ginga. Una falsità insieme ad altre».

Tipo?

«Che sua madre lavorava a casa mia perché io ero di famiglia ricca. Non abitavo neanche nella sua città ed ero povero quanto lui. Ero suo amico, tra noi non c’era rivalità come insinua il film. Lo ammiravo allora come adesso».

Come mai suo zio le fece da procuratore?

«In Brasile c’erano già i procuratori, in Italia no. Mio zio fu uno dei primi e mi ha assistito per il contratto con il Milan».

Ha fatto qualche errore o lei è stato troppo poetico nella gestione dei soldi?

«Non è questione di essere troppo poetico. In un anno non guadagnavo quello che oggi si guadagna in un mese. I contratti erano lordi, con le tasse al 42%. Con quello che restava dovevo aiutare la mia ex moglie. L’altro sbaglio è stato il contratto in cruzeiro che si svalutò subito».

Tornasse indietro che cosa non farebbe?

«Molte cose. Ho fatto 309 gol, avrei potuti farne un centinaio in più. Sarei più consapevole e rispettoso delle società per le quali gioco. Ero un ragazzino e di qualcosa sono pentito, ma in quel momento ero felice».

Questo è molto brasiliano.

«Basta pensare a Ronaldinho e Adriano. Se fossi stato loro assistente avrei saputo consigliarli. Ti ricordi Edmundo o Animal quando giocava nella Fiorentina? Spariva per il Carnevale. Se dà i consigli giusti il procuratore può far guadagnare tanti soldi ai suoi giocatori».

Ora è una figura poco popolare.

«Ci sono mamme e mogli che prendono decine di milioni di commissioni sul contratto del figlio o del marito».

Poi c’è il caso di Gigio Donnarumma.

«A volte i procuratori provocano la rottura con la società per far vendere il giocatore e guadagnare».

Mino Raiola segue anche Zlatan Ibrahimovic, un grande campione che ha giocato in tutti i grandi club, ma a forza di cambiare non ha mai vinto la Champions.

«Per la bravura di certi procuratori si vedono cose strane. Cristiano Ronaldo alla Juventus è costato un patrimonio e non ha vinto la Champions. Dani Alves a 38 anni è tornato al Barcellona. Una volta presidenti come Andrea Rizzoli, Angelo e Massimo Moratti, Dino Viola e Paolo Mantovani rispondevano dell’andamento della società perché mettevano i loro soldi. Ogni acquisto era verificato. Oggi comandano i manager che se ne vanno con la società in deficit e prendono lo stesso la liquidazione».

La sua carriera di commentatore avrebbe potuto durare di più?

«Penso di sì, ma in Italia a volte si guarda più all’età che alla competenza. Raimondo Vianello prima e adesso Maurizio Costanzo dimostrano che conta di più la competenza. La Rai ha accantonato Bruno Pizzul che sarebbe ancora migliore di tanti giovani. Io ho lavorato in tutte le televisioni. Ho cominciato a Telealtomilanese con Luigi Colombo, poi sono andato a Telemontecarlo. Siamo stati i primi a fare la telecronaca a due voci».

Ha inventato il golaço.

«L’ho importato dal Sudamerica. Il telecronista deve fare spettacolo. Quando ero a Sky una volta Fedele Confalonieri mi chiese: “Josè, oggi che manuale di calcio usi?”. “Presidente, perché non mi chiama a Mediaset?”. Ma quando incontrai il direttore dello sport mi disse che non poteva prendere uno della mia età perché non avrebbe saputo come giustificarlo a Pier Silvio. Berlusconi ha aiutato tanta gente, non me. Ma non sono indispettito, la mia è una vita bellissima…».

Le telecronache di oggi le piacciono?

«Alcuni commentatori sono preparati, ma non hanno fantasia. Io dicevo che dove giocava Roberto Baggio nascono i fiori».

Come mai nel giro di tre mesi la Nazionale ha perso il filo del gioco?

«Mancini sta facendo un bel lavoro, però manca un po’ di esperienza. Ci siamo adagiati sugli allori, è tipico dei giovani. Anche a me è capitato, ma ho avuto la fortuna di incontrare campioni e uomini veri. Ricordo che giocavo nel Palmeiras e adoravo Zizinho, nazionale della Seleçao 1950. In una partita eravamo avversari, lui a 38 anni, io ragazzino. Prendo la palla a centrocampo e lui mi atterra, ma allunga la mano e mi aiuta a rialzarmi: “Scusa ragazzo, dovevo farlo”. La semplicità e la modestia non s’impara sui libri».

Quella semplicità c’è ancora?

«Non c’è più. Ultimamente ho rivisto Baggio e ci siamo abbracciati. Con Cristiano Ronaldo non sarebbe possibile. È ammiratissimo, ma distante. I campioni di oggi sono blindati, ci sono gli sponsor, gli agenti, gli uffici stampa. Noi quando uscivamo da Milanello passavamo in mezzo alla folla…».

In Italia ci sono troppi stranieri e si fatica a far crescere i nostri talenti?

«Anche in Europa. Quanti giocatori di colore ci sono? Senegalesi, congolesi, ivoriani… non tutti valgono il prezzo. Tanti stanno in panchina e non entrano mai, li prendono per far girare i soldi».

È per questo che attaccanti come Gigi Riva, Pierino Prati e Pippo Inzaghi stentano a emergere?

«Dobbiamo plasmare un centravanti che si faccia rispettare anche con il fisico, come Ibrahimovic. Balotelli potrebbe, ma non ha la testa».

Lei aveva potenza e astuzia, qual è la dote principale di un bomber?

«Il goleador ha l’istinto. Inzaghi non partecipava alla manovra, CR7 neanche, eppure… Pelè giocava con la squadra, quando aveva la palla sul destro teneva il difensore a sinistra e viceversa. Una volta ho detto a Riva: “Se avessimo giocato con questi palloni e questi campi, quanti gol avremmo fatto?”».

Chi è l’allenatore che le piace di più?

«Il migliore del mondo è Guardiola. In Italia Trapattoni, Capello e Lippi sono stati molto bravi».

Il suo pronostico per lo scudetto?

«Si decide a marzo. Ci sono tante variabili, i giocatori infortunati, gli allenatori che sbagliano. Per me l’Inter è più forte dell’anno scorso. Poi bisogna vedere se il Milan riesce a gestire i giovani e il Napoli tiene. La Juventus mi sembra troppo indietro. Ma tu devi dirmi una cosa…».

Prego.

«Questo non è coccodrillo, vero?».

 

La Verità, 20 novembre 2021

Il vero anti Donnarumma è Sandro Tonali

Eppure non ci sono solo i superprocuratori, gli agenti, le commissioni, i parametri zero, le plusvalenze… Non ci sono solo Mino Raiola e Gianluigi Donnarumma, sonoramente fischiato durante la partita della Nazionale contro la Spagna. Non c’è solo la legge dei bilanci (molti in rosso a forza di strapagare giocatori e agenti, salvo poi inventarsi la Superlega per provare a ripianarli). Ci sono anche storie diverse, meno glamour. Come quella di Sandro Tonali, lodigiano, classe Duemila, per un anno compagno di squadra del portiere più forte del mondo prima che decidesse di trasferirsi al Paris Saint Germain perché il Milan non soddisfaceva le sue richieste economiche.

Dicono gli addetti ai lavori più scafati che nel calcio il tempo del romanticismo è scaduto. Com’è finita l’èra delle bandiere e dell’attaccamento ai colori. I calciatori sono professionisti, è giusto che vadano dove sono più pagati. E pazienza se i tifosi si sentono traditi. Sui giornaloni l’esecrazione dei fischi che hanno riempito il catino di San Siro è unanime. Al freddo ragionamento economico si somma il moralismo che stigmatizza la persistenza dello spirito d’appartenenza a una società anche quando gioca la Nazionale. La maglia azzurra è più importante dei club, e via predicando. Con sconfinamenti buonisti sulla serata dei tormenti di Gigio, «un campione emigrato e segnato dalle vicende contrattuali» (Corriere della Sera). In realtà, i fischiatori hanno dato sfogo istintivo ai giudizi espressi da gente come Arrigo Sacchi («Ha fatto prevalere l’avidità sulla professionalità») e Fabio Capello («È stato irriconoscente verso il Milan. Per tutto ciò che aveva fatto per lui e la famiglia quando era ragazzino, avrebbe dovuto comportarsi diversamente»).

Ci sono storie che mostrano un approccio diverso. Tifoso milanista fin da bambino, durante il calciomercato 2020 Tonali, ambito da molti grandi club, ha dato mandato al procuratore di puntare sul rossonero. Arrivato in prestito dal Brescia, nel primo anno ha deluso le aspettative. Gli osservatori parlavano di bluff, di giocatore non da Milan. Si ventilava il mancato riscatto del prestito. Il coronamento del sogno di bambino lo bloccava, togliendogli disinvoltura in campo. Invece i dirigenti hanno deciso di dargli fiducia e lui, pur di essere confermato, si è ridotto l’ingaggio di ¼: da 1,6 a 1,2 milioni l’anno. In quest’inizio di stagione ha conquistato il posto da titolare ed è sempre tra i migliori. Nell’attesa che arrivi la chiamata di Roberto Mancini, stasera scenderà in campo da capitano dell’Under 21. Saranno i colpi di coda del romanticismo…

 

La Verità, 8 ottobre 2021

«È stata la Juve a spingere per dare la Serie A a Dazn»

Previsione azzeccata. Intervistato dalla Verità nell’agosto 2019, a precisa domanda su dove sarebbe tornato a fare il telecronista Sandro Piccinini rispose: «Fra due anni, spero in un nuovo grande gruppo dello streaming, tipo Amazon o Apple, ai quali potrebbe servire un telecronista popolare». Ora è appena rientrato da Lisbona dov’è stato con Massimo Ambrosini per raccontare Benfica-Psv Eindhoven, playoff di Champions League, la competizione di cui, dal 15 settembre, Prime video trasmetterà la miglior partita del mercoledì. Nell’attesa, Piccinini ha ripreso confidenza con la diretta della Supercoppa europea (Chelsea-Villareal, l’11 agosto) e, appunto, dei playoff: «Settimana prossima toccherà al match di ritorno tra lo Shakhtar di Roberto De Zerbi e il Monaco. Sarà un’ulteriore occasione per rodare tutta la squadra. Oltre a me e Ambrosini, anche i nostri talent che sono tutte belle facce di calcio, da Gianfranco Zola a Julio Cesar, da Luca Toni a Clarence Seedorf, da Federico Balzaretti a Claudio Marchisio».

Alla fine sei andato dove avevi previsto.

«Già in ottobre gli uomini di Prime video mi hanno contattato in vista di questa stagione. Tornare a commentare la Champions era l’occasione che aspettavo. Farlo in un’azienda forte e con uno staff di professionisti di grande qualità mi ha definitivamente convinto. Poi c’è la sfida di vedere se sono ancora capace di fare le telecronache».

E dopo le prime due?

«Sono più sereno, ma all’inizio un filo d’agitazione c’era».

Sky non ha rilanciato?

«Stiamo parlando. Avendo i diritti di sole 17 partite, Prime video non chiede l’esclusiva. Potrei continuare partecipare al Club di Fabio Caressa o ad altri programmi del weekend. A Sky hanno capito che avevo bisogno di riflettere. Dopo la sosta per la Nazionale deciderò».

Senza la partita della domenica sera, il Club di Sky perde centralità?

«Ormai è un marchio consolidato, una buona fetta di pubblico continuerà a seguirlo. Nell’ultimo anno c’era un’audience che si sintonizzava dopo la mezzanotte, non legata al dopopartita. Credo sia una bella sfida resistere senza il posticipo, perciò fanno bene a non mollare… Dico “fanno” ma forse dovrei dire “facciamo”».

Cosa pensi del racconto del calcio, credi anche tu che stia perdendo genuinità?

«Credo si debba distinguere tra l’evento in diretta, che conserva il suo fascino, e la parte di commento che gli ruota attorno. A noi italiani prende soprattutto la partita, quello è il momento centrale. Lo si vede anche in quest’inizio stagione, con i primi turni di Coppa Italia su Mediaset. Sul resto sono d’accordo: i talk show rischiano di saturare. Considerato che ci sono partite quasi tutti i giorni, forse gli spazi di commento andrebbero ripensati».

In quegli spazi i poteri forti esercitano pressioni?

«Durante la mia collaborazione a Sky non ne ho avvertite. Nessuno ha fatto sapere che avrebbe gradito un orientamento o un altro. Personalmente mi sono espresso in totale libertà. Anch’io leggo i social e vedo circolare tanti sospetti».

Come giudichi il fatto che da Sky sono usciti tanti colleghi e qualche commentatore come Lele Adani?

«Lo ritengo un fatto fisiologico. Prima Sky aveva dieci partite in esclusiva, da quest’anno ne ha tre. Qualche taglio è naturale, come lo è il fatto che alcuni colleghi accettino altre proposte».

Nessuna influenza dei club più potenti, a cominciare dalla Juventus spesso trattata con i guanti?

«Sui media i grandi club godono di un occhio di riguardo perché hanno tifoserie più numerose. Una notizia sull’Inter ha un peso diverso di una sul Parma. Detto questo, io ho potuto criticare in tempo reale l’idea della Superlega e attaccare Andrea Agnelli sul caso Suarez».

Perciò nessuna alleanza tra Sky e Juventus?

«A Sky ci sono venti opinionisti, ognuno con la propria simpatia. Se si misurano le presunte alleanze sui fatti concreti, la Juventus è la società che ha spinto di più per togliere i diritti a Sky e assegnarli a Dazn».

A volte si ha la sensazione di una gestione orientata: il Chievo è stato escluso dalla serie B in un batter d’occhio mentre un verdetto sul caso Suarez è atteso da un anno.

«E cosa c’entra con Sky?».

Non ho visto grande preoccupazione per la trasparenza del campionato né campagne sul caso Suarez.

«Questo dovunque, non farti influenzare dai social. Ripeto: la Juve ha spinto per dare i diritti a Dazn».

Se il telespettatore vuole seguire tutto il calcio ha bisogno di una consolle per i telecomandi?

«Oggi il pubblico è smaliziato. Pur di vedere la partita l’appassionato supera tanti ostacoli. Se perdi una serie tv te ne fai una ragione, se perdi il derby non so… Prime video ha scelto di mantenere lo stesso canone di abbonamento, senza sovrapprezzo, pur aggiungendo l’offerta della Champions».

Telecronache dallo studio o dallo stadio?

«Dal 15 settembre io e Ambrosini saremo sempre allo stadio».

Che cosa resterà della Superlega?

«Secondo me nulla. Per rientrare senza sanzioni nell’Eca (European club association ndr) i club ribelli hanno sottoscritto accordi vincolanti. Intanto l’Uefa ha avviato una revisione della Champions che comporterà una diversa distribuzione degli introiti. La formula della Superlega era molto discutibile: dieci grandi club che continuano a giocare fra loro. Un progetto sbagliato nella comunicazione e nel presupposto iniziale perché non è scontato che moltiplicando i big match si moltiplichino gli incassi».

Real Madrid, Barcellona e Juventus saranno escluse dalla Champions del 2022 come si paventa?
«È possibile. Ceferin mi sembra molto deciso. Può darsi che ora si apra una fase politica che porti a delle sanzioni nei loro confronti. Real, Barça e Juve mi sembrano arroccate nel loro progetto. Florentino Perez, che ne è l’ideatore, ha appena sborsato 120 milioni per acquistare Alaba: poi è facile dire che il bilancio è al collasso e ricorrere alla Superlega».

Ronaldo si è arricchito ma la Juventus deve risanare con un aumento di capitale.

«Anche perché Dybala vuole adeguare il suo contratto agli standard di Ronaldo e Chiesa a quelli di De Ligt».

Cosa significa Messi al Psg?

«È il sogno di ogni presidente, anche se non è il Messi di cinque anni fa. È un progetto fuori mercato. Al-Khelaïfi non ha speso niente per acquistarlo e può pagarlo con i suoi soldi senza indebitarsi».

Per questi club il fair play finanziario vale un po’ meno?

«È un’idea di Michel Platini che l’Uefa non è riuscita a imporre. Chi ha più soldi vince e la linea aerea del fondo può diventare sponsor del club. Uefa e Fifa stentano ad autoregolarsi».

Due anni fa con Antonio Conte all’Inter e Maurizio Sarri alla Juventus fu l’estate della rivoluzione, ora è restaurazione?

«È l’estate in cui riprende forza l’idea dell’“allenatore risolviproblemi”. Vista la scarsità di risorse, la Roma con Mourinho, la Lazio con Sarri e la Juventus con Allegri provano a compensare le lacune dell’organico».

Conte ha sbagliato a non restare?

«Mi spiace non sia rimasto perché avrebbe potuto dimostrare che un gande allenatore riesce a vincere senza Lukaku e Hakimi. Altri, sull’esempio della Nazionale di Roberto Mancini, hanno accettato la sfida di valorizzare al massimo quello che hanno a disposizione».

Abbiamo vinto gli Europei senza fuoriclasse, se non si vuol considerare tale Donnarumma.

«Donnarumma è un fuoriclasse, tanto che abbiamo vinto due partite ai rigori. Poi c’è stata anche una dose di fortuna: Chiesa, partito riserva, divenuto determinante, il gol di Arnautovic annullato per un fuorigioco millimetrico…».

Conte non ha capito il calcio al tempo della pandemia?

«Magari pensava di andare al Real Madrid, non lo sappiamo. Forse avrà pensato che alcune squadre risparmiano e altre no. E che lui poteva allenare in Francia o in Spagna».

Pirlo è stato un esperimento sintomo d’ingenuità o di arroganza?

«Agnelli ha pensato che gli scudetti li avesse vinti la società e non Allegri, Conte e Sarri. Tutti i presidenti la pensano così perché la società è la componente più forte. Ma l’allenatore serve e Pirlo non aveva esperienza. Senza Dybala e un centrocampo all’altezza, la sua è stata un’annata dignitosa, non catastrofica. Sì, scegliere Pirlo è stato un atto di presunzione».

Allegri avrà qualche problema a gestire tutti quegli attaccanti?

«Gira tutto intorno a Ronaldo, va o resta?».

E chi lo compra?

«Non bisogna sottovalutare gli sfizi dei ricchi. Se Mbappè va via, ad Al-Khelaïfi può venire in mente di far giocare insieme Messi e Ronaldo. Con Locatelli la Juve è migliorata ma, con tutto il rispetto, forse non a sufficienza. Poi magari Allegri riesce a valorizzare al meglio quello che ha».

Gigi Buffon ha fatto bene ad andare al Parma?

«Se ha ancora voglia di allenarsi tutti i giorni e si diverte ancora, perché no? Contesto quelli che vogliono che i grandi smettano prima. Come con Valentino Rossi… Ci vuole rispetto per i grandi campioni. Se parli con i giocatori di 35 anni ti dicono che è il momento che si godono di più perché non hanno più nulla da dimostrare e non patiscono lo stress».

Donnarumma ha fatto bene a lasciare il Milan?

«Il mercato è domanda e offerta e se ti offrono di più… È andato nella squadra che probabilmente vincerà la Champions. Al romanticismo della bandiera credevo quando i presidenti duravano: Giampiero Boniperti, Massimo Moratti, Silvio Berlusconi. Ma se ogni tre anni arriva un fondo americano che a ogni rinnovo mi presenta un manager diverso, a chi devo essere riconoscente?».

Sicuro che il Psg vincerà la Champions?

«Non si può mai essere sicuri, il Mancheter City doveva vincerla da anni… Da quando parte l’eliminazione diretta intervengono tante variabili, un errore arbitrale, un giocatore espulso, un altro infortunato. Però il Psg ci va vicino da due anni».

Corre il rischio figurine?

«È in agguato. Agli Europei la Svizzera ha eliminato la Francia e Mbappè ha sbagliato il rigore. Il Psg ha quattro attaccanti fortissimi, ma non è equilibrata in difesa».

Ti aggiungi a quelli che danno la Juventus favorita in Italia?

«Al momento sì, però vediamo come finisce il mercato. Se resta Lautaro e prende un altro attaccante, l’Inter non è così male. Poi c’è la Roma che ritrova Zaniolo, ha preso Shomurodov e Abraham. Se si crea l’alchimia giusta con Mourinho…».

 

La Verità, 21 agosto 2021

«Via i procuratori, non servono al calcio»

Lo dichiaro subito a beneficio dei lettori: sono al telefono con il mio idolo d’infanzia, Gianni Rivera. Perciò, mi concederete un breve ricordo personale. Forse per alleviare il trauma dell’iscrizione alla prima elementare, mio padre, che era maestro, mi consentì d’iniziare a raccogliere le figurine Panini. E lì c’era lui, con i capelli a spazzola. Diventai allora tifoso del Milan, fresco vincitore della Coppa dei campioni, la prima di una squadra italiana. Su Rivera, che nel 1969 sarà il nostro primo Pallone d’oro, non serve aggiungere altro. Se non la sorpresa causata dalle notizie recenti che lo riguardano.

Gianni Rivera no vax non ce l’aspettavamo.

«Ho sentito molti virologi, di quelli mai invitati in tv, dirsi contrari a questi vaccini perché non sufficientemente testati. I virologi ufficiali dicono che vanno bene, ma a me risulta che non siano stati adeguatamente verificati prima di essere diffusi».

Non ha paura?

«Non particolarmente. Conduco una vita tranquilla sia in casa che fuori, come fossi agli arresti domiciliari».

Come si definirebbe: coraggioso, temerario o critico verso l’informazione omologata?

«Sono una persona normale che si è fatta le proprie idee. Dopo le mie dichiarazioni a Porta a porta ho ricevuto molti messaggi di persone che la pensano come me. Tra queste ci sono anche esperti che hanno posizioni diverse rispetto all’ufficialità. Il fatto che non siano state fatte verifiche sufficienti su queste sostanze è risaputo. Non si può dire, ma questo è un altro discorso».

Non teme di essere imprudente?

«No. Se mi dicono che questi sieri non sono sperimentati preferisco aspettare che lo siano. Anche Mario Draghi il 28 maggio ha detto che le varianti possono rendere inutili gli effetti dei vaccini. Poi forse si è pentito e non l’ha più ripetuto. Qualcuno gli avrà consigliato di non farlo perché potrebbe saltare per aria tutto. Ma se saltano le cose sbagliate, meglio».

Non è imprudente non vaccinarsi considerando che la mortalità è più elevata tra le persone anziane?

«Cosa c’entra? Molti morti stavano già male prima e sono deceduti per altre patologie. L’anno prima del Covid ci sono stati più morti a causa dell’influenza… E poi esistono cure domiciliari che funzionano. Perché non farle e riempire gli ospedali?».

Le notizie di questi giorni dicono che gli ultimi ricoverati in terapia intensiva sono persone non vaccinate.

«Noi conosciamo persone intubate a Milano dopo la seconda iniezione. Lo sappiamo per voce diretta, ma di questi casi nessuno parla o scrive».

Chi sono i virologi che vorrebbe vedere in televisione?

«Luc Montagnier che ha preso un Nobel per la medicina, magari gliel’hanno dato per sbaglio. O Stefano Montanari. Ma non li invitano, forse perché dissentono dalla versione ufficiale».

Non crede che le vaccinazioni massicce ci stiano facendo uscire dall’emergenza?

«Lo spero. Io preferisco non correre il rischio finché non c’è una sperimentazione più ampia. Se poi funzionano, meglio».

Per lei chi si vaccina è una cavia?

«Questo è il sospetto».

Da cittadino e potenziale paziente ha la stessa allergia nei confronti dei virologi che aveva da calciatore verso gli arbitri?

«Mai avuto allergie nei confronti di nessuno. Mi infastidivo quando vedevo che gli arbitri avevano un comportamento non indipendente. Come capitano del Milan difendevo i miei compagni e la mia società quando mi accorgevo che inclinavano dall’altra parte».

Quale altra parte?

«Quella dell’avversario. Allora mi esponevo, se no che capitano sarei stato. Funziona così anche con il vaccino: dico la mia se qualcosa non mi convince».

Anche allora antisistema?

«No, il sistema funzionava. Erano gli antisistema che agivano nel sistema a inquinarlo. L’antisistema nel calcio dà fastidio e si spera che qualcuno intervenga».

Nella magistratura «il sistema» è un meccanismo perverso.

«Si sperava che non ci fossero disonesti tra chi deve giudicare gli altri, invece abbiamo capito che ci sono magistrati che dicono di fare un mestiere e ne fanno un altro».

Sta seguendo gli Europei di calcio?

«Certo. L’Italia sta andando molto bene, come avveniva anche prima degli Europei. Roberto Mancini ha molti meriti. Penso che potremo cavarcela bene anche contro squadre più forti di quelle che abbiamo incontrato finora».

Quante chance dà all’Italia per la vittoria finale?

«Non ho mai fatto pronostici prima delle partite. Andavo in campo per vincere, ma sapendo che avrei potuto perdere. Mi è capitato di perdere con squadre molto più deboli. La schedina l’ho giocata solo qualche volta con degli amici, ma poi ho smesso perché mi accorgevo che buttavo via i soldi».

C’è troppa euforia attorno alla Nazionale?

«Quando si vince i tifosi fanno festa perché il calcio trasmette entusiasmo. Il tifo è una malattia che ci si porta dietro. È giusto che i tifosi si sfoghino nella gioia, speriamo che la gioia prevalga sempre».

Parlando di tifo, cosa pensa delle critiche al fatto che lo stadio di Budapest per Ungheria-Portogallo fosse gremito di pubblico?

«Non le ho molto capite. Come entrano 20.000 persone controllate ne possono entrare anche 80.000, sempre controllate. Se si riesce a fare il tampone a tutti perché non farli entrare? Non credo che dobbiamo stare distanziati se non abbiamo niente. In casa, con mia moglie e i miei figli mica viviamo con la mascherina. Anche con gli amici: se uno sta male va dal medico, ma se sta bene può venire a cena da noi».

Certe precauzioni sono esagerate?

«A volte ho questa impressione. Io sono un semplice cittadino e capisco che chi ha responsabilità si preoccupi di più. Però leggo che tra poco non ci sarà più l’obbligo della mascherina all’aperto».

Che cosa l’ha colpita di più del caso Eriksen?

«Bisogna indagare su perché gli è successo. Qualcuno ha detto che potrebbe essere stato a causa del vaccino».

L’amministratore delegato dell’Inter Beppe Marotta ha smentito, la motivazione sembra di natura cardiaca.

«Indaghino e dicano qual è stata. Bisogna anche chiedere ai medici che gli hanno concesso di giocare finora quali erano le loro conoscenze».

Se dovesse fare una modifica per migliorare il mondo del calcio da cosa comincerebbe?

«Regolamenterei il ruolo dei procuratori. Fino a qualche tempo fa chiunque poteva inventarsi procuratore di giocatori e allenatori. Adesso sostengono un esame ridicolo per iscriversi a un albo. Mi meraviglio che Uefa e Fifa non intervengano su questa situazione».

Due anni fa ha frequentato il corso allenatori a Coverciano, qualche società l’ha contattata?

«Nessuna perché non ho procuratori. Credo di poter aiutare una squadra di calcio sebbene se non sia più giovane. Anche Dino Zoff ha pagato questa situazione. È stato presidente della Lazio, poi allenatore. Ma quando si è interrotto il rapporto non ha più trovato spazio perché si è rifiutato di farsi gestire da un procuratore».

Quand’era calciatore ce l’aveva?

«No. Avevo rapporti diretti con il presidente della società per la quale giocavo e rinnovavo il contratto discutendolo direttamente con lui. Oggi i procuratori cominciano a gestire i bambini da quando hanno 5 o 6 anni. So di genitori nauseati perché vanno avanti i bambini gestiti dal procuratore e non i migliori. Ho suggerito di denunciare questa situazione, ma mi rispondono che i loro figli ne avrebbero più danni che vantaggi. Così tutto rimane com’è. Anche le società non si ribellano».

Il caso di Gianluigi Donnarumma ha mostrato che certi calciatori sono più dei procuratori che delle società?

«Evidentemente Donnarumma si trova bene così e avendo un contratto con Raiola è costretto ad ascoltarlo. Ai miei tempi c’era l’Aic, l’associazione calciatori, che si occupava di aiutarli. Adesso mi chiedo a cosa serva. Abbiamo fatto tante battaglie per liberare i calciatori dalla schiavitù delle società e ora sono ostaggi dei procuratori. Il caso di Donnarumma mi ha molto meravigliato».

Ha visto che Franck De Bruyne, il capitano belga del Manchester City, ha rinnovato il contratto senza ricorrere a procuratori ma basandosi solo sull’analisi dei dati del suo gioco?

«È la conferma che i procuratori non sono indispensabili. Ai miei tempi facevamo già senza di loro. Non capisco perché ci debba essere un terzo incomodo che è, per altro, una spesa inutile per le società».

Tra le cose da cambiare ci sono anche gli stipendi dei calciatori?

«In questo particolare momento è una situazione molto pesante per le società. Mi meraviglio che accettino le condizioni imposte dai procuratori».

Calciatori troppo pagati?

«Non lo so. Se uno chiede 10 e glieli danno, li prende».

Cosa pensa del Var?

«Mi sembra un’ottima innovazione. Se uno strumento tecnico aiuta l’arbitro a eliminare gli errori, tutti ne traggono vantaggio. Chissà se fosse stato attivo ai miei tempi quante volte mi avrebbe dato ragione».

Che idea si è fatto della Superlega?

«Mi sono meravigliato che società così importanti si siano imbarcate in quella iniziativa senza preoccuparsi delle conseguenze che avrebbe avuto su tutto il sistema. Credo che i numeri uno debbano sempre misurarsi con i numeri cinque sei o sette. Tutti devono avere l’opportunità di migliorarsi. Magari succede che poi vince la squadra sfavorita. A me è capitato di perdere uno scudetto all’ultima giornata, sconfitto in casa dal Bari che si era appena salvato».

In Nazionale fanno faville Berardi e Locatelli del Sassuolo che la Superlega non la giocherebbero.

«Le loro prestazioni sono frutto di un percorso lungimirante. Com’è stato quello dell’Atalanta, altra squadra che non sarebbe iscritta alla Superlega. Un’idea che per fortuna è morta prima di nascere».

È vero che da bambino era juventino?

«Ad Alessandria arrivavano le notizie da Torino perciò simpatizzavo per la Juventus che vinceva. Poi ho iniziato a giocarle contro con l’Alessandria e il Milan e tutto è cambiato».

Un ricordo di Giampiero Boniperti?

«È stato un ottimo giocatore e un altrettanto ottimo presidente. Una persona seria che ha lasciato un ottimo ricordo di sé a tutti».

Tolto Gianni Rivera, chi è il più grande giocatore italiano di sempre?

«No, guardi, è difficile fare queste classifiche. Non c’è nessuno, neanche Rivera. Gli unici grandi, superiori a tutti sono Pelè per una ragione e Maradona per un’altra. Se il calcio non fosse esistito, Pelè l’avrebbe insegnato lui a tutti, destro, sinistro, colpo di testa, tutto. Dopo di lui tutti gli altri sono secondi, terzi e quarti».

 

La Verità, 19 giugno 2021

Libro dei sogni possibili per il Milan 2018/19

Qualche nota a chiusura di stagione del Milan e qualche suggerimento (non richiesto) per la campagna acquisti (e vendite).

Non è corretto farsi troppo determinare dalla partita finale, con una Fiorentina già in vacanza e penalizzata da molte defezioni. Tuttavia, i cinque gol realizzati, e di più avrebbero potuto essere, devono far riflettere sulla possibilità di schierare, almeno con le squadre piccole o medie, le due punte dall’inizio. Troppe ali e trequartisti rischiano di rallentare la manovra, soprattutto se non si gioca in contropiede.

Morale della storia: il settore su cui lavorare maggiormente è da centrocampo in su. Per aumentare il potenziale offensivo, creando schemi che portino al gol non solo con il tiro da fuori o i cross, come accaduto in questa stagione, ma con triangolazioni e assist anche nella zona centrale del campo.

Questa lunga premessa per dire che il Milan ha bisogno prima di tutto di due punte nuove e di due centrocampisti. Con le due punte si può passare al 4-3-1-2 (con Calhanoglu nel ruolo di trequartista e Bonaventura a sostegno, qualora restasse). In alternativa, si può rimanere al 4-3-3, ma con un centravanti diverso, che non sia costretto a giocare spalle alla porta e abbia anche il colpo di testa.

Dando per scontati la cessione di Donnarumma e l’arrivo di Reina e Strinic, ecco i nomi, provando a restare nell’ambito dei sogni possibili e privilegiando giocatori italiani (o che già conoscono il nostro campionato).

Acquisti.

Centravanti: Milik o Cavani (magari!)

Seconda punta: Politano o Di Maria (magari bis!)

Ali e trequartisti: Chiesa (al posto di Suso) o Verdi (vice Calhanoglu).

Centrocampisti: Baselli o Vidal (o entrambi se Bonaventura lascia)

Cessioni.

Difensori: Antonelli, Gomez, Abate.

Centrocampisti: Josè Mauri, Bertolacci.

Attaccanti: Kalinic, Andrè Silva, Suso.

Le differenze non solo tecniche tra Juve e Milan

Poche, schematiche, considerazioni su Juventus-Milan finale di Coppa Italia, partita di non svolta della stagione rossonera.

Alcune differenze tecniche, qualcuna evidente qualcun’altra meno, e un paio di considerazioni finali.

Le parate di Gianluigi Buffon sui tiri di Cutrone e Suso e quelle di Gianluigi Donnarumma sul tiro di Douglas Costa e sul colpo di testa che ha portato al terzo gol.

I corner battuti da Pjanic sul dischetto del rigore e quelli battuti da Suso in zona morta, tre metri prima del primo palo.

I cambi della panchina: nella Juve Higuain per Dybala, nel Milan Kalinic per Cutrone (che non aveva sfigurato).

La persistente povertà di schemi offensivi del Milan, sempre in balia dell’estro altalenante di Suso, se si esclude il tiro da fuori area.

Certamente è anche una questione di maturità e di esperienza che manca alla squadra di Gattuso (lui compreso). Ma, in parte, è anche una questione tecnica.

Se, per la maturazione, basteranno quattro innesti lo capiremo dalle sfide da brividi con Atalanta e Fiorentina. Politano sarebbe una buona idea per cominciare (se qualcuno a caso non si metterà di traverso), poi un centravanti da 20 gol e due centrocampisti di qualità e quantità.

Infine, converrebbe blindare qualche elemento, tipo Jack Bonaventura, assistito dall’ineffabile Mino Raiola e corteggiato dalla medesima Juventus. Considerando la rosa bianconera tra centrocampisti, trequartisti e ali, alla corte di Allegri il buon Jack una decina di partite l’anno riuscirebbe a giocarle. Forse.

La partita Mihajlovic-Berlusconi in 10 mosse

Fino a ieri sembrava che per restare sulla panchina del Milan Sinisa Mihajlovic avrebbe dovuto vincere tutte tredici le partite restanti fino a fine campionato e magari pure la Coppa Italia dove, se approderà alla finale, quasi certamente troverà una squadretta chiamata Juventus. Non poteva essere che una provocazione, essendoci tra i match da disputare quelli con il Napoli, la Juve e la Roma (questi ultimi al Meazza). Provocazione, stimolo, bocciatura annunciata che sia, forse giova ricordare schematicamente le cose buone e meno buone fatte dal tecnico dall’assunzione a oggi. Per tentare di capire se e fino a che punto è giusto mettere in discussione Mihajlovic.

  1. Ha voluto a tutti i costi Alessio Romagnoli. E ha avuto ragione.
  2. Dopo alcuni tentativi ha scelto Alex, forse il meno atteso, come suo compagno, dando solidità ed esperienza alla zona centrale della difesa.
  3. Appena ha avuto una condizione accettabile ha preferito Montolivo a De Jong, che la maggioranza degli osservatori ritenevano inamovibile (salvo poi criticare il fatto che il gioco della squadra era lento e non ripartiva mai), trasformando il capitano nel giocatore che recupera più palloni del campionato.
  4. Ha scommesso su Gigi Donnarumma, anticipandone l’esordio a scapito di Diego Lopez. Scommessa vinta.
  5. Tra tutte le ali destre (Cerci, Suso) ha puntato su Honda,  prossimo alla cessione, facendone un pretoriano del 4-4-2.
  6. Ha cambiato modulo, anche contravvenendo alle preferenze della casa per il trequartista, dando fisionomia e logica a un gioco compatibile con le risorse a disposizione.
  7. Ha dato compattezza, spirito di gruppo, identità operaia alla squadra anche nei momenti in cui era personalmente sull’orlo del precipizio.

Per completare il lavoro e fare en plein mancano ancora tre mosse a Mihajlovic.

  1. Dare un gioco offensivo scintillante e con possesso palla in grado di comandare le partite (come auspicano Berlusconi, che ha sborsato 86 milioni, e tutti i tifosi, memori della storia rossonera). Ma per questo serve qualche innesto dal centrocampo in su con un giocatore che elevi il tasso tecnico del reparto e, senza fargli perdere compattezza, sappia innescare con più continuità le punte. Forse questo giocatore potrebbe essere Bertolacci nella sua forma migliore. Altrimenti bisogna ricorrere al mercato (ma Vazquez è da Milan?).
  2. Completare il lavoro iniziato con il recalcitrante Balotelli, convincendolo a lavorare affinché il suo talento possa finalmente esprimersi al meglio.
  3. Recuperare e integrare Menez (più seconda punta che trequartista) e Boateng nel progetto.