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Quanti conduttori dei talk smentiti dai loro ospiti

Tira un’aria strana, da qualche tempo, nei salottini trendy della tv de noantri. Un’aria mista d’incertezza e insicurezza, una latenza di precarietà. La si avverte quando ci si sintonizza sui talk show, il genere nel quale l’operazione propaganda è più esplicita (Corrado Formigli due sere fa: «Lo dico subito, io alla manifestazione promossa dal mio amico Michele Serra ci vado» – e adesso siamo più tranquilli). È una sensazione che promana dalle conversazioni di Otto e mezzo e di DiMartedì, programmi di punta di La7. Ma anche da certi talk di Rete4 dove si osservano zelanti corse al riallineamento (tendenza Marina).

Che cos’è successo?

La prima scossa si è registrata nel giugno scorso quando, con lo spostamento a destra dell’asse europeo, i grandi timonieri dell’Ue hanno preso una tranvata alle urne. Indifferenti all’avvertimento, Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron e Olaf Scholz hanno fatto spallucce. E, con loro, si è messa a fischiettare anche gran parte degli anchorman di casa nostra. Cinque mesi dopo, con i riporti arancione di Donald Trump, è arrivato il terremoto vero e proprio.

Ora, mentre tutto cambia, per i rappresentanti del Teleconduttore unico, il kolossal resta invariato. Come se   Giovanni Floris, Lilli Gruber e David Parenzo fossero fermi al livello precedente del videogioco, dove i sessi non sono ancora tornati a essere due e il green deal è in auge. Chissà, forse bramano l’avvento di qualche Supereroe che pigi il tasto back e li svegli dal brutto sogno. Al momento non se ne hanno avvisaglie ed è netta la sensazione di assistere a due sport diversi, davanti a gente come Federico Rampini, Lucio Caracciolo, Michele Santoro o Massimo Cacciari.

Qualche sera fa, Floris faceva il portavoce della Von der Leyen: c’è l’emergenza, il pericolo, Putin ci attacca. E Santoro gli ha smontato il copione un pezzo alla volta: «Con questa emergenza stiamo facendo una delle cose che alla fine della Seconda guerra mondiale avevamo escluso: dare il via libera alla Germania per diventare di nuovo da sola una grande potenza militare, moltiplicando i pericoli». Floris voleva fargli dire che la Meloni si sta adeguando al modello trumpiano. «Nel mondo», ha spaziato invece l’ex conduttore di Annozero, «la politica conta sempre meno e conta sempre di più l’economia, la finanza. I grandi oligopoli che circondano Trump. In Cina, in Russia, in India, conta ancora la politica che controlla i cambiamenti. In Occidente, la ricchezza non la produce il lavoro ma i soldi». Questo sarebbe il ruolo dell’Europa? «L’Europa dovrebbe diventare un soggetto politico che influenzi l’andamento del mondo. Ma non può farlo mettendo regole sul cacao e sul parmigiano e altre stronzate. Soprattutto non può farlo partendo dall’esercito», ha chiuso Santoro.

Sebbene sembrino due partite diverse, la telesceneggiatura non cambia. Trump, nuovo dittatore globale, potrà mai favorire la pace in Ucraina con i suoi modi così brutali e quella tintura impresentabile? Vuoi mettere l’eleganza di Ursula e di Macron (sì, è vero, sono un po’ guerrafondai – ma che charme)? Ed Elon Musk, simbolo della tecnodestra? Uno che agita la motosega come quel diavolo di Javier Milei (sì, è vero, ha risollevato l’Argentina segando l’inflazione e facendo schizzare il Pil – ma sono bazzecole, e poi quei basettoni…).

Forse in quanto titolare di una striscia quotidiana, la primatista di sconfessioni in diretta è Dietlinde Gruber. Clamorose quelle del lapidario Lucio Caracciolo. Alla conduttrice che scalpitava contro Musk e il possibile accordo sulle telecomunicazioni, il direttore di Limes replicava: «La prospettiva che la Ue abbia un sistema in alternativa a Starlink entro il 2035 è un bluff. E le trattative con Elon Musk sono cominciate prima dell’arrivo di Meloni». Altra delusione un paio di giorni fa, firmata sempre Caracciolo, sull’amata Europa: «Per tutta la nostra storia noi europei ci siamo sparati tra noi. Negli ultimi 80 anni non l’abbiamo fatto anche per merito degli americani. Non vorrei che se gli americani se ne vanno ricominciassimo», l’ha gelata il direttore di Limes.

Smentita totale del Gruber pensiero anche quella siglata da Massimo Cacciari all’indomani del voto in Germania. Con Trump le destre si rafforzano anche in Europa, osserva Lilli. «Ma secondo voi le destre europee si continuano a rafforzare per colpa di Trump? E non perché c’è una certa politica sociale europea e non perché c’è una sinistra europea del cavolo? Se ci fosse stato Biden l’Afd non avrebbe preso il 20%?». Gruber: «Però diciamo che Elon Musk…». Cacciari: «Ma lasci stare Musk, ci sono tendenze di fondo. È il rappresentante di una nuova élite finanziaria… che ha vinto e adesso governa. Non è la barzelletta del saluto fascista». Gruber: «È l’uomo più ricco del mondo e appartiene all’amministrazione Trump che sta licenziando centinaia di dipendenti pubblici». Cacciari: «Questa è la politica di destra che piace anche ai governi di destra. Ma quando non vince, la destra continua a crescere e se la tieni fuori continua a farlo. Come siamo bravi che li teniamo fuori dal governo. Bravi: abbiamo impedito ai fascisti di andare al potere…». Balbettio generale.

Ogni volta che Federico Rampini si collega dagli States il copione dev’essere riscritto. Ne sa qualcosa Corrado Formigli, smentito quando gli ha chiesto se in America fosse in atto «un golpe mascherato». La magistratura sta fermando parecchi provvedimenti, il federalismo è un anticorpo istituzionale, la stampa fa il suo dovere e il New York Times dalla prima all’ultima pagina contesta l’amministrazione Trump. «Piuttosto», ha concluso il giornalista, raggelando anche Massimo D’Alema presente in studio, «stupisce che non ci siano manifestazioni e proteste di piazza come ci furono contro il Trump 1, perché l’opposizione non si è ancora ripresa, non ha capito le ragioni della disfatta e non ha fatto autocritica».

Il più spiazzato di tutti è David Parenzo. «Mentre attendevo il mio turno», ha premesso Rampini, «ho sentito dire che Trump c’entra anche con l’operazione Monte dei Paschi di Siena – Mediobanca. Tra un po’ se i treni arrivano in ritardo in Italia sarà colpa di Trump». Parenzo allargava le braccia. «Sull’immigrazione, certo, sta facendo sul serio. Incatenare i detenuti ripugna al nostro senso europeo dei diritti umani, ma in America è pratica comune per i criminali di qualunque nazionalità, anche se sono cittadini statunitensi. Quelle che troppi di voi chiamano deportazioni, e sono rimpatri con il consenso dei paesi di provenienza, a milioni sono già stati fatti dalle amministrazioni Biden e Obama di nascosto».

Dopo il confronto fra Trump e Zelensky, altro smacco per il povero Parenzo. «Se uno si guarda tutti i 45 minuti e non solo gli ultimi tre del faccia a faccia», ha scandito Rampini, «vede uno Zelensky molto aggressivo – anche perché aveva appena incontrato esponenti democratici – che ha fatto di tutto per costringere Trump a dire che Putin è il colpevole, l’aggressore, un criminale. Se si vuol avviare una trattativa queste espressioni non le devi usare».

Che strana aria tira nella rete dell’Aria che tira.

 

 

 La Verità, 15 marzo 2025

 

 

Gli «imbavagliati» si lamentano a reti unificate

Sabato sera, rientrando da una gita, ho acceso la tv trovandola sintonizzata su La7, il canale dove l’avevo spenta al mattino. A In altre parole Massimo Gramellini diceva rivolto a Roberto Vecchioni: la prossima settimana quest’uomo incontrerà il capo dello Stato Sergio Mattarella e, dopo esser stato ricevuto da papa Francesco, chiuderà un concerto sul sagrato di piazza San Pietro. «Quest’uomo». A quel punto sono saltato su Rai 3, cadendo dentro Chesarà della «co-censurata» Serena Bortone, imbattendomi in Gene Gnocchi con inguardabili calzini grigi copri-malleolo che sbertucciava in serie Roberto Vannacci, Matteo Salvini e i pro-life. Tornato su La7, dopo una stoccatina al solito generale, Gramellini stava dando il benvenuto a «un altro Roberto», ovvero Saviano. In cerca di riparo, ho virato su Rete 4. Ma lì, tra gli ospiti di Stasera Italia spiccava Giovanna Vitale di Repubblica, inflessibile nello stigmatizzare il premier Giorgia Meloni, «che non si è mai dichiarata antifascista», e «l’ossessione per il controllo dell’informazione che passa per il controllo della Rai». Insomma, gli imbavagliati imperversavano a reti unificate.
Quella stessa mattina, sotto il titolo d’apertura «Libertà, l’Italia arretra», dalle colonne del quotidiano di proprietà del gruppo Gedi, la medesima Vitale aveva nuovamente rilanciato l’allarme democratico, paventando «l’occupazione militare dell’informazione targata Fratelli d’Italia (…) che risponde a un preciso disegno di potere e di sdoganamento della cultura post-fascista concepito a Palazzo Chigi». Proprio così, il regime è dietro l’angolo. Forse, già davanti. Insieme agli opinionisti dei gruppi editoriali legati all’opposizione lo denunciano il segretario della Fnsi Vittorio Di Trapani, già leader dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico che ieri ha imposto un giorno di sciopero dei tg. Uno dei più politici degli ultimi decenni, le cui motivazioni contro l’accorpamento delle testate e la mancata stabilizzazione dei precari sono il contorno della vera ciccia, ovvero la Rai ridotta a «megafono governativo» e (l’inesistente) caso Scurati.
Sommessamente, a me pare che qualcosa non torni. E che coloro che lamentano la «deriva orbaniana» lo facciano strillando contro TeleMeloni e l’avvento dell’egemonia della destra comodamente seduti negli studi di Lilli Gruber, di Marco Damilano, di Serena Bortone o di Giovanni Floris. Sarebbe interessante quantificare la frequenza con cui i talk show riveriscono direttori, editorialisti e grandi firme, da Maurizio Molinari a Massimo Giannini, da Stefano Cappellini a Michele Serra, da Concita De Gregorio a Corrado Augias, solo per stare al quotidiano che denuncia l’italica riduzione delle libertà.
Per circostanziare un attimo lo stato delle cose può tornare utile un’occhiata a una settimana tipo di programmazione serale. Scorrendola in orizzontale si trovano le varie strisce quotidiane: su La7 c’è il sempre uguale a sé stesso Otto e mezzo, mentre su Rete 4 il nuovo Prima di domani può vantare le new entry di Stefano Cappellini, Concita De Gregorio, Ginevra Bompiani e Gad Lerner. Su Rai 3 l’ex direttore dell’Espresso Marco Damilano conduce Il cavallo e la torre e, dopo il Tg1, Bruno Vespa condensa il suo «approfondimento» in Cinque minuti. Passando al palinsesto verticale, il lunedì sera ci sono Quarta Repubblica di Nicola Porro su Rete 4, le inchieste di cronaca di Far West di Giuseppe Sottile (Rai 3) e i reportage di Cento minuti di Corrado Formigli e Alberto Nerazzini su La7 che, dopo La torre di babele di Corrado Augias, riempiono il vuoto lasciato dallo spostamento di Report alla domenica. Il martedì il salotto di Giovanni Floris è il think tank dei guru d’opposizione (Pier Luigi Bersani, Michele Santoro, Augias e Romano Prodi) e su Rete 4 Bianca Berlinguer cerca una problematica quadratura bipartisan in È sempre cartabianca, mentre su Rai 3, al fallimento di Avanti popolo si è fatta seguire l’irrilevanza di Petrolio di Duilio Gianmaria. Il mercoledì, grazie alle inchieste e agli ascolti, resta Fuori dal coro di nome e di fatto Mario Giordano. Il giovedì su La7 Piazzapulita di Corrado Formigli punta a vincere il concorso di programma più antimeloniano dell’etere, perdendo però regolarmente con Diritto e rovescio di Paolo Del Debbio (Rete 4). Il venerdì sera si può scegliere tra l’antagonismo di Propaganda live (La7), che insidia le ambizioni di Formigli mixando i «monocordologhi» di Andrea Pennacchi con il retroscenismo left oriented di Filippo Ceccarelli, e la satira d’opposizione di Fratelli di Crozza sul Nove. Il sabato, come detto, ci aspetta la coppia fotocopia Massimo Gramellini e Serena Bortone (rischiando il gulag Vecchioni e Gramellini sono stati i primi a declamare il testo di Scurati sul 25 aprile). La domenica sera, invece, si chiude in bellezza con Zona bianca di Giuseppe Brindisi, che l’altro ieri ha intervistato Giuseppe Conte, Report di Sigfrido Ranucci su Rai 3 e, sul Nove, il velluto blu innervato di vendette anti-Rai di Che tempo che fa.
Questo è il quadro del regime che ci sta avvolgendo e nel quale le poche voci dissidenti rischiano quotidianamente la strozza. In realtà, «non c’è mai stata libertà d’informazione come oggi», ha detto Antonio Padellaro, incenerendo la povera Bortone. Anzi, pur considerando le tre serate di Porta a porta (di certo più bipartisan di Linea notte), l’equilibrio di Quarta Repubblica e il controcanto di Diritto e rovescio e Fuori dal coro, la teleinformazione serale resta orientata dalla solita parte. Per certi versi, con Bianca Berlinguer a Mediaset, la bilancia è più sbilenca di prima. Nelle intenzioni, la chiamata dell’ex direttrice del Tg3 doveva essere la contromisura all’annunciato spostamento a destra dell’informazione Rai. Invece, considerati i flop e il lungo rodaggio che stanno rendendo una chimera il «riequilibrio» della tv pubblica, il risultato finale è che l’asse dell’infosfera rimane, nel suo complesso, tuttora ben spostato a sinistra. Con buona pace dei presunti perseguitati dal regime.

P.s. Come hanno documentato i biglietti ferroviari e la prenotazione dell’hotel per la trasferta romana in occasione della partecipazione al programma Chesarà, Antonio Scurati non ha subito alcuna censura da parte della Rai.

 

La Verità, 7 maggio 2024

L’afflizione democratica per la Rai di Lilli e Corrado

C’è molta preoccupazione a La7 per la libertà della Rai. Le nuove nomine e gli abbandoni di Fabio Fazio e Lucia Annunziata hanno gettato i volti noti della tv di Urbano Cairo nell’afflizione più profonda. È un’afflizione democratica, ovviamente, per le privazioni di cui saranno vittime i telespettatori che pagano il canone. Non una preoccupazione editoriale perché, di solito, quando un concorrente s’indebolisce, ci si frega le mani. No: dalle parti di Otto e mezzo e Piazzapulita è tutto un interrogarsi e macerarsi per il degrado della democrazia perpetrato dalle nomine appena licenziate dal Cda Rai. Venendo al sodo, giovedì è andata in onda la maratona dell’indignazione per l’avvento di Tele-Meloni. Fresca di trasferta in quel posticino simbolo di trasparenza e pluralismo che è il meeting di Bilderberg, Lilli Gruber ha dispensato il suo verbo democratico intervistando Giovanna Vitale di Repubblica e l’ex presidente della Rai Roberto Zaccaria, angosciati per l’incombere della dittatura. Sì, è vero, la lottizzazione c’è sempre stata, ma quando la faceva lui, Zaccaria, il lupo abitava con l’agnello e il leopardo giaceva col capretto. Ci è voluto il solito Marco Travaglio per evidenziare l’ipocrisia delle lamentazioni. Soprattutto quelle di fonte dem perché, a conti fatti, con le nuove nomine Fratelli d’Italia ottiene cinque caselle, la Lega sette, il M5s tre, mentre il Pd ne mantiene nove (Mario Orfeo al Tg3, Stefano Coletta ai palinsesti, Simona Sala a Radio 2, Silvia Calandrelli a Rai Cultura, Elena Capparelli a RaiPlay, Paolo Del Brocco a Rai Cinema, Andrea Vianello a San Marino tv, Maria Pia Ammirati a Rai Fiction e Luca Milano a Rai Kids). Eppure la consigliera Francesca Bria, issata in Cda dall’ex ministro Andrea Orlando, ha votato contro alzando alti lai di protesta. Insomma, quello che si dice avere la botte piena e la moglie ubriaca. Un gioco di prestigio che, quando si tratta della tv di Stato, al Pd riesce sempre facile. Come ha confermato di lì a poco la segretaria del partito Elly Schlein parlando di «occupazione a spallate della Rai» una volta che il testimone della maratona è passato nelle mani di Corrado Formigli. Il quale, in lutto per Lucia Annunziata costretta alle dimissioni perché processata a causa di una parolaccia, ha sorvolato sul fatto che il suo Mezz’ora in più era già stato rinnovato per la prossima stagione. È così: un certo giornalismo stenta a metabolizzare il nuovo scenario fornendo versioni scomposte, tinte di preoccupazione democratica. Magari perdendo la memoria sui fatti di casa propria. Quando un aggiornamento su Massimo Giletti?

 

La Verità, 27 maggio 2023

«Macché spie, il rischio è demonizzare il dissenso»

Non indossando l’elmetto, Corrado Formigli si attira le critiche e le ironie dei media più atlantisti, ma il suo Piazzapulita su La7 è uno dei talk più problematici del panorama televisivo nostrano. Ospita voci diverse e innesta il dibattito in studio con immagini e reportage dal fronte, «40 o 50 minuti ogni puntata», sottolinea: «è il nostro marchio di fabbrica».

Come vanno gli ascolti dall’inizio della guerra?

«Fino a prima dell’invasione dell’Ucraina la nostra media era del 5,7% di share. Dal 24 febbraio a oggi si è assestata sul 6,3%, per noi un risultato eccellente».

Questa crescita ha un motivo preciso?

«Intanto, la mia passione personale per il tema. Fin dai tempi dei programmi di Michele Santoro ho sempre fatto l’inviato di guerra. Per Piazzapulita ho realizzato reportage su Kobane, in Siria, su Falluja e Mosul, in Iraq… Poi, ma non certo in secondo luogo, la passione, l’esperienza e le capacità di Gabriele Micalizzi, Alessio Lasta e Luciana Colluccello sono stati un altro nostro punto di forza. Siamo l’unico talk che propone reportage sul campo».

Però la guerra non si vede moltissimo.

«Non è proprio così, raramente si sono visti tanti cadaveri per le strade e missili schiantarsi sugli edifici. A Kramatorsk un pezzo di missile ha sfiorato la macchina sulla quale viaggiava Luciana Colluccello. È una guerra che si combatte con ordigni lanciati a distanza. Stare in prima linea con la fanteria vorrebbe dire rischiare la vita. Ma il nostro primo problema è un altro».

Quale?

«Evitare le fake news. I canali Telegram mostrano il conflitto girato dai soldati e bisogna sminare la propaganda per far affiorare i fatti. L’esempio dell’immagine della donna con il ventre marchiato da una svastica è significativo. Micalizzi aveva trovato quella foto a Mariupol, perciò si è pensato fosse opera del battaglione Azov. Qualche giorno dopo la stessa immagine è ricomparsa vicino a Kiev, collegata alle torture di Bucha, quindi gli autori potevano essere russi. Alla fine, non sappiamo chi ha commesso quella violenza, ma solo che quella donna è stata uccisa e mutilata».

Come scegliete gli ospiti delle puntate?

«Distinguiamo tra competenza e battaglia delle idee. In tema di diplomazia, di geopolitica o di strategia militare cerchiamo ospiti che abbiano esperienza sul campo. Alberto Negri è uno dei più importanti inviati di guerra degli ultimi 30 anni, il generale Vincenzo Camporini è stato capo di Stato maggiore della Difesa, Riccardo Sessa è stato ambasciatore in Cina e in Iran, per citarne alcuni. Sul piano delle idee, quando Michele Santoro e Paolo Mieli si confrontano esprimono visioni diverse, ma il loro dibattito è utile al telespettatore, oggi senza bussola».

Le capita di pagare qualche ospite?

«La stragrande maggioranza viene a titolo gratuito, altri te li assicuri in esclusiva per un certo tempo. È come un patto di fedeltà che anche il pubblico apprezza. Ma si tratta sempre di cifre modeste, corrisposte in cambio di una competenza e di un tempo che ti danno».

Sono mai stati contestati dal pubblico o da qualche esponente politico?

«La reazione più violenta l’ho registrata riguardo al professor Alessandro Orsini. Il giorno dopo, il mio telefono era intasato da commenti alla sua partecipazione provenienti da alti livelli della politica, della cultura e del mondo universitario. Perché fai parlare Orsini? Non sai chi è? Erano supposizioni ipotetiche, mai circostanziate».

Una volta invitato qualcuno ha mai avuto la sensazione che potesse trattarsi di un agente segreto?

«Macché. Orsini no di certo, lo conosco da diversi anni. Ma secondo lei un agente sotto copertura usa i talk show per fare propaganda? Perché accada ci vorrebbero un conduttore imbecille, un pubblico privo di capacità di discernimento e che gli altri ospiti fossero sotto anestetico».

Qualche telespettatore le ha contestato l’invito a Steve Bannon.

«L’ho trovato surreale. Stiamo parlando dell’ex capo stratega del presidente americano Donald Trump. Io non scelgo tra buoni e cattivi. Se fosse utile a comprendere ciò che c’è nella mente di Vladimir Putin inviterei pure il diavolo».

C’è qualcuno che vorrebbe intervistare e non le è ancora riuscito?

«Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino, ci ha già detto no due volte, mentre ho apprezzato l’intervista che gli ha fatto Christiane Amanpour sulla Cnn. Un altro che sto cercando di invitare è Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore della Novaja Gazeta, il giornale dove scriveva Anna Politkovskaja».

L’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes ha detto alla commissione di Vigilanza che i talk show non sono più adatti a una corretta informazione: cosa ne pensa?

«Penso che quelli fatti bene lo siano e quelli fatti male non lo siano. Trovo che usare la parola talk show in generale come metro di ogni nequizia sia sbagliato».

Che opinione ha dell’interesse del Copasir e della Vigilanza riguardo ai meccanismi dell’informazione?

«Per conto mio la Vigilanza andrebbe abolita. In tutto l’Occidente è un unicum che una commissione di politici indichi i criteri di fattura di un programma televisivo, di invito degli ospiti e se vadano pagati o meno. La ritengo una realtà di sapore sovietico».

In guerra si demonizza il nemico, nell’informazione si demonizza o ridicolizza il dissenso?

«Il rischio lo vedo molto forte. Non sto dicendo che chi dissente non abbia spazio perché ne ha. Il problema è ciò che avviene dopo: l’attacco concentrico dei soliti politici che guardano troppo la tv anziché fare cose più utili e del plotoncino dei social che si erge a tribunale dei talk. Quando questo attacco viene amplificato dai giornali si crea un clima avvelenato».

Piazzapulita mette di fronte bellicisti e pacifisti: può dire quali si dimostrano più intolleranti verso le posizioni altrui?

«Mi sono stupito quando Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari internazionali, con la quale avevo un accordo di partecipazione a quattro puntate, ha criticato su un giornale il fatto che avessi invitato il professor Carlo Rovelli, un grande intellettuale nonché uno dei maggiori fisici mondiali, su posizioni pacifiste».

Il Foglio ha scritto che Urbano Cairo appare un editore bifronte: governativo e bellicista con il Corriere della Sera, problematico o polifonico con La7. Cosa ne pensa?

«Se un editore è polifonico tanto di cappello, Cairo non ha bisogno che Il Foglio gli insegni il mestiere. L’articolo al quale si riferisce mi descriveva come putiniano dopo una puntata con Roberto Saviano e la figlia di Anna Politkovskaja. È il solito tentativo di etichettare qualcuno come serve a chi scrive. Quell’articolo citava un sondaggio sulla popolarità di Putin all’82% tra gli italiani, mentre si trattava di un rilevamento del suo gradimento presso i russi fatto dal Levada Center, un istituto di ricerche non governativo, di cui ho intervistato il direttore, Denis Volkov. Rifiuto la riduzione in burletta dei talk show. Non capisco perché invitare una sera Santoro è un crimine, ma delle sei puntate in cui ho mostrato la distruzione di Mariupol nessuno ha scritto una riga. Quelli che sostenevano il potere del telecomando e sminuivano la capacità della televisione di orientare i consensi ai tempi di Berlusconi premier oggi fanno esattamente il contrario».

Oltre a riproporre Santoro ha scoperto Orsini e la professoressa Donatella Di Cesare, invitato Bannon, ospitato il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio…

«Orsini l’ho lanciato perché ne avevo colto la forza dirompente, ma l’ho lasciato ad altri perché non amo costruire il programma su un solo ospite. Come detto, si citano solo gli ospiti che servono a costruire lo schema senza ricordare gli altri, Paolo Mieli, Mario Calabresi, Stefano Cappellini, Maurizio Molinari, la lista è lunga. Se invito Evgeniy Popov, deputato russo e, insieme con Vladimir Solovev, uno degli anchorman più influenti, mi serve per far capire come funziona la propaganda russa. Non conosco altre vie per capire cosa c’è nella testa di Putin se non parlare con le persone che gli sono vicine. Credo che il pubblico italiano comprenda questa operazione».

Che cosa pensa di #Cartabianca e della pressione cui è sottoposta Bianca Berlinguer?

«Penso che un editore abbia il diritto di cambiare o spostare nel palinsesto un programma sulla base di una sua valutazione. Vale sia nel pubblico che nel privato. Ma se il cambiamento, come mi pare stia avvenendo per #Cartabianca di Bianca Berlinguer, segue l’attacco proveniente da una parte politica, da un esponente del governo, da qualche componente della Vigilanza, a quel punto l’odore di censura è molto forte».

L’ha convinta Enrico Letta che ha intervistato giovedì sera?

«Ho colto la sua posizione gelida nei confronti di Giuseppe Conte, il quale pone un problema di unità della maggioranza. E, in secondo luogo, mi pare abbia iniziato un percorso di riallineamento alla nuova strategia del premier Draghi, meno schiacciata su Washington».

Per tornare alla domanda?

«Credo che Letta colga la nuova posizione più macroniana di Draghi con un certo sollievo perché agevola il rapporto con un pezzo importante della base del partito, contraria all’invio di armi in Ucraina».

Che cosa pensa della conversione atlantica del Pd?

«Credo che si fosse allineato a Draghi anche a scapito del necessario dibattito interno. Ha conquistato nuovi consensi ma spostandosi verso il centro, trascura temi come lo ius soli e i diritti civili che, personalmente, condivido».

Qual è la sua lettura della visita del premier alla Casa Bianca?

«Penso sia un uomo capace di comprendere la posta in gioco. Parla con Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Ursula von der Leyen. Credo abbia tentato di far capire che il negoziato è una condizione vitale per la sopravvivenza dell’Europa».

Alcuni osservatori vedono nelle sue mosse l’ambizione alla carica di segretario generale della Nato.

«Secondo me vuole rimanere abbastanza a lungo dov’è».

Si candiderà?

«No. Nel 2023 potrà coagularsi una coalizione di forze e Draghi potrebbe essere candidato a guidarla».

Così la politica continuerà a delegare la guida del Paese?

«Se Giorgia Meloni otterrà una grande maggioranza deciderà il centrodestra, se invece si concretizzerà una situazione più complessa Draghi sarà ancora un’opzione. L’alternativa è tra Meloni e Draghi, non vedo terze possibilità».

 

La Verità, 14 maggio 2022

Il coronavirus e le diverse lezioni di Formigli e Klopp

Rispondendo alle domande di un’agenzia di stampa sull’emergenza coronavirus, Urbano Cairo, proprietario di La7 nonché editore di Rcs ha detto che «oggi non serve a nulla essere ottimisti. Anzi, è necessario essere realisti, persino pessimisti». E, incalzato, ha aggiunto: «Mi preme dire che l’emergenza sanitaria mi ha convinto che ci vogliono misure “cinesi”, molto più dure di quelle messe in campo fino a oggi». Non più tardi di un mese fa, quando in Italia l’epidemia era a livelli embrionali, per sfidare la psicosi che serpeggiava nella gente comune, alcuni prestigiosi conduttori della sua televisione (Corrado Formigli e Myrta Merlino) si sono fatti portare in studio degli involtini primavera, cucinati in qualche ristorante cinese di Roma, per degustarlo in diretta. «Noi siamo amici della scienza», era stato il mantra del conduttore di Piazza pulita. «Potete andare nei ristoranti cinesi, siate razionali, crediate nella scienza». La scienza è quella stessa che, allo stato dei fatti, non ha il vaccino contro il Covid-19? Due giorni dopo, pur consultando Roberto Burioni, e con molta meno enfasi, è stata la conduttrice dell’Aria che tira a imitare Formigli. La parola d’ordine era minimizzare l’insorgere dei contagi, a dispetto dei sovranisti che, cominciando dai governatori del Nord, dipingevano scenari apocalittici. Lo scopo era combattere il razzismo, non il virus (Toni Capuozzo).

Purtroppo, da qualche decennio i conduttori di programmi di approfondimento, più che approfondire si schierano da una parte o dall’altra. In occasione della crisi sanitaria più grave del secolo (finora), adottare comportamenti superficiali ha una gravità che, forse, un editore dovrebbe considerare. Ma se si segnalasse a Cairo l’incongruenza di questi atteggiamenti, verosimilmente risponderebbe che ha sempre lasciato libertà ai suoi conduttori. Scendendo nella piramide gerarchica, La7 ha in Andrea Salerno un direttore che dovrebbe dare una linea editoriale alla rete. Infine, ci dovrebbe essere l’umiltà degli stessi conduttori che, per altro, spesso sproloquiano sul primato della competenza. Purtroppo, spesso la partigianeria offusca la responsabilità e il senso della misura. Ora a Formigli bisogna riconoscere il cambio di rotta dell’ultima, istruttiva, intervista al direttore del dipartimento di malattie infettive del Sacco di Milano, Massimo Galli. I buoi però ormai sono a spasso. Come certi giovanotti sui Navigli. Dare un’occhiata al video in cui l’allenatore del Liverpool Jurgen Klopp rimbalza la domanda di un giornalista sul coronavirus potrebbe essere istruttivo.

 

La Verità, 10 marzo 2020

«Nemo nessuno escluso si butta in politica»

Un cattolico nel rutilante mondo della televisione. Un autore, giornalista e conduttore che lavora a partita Iva senza un influente agente alle spalle (in mezzo a colleghi che ce l’hanno). Uno che si dimette dalle Iene perché un suo servizio che ristabiliva la verità sul suo conto non viene trasmesso. Ma lo fa senza indossare i panni della vittima della censura. Uno che passa da Mediaset a La7, da Tv2000 alla Rai, dove adesso è responsabile di Nemo, nessuno escluso. Alessandro Sortino è romano, ha 48 anni, è sposato con Cecilia da 17, ha due figli e una matassa di capelli rossi.

Venerdì su Rai 2 riparte Nemo, nessuno escluso: nuove asticelle?

«Vogliamo entrare nel racconto della politica con Enrico Lucci e altri inviati. Seguiremo la formazione del nuovo governo. La nuova asticella è farlo con il nostro stile, mettendo da parte ideologie, tesi precostituite, capri espiatori per incontrare la realtà nella sua interezza».

«Nessuno escluso» è un manifesto, un principio bergogliano, l’idea che val sempre la pena di ascoltare le ragioni dell’altro?

«È la carta d’identità della nostra redazione. Dove non la pensiamo tutti allo stesso modo. Io sono cattolico praticante, gli altri in maggioranza no. Ma il cristianesimo non è escluso. Quello che chiedo a tutti è di lasciarsi stupire dalla realtà. Stupore è la parola che usiamo di più».

Soddisfatto del risultato?

«Ogni tanto sto male, perché faccio un programma che non sempre coincide con la mia visione. Però, sono contento quando vedo che le persone si accostano a un’inchiesta in modo autentico, lasciandosi cambiare. Spero che questa filosofia renda anche il pubblico curioso di seguire dei racconti che non si sa già dove vanno a parare».

Enrico Lucci e Valentina Petrini, conduttori e inviati di «Nemo, nessuno escluso»

Enrico Lucci e Valentina Petrini, conduttori e inviati di «Nemo, nessuno escluso»

La differenza dalle Iene è meno denuncia e più storie?

«A volte anche Nemo denuncia, il punto è l’equilibrio. Non rinnego la mia storia di iena né penso che Le Iene siano peggio di noi. Vogliamo occupare uno spazio diverso».

Come trovate e vagliate le storie?

«Attraverso i redattori e gli inviati che vivono là fuori. Non c’è altro metodo. Proviamo a raccontare evitando la contrapposizione ideologica».

Si può raccontare la politica fuori dalla contrapposizione ideologica?

«Portando ascolti, la contrapposizione è diventata un format televisivo. Temo che abbia contagiato anche la politica e che determini la scelta degli argomenti. Quanti talk show abbiamo visto sull’immigrazione? Sul fatto che la pianura padana sia uno dei posti più inquinati del mondo, invece zero. Eppure condiziona parecchio la vita dei cittadini».

Voi avete fatto servizi su un italiano che combatte per i russi e su un altro che fa l’addestratore sul fronte anti Isis.

«La guerra è una condizione del mondo contemporaneo. Abbiamo provato a raccontarla attraverso due storie».

L’inchiesta sul racket di Ostia con la testata a Daniele Piervincenzi, le aggressioni a Vittorio Brumotti di Striscia la notizia, le indagini delle Iene sui preti pedofili. L’informazione scomoda la fanno gli intrattenitori?

«La fa chi si trova davanti alla realtà e la racconta intera. Ci sono molti giornalisti tradizionali che la fanno meglio di noi tutti i giorni».

È una forma di supplenza della magistratura, della Chiesa, della scuola?

«Il nostro è un Paese con delle zone franche. Lo Stato non può controllarle perché non si possono militarizzare intere periferie. Facciamo dei dibattiti come se fossimo in Norvegia, mentre ci sono periferie che somigliano più al Messico. Andarci mette in crisi il sistema della zona franca fondato sull’impenetrabilità. Per questo papa Bergoglio parla delle periferie: la nostra società si basa anche sull’esclusione geografica, non solo di reddito».

Come valuti l’inchiesta di Fanpage.it sullo smaltimento dei rifiuti?

«Nunzio Perrella, l’agente provocatore di Fanpage.it, è un camorrista pentito. Con lui l’anno scorso facemmo un pezzo in cui raccontava come aveva sotterrato i rifiuti nella Terra dei fuochi. Allo stesso tavolo c’era una mamma che ha perso suo figlio per un tumore causato dalle sostanze inquinanti e il prete locale. Questo è Nemo».

Autori e giornalisti televisivi sono seguiti da un agente, tu no.

«Diciamo che non riesco a venir meno alla mia autonomia. Forse è un limite. Talvolta è più facile fare un discorso editoriale con gli agenti che con i dirigenti. È la fragilità degli editori a renderli ingombranti».

Hai lavorato a Vita no profit, a Radio Capital, alle Iene, a Matrix, a Presa diretta, a Piazzapulita, a Tv2000, ora in Rai.

«Quando il linguaggio si consolida mi stanco e cerco nuove sfide».

Mediaset, Rai, La7, Tv2000: dove hai avvertito più pressioni?

«Posso dire dove ne ho avvertite meno: a Tv2000».

Com’è cominciato tutto?

«Tra i 20 e i 30 anni seguivo due strade parallele: quella di sceneggiatore e attore e quella di collaboratore dei giornali romani. A un certo punto il mio amico Marco Lillo andò a Radio Capital e mi coinvolse. Vittorio Zucconi mi affidò un talk superveloce alla Stazione Termini sul tema del giorno. Davide Parenti lo ascoltava portando a scuola suo figlio e mi chiamò. Mario Monicelli, per il quale avevo scritto la sceneggiatura di Topi d’appartamento, avrebbe voluto che scrivessi La rosa del deserto, ma io non ce l’ho fatta e a quel punto la carriera è diventata unica. Poi ho scoperto che mi piace più far fare che fare. Quando dei ragazzi trovano il loro linguaggio, anche se non sono d’accordo con me, mi gaso».

Che vantaggi hai tratto dal fatto che tuo padre è stato direttore generale della Federazione italiana editori giornali?

«Una volta mi hanno consigliato di dire che li ho avuti perché si risulta più simpatici. Ma non ne ho avuti, anche per il tipo di persona che è mio padre. Di fronte a questa domanda sono impotente. In Italia se sei figlio di qualcuno che conta è certo che sei raccomandato. Come faccio a provare qualcosa che non è accaduto? Ho sempre avuto la partita Iva e contratti annuali. Ho rifiutato l’assunzione di Tv2000. Alle Iene ero pagato a servizio».

Elio Mastella, figlio di Clemente, ti rinfacciò la paternità influente. E quando il tuo servizio non andò in onda alle Iene perché considerato poco equilibrato ti sei dimesso: è andata così?

«Fui invitato a casa da Mastella e sua moglie. Lui mi spiegò che i politici meridionali erano sopravvissuti a Tangentopoli perché avevano un rapporto diretto con la gente. Che non è la raccomandazione, precisò, ma un’interlocuzione diretta. Fuori c’era la gente che gli portava la crostata e il caciocavallo. Quel servizio andò in onda. Volevo fare un seguito dicendo che era assurdo che inquisissero la moglie di Mastella per comportamenti apertamente dichiarati. Prima che producessi il mio servizio, Skytg 24 trasmise un pezzo in cui il figlio mi accusava di essere raccomandato: la iena ienata. Le domande le aveva formulate il collega di Sky, eppure lui si rivolgeva me, ma le mie risposte non si sentivano. Preparai un pezzo che smontava l’operazione, ma non fu trasmesso. Stava cadendo il governo Prodi».

Che cos’hai tratto da quella vicenda?

«Ho capito che il cognome conta per gli uomini e il nome conta per Dio. Il problema del mio cognome consiste nell’accusa, falsa, di essere raccomandato. Il problema del mio nome si pone se racconto la realtà attraverso l’accusa. Facendo Le Iene ero ritenuto un accusatore. Sono finito nella shit room di internet. Dimettendomi ho voluto affermare la mia dignità, senza fare la vittima della censura. Più della verità, al pubblico interessa la persona messa in mezzo. Così non usciamo mai dal meccanismo di accusa e ravvedimento. Il cristianesimo è proprio il disvelamento di questo meccanismo. Con Malpelo, Beati voi e ora con Nemo tento di mettere al centro la persona intera, non negando il suo male, ma integrandolo nella realtà che la circonda. Non è facile, però ogni tanto si estrae qualcosa dal silenzio, si rintracciano dei segni».

Ti sei lasciato male con Mediaset e Parenti?

«Con Mediaset non lo so. Me ne sono andato e non sono più tornato. A Parenti voglio bene».

Definisci Davide Parenti.

«Tutti abbiamo nei suoi confronti i problemi e le incomprensioni che hanno i figli con i genitori».

Enrico Mentana?

«È l’applicazione delle Lezioni americane di Italo Calvino. Un campione dell’immediatezza. Il racconto filmato non gli interessa».

Che invece interessa Corrado Formigli.

«È ai miei antipodi, più diretto e con meno dubbi, ma anche meno ironico. È quello che mi manca di più».

Paolo Ruffini?

«Un amico. L’unico che sopporta oltre un quarto d’ora di mie elucubrazioni».

 

Paolo Ruffini, direttore di Tv2000

Paolo Ruffini, direttore di Tv2000

A Tv2000 eri direttore creativo, hai fatto Beati voi e ideato altri programmi. Esperienza finita?

«Sono sempre in contatto. Spero che riprenda se ci si mette in un ambito un po’ più ampio».

Cioè?

«Portare i contenuti su più piattaforme. Lo scoop delle Iene sui 5 stelle non è andato in onda per la par condicio eppure ha avuto enorme risonanza partendo dal sito».

La televisione che hai fatto ti appaga o c’è qualcosa che ti pungola per il futuro?

«Mi piacerebbe tornare a scrivere serie tv. La mia creatività sarebbe più rivolta all’invenzione che alla realtà. Ma si colpisce sempre il bersaglio accanto a quello che si punta».

È difficile essere cattolici in tv?

«Rifiuto la logica delle quote e delle caselle. Noto che la maggior parte delle persone pensa pensieri di altri, luoghi comuni. Tanti giovani non credono per motivi inessenziali, ma molto radicati. Mi piacerebbe parlare del Dio sconosciuto, caro a san Paolo».

Hai deciso per chi votare?

«Sì, dopo vari ripensamenti. E non sono convintissimo. Però non lo dico, per rispetto del pubblico».

Che cosa o chi ti riconcilia con la vita?

«Il sorriso di mia madre, che non c’è più».

 

La Verità, 4 marzo 2018

 

Un malinconico Santoro battuto dall’allievo Formigli

Sconfitto dal suo allievo. Malinconicamente. Battuto da Corrado Formigli, suo storico inviato fino al 2011, ora titolare di Piazza pulita su La7. Quello di Michele Santoro, l’ex conduttore più controverso della tv italiana, sta diventando un triste declino, e la faccenda dispiace. Tanto più in un momento in cui, come ha notato Carlo Freccero, consigliere d’amministrazione in Viale Mazzini, la Rai è a corto di anchorman e di proposte d’informazione autorevoli (chiuso con qualche strascico polemico Politics – Tutto è politica di Gianluca Semprini, da inizio febbraio Bianca Berlinguer prenderà il suo posto nella prima serata del martedì con Cartabianca). Ora, però, mette conto di riflettere un attimo sulla strana programmazione di questo Italia, appuntamento bimestrale con Michelone figliol prodigo. Il programma di Santoro su Rai 2 ha raggiunto il 4.16 per cento di share con 992.000 telespettatori, superato da Piazza pulita che, su una rete outsider, ha conquistato il 5.45 per cento e 1.032.000 persone. La questione delle due reti è tutt’altro che ininfluente perché, sebbene il talk di Formigli sia durato un’ora in più, ha dovuto metabolizzare un numero doppio e più robusto di break pubblicitari, com’è noto particolare non di poco conto agli effetti dell’audience. La vicenda è ancor più significativa in rapporto alla situazione dell’informazione nel servizio pubblico e alla strategia di programmazione dei palinsesti.

Corrado Formigli, conduttore di «Piazza pulita» e autore di «Il falso nemico» (Foto Corbis)

Corrado Formigli, conduttore di «Piazza pulita» e autore di «Il falso nemico» (Foto Corbis)

Dopo una prima uscita, nell’ottobre scorso, l’altra sera davanti al dirigibile di Italia si parlava di degrado delle periferie, stavolta Tor Bella Monaca fuori Roma, dopo Scampia a Napoli. Ospite in studio c’era Roberto Saviano («Rischia ormai di diventare la caricatura di se stesso», parola di Aldo Grasso), appena uscito da House party di Maria De Filippi. Certamente la persona giusta, per parlare di piccola criminalità, spaccio, racket e abbandono scolastico. Ambientati nei bassi partenopei, questi sono i temi sia di La paranza dei bambini, ultimo romanzo savianesco, che di Robinù, il documentario santoriano già uscito nelle sale cinematografiche, ma in attesa di collocazione nei palinsesti Rai. Competenze provate, dunque. E sinergie altrettanto solide. Il problema, caso mai, è un altro. Il degrado delle periferie è senza dubbio un’emergenza del Paese e perciò materia sempreverde. Ma proprio giovedì, con le indagini per gli appalti chiacchierati sfociate nell’arresto di Raffaele Marra, braccio destro di Virgina Raggi, è cominciata a salire la tensione attorno alla giunta romana. Essendo un bimestrale centrato su un lungo reportage, Santoro è stato costretto alle acrobazie per restare agganciato all’attualità. Come ha fatto nell’editoriale d’apertura dedicato al governo Gentiloni e all’albero di Natale della sindaca romana. E come ha fatto rispondendo alle critiche provenienti dai social network, girate in diretta da Giulia Innocenzi (ora che Santoro è diventato renziano, usa la microcriminalità delle periferie per attaccare la Raggi; la situazione dello spaccio e del racket viene da lontano, non può essere incolpata solo e principalmente l’ultimo sindaco). Attualità un po’ «fredda» anche con Vauro Senesi nel ruolo del responsabile casting per il presepio della politica. Nel quale la Boschi vorrebbe tornare a fare la madonnina, ma vengono respinti Gesù Renzino, Gesù Salvino, Gesù Berluschino e Gesù Grillino, imponendo la necessità di un Gesù su misura: «Pronto Nichi, dov’è che affittano uteri?» (miglior battuta della serata).

Su La7 a Piazza pulita, avendo ospite Alessandro Di Battista (bis dopo il Faccia a faccia di Giovanni Minoli di domenica scorsa), aiutato da Antonio Padellaro, Formigli ha potuto prendere di petto proprio le vicende della giunta capitolina, oltre al post referendum e al caso Mediaset-Vivendi. Da segnalare anche una lunga intervista a Marine Le Pen sui temi dell’immigrazione nel giorno in cui se ne parlava a Bruxelles tra i massimi responsabili dei Paesi europei. Insomma, stringente attualità.

Michele Santoro in una foto del 2011 con la sua ex squadra composta da Corrado Formigli, Sandro Ruotolo e Stefano Bianchi

Michele Santoro in una foto del 2011 con Corrado Formigli, Sandro Ruotolo e Stefano Bianchi

C’è da meravigliarsi se Formigli ha prevalso su Santoro alla prova degli ascolti? La notizia comunque c’è tutta perché maestro e allievo non si erano mai scontrati direttamente. Quando Michelone aveva lasciato la Rai dopo la transazione con Lorenza Lei, avviando l’esperienza di Servizio pubblico sulla multipiattaforma con il finanziamento diffuso di 10 euro, Formigli aveva accettato la proposta della prima serata su La7. Ovviamente, Michele non era stato contento. Un anno dopo, luglio 2012, con l’approdo nella rete ancora di proprietà Telecom, Piazza pulita e Servizio pubblico avevano convissuto alternandosi per qualche mese al giovedì, fino allo spostamento di Formigli al lunedì. L’altra sera lo scontro diretto: un bimestrale da una parte e un settimanale dall’altra.

Confronto impari, basta pensare all’informazione scritta. Tra un talk show settimanale con ampi servizi e un bimestrale d’inchiesta c’è la stessa differenza che intercorre tra un quotidiano d’informazione e un mensile di approfondimenti in edicola: l’attualità è sempre corsara e spiazza anche il più agile dei periodici. Se non si vuole pagare pegno all’Auditel bisogna mettere da parte l’ossequio al pedigree dei suoi (malinconici) autori. La collocazione corretta di Italia è la seconda serata.

 

La Verità, 17 dicembre 2016

La7 vola e Santoro commette due errori in un colpo

Sarà il vento del No, sarà l’aria di crisi che aleggia nel Paese dalla Roma istituzionale alle periferie meridionali disprezzate da Chicco Testa, fatto sta che La7 è improvvisamente tornata ai momenti di gloria del 2011 quando mieteva ascolti e record sulla scia della crescita grillina e della campagna per le amministrative. L’altra sera DiMartedì di Giovanni Floris ha sfiorato il 10 per cento di share e i 2 milioni di telespettatori (per l’esattezza 9,64 e 1.958.000), primato assoluto da quando esiste. Il dato risulta ancor più significativo se confrontato a quello del concorrente di Rai 3, quel Politics condotto da Gianluca Semprini rimasto inchiodato al suo malinconico livello (2,61 per cento). Cioè: la congiuntura politica non favorisce tutti indiscriminatamente, ma chi sa fare tv. L’altra sera c’era la solita fulminante copertina di Maurizio Crozza (nei panni di Renzi: «Avete fatto un unico errore, mi avete lasciato vivo: adesso sarò il vostro incubo… Nascosto dietro un MacBookPro sbucherò all’improvviso e mi riprenderò gli 80 euro») e ospiti come Pierluigi Bersani, Mario Monti, Domenico Delrio, Maurizio Belpietro. Poco prima Otto e mezzo di Lilli Gruber aveva raggiunto il 7.81 per cento di share (ospiti Beppe Severgnini, Marcello Sorgi e Andrea Scanzi) e ancor prima il tg di Enrico Mentana il 6.57. Ma al di là di numeri e programmi specifici è tutto il palinsesto della rete di Urbano Cairo a scoppiare di salute. A cominciare dalle morning news di Coffee break e L’Aria che tira, per proseguire al pomeriggio con Tagadà di Tiziana Panella (che in questi giorni ha ospitato Carlo Freccero, Ferruccio De Bortoli, Vittorio Sgarbi, Gianfranco Pasquino, Pierluigi Battista). Lunedì sera, per esempio, Lilli Gruber con Massimo Cacciari, Antonio Padellaro e Matteo Richetti aveva ottenuto il 9.23 per cento e Piazza pulita di Corrado Formigli, con le interviste a Jean Paul Fitoussi e Davide Serra, si era assestata al 7.38, facendo risultare La7 quarta rete in primetime. Il fatto è che, considerata la lentezza di riflessi della Rai, e grazie alla presenza di Mentana, ormai commentatori, opinionisti e analisti sembrano averla eletta come tribuna preferita. È la rete all talk il posto dove esprimersi e argomentare sapendo di trovare visibilità e interlocutori qualificati. Spiace che Michele Santoro non abbia colto la tendenza. E, anzi, vittima dell’involuzione che lo sta attanagliando, intervistato a La Zanzara abbia parlato di «Cnn all’amatriciana». I dati di questi giorni lo smentiscono. E alla svista si aggiunge la gaffe. Un tempo qualcosa fatto «all’amatriciana» era sinonimo, negativo, di una cosa ruspante e casereccia. Ma dopo il terremoto Amatrice è meglio tirarla in ballo diversamente.

La Verità, 8 dicembre 2016

Mentana, polveriera La7, repliche e controrepliche

Adesso La7 è una polveriera. Una rete molto articolata, frazionata in cordate. Adesso, dopo l’intervista di Enrico Mentana al Fatto quotidiano di domenica scorsa. Adesso, dopo che il premier ha intimato ai fedelissimi di non andare ospiti di quei tre, Giovanni Floris, Lilli Gruber e Corrado Formigli finiti nella lista di proscrizione. Di solito, in questi casi, si fa squadra. Uniti e compatti, giornalisti ed editore da una parte, potere politico dall’altra. Non era mai accaduto prima, a La7, che un volto pur molto rappresentativo, il direttore del tg, criticasse i colleghi, conduttori di talk e programmi di approfondimento della stessa rete. Invece, sopra il carico da 90 di Renzi, Mentana ha aggiunto il suo: «Renzi ce l’ha con La7 e un po’ ha ragione: troppi fan del No».

Alcuni volti dei talk show di La7. Nell'intervista al «Fatto quotidiano» Enrico Mentana ha definito «ingombranti» alcuni di loro

I volti di La7. Nell’intervista al «Fatto» Enrico Mentana ha definito «ingombranti» alcuni di loro

Nessuno lo ammetterà mai, ma non tira una bella aria nelle redazioni della rete di Urbano Cairo. «Io non credo ci sia un veto nei confronti di Piazza pulita», sostiene Formigli. Come no? All’ultima puntata doveva venire Simona Bonafè… «Sì, e ha disdetto senza motivare. Tuttavia, mi auguro che tutto torni normale. Stiamo facendo le riunioni per giovedì, non abbiamo ancora deciso, ma rinnoveremo gli inviti. Renzi è invitato fin dalla conferenza stampa. Può venire sempre, visto che manca da molto tempo nei nostri studi. Tuttavia, non voglio farmi ammorbare da queste polemiche e dal referendum. Gli italiani hanno altri problemi prima dell’abolizione del Senato. Noi facciamo il nostro lavoro giornalistico, il programma è in crescita (media del 5,23 per cento ndr). Detto questo e premesso che non credo al veto, se ci fosse andrebbe spiegato. Ai telespettatori, prima che a me. Sarebbe antipatico se restasse sotterraneo». Chissà.

Nell’intervista di domenica Mentana non ha saputo dire se il rapporto tra il premier e La7 sia «rovinato o compromesso, di sicuro il presidente del Consiglio, martedì scorso, ha visto la trasmissione di Floris e non c’è stata una corrispondenza d’amorosi sensi». Poi ha aggiunto, tentando di «illustrare le ragioni del premier. Perché siamo arrivati sull’orlo dell’incidente di frontiera? Per la vera asimmetria di questa battaglia, che non sta tanto nell’eterogeneo fronte del No… ma nel ruolo attivo di molti nostri colleghi: pienamente legittimo, e però ingombrante».

Urbano Cairo, editore di La7 e ad di Rcs che pubblica «Il Corriere della Sera»

Urbano Cairo, editore di La7 e ad di Rcs che pubblica «Il Corriere della Sera»

Boom e bocche cucite. Anche Formigli, giustamente ciarliero nel raccontare il buon andamento del suo programma, richiesto di un commento sull’intervista del direttore del tg si trincerà dietro il «no comment. Non sono abituato a commentare le interviste dei colleghi. Ognuno è libero di esprimere il proprio pensiero». E ci mancherebbe. Però, una volta chiamati in causa… «Non mi sento chiamato in causa», chiude Formigli. Anche dalle parti di DiMartedì, forse il più «ingombrante» dei talk, finito nell’occhio della fatwa renziana e, pure, in crescita di ascolti (media stagionale del 6,46 per cento), vige la consegna del silenzio. Quanto a ingombri non scherza nemmeno Otto e mezzo di Lilli Gruber (6,66 per cento medio, in crescita). Anche perché ultimamente si è venuta evidenziando una certa rivalità tra il direttore del tg (media stabile al 6,02 per cento) e la conduttrice del talk che lo segue. Un salutare duello tra giornalisti, tutto interno alla campagna referendaria, di cui si avvantaggiano i telespettatori, oltre che l’editore. Una quindicina di giorni fa Lilli Gruber è stata la prima ad allestire il faccia a faccia al fulmicotone tra Renzi e Marco Travaglio. Qualche giorno dopo Mentana ha proposto il gran confronto tra Renzi e Gustavo Zagrebelsky con notevole successo di ascolti (8,04 per cento). Venerdì scorso, invece, con la complicità indiretta di Matteo Salvini che ha a lungo stuzzicato Maria Elena Boschi sui social network, Lilli è riuscita a mettere uno di fronte all’altra il segretario della Lega e il ministro per le Riforme costituzionali. Dando in un sol colpo un «buco» al boicottaggio appena inaugurato e a Mentana. Il quale, a quel punto, ha sapientemente rinunciato al suo Si o No?.

Tutto bene, dunque? Sì, se non fosse stato per quell’ultima, inusuale, intervista al Fatto quotidiano. Piuttosto strano che un giornalista autorevole come Mentana senta l’urgenza di «illustrare le ragioni del premier». Certamente, l’avrà fatto prima di tutto per il bene di La7. Ma forse anche per il suo, pensa qualche maligno. Chissà che cosa succederà in Rai dal 5 dicembre, se Renzi dovesse vincere il referendum…

 

La Verità, 11 ottobre 2016

 

Nel corso della giornata il sito Dagospia ha ripubblicato questo articolo uscito sulla Verità. Ma un’ora più tardi Enrico Mentana ha mandato una precisazione, prendendo le distanze dalla titolazione del Fatto quotidiano. In risposta, Dagospia ha ripubblicato alcuni brani dell’intervista consentendo di confrontare il tenore della stessa con la titolazione. Che, anche a mio avviso, nella necessaria sintesi, è rispettosa del pensiero espresso dall’intervistato.

 

 

 

 

 

De Angelis studia da Travaglio a Piazzapulita

Il tono è quello aggressivo-inflessibile del “giornalista scomodo”, figura mitica dei talk show di tendenza. Si sa, i programmi di approfondimento hanno ruoli definiti come le commedie. Alessandro De Angelis, firma politica dell’Huffington Post, è ospite fisso di Piazzapulita di Corrado Formigli su La7. Qualche settimana fa assurse agli onori della rissa verbale con Gianni Alemanno (“Nei suoi interventi manca la parola scusa ai romani. Lei o è complice o è incapace”. “Io ho commesso degli errori e mi scuso con i romani, ma per un anno mi hanno dato del mafioso sui giornali e nessuno si è scusato con me”), ieri ha ricostruito il conflitto d’interessi di Maria Elena Boschi e della sua famiglia come una Spectre etrusca. Il piglio vuol essere quello del castigatore alla Marco Travaglio. Forse più dentro le cose della politica e gli spifferi del Transatlantico, ma meno proiettato sul fronte della giustizia. Soprattutto, meno abrasivo del direttore del Fatto quotidiano.

Che cosa farà Simona Ventura Simona Ventura qua, Simona Ventura là. Che farà Simona Ventura? L’inviata all’Isola dei Famosi. No, la concorrente del reality. Oppure ballerà per Milly Carlucci su Raiuno, tanto più se dovesse esserci tra i concorrenti anche Stefano Bettarini, reduce dalla rottura con Ilenia Iacono. Chi riavvicina nello stesso programma l’ex coppia d’oro del fossip fa il colpo. Ma l’ipotesi di Ballando con le stelle sembra quella più praticabile. Dopo le critiche alla conduzione di Alessia Marcuzzi e altre varie punture dirette verso il mondo Mediaset, per Supersimo non tira una gran aria a Cologno. Dove invece si sente parlare di Pamela Prati e dello stesso Bettarini come due probabili naufraghi.

Floris chiude in sorpasso Aveva una lista di ospiti lunga come le convocazioni della Nazionale, Giovanni Floris per l’ultima puntata dell’anno di diMartedì (da Maurizio Landini a Lorena Bianchetti, da Maurizio Belpietro a Paola Marella oltre a Enrico Letta e padre Enzo Bianchi) e così accompagnato ce l’ha fatta a chiudere la stagione con il sorpasso su Ballarò: 6,75 per cento contro il 5,86 del programma di Massimo Giannini. Il bilancio complessivo di quest’autunno è 8 vittorie per Ballarò contro 6 di diMartedì che, però, porta la media stagionale al 5,31 per cento, +21 rispetto allo stesso periodo del 2014.

Che fine fanno l’amica di Gubitosi e il marito della Lorenzin? Le nomine sono rinviate a gennaio (prossimo consiglio d’amministrazione il 13/1), ma qualcosa si muove lo stesso in Rai. Qualche giorno fa, oltre ad approvare il budget finanziario per il 2016, a nominare capo della nuova divisione security Genseric Cantournet, ex capitano della gendarmeria francese, il Cda di Viale Mazzini ha deciso la creazione di un’unica macroarea “Comunicazione, Relazioni Esterne, Istituzionali e Internazionali”, nata dalla fusione delle “Comunicazione e Relazioni Esterne” e “Relazioni Istituzionali ed Internazionali”. Il responsabile non dovrebbe essere una figura giornalistica, ma di marketing. Che fine faranno Costanza Esclapon, voluta in Rai e più volte promossa da Gubitosi, e Alessandro Picardi, marito di Beatrice Lorenzin, direttori delle due strutture accorpate?

Buffa & Tranquillo: the reunion Il popolo dei social è già in subbuglio. Del resto, quando Federico Buffa abbandonò le telecronache della Nba si scatenò una rivolta. Ora che si vocifera della reunion con Falvio Tranquillo per il giorno di Natale, il tam tam è ripartito. Dopo oltre due anni dall’ultima telecronaca la coppia si riforma per We Love This Game, racconto di un’amicizia cresciuta a bordo parquet che diventa un viaggio lungo tre decenni fatto di storie di basket americano e dei suoi campioni. In onda il 25 alle 21 su Sky Sport 1 HD. Chissà se resterà uno speciale una tantum.