Nazionale? Il nostro calcio ha minato l’idea di nazione

Perché le nostre squadre di club disputano finali europee e, in qualche caso, come quello dell’Atalanta, le vincono, e la nostra Nazionale colleziona figuracce in serie? La domanda sorge spontanea e, subito, ne chiama un’altra: che tipo di Nazionale vuoi mettere in campo se, negli anni, il tuo movimento calcistico ha demolito il concetto di nazione?
I processi al commissario tecnico Luciano Spalletti e ai nostri modesti giocatori sono già iniziati, ma rischiano di pagare dazio a un errore di prospettiva. Forse serve uno sguardo più lungo per individuare le ragioni dell’ennesima débâcle azzurra. Da otto anni la Nazionale non si qualifica ai Mondiali, l’ultima volta estromessa dalla medesima Svizzera, allenata da Murat Yakin, tecnico turco con una testa dotata di idee e di un’invidiabile chioma. La Svizzera, che non ha mai vinto nulla. Anche la Spagna, di un gradino superiore, ci aveva annichilito e solo la prestazione di Gigio Donnarumma aveva evitato il risultato da pallottoliere. Il pareggio all’ultimo secondo contro la Croazia aveva sciaguratamente illuso i numerosi analisti che si erano spinti a scrutare il tabellone oltre lo scoglio elvetico. È bastata l’incursione di Remo Freuler, che milita nel Bologna, a sgretolare le euforie che allignavano nel nostro spogliatoio e negli studi televisivi della teleparrocchietta, preoccupati dell’ombelico dell’audience. Quanto all’umiliazione finale hanno provveduto le geometrie di Garin Xhaka (Bayer Leverkusen) che ha guardato dall’alto in basso i nostri smarriti mediani e, a inizio ripresa, il destro a giro di Ruben Vargas (Augsburg) che ha concluso un’azione da manuale, indisturbata dal nostro presepe difensivo. Lo abbiamo visto tutti anche se la nostra Nazionale era inguardabile e la tentazione di cambiare canale cresceva con il passare dei minuti. Dunque, il bilancio di Euro2024 è terrificante e ora gli smarrimenti sono diffusi e incontrollati. Vedremo se si trarranno conseguenze adeguate. Tuttavia, sarebbe ancora fuorviante limitarsi a un’analisi di breve periodo. Perché le nostre squadre sono competitive nelle coppe e la Nazionale naufraga? La vittoria agli Europei di tre anni fa, era post Covid, ci aveva illuso, ma guardandola in prospettiva appare sempre più come il frutto di una serie di convergenze favorevoli.

Dai mondiali in Brasile del 2014, quando non superammo la fase a gironi, a Cesare Prandelli sono succeduti quattro commissari tecnici (Antonio Conte, Giampiero Ventura, Roberto Mancini fino a Luciano Spalletti), mentre il capo della Federazione Gabriele Gravina è inamovibile dal 2018. La nostra crisi viene da lontano. Da quanto non abbiamo campioni di livello mondiale? All’inizio del ritiro Spalletti aveva convocato i numeri dieci storici, Gianni Rivera, Giancarlo Antognoni, Roberto Baggio, Alessandro Del Piero e Francesco Totti per motivare la truppa. Da quanto tempo non abbiamo difensori (Claudio Gentile, Antonio Cabrini, Beppe Bergomi, Paolo Maldini, Franco Baresi), centrocampisti (Marco Tardelli, Salvatore Bagni, Carlo Ancelotti) e attaccanti (Aldo Serena, Luca Toni, Gianluca Vialli, Filippo Inzaghi, senza scomodare l’immortale Gigi Riva) di qualità? Ognuno faccia la propria lista inconfrontabile con lo status quo nel quale il primo italiano della classifica dei cannonieri è Gianluca Scamacca, undicesimo.
Il nostro movimento calcistico ha cancellato l’idea di Nazione, le squadre sono quasi interamente composte da stranieri: 8 titolari su 11 la Juventus e il Napoli, 10 su 11 il Milan, 6 su 11 l’Inter che infatti ha fornito la quota maggiore alla Nazionale suggerendo a qualcuno il patetico neologismo InterNazionale. Al contrario, solo due azzurri giocano all’estero: Gigio Donnarumma al Psg e Jorginho all’Arsenal (dimenticando Sandro Tonali, squalificato, al Newcastle). Questo è il termometro: i calciatori italiani nelle squadre italiane sono in stragrande minoranza, e il senso di appartenenza non può che difettarne. Il risultato si vede quando questi calciatori residuali vengono assemblati nelle competizioni che ancora si chiamano «per nazioni». L’intenzione di questa nota non è un rigurgito di anacronistico nazionalismo, quanto una riflessione pragmatica sull’impegno e la cura dei nostri vivai, sulla necessità di contingentare l’ingresso dei giocatori stranieri e sull’imperativo di ripristinare un minimo grado di umiltà negli spogliatoi giovanili (dove invece serpeggiano noia e vacuità, come i casi di ludopatia hanno di recente evidenziato, e senza aprire qui il capitolo di ciò che accade nelle tribune e nei campetti dei tornei per ragazzi). Urge ricominciare dall’abc dei fondamentali e subordinare alla tecnica gli apprendimenti di natura tattica che, invece, predominano. Perché, poi, quando ci si confronta a livello di nazionali, serve a poco conoscere le alchimie del 4-3-3 o del 3-5-2 se poi non si sa stoppare il pallone e completare tre passaggi di fila.

C’è molto da lavorare, dunque, e possibilmente in fretta, se si vuole invertire la rotta e provare a qualificarci per il mondiale americano del 2026. Le riforme e i cambiamenti difficili sono quelli che iniziano dalla mentalità e, solo di conseguenza, riguardano gli organigrammi. È da qui che bisogna ripartire, da un cambio di passo che cominci nei vivai, e che, forse, dovrebbe essere guidato da ex campioni, modelli in campo e fuori dal campo. Il precedente delle dimissioni di Roberto Baggio da presidente del settore tecnico della Figc, anno 2013, non fa ben sperare. Però, ugualmente, buon lavoro.

 

La Verità, 1 luglio 2024