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L’autunno dei flop Rai nato con la riforma Fuortes

L’autunno dei flop. Verrà ricordata così questa stagione dalle parti della tv pubblica, sulle sorti della quale, sotto l’altisonante intestazione «Stati generali della Rai», oggi e domani esperti e analisti si eserciteranno alla ricerca della formula magica per liberarla dal controllo della politica (non sbellicatevi). Alcuni programmi sono già malinconicamente caduti al suolo per inesistenza di pubblico. L’altra Italia di Antonino Monteleone (Rai 2) ha chiuso, mentre di Se mi lasci non vale di Luca Barbareschi (Rai 2) ieri sera è andata in onda l’ultima puntata. Altri, come Lo stato delle cose di Massimo Giletti (Rai 3) e La confessione di Peter Gomez (Rai 3) penzolano dai rami come foglie esposte al vento. Probabilmente sopravviveranno, malgrado l’esiguità delle platee affezionate, raramente sopra il 4% di share. Attenzione, non si sta parlando della débâcle di fuoriclasse della televisione italiana. Non hanno clamorosamente floppato Michele Santoro o Giovanni Minoli, guardando al passato, Enrico Mentana e Bruno Vespa, per stare al presente. No, in fondo, con l’eccezione di Giletti, si tratta di figure non ancora consacrate che registrano una battuta d’arresto nel loro percorso.
Chi soffre maggiormente l’autunno freddo del pubblico è la Rai stessa, nel suo complesso. Dalla sua cattedra, Aldo Grasso ha prospettato tre ipotesi fra le cause dei tonfi. La difficoltà a fare programmi di successo in un contesto mediale in evoluzione, l’incapacità dei dirigenti scelti dalla destra di governo e, tra il qui lo dico e qui lo nego, la mediocrità dei conduttori citati. Inutile dire che giornaloni e siti antigovernativi hanno sposato la tesi più facile: tutta colpa di TeleMeloni. Che, in fondo, è un modo più brutale di attribuire i flop all’incapacità dei dirigenti scelti dalla destra. Probabilmente, qualcosa c’è, e ci arrivo tra un po’. Ma forse si tratta solo di un concorso di colpa a una causa strutturale che viene da lontano. Mi riferisco alla famigerata riforma per generi della Rai. Quella ideata nel 2019 dall’allora amministratore delegato Fabrizio Salini e concretamente attuata dal suo successore Carlo Fuortes in pieno governo Draghi. Perché anche nella tv pubblica vigono le formule e le tempistiche valide per politica. Palazzo Chigi e Viale Mazzini ereditano quello che lasciano i governi e le governance precedenti. Se i dirigenti apicali, dall’amministratore delegato Giampaolo Rossi al direttore generale Roberto Sergio, i direttori delle testate e delle strutture produttive sono stati definiti – non tutti, eh! – da questa maggioranza politica, l’attuale assetto produttivo della Rai è nato con la riforma dei generi. Una riforma che sta palesando tutti i suoi limiti, mentre i pregi rimangono molto presunti o impliciti. Con la creazione delle strutture produttive orizzontali che forniscono intrattenimento, fiction, cinema, approfondimenti, documentari, sport e cultura sono state abolite le reti e la suddivisione verticale che comportavano.

In un intervento pubblicato dal Fatto quotidiano nel novembre 2021 significativamente intitolato «Fine delle trasmissioni» Carlo Freccero si chiedeva che cosa avrebbe prodotto il nuovo piano editoriale? «La fine della televisione generalista e l’affermazione della logica delle piattaforme, grandi “magazzini” indifferenziati di prodotti omologati», si rispondeva nella sua proverbiale visione apocalittica l’ex direttore di Rai 2. Con la creazione delle aree produttive per genere sarebbero sparite «le strutture che differenziano la tv tradizionale dagli altri media e da altri contenitori». Da «primo editoriale delle reti» e «scansione della vita sociale», il palinsesto sarebbe diventato «l’esposizione del magazzino», un serbatoio «di materiali interscambiabili e, come tali, privi di una specifica destinazione».

È esattamente ciò che sta accadendo. L’abolizione delle reti ha estinto le rispettive linee editoriali corrispondenti alle diverse identità culturali delle reti stesse, in favore di una proposta di televisione liquida, indistinta, da pensiero debole. Non esistendo più il direttore di rete, viene a mancare il confronto quotidiano tra i conduttori e il responsabile del palinsesto. Mancano gli aggiustamenti, le correzioni, il work in progress. Per fare un esempio, un direttore di Rai 2 che negli anni, al giovedì sera che fu di Michele Santoro, ha visto stentare o chiudere in anticipo Virus di Nicola Porro, Nemo di Enrico Lucci, Popolo sovrano di Alessandro Sortino, Seconda linea di Francesca Fagnani e Alessandro Giuli e Che c’è di nuovo di Ilaria D’Amico avrebbe bruciato in quella serata già presidiata da Diritto e rovescio su Rete 4 e Piazzapulita su La7 l’ex Iena che fino ad allora non aveva mai condotto un programma in proprio? O magari l’avrebbe fatto crescere in altri giorni o in altre fasce orarie? E, in fondo, questo non è un errore simile a quello commesso un anno fa con Nunzia De Girolamo, catapultata senza esperienza giornalistica e familiarità con il pubblico di Rai 3 al timone di Avanti popolo in una serata già satura di approfondimenti come il martedì? E sempre parlando di consuetudine con i telespettatori, che dire della prevedibile fatica di Giletti su Rai 3 con Lo stato delle cose? A differenza delle piattaforme, con la loro fruizione in streaming, cui il consumatore attinge come agli scaffali del supermercato prelevando i prodotti a sua scelta, la tv generalista implica un rapporto più caldo e propositivo tra editore e telespettatore.

Ora tornare indietro non è facile. Però, forse, è il caso di cominciare a riflettere. Non si costruiscono successi a dispetto dei target. Come i giornalisti non possono essere trattati da tassisti usandoli per dire ciò che preme ai dirigenti senza accettare il confronto, così i programmi e i palinsesti non sono interscambiabili. E i conduttori non sono figurine da spostare a piacimento. Per quanto possa sembrare paradossale e romantico, pubblico, conduttori e reti hanno un’anima, una storia e un’identità che vanno rispettate e valorizzate. Per costruire un coro a più voci che soddisfi le diverse platee. L’alternativa è una televisione anonima e impersonale prossima alla resa allo strapotere delle piattaforme globali.

 

La Verità, 6 novembre 2024

«Perché la Rai penalizza un format come O anche no»

Paola Severini Melograni: una donna, un ciclone. La intercetto mercoledì 11 settembre, anniversario dell’attacco alle Torri gemelle. «Quel giorno ero con Piero (Melograni ndr). Lo chiamarono dal Sole 24 ore per chiedergli di scrivere l’editoriale». Attivista per i diritti umani, scrittrice e giornalista televisiva e radiofonica, direttrice dell’agenzia Angelipress.com, portale di cultura e informazione sociale, figura cardine del Terzo settore, Paola Severini Melograni ha ideato e conduce O anche no, la prima trasmissione «sulla disabilità positiva» di cui racconta scena e retroscena nell’ultimo saggio intitolato O anche no. Da vicino nessuno è normale (Castelvecchi editore). «L’altro giorno, quando è morta Clio Napolitano, moglie di Giorgio, il Corriere della Sera ha scritto che non ha mai concesso interviste. Errore: l’unica l’ha data a me, per il mio libro Le mogli della Repubblica, pubblicato da Baldini e Castoldi Dalai nel 2006 e poi ripubblicato da Marsilio. Anche Carla Pertini la sua unica intervista la concesse a me».
Come ci sei riuscita?
«Si fidavano».
Apprezzavano la tua incoscienza?
«No, perché?».
Mi son fatto l’idea che ami le cose complicate: per esempio, il tuo matrimonio con Antonio Guidi, ex ministro per la Famiglia del governo Berlusconi.
«Non era complicato perché lo amavo».
Te ne innamorasti a 14 anni, lui ne aveva 26 ed è nato con la tetraparesi spastica.
«Certo, in quegli anni era difficile. Ma io non ho visto la tetraparesi spastica, ho visto lui».
Lo sposasti da minorenne.
«A 17 anni, con la dispensa papale».
Non è una cosa complicata?
«Sono cattolica apostolica romana e per me era importante sposarmi in chiesa. Non mi è sembrato di fare niente di speciale. Sì, i miei genitori hanno sofferto parecchio. Non perché Guidi era spastico, ma perché io ero giovanissima. Mio padre era un medico cattolico, una delle persone più buone al mondo che abbia conosciuto».
Quando l’hai vista in azione questa bontà?
«A tavola c’era sempre un posto in più per qualcuno bisognoso che avrebbe potuto mangiare con noi. Mio padre era un cardiologo con un sacco di specializzazioni, ma si occupava di certi vecchi boxeur un po’ rintronati. Ce n’era uno finito a vendere saponette in Piazza San Pietro».
Si può dire che l’attenzione agli ultimi l’hai imparata in casa.
«Quando morì Giovanni XXIII andammo al funerale in Piazza San Pietro, mio padre mi tenne tutto il giorno sulle spalle. Aveva una fede cristallina. Seguiva le congregazioni religiose, anche i frati maroniti che avevano una sede in Italia ma erano libanesi. Allora lui, le ricette pro bono le scriveva in latino».
I tuoi genitori soffrirono quando tu e Guidi divorziaste?
«Erano già morti, mamma se ne andò a 46 anni, papà a 53. Fu Guidi a lasciarmi nel 1997, per me il matrimonio è un sacramento. Avevamo tre figli e io l’ho amato tanto anche se mi ha fatto parecchio male».
È stata l’esperienza privata più complicata o ce ne sono altre?
«La mia vita privata è tutta complicata. Vivo con persone molto malate. I primi Ladri di carrozzelle, che seguo da 30 anni, sono tutti morti. Uno si è suicidato, è per me è stata una cosa tremenda. Ho avuto grandi dolori e grandi difficoltà. Vivo tra gente che muore, per questo amo la vita e me la godo ogni secondo proprio perché sto tra gente che soffre. Dico grazie ogni mattina che mi sveglio».
La relazione con Melograni fu più semplice?
«Era un uomo di grandissima cultura. Conoscitore e amante della musica. Mi portava la colazione a letto. Con lui sono stata felice».
Ma non era credente.
«Diceva di non aver mai conosciuto tanti preti come da quando stava con me. Faceva lunghe discussioni con il cardinale Georges Cottier. Frequentava Gian Franco Zizola, grande vaticanista, era amico di Giuseppe Di Leo, la firma di temi religiosi di Radio radicale. Prima di morire chiese di avere un congedo religioso perché “il funerale laico è tanto triste”. Nella chiesa addobbata di melograni, risuonò Tutto il mondo è burla, dal Falstaff. A quel punto sono sicura che si è avvicinato e, per ciò che manca, ci pensano le mie preghiere».
Anche tu sei vicina al mondo radicale?
«Ero molto amica di Massimo Bordin. Vado spesso in carcere con l’associazione Nessuno tocchi Caino, è l’unica tessera che ho».
Cattolica e vicina ai radicali, altra complicazione?
«I radicali sono persone libere e io voglio bene a loro e li rispetto, nessuno mi ha mai chiesto di rinunciare alle mie convinzioni. Anche perché non lo farei».
Sulla vita e il fine vita sono poco conciliabili con quelle dei radicali.
«Personalmente la penso come la Chiesa cattolica che è contro l’accanimento terapeutico. La parte dei radicali che lotta per le persone disabili che vogliono vivere per me è molto importante».
E sull’inizio vita?
«Sono antiabortista, ma questo è ovvio e non mi impedisce di lavorare anche con loro».
Perché sei attratta dalle cose complicate.
«Forse. Ma non possiamo semplificare a tutti i costi la vita. Ho intervistato don Giorgio Ronzoni, prete a Santa Sofia a Padova, che ha avuto un ictus gravissimo e fa ancora il parroco muovendo tre dita su un joystick. Mi ha detto che rispetta chi decide di lasciare la vita. Bisogna mettersi ognuno nei panni degli altri».
Ti piace camminare sul ciglio del burrone.
«Don Oreste Benzi diceva che le cose belle prima si fanno e poi si pensano. Ecco, io forse ci penso dopo».
In Rai ti occupi di sociale, salita con pendenza elevata?
«La Rai è un grande problema perché non ha capito che questo è un Paese di vecchi e di disabili. E non ha capito che il suo pubblico è composto da poveri, perché i ricchi vedono Netflix, vanno a teatro e ai festival. Perciò, la gente che paga il canone ha diritto a un cibo per la mente migliore di quello che attualmente le danno».
Un Paese di vecchi e disabili non è confortante.
«Da un certo punto di vista sì perché un tempo vecchi e disabili morivano prima».
Il tuo impegno sociale in Rai è cominciato dall’ospitata di Ezio Bosso al Festival di Sanremo di Carlo Conti?
«Dal punto di vista personale è cominciato nel 1970 quando ho conosciuto Guidi. Sul piano dello spettacolo l’esplosione è avvenuta con Bosso all’Ariston».
Boom di ascolti.
«Esatto. Da lì ho iniziato il mio programma su Rai 2 grazie a Carlo Freccero e in questo momento sto parlando dall’aeroporto di Fiumicino dove, grazie all’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile ndr), vedo le nostre trasmissioni scorrere sugli schermi delle Sale amica davanti agli imbarchi».
L’anno dopo Bosso portasti a Sanremo i Ladri di carrozzelle, meno boom di ascolti?
«No, più ascolti perché Carlo Conti li fece cantare all’apertura della serata finale di quell’edizione».
Ovviamente sarai contenta che a Sanremo torna Conti.
«Felice. Dopo di lui ho visto i disabili esibiti come fiore all’occhiello o per pietà. Per esempio, Paolo Palumbo, malato di Sla, al Festival del 2020, come scrivo nel libro, non è stata un’esperienza entusiasmante».
Ora i Ladri di carrozzelle sono protagonisti di O anche no, la rubrica che conduci da cinque anni.
«Dal settembre 2019, prima su Rai 2, ora su Rai 3».
L’handicap fa audience?
«Dipende da ciò che si vuole dimostrare. Sicuramente una parte del successo di Andrea Bocelli è dovuto al fatto che è cieco. Ma poi è anche molto bravo, bravissimo. Guidi diventò ministro perché era disabile, ma poi era anche bravo. Non si può bluffare in tv perché è un’enorme lente d’ingrandimento. La mia storia d’amore con la Rai dura da 39 anni, ma le storie d’amore possono finire. Karl Popper diceva che la televisione può essere anche una buona maestra. Io ho cresciuto una squadra con la quale indichiamo una strada. La Rai dovrebbe ritrovare le radici solidali come quelle che mostrava il maestro Alberto Manzi».
Sei soddisfatta di come ti tratta?
«Neanche un po’. La Rai ci sopporta perché facciamo parte del contratto di servizio. Il mio più grande desiderio è che qualcuno punti su di noi, che creda nel nostro lavoro. Poi, magari, mi rimproveri se sbaglio. La gente ama questa visione perché sa che è il futuro. Quanti vecchi avremo tra dieci anni? In quante famiglie c’è un disabile? L’attenzione alla disabilità e alla povertà dev’essere la mission del servizio pubblico. L’unica volta che siamo andati su Rai 1 con uno speciale abbiamo fatto l’8,5% di share. A luglio e agosto nessun giorno di vacanza perché ci sono io, un autore e una collaboratrice ai testi. In Rai esistono programmi con 14 autori».
Perché tre anni fa non sei diventata presidente della Rai?
«Bisogna chiederlo a chi ha scelto Marinella Soldi, si è visto cos’ha fatto in tre anni. Ha usato la Rai come suo ufficio di collocamento».
Hai subito lo stop di qualcuno?
«Più di qualcuno. Però è stata una bella esperienza competere, perché si impara sempre molto».
Com’è andato Stravinco per la vita, il talk sulle Paralimpiadi?
«Benissimo, ha avuto un picco del 5,1%. Il rapporto qualità spesa è ottimo perché tutti gli ospiti sono venuti gratis. È facile fare talk a 100.000 euro a ospite. Noi abbiamo avuto Eraldo Affinati, Ferruccio De Bortoli, il ministro dello Sport Andrea Abodi, Davide Casaleggio, solo per citarne alcuni. Abbiamo parlato di tutti i temi del sociale, del progetto di Crazy for football. Mi ha chiamato Santo Rullo, il medico psichiatra che ha costruito la nazionale di calcio dei matti…».
Non sei contenta di O anche no?
«Certo, ma vorrei andare su Rai 1. Eduardo diceva che gli esami non finiscono mai, io penso di essere laureata. Però ci mandano in onda in contemporanea con la Messa che ha il mio stesso pubblico».
Chi?
«Rai 3».
Rai 3 o qualcun altro?
«Qualcun altro. Se mi metti contro la Messa mi ammazzi. Quando mandi l’unico programma sociale di servizio pubblico proprio nell’orario della Messa domenicale è chiaro che è una scelta voluta».
In che cosa consiste la convenzione con l’Enac?
«Permette ai disabili di volare da soli. Sono molto contenta di averla stipulata, ma lo sarei di più se l’avesse firmata la Rai, non Paola Severini Melograni».
La prossima cosa complicata sulla quale ti cimenterai?
«Il 27 e 28 settembre, insieme agli eredi della comunità di don Pierino Gelmini, faremo il primo Festival del calcio comunità educante. Sarà un esperimento per capire se e come, attraverso il calcio, si può cambiare la vita di tanti ragazzi. Vi parteciperanno le “squadre special”, composte soprattutto da ragazzi con lo spettro autistico. Se andrà bene, lo ripeteremo ogni anno».

 

La Verità, 14 settembre 2024

De Martino bravo ragazzo dribbla le critiche e vince

Occhi puntati e puntuti su Stefano De Martino, debuttante ad Affari tuoi (Rai 1, ore 20,35, tutti i giorni). Raccoglie un’eredità pesante. Non è abbastanza testato nella conduzione di strisce quotidiane. È giovane. L’ha voluto lì Arianna Meloni, è stato scritto e smentito. Ma ormai, di questi tempi, per la qualunque #hastataArianna. E quindi, accoglienza tiepida se non ostile da parte della stampa qualificata. Poi però, delle dicerie e dei retroscena più o meno inventati, il pubblico mostra bellamente di fregarsene e premia l’esordiente che, pure, qualche misura deve ancora prenderla e non potrebbe essere diversamente. La media degli ascolti è nettamente superiore a quella di Amadeus, predecessore e transfuga, che un anno fa aveva resuscitato il format di Endemol Shine Italy (gruppo Banijay), portandolo nel corso della stagione a picchi notevoli, della cui scia gode ora lo stesso De Martino.
Per il resto, trova le differenze. Dalle giacche glitterate siamo passati alla camicia bianca con cravattino. Dallo smartphone per il ping pong con il Dottore, al telefono classico con l’analogica cornetta. Dalla conduzione narrativa in stile comedy a quella più «empatica» (pardon!) e galvanizzante, con partecipazione attiva del pubblico. Neanche a dirlo, l’ex ballerino di Amici promosso conduttore da Carlo Freccero, ha tutto il diritto di essere sé stesso, tanto più che per la prima volta si cimenta con un programma in solitaria. Nei precedenti Bar Stella e Stasera tutto è possibile c’era sempre una banda di complici con cui triangolare e a cui lasciare ampi spazi. Qui lo show e il ritmo li fa lui. E forse a questo serve il dinamismo girovago all’interno dello studio. Bisogna alimentare e tener viva l’adrenalina della suspense fino al climax finale nel crescendo di quasi un’ora (forse troppo; ma le ragioni dell’audience e degli sponsor continuano a prevalere su quelle del pubblico che preferirebbe anticipare l’inizio del prime time). E allora De Martino e i suoi autori sembrano aver scelto lo spartito linguistico del calcio, nazionalpopolare per eccellenza. Il pubblico dello studio tifa sonoramente e accompagna gli spacchettamenti. «E andiamo!», commenta lui quando sono favorevoli ai concorrenti. Oppure: «Bella partita, partita sudata». Da buon napoletano, non disdegna di aggiungere ogni tanto il pepe di qualche bluff al momento dell’apertura. Tutto sommato, è una conduzione abbastanza tradizionale. Man mano che, con il passare del tempo, il debuttante si sentirà più padrone della scena diventerà più creativa.

 

La Verità, 13 settembre 2024

Il pioniere Berlusconi, uomo del fare prepolitico

Il pioniere Silvio Berlusconi. L’innovatore. Il rivoluzionario che ha cambiato i mondi nei quali ha agito. Il 4 ottobre 1990 si festeggia il decennale di Canale 5. Berlusconi è giovane, ha i capelli e il sorriso flash. Lo smoking è impeccabile. L’occasione è importante e l’intervista a tutto campo di Mike Bongiorno viene trasmessa nella rete ammiraglia. Tu ti occupi di tante cose, gli dice Mike snocciolando l’elenco dalla tv al calcio, dall’edilizia all’editoria. «Non hai mai fatto un pensierino alla politica?». «Io sono un uomo del fare, quindi lasciami fare il mestiere che so fare bene che è quello dell’imprenditore». È l’inizio di Il giovane Berlusconi, la docuserie in tre episodi visibile da ieri su Netflix. Prodotta da B&B Film, in coproduzione con Gebrueder Beetz e la franco tedesca Zdf Arte, scritta da Matteo Billi e Piergiorgio Curzi con la regia di Simone Manetti, è uno dei documenti più completi per capire chi sia stato davvero il fondatore della Fininvest, il grande editore, l’inventore di Milano 2, il patròn più vincente del calcio italiano, il creatore di un partito che in pochi mesi ha vinto le elezioni politiche di un Paese allo sbando.
Il pioniere, recita la Treccani, «è il primo o fra i primi a lanciarsi in una iniziativa o a diffondere un’idea, aprendo nuove possibilità di sviluppo». Ritraendolo così, la docuserie scava e racconta senza pregiudizi, grazie all’intelligenza, la ricchezza e la pertinenza delle tante testimonianze raccolte. «Lui è stato più bravo, più charmant», sintetizza Fedele Confalonieri.
L’epopea berlusconiana comincia da Milano 2, il quartiere che abolisce i semafori e cambia il modo di abitare. Berlusconi è ossessionato dalla perfezione. Ogni venerdì va a controllare i cantieri. «Una volta l’ho visto sradicare un lavandino con le sue mani e buttarlo per terra», racconta Marcello Dell’Utri: «Questo non va qui, va lì». Per far acquistare due palazzi di Milano 2 all’inavvicinabile dirigente di un ente romano sommerge di rose rosse la segretaria, che lo avvertirà del viaggio del dirigente al Nord e gli prenoterà sul treno il posto di fronte a quello del suo capo. Nella cittadina satellite si installa la tv via cavo e quando l’etere viene liberalizzata, l’immobiliarista Berlusconi «vede» un’emittente locale, TeleMilano 58, con ambizioni nazionali. Sintetizza Vittorio Dotti: «La televisione è tutto ciò che c’è intorno alla pubblicità». Ad Adriano Galliani, invitato a cena ad Arcore, chiede a bruciapelo: «Ma lei, con la sua azienda (Elettronica industriale ndr), sarebbe in grado di costruire tre televisioni nazionali?». L’idea rivoluzionaria è il pizzone, cassette da 24 ore pre-registrate con programmi e pubblicità spedite nelle tv locali collegate. Nasce Publitalia 80. Qualche anno dopo, a Carlo Freccero, allora direttore di Canale 5, dice: «Devi fare un palinsesto che imprigioni il pubblico alla televisione». La Rai propone telefilm singoli, Dallas fidelizza. «La cosa interessante», prosegue Freccero, «è che J. R. era la controfigura di Berlusconi». La controprogrammazione sono i Puffi opposti al telegiornale. La Fininvest acquisisce Italia 1 da Rusconi, ma l’osso duro è Rete 4 di Mondadori. Nel weekend che precede l’accordo che abolisce gli sconti, li usa per rastrellare più investitori possibile. Quando Luca Formenton rientra dal fine settimana si arrende.
«Berlusconi vuol essere americano», spiega Freccero. «La differenza dall’Europa è nel verbo ausiliare. In America è to do, in Europa è essere: Berlusconi è l’uomo del fare, vincente». Tuttavia, un privato con tre televisioni spaventa. Il pretore di Pescara decide di oscurarle perché non possono trasmettere in diretta. «Noi non trasmettiamo in diretta, ma in contemporanea», precisa Bongiorno. Pino Corrias: «Berlusconi forza le leggi». Inizia la rivolta dei Puffi. Bettino Craxi fa riaccendere le tv. E prepara la strada per sbarcare a La Cinq convincendo Francois Mitterand («Fu l’unico scontro che ebbi con lui», rivela Jack Lang, ex ministro della Cultura). Berlusconi la inaugura nel febbraio 1986 con Charles Aznavour, Michele Platini e Serge Gainsbourg, qualche giorno dopo aver firmato l’acquisto del Milan. Anche nel calcio punta al traguardo più alto. Il «Berlusconi sei una bella figa» che gli urla un fan in quel periodo  di successi «è la sublimazione della sua vanità» (Gigi Moncalvo). Non tutto però va bene. La Standa che avrebbe dovuto diventare «la casa degli italiani» fallisce. Scoppia Tangentopoli. Due istituti bancari che avevano sostenuto l’espansione del gruppo chiedono il rientro dei crediti. Incalzano le inchieste giudiziarie. Confalonieri è indagato, Dell’Utri a rischio arresto. Si arriva alla sera delle monetine all’Hotel Raphael contro Craxi. Nel crollo generale dei partiti solo il Pci rimane in piedi. Avrebbe sicuramente vinto le elezioni del 1994. Senza il suo referente politico, Berlusconi capisce che ha solo una strada davanti. Creare un partito. Confalonieri azzarda: «Dell’Utri sta a Berlusconi come San Paolo sta a Gesù Cristo. È uno splendido esecutore». Per creare Forza Italia ricicla da Publitalia la struttura, da Canale 5 lo stile, dal calcio l’appartenenza. Poche settimane prima del voto Giovanni Minoli lo intervista per Mixer: «Le piacerebbe fare il presidente del Consiglio?». E Berlusconi corregge la risposta di quattro anni prima a Mike Bongiorno: «Quando ho sentito che una cosa dev’essere fatta non mi sono mai tirato indietro». Al duello in tv con Enrico Mentana, «Berlusconi era luminescente, con la spilla che emanava bagliori. Occhetto era opaco, con il vestito color nocciola» (Corrias). «Noi facevamo ancora la politica dei comizi, invece era già cominciata la politica della percezione», ammette Achille Occhetto.
«Il tema è questo», premette Minoli. «Tu puoi fare il presidente del Consiglio essendo proprietario di tre televisioni private?». Si chiude con il giuramento da presidente del Consiglio. Anche per raccontare il successivo trentennio politico, con le debolezze e le difficoltà note, servirebbero occhi di testimoni e linguaggio da documentario senza pregiudizi.

 

La Verità, 12 aprile 2024

«Pier Silvio vuole riuscire dove Silvio non ha potuto»

Saggista, massmediologo, direttore di reti tv del servizio pubblico in Italia e in Francia, Carlo Freccero è l’uomo che ha realizzato la televisione di Silvio Berlusconi, il patriarca che non c’è più.

Che cosa pensa della nuova Mediaset nella prima stagione senza il fondatore e con il governo di destra? Che cosa pensa delle mutazioni introdotte dal figlio Pier Silvio, amministratore delegato dell’azienda?

«Premetto che la mia analisi è esclusivamente tecnica, da autore televisivo. Ben, c’è una tv prima della scomparsa del re Silvio è una tv dell’erede, Pier Silvio, che persegue un obiettivo: fare un network europeo di tv generaliste. Nel mondo non esiste un corrispettivo, ma è l’unica strada per reggere alla concorrenza delle piattaforme».

È una sfida possibile? C’è questo spazio per le tv generaliste?

«Se questo spazio non ci fosse, la tv generalista si sarebbe già estinta con l’avvento del digitale. Non solo la generalista è sopravvissuta, ma periodicamente, conosce momenti di ripresa come durante il lockdown per il Covid. L’Italia è un Paese in corso di impoverimento e di invecchiamento. E per un anziano è quasi un incubo la gestione della vita quotidiana, sottoposta alla cosiddetta semplificazione. Il rapporto con la banca, le bollette, il fisco, i pagamenti si svolgono oramai solo tramite il digitale. I cittadini meno aggiornati in casa vogliono staccare la spina, vogliono accendere la tv schiacciando un bottone. In Europa c’è una grande riserva di anziani che ha la tv generalista come medium di riferimento».

Quindi, quale può essere la strategia editoriale?

«La questione è controversa. L’editore vuole cancellare il trash, ma si osserva che, in realtà, lo si sostituisce con altro trash. A questo punto sorge l’esigenza di dare una definizione esatta di trash e la cosa si fa complicata. Io vedo tutto in modo più semplice».

Cioè?

«Se vuole affermare il suo modello di televisione, Pier Silvio deve renderlo esportabile. Vuole avere il passaporto in regola, soprattutto in Francia, ancora oggi il Paese più schierato in difesa della propria identità culturale».

L’esempio della Francia e del passaporto fa capire che la svolta di Mediaset non è solo in vista di un lasciapassare geografico, europeista, ma anche di una legittimazione culturale. Eliminare il trash vuol dire allinearsi al verbo politicamente corretto?

«Il politicamente corretto è l’esperanto ideologico di questa Europa».

Torniamo alla definizione dell’oggetto: cos’è il trash, la tv spazzatura?

«La parola trash non designa qualcosa di deleterio. Il trash viene spesso scambiato con il kitsch, che è la degenerazione di modelli culturali alti tradotti in una versione volgare. Il trash è volgare tout court, anche senza bisogno di presupporre modelli alti. Ma volgare vuol dire popolare e il trash rappresenta anche la materia del pop».

E oggi cos’è trash?

«All’epoca della prima tv commerciale veniva identificato con l’arcitaliano, ma derivava comunque da modelli culturali popolari consolidati come il varietà e la commedia stracult degli anni Ottanta e Novanta. La morte delle grandi star tv ha chiuso un’epoca. Oggi il trash ha cambiato segno perché sono cambiati i programmi, sostituiti da format come reality e talent. In questi format il trash è il gossip: la tv si è corrotta nell’incrocio con i social media. Il trash è il selfie della casalinga di Voghera che diventa visibile. Non è un caso che Pier Silvio abbia iniziato l’epurazione degli influencer. I quali se ne sono lamentati. Ricordiamo che il gossip è autoreferenziale e, come tale, necessariamente provincialesco, di cattivo gusto».

Questa metamorfosi sta funzionando?

«I personaggi del Grande fratello non riescono a superare la dimensione del gossip per passare a uno storytelling che darebbe senso e seguito al programma».

Non è un passaggio semplice: il trash è più di impatto dello storytelling. È possibile che chi guarda il Grande fratello ne disprezzi gli eccessi, ma alla fine è ciò che vuole vedere, magari per sentirsi migliore.

«Non sono d’accordo che il trash sia più impattante: lo storytelling fidelizza, il trash no. Il trash si fa storytelling nel gossip, nelle storie dei vip, Belen e Stefano De Martino, Ilary Blasi, Francesco Totti e Noemi, Fabrizio Corona e Nina Moric. Invece, il pubblico del reality è attualmente quello che, sentendosi socialmente inferiore, gioisce a vedere qualcuno più maleducato, incapace e sfigato di lui. Lo sfigato vuole vedere altri prototipi di sfigati. Ma proprio questo conferma che l’intento dell’editore è selezionare un pubblico migliore».

Quindi come dovrebbe essere declinato il reality?

«Mi sembra che Pier Silvio abbia in testa un prototipo vincente, cioè Maria De Filippi. E voglia tradurre la sua tv in questa chiave. Prendiamo C’è posta per te, la parte che si svolge in studio è un reality nel senso letterale del termine perché è una realtà che si forma di fronte alla telecamera. Ma a differenza di altri reality come il Gieffe, che oggi è inconsistente perché i personaggi hanno poco da raccontare e quindi non fidelizzano il pubblico, De Filippi crea un impatto narrativo con una drammaturgia da feuilleton, che garantisce la partecipazione emotiva del pubblico. Lei lavora su dei topos (formule ndr) antichissimi. In particolare il tradimento del legame familiare. La miseria e la sopravvivenza, l’abbandono e il tradimento, la passione in conflitto con l’amore materno. È tutta una “matarazzata”, dai film di Raffaello Matarazzo».

Perché questo tipo di racconto è efficace?

«Perché desta stupore che esista ancora nel presente una società così arcaica, dove si soffre, si tradisce, si ama e non si fanno i selfie. Il Gieffe è un selfie collettivo, che scivola sulla superficie dell’immagine, ma non riesce a costruire storie. Gli ospiti della De Filippi sono del secolo scorso e ispirano anche la fiction di Mediaset».

Non sarà che il Grande fratello è un format datato?

«Purtroppo il Gieffe nasce come format psicologico. A questo proposito se dovessi scegliere un commentatore, chiamerei uno psicologo televisivo, un Paolo Crepet con i suoi maglioni colorati. Il Gieffe è nato come format psicologico in una fase in cui la psicologia era solamente individuale. Oggi la psicologia è soprattutto sociale e il controllo è ben superiore a quello immaginato da George Orwell».

Quindi per rifondare la linea editoriale basta eliminare gli influencer e assumere giornalisti prestigiosi? «Non basta sostituire gli influencer con i giornalisti affermati per rendere il programma più autorevole. Le prestigiose Cesara Buonamici e Myrta Merlino sono fuori contesto. In più, mi spiace dirlo, mancano di quella vocazione nazional popolare che fa scattare nei programmi generalisti l’identificazione del pubblico. Abbiamo detto all’inizio che la tv generalista commerciale ha un target medio/basso, la donna tatuata. Qualcosa di simile avviene con Nicola Porro che è sicuramente un eccellente conduttore turboliberista, ma stenta a imporsi perché differisce antropologicamente dal suo target».

Parlando di storytelling e giornalisti, cosa pensa di Giampiero Mughini concorrente del Grande fratello?

«È un aggiornamento al format, non più una bolla spazio temporale, ma un microcosmo connesso con il mondo che gli altri concorrenti non sono abituati a frequentare. È come portare i libri nell’isola dei naufraghi. Dopo il marciatore che si allena, lo scrittore senza pc. Manca solo il politico trombato».

Perché Bianca Berlinguer è sempre attaccata dalla critica e dal giornalismo benpensante?

«Bianca ha declinato il talk in una chiave che a Mediaset funziona meglio che a Rai 3. Berlinguer ha sempre utilizzato in alternativa alla predica una chiave leggera che le permette di trasformare la politica da informazione a infotainment. Però il suo infotainment non è mai Vanity Fair, ma attraverso il dialogo confidenziale con l’ospite ne esalta il tratto umano inedito. In un certo senso, è come se fosse un po’ stanca del carico ideologico portato dal suo cognome e preferisca far emergere piccole verità più che verità assolute. Come dimostrano i dialoghi con i due opposti. Mauro Corona è il vergine che rappresenta lo straniamento. Alessandro Orsini il professorone che rappresenta l’eretico, odiato dal mainstream. Proprio per questo le parti che funzionano meno sono quelle più tradizionali».

Facciamo una previsione: l’erede vincerà la scommessa? Ce la farà, mentre la Rai si sposta a destra, a riequilibrare Mediaset a sinistra arruolando Berlinguer, Merlino e Littizzetto?

«I due figli del primo matrimonio Marina e Pier Silvio hanno sempre anteposto l’azienda alla politica. Credo che a loro non interessi altro che il futuro di Mediaset. Che, per espandersi, deve esprimersi politicamente con la maggioranza europea. Vedremo se l’erede Pier Silvio riuscirà là dove il patriarca non è riuscito, cioè creare una tv europea, perché è entrato in politica».

Infine, non posso non chiederle il suo pensiero sullo spot di Esselunga.

«Le storie che racconta la pubblicità sono finalizzate al consumo. Infatti gli interpreti sono sempre sovratono e la finzione è manifesta. I dialoghi sono sempre perentori e impositivi rispetto al prodotto. Invece lo spot Esselunga è girato come un film e ha un linguaggio cinematografico anziché pubblicitario. Qui il prodotto è una pesca, che dà nome al film e compare al centro della scena sul binario che la trasporta alla cassa. È la protagonista del film. È un oggetto intriso di emotività. In quanto al fatto che, secondo i critici, un Presidente del Consiglio non debba cedere alla ricerca dell’empatia, mi risulta che i coach allenino i politici a mostrarsi umani. Basta ricordare l’algido Mario Monti che si presentava in televisione con un cagnolino in braccio. La verità è un’altra. In un’epoca in cui si procede col pilota automatico delle varie agende internazionali, la politica non esiste più. Una volta c’erano i programmi dei partiti, oggi si deve seguire un copione scritto altrove e le critiche al potere si spostano dal politico al privato che, invece, non c’entra per nulla. Non a caso, il mainstream non critica Giorgia Meloni perché porta avanti l’agenda Draghi, ma perché preferisce la famiglia alla liquidità woke».

 

La Verità, 30 settembre 2023

Vogue, il cinema: la sinistra si rifugia nell’immaginario

Ha ragione Carlo Freccero nella sua riflessione su Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti pubblicata da Dagospia: la sinistra ha perso, il cinema ha vinto. O forse pareggiato. Detta in sintesi, tralasciando tutto l’armamentario morettiano di canzoni canticchiate in auto, di tic linguistici, di mini lectio magistralis sul cinema (la lunga citazione di Breve film sull’uccidere di Krzystzof Kieslowski) è questa la tesi dell’ex direttore di Rai 2. Ma è chiaro che si tratta di una vittoria consolatoria, ecco perché, in sostanza, di un pareggio. Cioè, di una fuga, una ribellione, un rifiuto della realtà che solo il cinema può permettere. In qualche modo, lo aveva teorizzato Bernardo Bertolucci riproposto dal suo allievo più fedele, il Luca Guadagnino di Chiamami col tuo nome e la serie We are who we are, capisaldi della gettonatissima cinematografia woke, in un’intervista concessa a Marco Giusti: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Ecco, c’è tutto: il motore, la sorgente dell’arte non è la realtà, ma il cinema stesso. È così anche in quest’ultima prova dell’autore di Caro diario.

Come sottolineato dai critici più accorti, l’ispirazione del Sol dell’avvenire è 8 e ½ di Federico Fellini. Anche qui il protagonista è un regista in crisi che stenta a trovare il bandolo. Ma nel lavoro del più autarchico dei nostri cineasti, l’autoreferenzialità si dispiega in tutta la sua potenza, dalla voce monocorde ed esortativa che abbiamo imparato a conoscere con Michele Apicella, alle ridondanze della propria filmografia (il giro per il quartiere Prati in monopattino, il pallone calciato verso il cielo, le comparsate amichettistiche, l’amore per i dolci, la pallanuoto, i sabot…). Tuttavia, ciò che più conta è la ribellione, l’insurrezione ideologica: «La storia non si fa con i se… e chi l’ha detto?». È il punto di svolta del film. Freccero cita il Giorgio Gaber di «La mia generazione ha perso», ma Moretti non ci vuole stare, e con lui il suo alter ego, il regista che sta girando un film sulla storia della sinistra, quella nella quale per un certo periodo il Moretti militante, il Moretti cittadino, provò a entrare con i girotondi: «Con questi leader non vinceremo mai». La stessa sinistra su cui si era macerato in Palombella rossa e Aprile: «D’Alema, di’ una cosa di sinistra». A Fabio Fazio che gli chiedeva se pronuncerebbe di nuovo quella frase, il regista ha risposto: «Sudo, sudo». Nel Sol dell’Avvenire c’è questo sudore, questo impaccio. Come sarebbe stata diversa la storia se, nel 1956, al momento dell’invasione di Budapest, i dirigenti del Pci si fossero ribellati all’Orso sovietico. Se avessero tirato su la testa, rifiutato di allinearsi, stracciato l’acquiescenza. Tutto sarebbe andato diversamente e il mondo progressista sarebbe andato incontro al futuro radioso rappresentato dal Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo con tutti i suoi attori sorridenti, inebriati, sognanti, estasiati.

Non è andata così e non è un dettaglio. Un’oligarchia si era già impadronita dei sogni di riscatto del proletariato. E, nonostante il revisionismo cinematografico di Moretti (e del Veltroni di Quando), il Pci obbediva alla nomenklatura del Cremlino. Per definire l’epopea sovietica di quegli anni non va scordato che al sostantivo «socialismo» si abbinava l’aggettivo «reale». I sogni stanno a zero. Non è la sinistra ad avere perso, ma la realtà. Dodici anni dopo l’invasione di Budapest altri carri armati invasero Praga per stroncare la Primavera di Dubcek. E fu in seguito a quella repressione che Jan Palach scelse di immolarsi davanti alla statua di San Venceslao.

Se la realtà fa obiezione non resta che rifugiarsi nel cinema. Anche in Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores c’è un regista in crisi (interpretato da Toni Servillo). Si fa cinema sul cinema. O televisione sul cinema. Come in Call my agent, la serie imperniata su un’agenzia alle prese con i tic e le ossessioni degli attori. Il cinema è la bolla della realtà, nella quale si può dar libero sfogo all’invenzione. «Il cinema può risolvere qualsiasi dramma perché non ha debiti col reale», scrive Freccero. E così può diventare il doppione riveduto e corretto della storia. Il luogo dei sogni, dell’utopia, dell’immaginario. La riserva nella quale metabolizzare le sconfitte. Si vive nell’immaginario e dell’immaginario. Lo si scambia, lo si confonde, con il reale. È così che si fa politica. È così che si fa comunicazione. È così che si mantiene l’egemonia. Quando Elly Schlein, che ha debuttato in società in una cena a casa Baglioni tra registi e cantautori, incarnando trent’anni dopo la trama della Terrazza di Ettore Scola, concede la sua prima intervista da segretaria del Pd a Vogue – non al Manifesto o a Repubblica o a Micromega (Rinascita chiuse nel 1991) – afferma ciò che è realmente. Delinea il suo universo di riferimento, le classi sociali a cui si rivolge, il suo modo di fare politica e di parlare a quella che considera la sinistra. Non c’è da scandalizzarsi per la frequentazione del lusso, né da stracciarsi l’eskimo in preda a rigurgiti novecenteschi e pauperistici. C’è solo da prendere atto che il cerchio si è chiuso. E che la simpatica Elly è diventata ciò che è: «un personaggio perfetto di un film di Guadagnino».

 

La Verità, 1 maggio 2023

Uno vale uno, autofiction, social: tanti germi nell’Mcs

In fondo, i selfie alla camera ardente con la moglie appena rimasta sola sono l’ultima frontiera della società dello spettacolo. Non si erano mai visti. Come si dice, c’è sempre una prima volta. Ma, in realtà, sono l’ultima conseguenza, l’allungarsi dell’acqua sulla battigia. Prima della risacca, si spera. Docile, ma forse nel suo intimo furente, Maria De Filippi si è concessa. E meritano una carezza sia lei sia chi glieli ha chiesti.

Quando accade qualcosa di inedito significa che siamo di fronte a un’innovazione. In una recente intervista, Stefano Zecchi, filosofo e suo frequente ospite, ha detto che Maurizio Costanzo «è stato un grande innovatore del linguaggio». Inconfutabile. Qualche voce autorevole ha invece espresso disappunto per la beatificazione laica e l’eccesso di solennità delle esequie. La celebrazione trasmessa a reti unificate dalla tv commerciale e dalla tv pubblica. La partecipazione dei volti noti, variamente coinvolti e commossi. A ben vedere, inevitabile. Come pure inevitabile la preghiera degli artisti, nella chiesa degli artisti. Meno scontate le note della sigla dell’Mcs all’uscita del feretro. Ma, sempre a ben guardare e con rispetto, degna conclusione dell’esibizione in mortem della solita società dello spettacolo. Come a racchiudervi, con quella sigla, anche la cerimonia religiosa.

Un grande innovatore, dunque. Un gigante del linguaggio. Pur mutuata da David Letterman, la vera, radicale e a suo modo rivoluzionaria novità era tutta contenuta nel titolo del programma più famoso: Maurizio Costanzo Show. Uno spettacolo nel nome e cognome. Cioè, semplicemente: lo spettacolo è la persona. La sua identità. Nel caso specifico, più corretto dire l’individuo. L’individualità. Che poi diventerà individualismo. Quando nacquero gli antenati di quello show, Bontà loro e Acquario, l’Italia era ancora sprofondata nel decennio del «tutto è politica», con le esasperazioni e le degenerazioni tragiche che si portava. E Costanzo lavorava ancora per l’editore pubblico. Gli ospiti erano un paio, forse qualcuno in più. Ascoltati singolarmente e messi a confronto. Qualche anno dopo, nelle reti commerciali mise a punto il programma che l’ha definitivamente consegnato alla storia. Della televisione e del costume, s’intende, e non è poco. Correva già il decennio del riflusso. Della riduzione della dimensione collettiva. Comunitaria. La liquefazione dell’idea di un popolo che si aggregava attorno alle grandi visioni della storia, il marxismo e, nella nostra Italia, il cristianesimo. In fondo, a ben vedere, era cominciata una grande, chissà se inconsapevole, operazione di sradicamento. Di recisione delle radici. Di affermazione del relativismo. Quello stesso relativismo che permise a Costanzo di essere un bastione delle televisioni di Silvio Berlusconi e, contemporaneamente, consulente di Francesco Rutelli, sindaco di Roma, e di Massimo D’Alema, segretario dei Ds.

Alla serata d’esordio su Rete 4 suggerì l’immagine dell’«Orient Express, dove la varia umanità s’incontra e parla». E anche di «un grande minestrone«. L’Mcs era già un grande dispositivo, come direbbero i colti, che conteneva in nuce numerose piccole e meno piccole rivoluzioni. Sul palco del Teatro Parioli da dove andava in onda, prendeva forma la preveggenza di Andy Warhol, datata 1968, sui 15 minuti di fama che in futuro avrebbero potuto toccare chiunque. Costanzo convocava persone già affermate e assoluti sconosciuti che noti e famosi lo sarebbero diventati proprio in virtù di quella convocazione. Li metteva uno a fianco all’altro in una disposizione orizzontale, senza gerarchie, e così apparivano ai telespettatori sintonizzati tutte le sere per decenni in seconda serata su Canale 5. Una disposizione democratica – prima delle sue anticipazioni – si potrebbe dire nell’accezione grillina dell’uno vale uno. Su quel palco, per molti anni erano uguali il magistrato e la casalinga, il comico dilettante e il regista premio Oscar, il viaggiatore esotico e immaginifico e la massaia saggia e ruspante che non si muoveva da Prati. Ruppe saltuariamente questa formula, che rimase dominante, con sporadici Uno contro tutti, protagonisti personaggi creati e consacrati in quell’altra liturgia: tutti schierati orizzontalmente in un gran campionario di eccentricità mentre lui, alle spalle, tirava le fila come un grande burattinaio. Consigli per gli acquisti.

Protagoniste erano le storie degli individui – seconda grande anticipazione – di quello che in anni più recenti si sarebbe chiamato lo storytelling. Non che fosse tutto pura invenzione, no. A sua volta anticipando fenomeni e tendenze che stanno tuttora dispiegando la loro magnifica potenza, nel 1979 Christopher Lasch aveva scritto La cultura del narcisismo. Il Muro di Berlino era in piedi, non c’era internet e si telefonava con i gettoni dalle cabine, metà delle quali per vari motivi inservibili. Ma in letteratura e al cinema il narcisismo si sposò con lo storytelling e partorirono l’autofiction, fenomeno dominante nelle ultime generazioni di scrittori, registi, attori.

Qualche giorno fa, analizzando tecnicamente le innovazioni costanziane, Carlo Freccero ha detto anche che fu anticipatore dei social media. E siamo a tre. I racconti del Parioli erano la rivincita del privato sul tutto è politica. Con le storie, le vicende individuali, il privato diventava dimensione collettiva, mediatica. Che cosa sono i social se non l’esasperazione di questo? Nel loro livello basico una sfilata di foto di piatti al ristorante, di camerette addobbate, di make up in intimo… Nel livello degli influencer, il privato che assurge a mercato, affare, business. Costanzo ha anticipato Chiara Ferragni. Alla fine di una puntata dell’Mcs si sarebbe tranquillamente potuto votare con il pollice per ogni singolo ospite. Come avveniva per i gladiatori nei teatri dell’antica Roma. Anche quella era, a suo modo, società dello spettacolo. Non è da escludere che Costanzo lo facesse, con i suoi collaboratori, per disporre gli inviti successivi.

Sipario. Senza sigla.

«Con la neolingua viviamo già in un paramondo»

Ciao Tipo Verità». Ciao. «L’ultima volta che ci siamo parlati ho registrato il tuo numero in memoria, ma siccome mi era sfuggito il nome ti ho soprannominato: “Tipo Verità”».

A proposito di pseudonimi, Aldo Nove (foto di Dino Ignani) lo è di Antonio Centanin. Poeta, scrittore, traduttore, ex «cannibale» nato a Viggiù nel 1967, autore prolifico e irregolarissimo, l’ultima sua raccolta in versi pubblicata da Einaudi si intitola Sonetti del giorno di quarzo. Nel giugno scorso il governo Draghi gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli, in passato accordato a «cittadini illustri» in stato di necessità come Alda Merini, Guido Ceronetti, Giorgio Perlasca. Lo pseudonimo deriva da «Aldo dice 26 x 1», il testo del telegramma diffuso dal Clnai (Comitato nazionale liberazione alta Italia) nell’aprile del 1945 per iniziare il giorno 26 all’una di notte l’insurrezione contro l’occupazione  nazista di Torino. Aldo è il nome contenuto nel messaggio e Nove è la somma di 2 + 6 + 1.

Stai ancora provando a cambiarlo?

«Sì, è un modo simbolico per liberarsi di sé stessi. Aldo Nove mi ha stufato. Ma la casa editrice con cui lavoro, al punto primo del nuovo contratto ha scritto che l’autore si firmerà Aldo Nove. Magari farò come Bhagwan Shree Rajneesh che, dopo morto, è diventato Osho».

Ti interessi di meditazione orientale?

«Anche occidentale, settentrionale e meridionale. Più che di meditazione, parlerei di mistica e spiritualità».

È difficile liberarsi di uno pseudonimo affermato.

«Basta “disaffermarlo”. Potrei chiamarmi Roberto D’Agostino 2».

Perché?

«Mi piace Roberto D’Agostino… La sua barba bianca, il look tra il dandy e il trasandato. Poi mi piace Dagospia perché è pieno di tette. Ah… tette si può dire nel 2023 o è maschilista? Però anche gli uomini le hanno…».

Vuoi dire che c’è una tendenza alla censura?

«Delle parole minimamente sensibili. Magari fra dieci anni “tette” sarà vietata. Ho letto che un grande editore americano ha ritirato le copie di Biancaneve e i sette nani per correggerlo in Biancaneve e i sette piccoli amici. Sembra il titolo di un porno».

Anche sul principe è caduta la riprovazione perché il bacio a Biancaneve non è consensuale.

«Sono forme di delirio che m’interessano come espressione di patologie sociali».

Siamo alla neolingua?

«George Orwell prendeva da Aldous Huxley. Siamo nella Fabian society: più che essere profetici, dicevano il programma in corso di attuazione».

La sinistra senza marxismo è diventata neopuritana?

«Anche il liberalismo lo ha fatto, come cantava Giorgio Gaber qualche decennio fa. Senza marxismo, sembra che la sinistra parlamentare si occupi solo di obbedire».

A chi e a che cosa?

«A chi sta sopra di noi. Corrado Malanga dice che sopra un certo livello non si sa chi c’è davvero. Forse gli alieni».

Chi è Corrado Malanga?

«Un ex docente della Normale di Pisa che s’interessa di ufologia. Un ricercatore che sposa il pensiero etico con la fisica quantistica».

Stento a seguirti.

«Di recente il governo degli Stati Uniti ha abbattuto nei cieli entità che non si conoscevano… Non ha senso chiedere se si crede o no agli Ufo. Non è una religione».

Perché sei andato a vivere a Palmi?

«Venni a presentarci un libro… Da tempo non sopportavo la metropoli e sentivo il bisogno di trovare un posto pacifico, con bella gente. Amo profondamente il sud e penso che il futuro del mondo possa sorgere dalla grande cultura mediterranea e della Magna Grecia».

Che cosa pensi della tragedia di Cutro che si è consumata lì vicino e delle polemiche successive?

«Le polemiche non le sento. Sento la vicinanza con chi ha vissuto quella tragedia. Si vedrà se ci sono delle responsabilità. Ciò che resta purtroppo è il fatto accaduto. Mi tocca molto la terribile sacralità della cosa. La materialità dei fatti sono persone morte».

Cito un verso da Poemetti della sera (Einaudi): giochi «a nascondino con Dio»?

«Da Eraclito in poi e fino al concetto di anima, il mondo è gioco di bambino. Anzi, l’anima è una bambina che gioca. La purezza del femminile, quando è tale, è assolutamente altra rispetto alla pesantezza del potere».

Come impieghi il tempo a Palmi?

«Passeggio, studio, scrivo. Studiare vuol dire amare. Mi consolo con i grandi del passato, me ne alimento».

In questo momento cosa stai scrivendo?

«Un romanzo nuovo. E sto curando per Il Saggiatore le edizioni italiane delle ultime conferenze di Sri Nisargadatta Maharaj. L’ultimo grande mistico indiano che, siccome era analfabeta, non ha mai scritto niente, ma le sue parole sono tradotte in tutto il mondo».

Cito un’altra poesia: «L’accelerazione che tutto oggi domina non concerne il Creato, ne è la parodia in forma grottesca di mercato».

«La poesia s’intitola Rivolta contro il mondo contemporaneo e cita a sua volta un’opera di Julius Evola, un autore oggi innominabile».

Palmi è una presa di distanza dal paramondo?

«È più cose, una critica alla smaterializzazione. Qui è più lenta la perdita di rapporto con la “cosalità”, le cose. Non con i servizi che vengono erogati e che sono ciò su cui si regge quest’idea di nuovo mondo, quello che Klaus Schawb chiama Quarta rivoluzione industriale».

Un tuo post rilanciato da MowMag e Dagospia contestava la comunità Lgbtq.

«Esiste davvero? I miei amici omossessuali non si riconoscono in queste etichette».

Scrivevi che le battaglie per i diritti civili sono fuffa.

«Anche Arcilesbica le contesta. Conosco molti omosessuali infastiditi dall’ideologia fluida. Con chi trombi sono cavoli tuoi senza bisogno di rivendicarlo in piazza. Zygmunt Baumann parlava di società liquida e di amore liquido, ma quell’aggettivo era il perno di una critica. Ora è diventato positivo perché è funzionale alla cancellazione dell’identità effettiva».

Riguarda le sessualità non binarie.

«Invito a tornare alla concretezza della materia, non si può sublimare tutto nel virtuale. Il fatto che si abbia un pene o una vagina è un fatto. Poi ognuno ne fa ciò che vuole. Questo differenzia l’uomo dalla macchina, la quale non ha sesso e non è binaria».

Con Elly Schlein guida del Pd i diritti civili saranno prioritari?

«Spazzatura ne vedo già molta. Se qualcuno vuole aggiungerne faccia pure. Personalmente tengo alla mia ecologia mentale».

Molti esultano perché Schlein dice cose di sinistra.

«La sinistra sono i diritti Lgbtq? Un tempo c’entrava con i diritti dei lavoratori, cose concrete. Si dovrebbe occupare di chi oggi si fa il culo 15 ore al giorno a 3 euro all’ora in condizioni di schiavitù, invece… È esistita fino al crollo del Muro di Berlino e al conseguente scioglimento dell’Urss. C’erano il pensiero liberale e il pensiero socialista. Tutto questo è entrato in un tritacarne di valori… Devo pensare che la questione ambientale sia un’idea di sinistra? Cioè: quelli di destra fanno i buchi nell’ozono e quelli di sinistra li chiudono? Non mi ritrovo in una sinistra che ha sostituito Carlo Marx con Greta Thunberg».

Cosa non ti piace della predicazione ecologista?

«Che sia una religione. L’ecologismo trasformato in culto estremo».

È il primo dogma dell’Unione europea.

«Chi ha i soldi si compra le macchine elettriche e chi non li ha è di destra perché usa la macchina a benzina? Un paradiscorso raccapricciante».

Non è giusto che a sinistra si esulti perché con Schlein la gradazione ideologica è aumentata?

«Per come la vedo io il Pd non è sinistra, ma potere».

Il vero potere è la grande finanza?

«Soprattutto. Quando un’agenzia di rating determina le sorti del mercato siamo in pieno neoliberismo. Un sistema nel quale i mercati sono un’astrazione. Per questo vorrei che si tornasse alle cose, alla materialità. A me sembra di vivere respirando, mangiando. Voglio dire: si parla del Metaverso, ma poi tutti i giorni ho a che fare con un patrimonio organico e biologico concretissimo».

Un paio d’anni fa dicevi che Meloni «ha un’ottima dialettica, ma voglio vederla al potere, sotto le pressioni della Bce». Come sta andando?

«Fa quello che può, non è data altra possibilità. La cosiddetta coalizione di centrodestra aveva molte ambizioni… Poi quando arrivi al potere molli, se no ti tolgono. Berlusconi ci aveva provato, ma è arrivato l’uomo forte Mario Monti».

Berlusconi è irrequieto?

«È il più stravagante. Anche le sue ultime dichiarazioni hanno creato imbarazzo alla Meloni. Ogni tanto gli scappano delle verità politicamente scorrette. Credo sia più un fatto caratteriale che politico».

Per perseguire percorsi alternativi servono molta visione e molto carisma.

«Serve che si alzi il livello di consapevolezza del popolo».

Non facile né rapido.

«Non ho idea delle tempistiche, possono esserci anche elementi di imprevedibilità. Se si stabilisce una narrazione in cui, ad esempio, si decide che una guerra sia nata nel 2022 mentre c’è dal 2014 è difficile contrapporsi. Una guerra tragica e spaventosa non può essere argomento da tifoserie calcistiche. Alzare la consapevolezza del popolo vorrebbe dire prendere atto che non si può arrivare alla pace continuando a mandare armi a una parte, ma sedendosi a parlare».

Partendo dal cessate il fuoco.

«Appunto, lo stop alle armi dev’essere la primissima cosa. Da lì inizia un processo di pace».

Perché sul suo profilo WhatsApp ci sono i dorsi dei libri di San Bernardo?

«È dove mi colloco io spiritualmente in questo momento, nel Medioevo».

L’età dell’oscurantismo?

«La si definisce così a causa del capovolgimento diabolico instaurato dall’illuminismo».

Prediligi i grandi mistici e i padri della Chiesa, non segui nessuno dei contemporanei?

«Joseph Ratzinger è contemporaneo. Ho divorato il suo Escatologia».

C’è del buono anche oggi. Susanna Tamaro cosa ti suscita?

«Le voglio bene, mi piace molto il suo spirito libero».

Giovanni Lindo Ferretti?

«Amore».

Ferdinando Camon?

«Cosa mi ricordi… Ho amato molto alcuni suoi vecchi lavori come Liberare l’animale, poi l’ho perso di vista. Allora era veramente rivoluzionario. Ho trovato in rete una primissima edizione di Fuori storia edito da Neri Pozza. Potrei recitare a memoria alcune sue poesie».

Carlo Freccero?

«Affinità centrata. Mi piace anche Diego Fusaro, dice cose interessanti in un linguaggio desueto, un pregio».

Parlando di Maurizio Costanzo, Freccero ha detto che ha anticipato i social e il privato che diventa mercato.

«In pratica, Chiara Ferragni. Molto lucida e cinica nello sfruttare questa evoluzione. Un grande talento. Orrido sul piano morale, gradevole sul piano fisico. Ho visto sue foto in cui leccava Il capitale di Marx, ammiccava con Vogliamo tutto di Nanni Balestrini e La società dello spettacolo di Guy Debord. Perversamente abile».

 

La Verità, 4 marzo 2023

«Zelensky a Sanremo puro atto di propaganda»

Carlo Freccero, cosa significa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ospite del Festival di Sanremo?

«Significa che siamo di fronte a un atto di propaganda».

Cioè?

«È sempre stato necessario far accettare al popolo un’azione impopolare come la guerra, le cui vittime sono sempre i popoli. Indipendentemente dagli schieramenti, guerra significa morte. Di solito non si scherza a un funerale».

Nel caso del popolo italiano, in maggioranza contrario all’invio di armi all’Ucraina nonostante l’informazione spinga in questa direzione, la propaganda fallisce?

«È interessante osservare il comportamento del pubblico su due argomenti. Sui vaccini ha assecondato la linea governativa, mentre sulla guerra dissente apertamente. Questo avviene per due motivi. Il primo è la paura di un conflitto nucleare che suscita una reazione di rifiuto dettata dall’istinto di sopravvivenza. Il secondo motivo è che nel nostro Paese c’è povertà e noi abbiamo già destinato molti soldi all’Ucraina. La guerra sta provocando disagi all’economia e alla nostra vita quotidiana».

Questo potrebbe essere egoismo?

«La guerra è la forma di egoismo più atroce. Ormai non si parla solo dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Vladimir Putin, ma di equilibri internazionali e dello scontro fra America e Russia. La maggioranza degli italiani non vive come Joe Biden alla Casa bianca, ma in case fredde e con spese che si  moltiplicano».

L’errore di questa ospitata è il contesto o il contenuto?

«Entrambi. Innanzitutto perché sollecitare l’invio di più armi significa elevare la tensione e aumentare il pericolo. La Russia ha già fatto presente che se si alzerà l’asticella sarà costretta a usare armi pesanti. Anche le persone che ritengono necessaria la partecipazione alla guerra non ne condividono la spettacolarizzazione a Sanremo. La metafora dell’Orologio dell’apocalisse segna 90 secondi alla fine del mondo».

Spieghi.

«L’Orologio dell’apocalisse è il Bollettino degli scienziati atomici ideato nel 1947 da un gruppo di studiosi della California, idonei a esprimere un giudizio sul pericolo nucleare. Oggi l’Orologio indica una distanza di soli 90 secondi alla mezzanotte. Neanche durante la Guerra fredda eravamo così vicini al disastro irrimediabile».

Zelensky all’Ariston è la spettacolarizzazione della guerra?

«Mentre non c’è spazio per la trattativa e per la diplomazia, tutto è affidato all’azione delle armi e l’Ucraina è diventata un cimitero a cielo aperto».

Proprio questo giustifica l’invito al suo presidente?

«È tutto più complesso. Questa guerra è un esempio di reductio ad Hitlerum di Putin analoga a quella condotta contro Saddam Hussein e Gheddafi. Ricordiamo le armi di distruzione di massa di Saddam simboleggiate dalla fialetta agitata da Colin Powell nell’assemblea delle Nazioni unite. Tutti sanno che quelle armi non esistevano, però nell’immaginario Saddam è rimasto un crudele dittatore».

I morti ucraini esistono.

«A questo proposito vorrei ricordare la frase sfuggita nel 2014 a Victoria Nuland, all’epoca segretario di Stato aggiunto, quando le fu fatto presente che l’Europa non poteva tollerare un colpo di Stato nazista in Ucraina: “Che l’Unione europea si fotta”, disse. Da quel colpo di Stato, la guerra dell’Ucraina contro le popolazioni russofone del Donbass non si è mai interrotta. Tutti conoscono la strage di Odessa, oggi derubricata da Wikipedia a incendio incidentale. Prima dell’intervento di Putin anche i giornali mainstream riportavano correttamente le provocazioni ucraine, ma appena iniziata l’invasione l’informazione è stata colta da amnesia sugli otto anni precedenti».

Zelensky è intervenuto al Festival di Cannes, alla Mostra del cinema di Venezia e ai Golden Globes: dov’è lo scandalo?

«Nel frattempo la guerra si è trasformata in pericolo nucleare e Sanremo viene usato per allargare il conflitto. Zelensky chiederà altre armi, invece bisogna dire basta».

Dire basta significa pace senza giustizia?

«Questo è argomento delle diplomazie».

Il presidente ucraino è un ex attore comico e un ottimo comunicatore.

«Non un comunicatore, ma un attore che cura molto le sue apparizioni. Il fatto interessante è che mescolare guerra con spettacolo è, in qualche modo, in continuità con la propaganda pandemica».

In che senso?

«I virologi chiedevano di vaccinarsi contro il Covid sulle note di Jingle bells. Ora Zelensky ex attore arriva al palco del Festival di Sanremo a chiedere armi. Da tempo Sanremo sembra occuparsi, più che di musica, di look transgender presunti trasgressivi. Anche a questo riguardo Zelensky è idoneo perché sono noti i suoi balletti con tacchi a spillo, nudo e lingua fuori, in perfetto stile Måneskin».

Non li ho visti.

«Li trova su Telegram».

Pierferdinando Casini ha ironizzato sulla necessità di far intervenire anche Putin per la par condicio…

«Promuovere la propaganda e l’allargamento della guerra su un palcoscenico ultra popolare come l’Ariston va contro la maggioranza dell’opinione pubblica italiana. La democrazia non conta più nulla? Infine, la cultura della guerra, se non ricordo male, è contro la nostra Costituzione».

Il Cda Rai ha convocato il direttore dell’Intrattenimento Stefano Coletta per spiegare l’invito: cosa si aspetta?

«Oltre a Coletta, sarebbe interessante ascoltare Bruno Vespa che si è prestato a fare il Beppe Caschetto di Zelensky».

 

La Verità, 31 gennaio 2023

«Le battaglie della sinistra spopolano il pianeta»

Buongiorno Carlo Freccero, l’avvento di Giorgia Meloni è oggettivamente un fatto spiazzante per la politica italiana. Come lo definirebbe, con una formula?

«Contrariamente all’entusiasmo generale io ancora non mi fido del cambiamento annunciato».

Perché?

«Ho talmente somatizzato il fatto che il potere abbia imparato a interpretare sia il ruolo istituzionale che quello dell’opposizione che mi servono prove di discontinuità maggiori rispetto al recente passato».

Cosa la fa essere così scettico?

«Come il governo gialloverde, non vorrei che anche questo fosse un ribaltone ribaltato».

In che senso?

«Nel senso che Meloni sembra Draghi con la parrucca bionda di Maurizio Crozza».

Anche per lei è una draghetta in continuità con Super Mario?

«Non dico assolutamente che sia in malafede, ma è stata scelta dal potere con gli stessi criteri con cui nel 2018 aveva scelto i 5 stelle. Ora Meloni ha due possibilità: obbedire o, a differenza dei grillini, usare a suo favore le regole del sistema».

Cosa intende per potere?

«Il deep State dell’America e dell’Europa».

È la tesi dei complottisti.

«Io studio e leggo i documenti. Se siete ignoranti, affari vostri».

Eccolo qua, Carlo Freccero: studiare lo fa sentire giovane e attivo. Perciò, sempre con la sua indole vulcanica, frequenta anche temi distanti dalla zona di conforto di grande autore televisivo come la pandemia, la finanza e la politica internazionale.

La sua sensazione sul nuovo governo ora qual è?

«Meloni è stata molto efficace nel discorso della fiducia alla Camera perché è riuscita a essere motivazionale in un momento di forte depressione. Ma questo non basta per marcare la discontinuità».

Sospetta che sia collusa con il potere?

«Sto a guardare. È come la Audrey Hepburn di My Fair Lady che da povera ragazza di borgata arriva al gran ballo dell’Aspen, il salotto buono e meno volgare del potere. Ormai oggi è impossibile fare politica da underdog o da outsider, fuori da certe scuole o da certe istituzioni che formano i leader come, per esempio, quelle frequentate da Roberto Speranza e Matteo Renzi».

Perché Meloni ha vinto?

«Perché era l’unica a non aver partecipato al governo Draghi. Ma non mi sembra una ribelle del sistema, non a caso va spesso in America ed è la leader dei conservatori al Parlamento europeo».

Perché ha vinto?

«Ha ereditato da Matteo Salvini l’elettorato imprenditoriale del Nord, costituito da piccole e medie imprese e degli operai che ci lavorano, difendendoli dalle élite economiche che promuovono gli interessi delle multinazionali e che, a loro volta, rappresentano la fine della piccola imprenditoria. La detassazione alle aziende che assumono è la difesa del sovranismo produttivo e l’espressione di una politica che crede ottimisticamente nel libero mercato».

Giorgia Meloni riuscirà a guidare il governo senza mettersi contro le élite e i poteri forti?

«La sua unica possibilità è ritagliarsi spazi all’interno delle regole che ci sono imposte».

A una settimana dall’insediamento è già alle prese con parecchi problemi, il primo dei quali sembra la gestione del tetto ai contanti. È un tema che era in agenda o le esploso in mano?

«È un provvedimento che dopo due anni e mezzo di austerità vuole favorire la circolazione del denaro. Con la pandemia si è affermata una forma di controllo che ha usato come dispositivo la moneta digitale. È il capitalismo della sorveglianza. Innalzare il tetto a 5.000 euro vuol dire rompere in minima parte questo controllo e questa sorveglianza. La Germania e l’Olanda, i cosiddetti Paesi virtuosi, non hanno il tetto al contante: come può l’Ue chiedere all’Italia di mantenerlo ai livelli più bassi?».

Alzare il tetto, si dice, favorisce l’evasione, nessun povero gira con 5.000 euro in tasca: perché è così centrale questo provvedimento?

«Alberto Bagnai sostiene che quando parliamo di contanti non c’entra solo l’evasione, ma l’affermazione di un principio di libertà. In caso di disobbedienza, al cittadino potrebbe essere impedito l’accesso ai suoi stessi soldi per la vita quotidiana, come accaduto ai camionisti canadesi, ai quali, per sedare la loro protesta il governo ha bloccato i conti bancari».

E come si combatte l’evasione?

«È vero che c’è la piccola evasione dei ristoranti o dell’idraulico che viene a fare la riparazione in casa. Ma dobbiamo perseguire innanzitutto questo nero che spesso è uno strumento di sopravvivenza dei piccoli commercianti, oppure le grandi evasioni della Pfizer, ora sotto indagine per 1,2 miliardi di euro, e di tutte le altre multinazionali dell’hi tech?».

Non era meglio partire dal caro bollette?

«Assolutamente sì. È il tema principale che fa venire a galla la povertà diffusa del nostro Paese. Non ho ricette, spero che le abbia il governo».

Un forte elemento di discontinuità rispetto ai precedenti è che Roberto Speranza non è più ministro della Salute.

«In Speranza c’è qualcosa di geneticamente modificato che lo induce a reiterare il suo mandato: mantenere in vita la pandemia anche e nonostante la morte della pandemia».

Addirittura?

«In un Parlamento finalmente liberato dalla mascherina, Speranza mascherato spicca come un monito, un memento mori, tipico dell’iconografia seicentesca che ci ricorda la fragilità umana: la minaccia c’è ancora e non possiamo cedere all’euforia del presente».

Anche Mattarella lo ribadisce.

«Lo smantellamento delle restrizioni è in atto da tempo in tutto il mondo. Ma temo sia uno smantellamento temporaneo, come dice Matteo Bassetti: “Questa pandemia è finita, ma pandemie future sono già in agenda, come ci illustra Bill Gates”. Discontinuità significherebbe uscire da una gestione della pandemia in chiave igienico-sanitaria in cui passano i provvedimenti repressivi della politica e dello stato di eccezione».

L’istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia è davvero indispensabile?

«Il presidente della Repubblica ha già manifestato la sua contrarietà. Per conto mio, commissione d’inchiesta non significa nulla. In primo luogo perché può riguardare il penale per le responsabilità sanitarie, ma anche il civile per i conflitti d’interesse. Inoltre può criticare la gestione sanitaria con le sue violazioni dei diritti umani o, al contrario, sancire che tali violazioni sono state troppo poche. In questa direzione andava l’inchiesta sui fatti di Bergamo. Troppo spesso la commissione d’inchiesta è una parola magica per colmare l’insoddisfazione popolare».

Un’altra discontinuità radicale si registra sulla problematica gender. Anche su questo terreno dobbiamo aspettarci un inasprimento del dibattito politico?

«Personalmente, ho sempre odiato diktat e divieti. Il mio mentore è stato Michel Foucault il quale, studiando la morale vittoriana, denunciava l’interdetto che colpiva l’omosessualità. Ho sempre difeso la diversità in ogni sua forma, non a caso sono stato stigmatizzato per aver mandato in onda la serie tv Chimica e fisica in cui erano rappresentate scene di omosessualità. Tuttavia, viviamo oggi immersi nell’ideologia radical che trasforma il gender in un’imposizione e colpevolizza l’eterosessualità. Alla luce di questa premessa, ritengo che la Meloni sia stata pacata e si sia ancorata a una visione tradizionale e conservatrice».

È bastato aggiungere la natalità tra le competenze del nuovo ministro della Famiglia perché si scatenasse un putiferio. Perché la sinistra non si preoccupa del fatto che siamo il Paese con la più grave crisi demografica al mondo?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, ma pongo io una domanda. Quali sono attualmente i valori della sinistra? Aborto, eutanasia, gender: tutti diritti che sottoscrivo, ma che dialetticamente hanno un minimo comune denominatore distopico».

Qual è?

«Il depopolamento del pianeta».

Altra parola scandalo è merito, la tutela del quale un tempo era fiore all’occhiello della sinistra perché via privilegiata per superare la supremazia delle classi agiate. Invece oggi?

«Il merito non è un valore né di destra né di sinistra, ma del neoliberismo che a vario titolo destra e sinistra condividono. Cosa significa? Che le differenze economiche non sono scandalose perché giustificate dal merito. Il Sessantotto ha avuto tra i suoi testi di riferimento la Lettera a una professoressa di don Milani. Per questo trovo infelice che Meloni abbia aggiunto la voce merito vicino a Pubblica istruzione. La scuola deve esserci proprio per i più deboli».

L’articolo 34 della Costituzione prevede la tutela «dei capaci e meritevoli privi di mezzi» affinché possano raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

«Concordo, ma non voglio creare esclusi».

L’unico elemento di continuità con i precedenti governi è l’appartenenza europeista e atlantista: intoccabile?

«È un limite e insieme una chance. Siamo alla vigilia delle elezioni di midterm in America. La guerra la vuole Joe Biden che in Ucraina ha un forte conflitto d’interessi, come dimostrano le attività di suo figlio Hunter. Se i repubblicani ottenessero la maggioranza al Congresso si capovolgerebbe la politica americana in chiave patriottica e non più globalista. E anche Meloni, secondo me, potrebbe seguire questo ribaltamento».

 

La Verità, 1 novembre 2022